Gennaio 27th, 2014 Riccardo Fucile
NEL MIRINO IL RUOLO ACCORDATO A TOTI
«Il 2014 sarà il nostro nuovo 1994 e torneremo a vincere per noi, per i nostri figli, per la nostra Italia. Viva l’Italia, viva la libertà ». È con un videomessaggio che Silvio Berlusconi decide di festeggiare i vent’anni della sua discesa in campo.
Un modo dimesso per il Cavaliere, che da giorni ha annullato i festeggiamenti previsti a Milano per via delle spaccature nel partito dopo l’ascesa di Giovanni Toti al suo fianco.
Ma Berlusconi, pur non rinunciando a denunciare i «quattro colpi di Stato» subiti, si mostra più ottimista che mai, dicendo che i festeggiamenti ci saranno il 27 marzo, ventennale della prima vittoria di Forza Italia.
Il Cavaliere dopo l’accordo con Renzi sull’Italicum e i giorni di riposo a Villa Paradiso, sul Lago di Garda, viene descritto di ottimo umore dai suoi.
Perchè ora il Cavaliere si sente di nuovo al centro della scena politica.
L’analisi che condivide con i suoi suona così: «Noi l’accordo sulla legge elettorale lo vogliamo davvero e se va in porto divento fondatore della Terza Repubblica. Altrimenti o si vota col proporzionale e resto determinante per fare un governo oppure salta tutto e non vota e a quel punto tornei a governare, ma con Renzi»
Ma la realtà ieri ha mostrato anche un volto più problematico per Berlusconi.
I guai sono arrivati dal Sud, da Bari e Napoli. Nel capoluogo pugliese Raffaele Fitto ha riunito circa 5 mila persone per festeggiare il ventennale ma il Cavaliere non si è presentato alla kermesse.
Così Fitto ha fatto emergere i malumori che agitano la vecchia guardia affermando che «nominare esclusivamente gente dall’esterno (leggi Toti, ndr) mortificherebbe e umilierebbe una classe dirigente che ha una forza e competenza cresciute molto in questi anni».
Fitto rivendica di non voler partecipare «a una gara per gli incarichi» e in effetti in questi mesi ha rifiutato tutte le poltrone che gli sono state offerte nel partito.
L’ex ministro evidenzia la «lealtà » della vecchia nomenklatura ma chiede al Capo: «Ascolta il nostro impegno».
Ma il Cavaliere, oltre a non recarsi a Bari, nemmeno telefona alla kermesse.
Dallo staff dell’ex premier si fa sapere che non è stato un gesto di ripicca verso Fitto, ma che lo stesso ex ministro non abbia voluto un intervento al telefono perchè ritenuto inadeguato rispetto alla portata dell’evento.
Fatto sta che in serata invece il Cavaliere chiama una festa di Cosenza.
Ma c’è un’altra spina nel fianco di Berlusconi, Nicola Cosentino.
L’ex sottosegretario che si sentì «pugnalato» dal Cavaliere quando lo espulsero dalle liste delle politiche per consegnarlo direttamente al carcere, ora torna in campo, con aggressivo slancio. Porta quasi tremila dei suoi sostenitori in mattinata alla Stazione Marittima insieme al senatore D’Anna e ai consiglieri appena confluiti in Forza Campania, partito sconfessato dallo stesso Berlusconi settimana scorsa.
Chiede visibilità , Cosentino. E punta ad essere eletto al Parlamento europeo, persino duellando con il suo ex sodale Luigi Cesaro che gli contende quel posto: ma Cosentino può ormai contare solo sul sostegno di Denis Verdini, con cui si è visto spesso a Roma da quando è stato definitivamente scarcerato.
E alla sua prima uscita politica tra la folla, dopo la scarcerazione, manda un messaggio al Cavaliere: «Mi chiedete se l’ho perdonato. Beh, sono del parere che un padre può fare uno sgarbo al figlio, ma un figlio non dovrebbe mai fare uno solo sgarbo al padre».
Alberto D’Argenio e Conchita Sannino
(da “La Repubblica”)
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Gennaio 27th, 2014 Riccardo Fucile
SONO 1.657 I PROPRIETARI CIASCUNO DI OLTRE 500 UNITA’ IMMOBILIARI.. IL MERCATO DEGLI AFFITTI PASSIVI A SPESE DEI CONTRIBUENTI
La grande ricchezza a Roma è invisibile. Sterminata e arrogante, ma senza faccia. 
Un giorno la società Gemma di Renzo Rubeo che lavorava per il Campidoglio contò 1.657 soggetti proprietari ciascuno di oltre 500 unità immobiliari.
Patrimoni straripanti, con nomi e cognomi ignoti ai più.
In qualche caso, fatto grave, anche agli uffici comunali.
Angiola Armellini, per esempio aveva la residenza a Montecarlo pur vivendo a Roma, dov’è proprietaria di 1.243 appartamenti sui quali, è l’accusa delle Fiamme gialle, non pagava l’Ici nè l’Imu.
Suo padre Renato era uno dei padroni della città quando le giunte democristiane nascevano e morivano a ogni starnuto dei palazzinari. E l’Imu pura fantascienza.
Imposta che ha invece pagato Tommaso Addario: due milioni e mezzo nel 2012.
Già alto dirigente dell’Italcasse ai tempi di quel Giuseppe Arcaini travolto nel 1977 dallo scandalo dei finanziamenti a politici e imprenditori e marito della ex proprietaria dell’impresa Vianini che fu acquistata da Francesco Gaetano Caltagirone, da anni con la Tirrena immobiliare gestisce un immenso impero di mattoni.
Paragonabile, forse, a quello di Sergio Scarpellini, proprietario degli immobili affittati alla Camera a prezzi da capogiro attraverso la società Milano 90: la stessa cui fa capo anche una prestigiosa scuderia di 77 cavalli da corsa con annesso allevamento di 94 puledri e 85 fra fattrici e stalloni.
E pazienza se le perdite del costoso passatempo corrono al ritmo di un purosangue, tre milioni l’anno.
Un tempo, quando le palazzine a Roma venivano su più veloci dei grattacieli di Shangai, c’erano pronti i soldi degli enti di previdenza.
Con 600 miliardi l’anno da spendere compravano tutto. Anche le schifezze che allagavano intere periferie. Finchè quei denari sono finiti e anzichè comprare, Inps & soci hanno dovuto vendere.
Invece di continuare a tirare su palazzine, allora, c’è chi ha cominciato a fare affari con la pubblica amministrazione, costruendo palazzi per uffici o sedi istituzionali. Mentre altri imboccavano la strada della rendita pura, mettendo a frutto proprietà divenute via via più gigantesche grazie ai canoni versati loro dagli enti pubblici che gli permettevano di comprare immobili senza tirar fuori un euro: pagando le rate dei mutui bancari con gli assegni delle pigioni.
Chiunque abbia intrattenuto rapporti non conflittuali con il potere ha avuto la sua occasione, in una città nella quale il mercato degli affitti passivi a spese dei contribuenti è di qualche centinaio di milioni l’anno.
Con il solo Comune arrivato nel 2011 a spenderne più di cento. Di questi, tredici milioni e mezzo per affittare, pur avendo sterminate proprietà immobiliari, gli stabili che ospitano i gruppi consiliari (!) e le commissioni comunali (!).
Presi in locazione, ha scritto tempo fa il Giornale , dal solito Scarpellini: uno dei due è di proprietà dell’Inpgi, l’istituto di previdenza dei giornalisti, che l’ha affittato all’immobiliarista per 2,1 milioni il quale l’ha poi riaffittato per 9,2 (tutti i servizi compresi, beninteso), al Campidoglio.
Rendite e burocrazia
La Roma della rendita parassitaria ha soppiantato la Roma palazzinara. Le privatizzazioni l’hanno prosciugata dei grandi centri del potere finanziario: Telecom, l’Ina, la Banca di Roma di Cesare Geronzi…
E quello che non è riuscita a mangiarsi Milano è finito agli stranieri. Vedi Bnl. Una desertificazione che non ha impedito, e forse ha perfino favorito, l’avanzata dei capitali mafiosi.
Fa venire i brividi adesso sapere che decine di ristoranti nel centro della città , da Pizza Ciro a Jamm ja, sono controllati dalla camorra. Scoperta già preceduta dai clamorosi sequestri alla ‘ndrangheta del Cafè de Paris di via Veneto e dell’Antico Caffè Chigi, di fronte alla sede del governo, che aprono squarci inquietanti sulla facilità di infiltrazione della criminalità organizzata.
Per troppo tempo ignorata, sottovalutata, o peggio ancora: tollerata. All’ombra di una burocrazia sempre più pervasiva quanto disinteressata ai destini della città .
Per lo scrittore napoletano naturalizzato romano Raffaele La Capria – autore del libro «Roma» di prossima uscita per Mondadori – «la burocrazia è il vero potere romano.
Una burocrazia parassitaria, che si autocontrolla e si autogoverna, alimentando i propri parassiti, espressione di una certa borghesia che colloca negli uffici i propri esponenti per ottenere un reddito.
Si dice che tutte le strade portino a Roma. È vero, ma è anche vero che tutte le strade muoiono a Roma, così come muoiono le idee e la fantasia, sempre per colpa della burocrazia che paralizza, blocca, rallenta non solo la vita della capitale ma dell’intero Paese. La burocrazia romana è insomma una specie di potentissima dittatura all’interno della democrazia».
Forse anche per questo i quattrini non hanno mai smesso di girare intorno alla cosa pubblica.
Capace di tenere insieme nello stesso calderone la politica con gli affari. Così da far dire a un profondo conoscitore di Roma qual è l’archeologo Andrea Carandini: «Ignoro dove sia il vero centro di potere di questa città . Forse ancora i costruttori…». L’odore delle loro tracce, in effetti, si sente dappertutto.
Anche alla Pisana, quartier generale del consiglio regionale del Lazio, dove la commissione Ambiente, quella che ha competenze sull’uso del suolo, era presieduta fino all’anno scorso da Roberto Carlino, il titolare della Immobildream: quella che «non vende sogni, ma solide realtà ».
Ovvero, l’agente immobiliare dei vari Caltagirone, che occupava anche una poltrona nella commissione Urbanistica. Tiè. E forse la poltrona da sindaco non è stata contesa a Ignazio Marino, alle ultime elezioni, da Alfio Marchini? Per i maligni il nipote dei fratelli costruttori Alfio e Alvaro, che per aver donato il Bottegone al Partito comunista si beccarono l’epiteto di «calce e martello», sarebbe stato il vero candidato di Francesco Gaetano Caltagirone.
Sospetto che Marchini ha sempre sdegnosamente rigettato, senza peraltro smentire gli ottimi rapporti con Caltagirone: dieci anni fa i due progettarono di scalare insieme Metrovacesa, il secondo gruppo immobiliare spagnolo.
Ma sbaglia chi oggi crede di individuare in figure come quella del proprietario del Messaggero l’unico nocciolo duro del potere nella città .
Sulla portata della sua influenza a proposito di certe decisioni politiche e grandi affari che si muovono in città non ci sono dubbi. Al tempo stesso, però, il baricentro del business di Caltagirone si sta spostando sempre di più fuori dei confini italiani. E di sicuro non è andata in porto un’operazione, della quale si è molto parlato, per cui poteva finire nelle mani di Caltagirone il regno della spazzatura dell’ottantasettenne Manlio Cerroni, proprietario di un gruppo imprenditoriale da 800 milioni l’anno che si estende dal Brasile all’Australia, costruito partendo dalla discarica più grande d’Europa, quella di Malagrotta.
Uno degli uomini più potenti di Roma. In grado, è la tesi dei giudici che ora l’hanno messo agli arresti, di fare il bello e il cattivo tempo con le amministrazioni. Al punto da portarsi dietro il soprannome di «Supremo».
La capitale degli interessi
La verità è che a condizionare la politica romana, incapace di pensare in grande come si converrebbe a una capitale europea, sono tanti interessi diversi. Anche quelli apparentemente più piccoli.
Un caso? Vicepresidente del consiglio comunale è un giovanotto di nemmeno trentadue anni, che risponde al nome di Giordano Tredicine, eletto per la seconda volta. È un esponente della famiglia che controlla una bella fetta del commercio ambulante in città . Immigrati a Roma nel 1959 dall’Abruzzo, controllano l’80 per cento della rete dei camion bar collocati nelle aree turisticamente strategiche.
Alla Camera di commercio risultano quasi settanta diversi esponenti della famiglia registrati come titolari di licenze.
Per non parlare delle pressioni che hanno reso impossibile per vent’anni prendere una decisione che sarebbe stata naturale in qualunque città del mondo.
Ricorda bene, l’ex assessore Walter Tocci, l’inferno che si scatenò quando la prima giunta di Francesco Rutelli, della quale faceva parte, propose di vietare il transito dei veicoli a motore nella zona archeologica più importante del mondo, quella dei Fori imperiali. Per primi insorsero i tassisti. Quindi gli operatori turistici. E i negozianti.
Di conseguenza il povero Colosseo non è stato mai affrancato dalla indecente condizione di gigantesco spartitraffico annerito dallo smog.
Nel 2010 Legambiente ha calcolato il passaggio di 2.120 veicoli l’ora, con un rumore perennemente superiore al limite massimo dei 70 decibel.
Appena eletto, Marino ha annunciato la chiusura al traffico dei Fori: auguri. Per ora la ex via dell’Impero è chiusa appena a metà , e unicamente al traffico privato. In quella metà continuano a passare bus, taxi, auto blu… Nell’altra è tutto esattamente come prima.
Un’operazione di semplice facciata, insomma. In linea con le titubanze che stanno segnando questi primi sette mesi di mandato del nuovo sindaco.
Le nomine, per esempio. La legge prevede che entro 45 giorni dall’insediamento i sindaci debbano provvedere alle designazioni di propria competenza. Nonostante ciò da sette lunghi mesi il Palaexpo, cioè l’azienda speciale che governa le Scuderie del Quirinale e il Palazzo delle Esposizioni, è senza vertice. Con ripercussioni potenzialmente gravissime considerando che le Scuderie sono uno dei rari spazi espositivi di altissimo livello in Italia che organizzano mostre di caratura internazionale.
Senza vertice è pure il Macro, il museo di arte contemporanea ristrutturato con 40 milioni di euro che rischia di diventare una costosissima scatola vuota perchè privo di programmazione.
Da sette mesi è poi vacante il posto da sovrintende comunale. L’assessore alla Cultura Flavia Barca, sorella dell’ex ministro Fabrizio Barca, punta su persone esterne all’amministrazione. Ma il bando dev’essere ancora pubblicato. Tutto questo mentre a causa delle difficoltà economiche il Comune sta progettando un drastico taglio ai finanziamenti della cultura.
Quindi i vigili urbani. Dopo un duro contrasto con il vecchio comandante Carlo Buttarelli, ereditato dal suo predecessore Gianni Alemanno, Marino designa il sostituto nella persona di Oreste Liporace, capo dell’ufficio relazioni con il pubblico del comando generale dei carabinieri.
Nemmeno una settimana e si scopre che Liporace non ha i requisiti previsti non solo dal regolamento della polizia municipale ma anche dall’avviso pubblico stilato proprio dal gabinetto del sindaco: il comandante dev’essere stato dirigente almeno per cinque anni. Liporace dunque rinuncia.
Pochi giorni dopo arriva al suo posto Raffaele Clemente. Che già a dicembre, mentre Marino è in Turchia, pensa di dimettersi perchè lasciato da solo nel confronto con il potentissimo sindacati dei vigili che minacciano di bloccare la città con gli scioperi.
Gli stipendi d’oro
Poi c’è il caso dell’Ama. Dopo aver esaminato una montagna di curriculum, il 10 gennaio il sindaco mette Ivan Strozzi alla guida di un consiglio di amministrazione ridotto a tre membri.
Ma il 16 dello stesso mese deve dimettersi: c’è un’indagine a suo carico, con avviso di garanzia da parte della procura di Patti, per una vicenda di sette anni fa quando era a capo di un’altra municipalizzata.
E che dire dell’Acea? Durante la campagna elettorale Marino subisce la conferma in blocco dei vertici. A cominciare dal presidente Giancarlo Cremonesi, sostenitore della campagna di Gianni Alemanno, e dall’amministratore e direttore Paolo Gallo gradito a Caltagirone.
Al loro fianco, due rappresentati del socio francese Gdf, un dirigente del Comune, Francesco Caltagirone junior, l’ex parlamentare del Pdl Maurizio Leo, il consorte dell’ex guardasigilli Paola Severino, Paolo Di Benedetto, nonchè il segretario generale della dalemiana fondazione Italianieuropei Andrea Peruzy.
Faraonici gli emolumenti: 408 mila euro al presidente, 1,3 milioni all’amministratore, circa 120 mila euro agli altri. Totale, oltre due milioni l’anno, da pagare comunque fino al 2016 in caso di licenziamento.
Il che rende decisamente più complesso l’avvicendamento. Mentre il tempo passa.
Ma non riesce, Marino, nemmeno a scalzare Cremonesi dalla presidenza della Camera di commercio, snodo cruciale di poteri e interessi sul territorio.
In compenso, Stefano Caviglia sostiene sul mondadoriano Panorama che lo staff suo e dei suoi assessori è arrivato a 97 collaboratori, di cui 96 ingaggiati, testuale nell’articolo, «senza procedure pubbliche» e punta a scalare quota 108.
Fatto sta che ora alla pratica Cremonesi ha deciso di provvedere Nicola Zingaretti, proponendo il commissariamento della Camera di commercio. Il sindaco in realtà doveva essere lui.
Poi, quando la Regione Lazio è saltata per aria in seguito agli scandali di Batman & co., ha scelto di correre per il meno prestigioso incarico di governatore del Lazio. Marino ha vinto le primarie e ha ottenuto un successo elettorale pieno, ma è diventato primo cittadino della capitale quasi per caso.
E il Partito democratico, a Roma, non è nelle sue mani: lo tiene saldamente in pugno Zingaretti. Che qualcuno, di fronte alle difficoltà e alle indecisioni del Campidoglio, arriva a considerare una specie di sindaco ombra.
Spiegano così, i soliti dietrologi del Palazzo, le affettuosità che gli dedica ripetutamente il Messaggero di Caltagirone, cui risponde a colpi di querele.
Il grande elettore di Marino, quel Goffredo Bettini per anni direttore d’orchestra del Pd romano, non nasconde il proprio pentimento.
Rimprovera al sindaco la gestione della cultura e il disinteresse verso il Festival del cinema, che considera una propria creatura. Giudizi forse ingenerosi, almeno quanto la battuta maligna che circola negli ambienti democratici più critici verso Marino, equiparato al personaggio interpretato da Peter Sellers nel film «Oltre il giardino»: Chance il giardiniere.
È il masochismo della sinistra, specializzata nel fuoco amico.
Il disastro economico
Tanto più perchè il sindaco sta pagando colpe non sue. Non lo aiutano le condizioni economiche disastrose del Comune: un disavanzo strutturale di 1,2 miliardi, con l’impossibilità materiale di contrarre debiti. Un freno micidiale a qualunque progetto di respiro, sempre che ce ne siano.
A questo si aggiunga la valanga dei circa 4 mila dipendenti in più nelle società comunali graziosamente ereditata dalla precedente gestione. Sarebbe poi ingiusto non riconoscere a Marino le cose fatte.
Per la prima volta quest’anno è saltata la cosiddetta manovra d’aula: indecente distribuzione di soldi ai consiglieri comunali. Il sindaco va poi orgoglioso della scelta di chiudere Malagrotta, come pure della decisione di bloccare lo sviluppo urbanistico e lo sconsiderato consumo del suolo.
Governare una macchina come quella del Comune di Roma, inoltre, non è certo facile. Non lo è stato per i volponi della politica, romani. Figuriamoci per un chirurgo genovese con una lunga esperienza americana.
Anche se chi ha voluto la bicicletta poi è giusto che pedali. Nonostante la strada in salita.
Le dimensioni, innanzitutto. Il Campidoglio alimenta 62 mila buste paga, di cui 37 mila delle aziende municipalizzate: un groviglio di un’ottantina di scatole societarie. Quindi la complessità dei problemi.
Basta pensare alla faccenda della Metro C, con i vincoli pazzeschi della zona archeologica e i costi mostruosi. Ma anche alle questioni che si presentano giorno per giorno. Le sole tre aziende più grandi, l’Atac, l’Ama e l’Acea, occupano 31.338 dipendenti, oltre 4 mila più di tutti i dipendenti degli stabilimenti italiani della Fiat Chrysler.
L’Atac ne ha 12.276, il servizio è penoso e i conti sono un colabrodo con perdite di 1,6 miliardi negli ultimi dieci anni, vero. Ma in sette mesi non si è vista un’idea. Con le sue controllate, l’Ama paga circa 11.805 stipendi e non è mai stata un esempio di cristallina efficienza, verissimo.
Ma l’igiene urbana è quella che è e i cittadini di Roma pagano le tasse più alte d’Italia.
Scendendo di scala, altre situazioni danno seriamente da pensare. Come le farmacie comunali, che hanno 362 dipendenti e 15 milioni di debiti. O Risorse per Roma, una società letteralmente inventata per fare da consulente al Campidoglio e assumere 565 persone. Società che a sua volta ha poi gemmato un’agenzia battezzata con un nome rigorosamente inglese: «Roma city investment».
A che cosa serve? A «promuovere la crescita del sistema informativo territoriale romano e l’attrazione degli investimenti necessari per la realizzazione dei progetti di rigenerazione urbana».
In attesa che l’Urbe venga rigenerata, a Risorse per Roma hanno dato da smaltire le 150, forse 200 mila pratiche arretrate del condono edilizio. Uno dei capitoli più bui nella storia della città , su cui sarebbe doveroso fare luce. E non soltanto negli uffici comunali. Soprattutto per quei 5.900 abusi che erano stati scoperti grazie alle fotografie aeree e per i quali era stata presentata la domanda relativa all’ultimo condono berlusconiano ancora prima di costruire.
Quasi seimila casi per cui sono stati colpevolmente lasciati scadere i termini di prescrizione del giudizio penale.
Con il risultato che nessuno dei responsabili dovrà risponderne davanti alla giustizia. Roma è anche questa.
Paolo Conti e Sergio Rizzo
(da “il Corriere della Sera”)
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Gennaio 27th, 2014 Riccardo Fucile
LE DIMISSIONI DEL MINISTRO LASCEREBBERO SPAZIO AL PATRON DI EATALY, AMICO DI RENZI
Un nome, un’indiscrezione, quella di Oscar Farinetti, patron di Eataly candidato alla sua successione. E il silenzio di Letta.
Comunque, per dirla con le sue parole, una questione di “dignità personale”. Nunzia De Girolamo ha dato le dimissioni da ministro dell’Agricoltura, travolta dallo scandalo Asl.
A pesare sulla decisione, giura chi da giorni raccoglieva la sua amarezza nel non sentirsi confortata dal resto dell’esecutivo, è stato non solo il “silenzio assordante” del premier sul montare del Benevento-gate, ma anche quello del suo segretario, Alfano. Già , dopo le prime forti difese “a caldo”, il leader del Nuovo Centro Destra e vicepremier si è ben guardato di proseguire a far da scudo ad una “protetta” che nel corso dei giorni stava diventando sempre più ingombrante.
Ieri sera dunque qualcosa è scattato nella sua testa, quindi l’annuncio affidato a una nota: “Ho deciso di lasciare un ministero — si legge — perchè la mia dignità vale più di tutto questo ed è stata offesa da chi sa che non ho fatto nulla e avrebbe dovuto spiegare perchè era suo dovere prima morale e poi politico”.
Chi sapeva e non ha detto? Chi avrebbe dovuto difenderla e non l’ha fatto?
I dettagli in filigrana di questo testo non potranno che essere decriptati dalla magistratura nell’inchiesta in corso, ma dal punto di vista politico i volti di quelli che secondo la De Girolamo sarebbero i “colpevoli” di omertà sono rintracciabili anche nella faida del dominio del campo elettorale campano.
Una guerra tutta al femminile che ha visto attrici dietro le quinte dell’intera vicenda De Girolamo la sua ex collega di partito, Mara Carfagna, e la sua “alleata”, nonostante la posizione scomoda di compagna del leader di Forza Italia: Francesca Pascale.
Nei giorni più caldi dell’esplosione del caso De Girolamo, è stata proprio la Pascale a favorire la “difesa” della De Girolamo.
I tg Mediaset hanno trasmesso parte delle intercettazioni relative all’inchiesta che avrebbero messo sotto altra luce la sua posizione.
Dall’altra parte la Carfagna che, secondo la De Girolamo, avrebbe potuto ma non avrebbe mosso un dito per aiutarla.
In ultimo, il ruolo di un “vecchio ras beneventano”, quello di Clemente Mastella che la De Girolamo, anche via sms privato, ha accusato di essere, in qualche modo, parte in causa di tutti i suoi guai: “Sei una merda — ecco il testo dell’sms reso noto dal destinatario — ci vediamo in tribunale”.
Complotti, faide locali per il controllo elettorale nel beneventano. Ma, forse, come si diceva, non solo.
Perchè il gesto della De Girolamo, per alcuni suoi detrattori “comunque tardivo”, ha — in realtà — un unico, vero colpevole: Enrico Letta.
È lui che non l’ha difesa neppure quella mattina di solo una settimana fa circa quando ha dovuto spiegare, davanti ad un’aula della Camera semivuota le ragioni della sua “dignità ”.
E che giovedì scorso dalla Gruber parlando di lei e della Cancellieri aveva affermato “si può migliorare”. Il 4 febbraio, poi, era calendarizzata la mozione di sfiducia dell’M5s nei suoi confronti; perchè farsi votare contro anche dagli alleati, si è detta la De Girolamo?
Di qui la scelta, visto anche un sostanziale disinteresse di Algelino Alfano (che infatti ha lasciato l’aula dopo pochi minuti dall’inizio dell’intervento) su tutta la sua vicenda. Qualcuno, poi, nel giorno delle sue spiegazioni in Aula, ha scommesso che nella mente di Letta fosse già pronto proprio il nome di Farinetti per rimpiazzarla.
Di sicuro, il passo indietro di Nunzia risparmia a Letta uno sforzo quando si tratterà di mettere mano al rimpasto che potrebbe avvenire alla fine di questa settimana semprechè regga l’accordo con Berlusconi sul pacchetto di riforme.
Ma anche per l’Ncd, in fondo, è una “buona” notizia.
Dice, infatti, Maurizio Lupi: “La guadagneremo in ruoli di grande responsabilità del Nuovo Centrodestra”. Insomma, un problema in meno anche per Alfano.
Forse.
Sara Nicoli
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Gennaio 27th, 2014 Riccardo Fucile
NONOSTANTE TANGENTOPOLI, LA CORRUZIONE DILAGA ANCORA IN ITALIA: E’ L’NCAPACITA’ A GOVERNARE A PRODURRE MALAFFARE E CONFLITTI DI INTERESSI
Corruzione, corrotti, corruttori. Non si parla d’altro. Ma come? Non avevamo stretto un patto col
destino dopo Tangentopoli? Che mai più saremmo incorsi in simili peccati?
Non erano discesi dal Sinai eserciti di Di Pietro, con il loro seguito di angeli vendicatori? E ancora non vi è chi tema le loro pene? Neppure i nipotini di Berlinguer e i giovani scout?
Nulla dunque può spezzare l’aurea catena che dalle origini della patria va ai Mastellas e da lì ai Boccias, e abbraccia in sè destri e sinistri, senes, viri et iuvenes?
Ah, se invece di moraleggiare pedantemente, leggessimo i padri!
«Uno tristo cittadino non può male operare in una repubblica che non sia corrotta» (Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Libro III, cap.8).
Niccolò vedeva dall’Albergaccio meglio che noi ora da Montecitorio. Tristi cittadini sempre ci saranno. Ma in una repubblica che non sia, essa, corrotta, poco potranno nuocere e facilmente essere “esiliati”.
Gli “ordini” contano, le leggi, che non sono fatte dai giudici. Le leggi non cambiano la natura umana, ma la possono governare. È la repubblica corrotta che continuamente produce i corrotti.
E quando la repubblica è corrotta? Quando è inetta. Quando risulta impotente a dare un ordine alla molteplicità di interessi che la compongono, quando non sa governare i conflitti, che sono la ragione della sua stessa vita, ma li patisce e li insegue.
Se è inetta a mutare in relazione all’”occasione”, se è inetta a comprendere quali dei suoi ordini siano da superare e quali nuovi da introdurre, allora è corrotta, cioè si corrompe e alla fine si dissolverà .
Corruzione è anzitutto impotenza. E impotenza è incapacità di “deliberare”.
Una repubblica strutturata in modo tale da rendere impervio il processo delle decisioni, da rendere impossibile comprendere con esattezza le responsabilità dei suoi diversi organi, una repubblica dove si è costretti ogni volta alla “dannosissima via di mezzo” (sempre Niccolò docet), alla continua “mescolanza” di ordini antichi e nuovi, per sopravvivere — è una repubblica corrotta e cioè inetta, inetta e cioè corrotta.
Ma questa infelice repubblica darà il peggio di sè?
Con megagalattiche ruberie da Tangentopoli? Purtroppo no. Piuttosto (“banale” è il male), allorchè diviene quasi naturale confondere il privato col pubblico, concepire il proprio ruolo pubblico anche in funzione del proprio interesse privato.
Magari senza violare norma alcuna — appunto perchè una repubblica corrotta in questo massimamente si manifesta: nel non disporre di norme efficaci contro i “conflitti di interesse”, di qualsiasi tipo essi siano.
Una repubblica è corrotta quando chi la governa può credere gli sia lecito perseguire impunemente il «bene particulare» nello svolgimento del proprio ufficio.
Che questo “bene” significhi mazzette, o essere “umani” con amici e clienti, “essere regalati” di qualche appartamento, manipolare posti nelle Asl o farsi le vacanze coi soldi del finanziamento pubblico ai partiti, cambia dal punto di vista penale, ma nulla nella sostanza: tutte prove della corruzione della repubblica.
Poichè soltanto “il bene comune è quello che fa grandi le città ” (Discorsi, Libro II, cap.2). Il politico di vocazione può riuscire nel difficile compito di tenerlo distinto sempre dal suo privato. Il politico di mestiere, mai.
Quello che si è messo alla prova nei conflitti della repubblica senza corrompersi, può farcela. Il nominato, il cooptato, che abbia cento anni o venti, mai.
Ma abbiamo forse toccato il fondo. E questo deve darci speranza.
Per vedere tutta la virtù di Mosè, diceva Niccolò, era necessaria tutta la miseria di Israele.
Massimo Cacciari
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