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QUEL BOSS DI CAMORRA DIFESO DAL SUO POPOLO

Giugno 22nd, 2015 Riccardo Fucile

I GIORNI DEI BACI FINIRANNO NELLA TERRA DEI GUAPPI?

«N u latitante nun tene cchiù niente», un latitante non ha più nulla, recita una stucchevole canzone della peggiore sottocultura neomelodica.
Ma a Napoli, purtroppo, un latitante di camorra ha quasi sempre la sua gente attorno, il suo quartiere a difenderlo, ancora oggi.
La scena l’abbiamo vista tante volte, eppure ogni volta è un dolore nuovo, specie per chi nel Sud ha sangue e radici: i carabinieri arrestano un ricercato, e mamme e «guaglioni», vecchi e bambini anzichè applaudirli si mettono in mezzo, tentano di strappare il boss alle manette, inscenano rivolte popolari al grido di «chillo è o’ pate nuosto», il nostro padre.
È successo anche la notte tra sabato e domenica a Barra, periferia napoletana assediata da un degrado così storico da diventare tradizione.
Dopo due anni di caccia, i militari della compagnia di Torre Annunziata hanno acciuffato Luigi Cuccaro, padrino quarantaduenne, reggente col fratello Michele dei rioni Barra e Ponticelli (già , come fosse una carica amministrativa…).
La procura antimafia lo accusa di omicidio, narcotraffico e associazione mafiosa.
Il suo popolo doveva considerarlo invece una specie di Primula Rossa se, quando la sua famiglia ha dato l’allarme al momento dell’irruzione dei carabinieri, in sessanta almeno si sono radunati davanti al portone, strillando, spingendo, invocando la liberazione di «Gigino» loro
Lui, in favore di telecamere, con grande senso della scena, li ha ricompensati mandando baci.
Come un attore sul red carpet o un principe dal balcone reale.
Noi, ogni volta, restiamo a domandarci, con Gesualdo Bufalino, quanti eserciti di maestri elementari occorreranno per sradicare questa malapianta dal Sud, per battere prima ancora della mafia e della camorra l’idea malintesa che mafia e camorra siano il welfare dei meridionali.
Poi ci vengono in mente Giancarlo Siani e don Peppino Diana.
E pensiamo che in fondo la strada sia meno impervia di come appare.
Che i giorni dei baci finiranno pure nella terra dei guappi.

Goffredo Buccini
(da “il Corriere della Sera”)

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“DOBBIAMO DIRE NO AL MODELLO CHE INSEGUE CAPITALE E PRODUZIONE”: IL DISCORSO DI PAPA FRANCESCO A TORINO

Giugno 22nd, 2015 Riccardo Fucile

OCCUPAZIONE E SOLIDARIETA’ PER USCIRE DALLA CRISI… FORTE CONDANNA DELLA CORRUZIONE E DELLA MAFIA

Cari fratelli e sorelle, buongiorno
Saluto tutti voi, lavoratori, imprenditori, autorità , giovani e famiglie presenti a questo incontro, e vi ringrazio per i vostri interventi, da cui emerge il senso di responsabilità  di fronte ai problemi causati dalla crisi economica, e per aver testimoniato che la fede nel Signore e l’unità  della famiglia vi sono di grande aiuto e sostegno.
La mia visita a Torino inizia con voi. E anzitutto esprimo la mia vicinanza ai giovani disoccupati, alle persone in cassa-integrazione o precarie; ma anche agli imprenditori, agli artigiani e a tutti i lavoratori dei vari settori, soprattutto a quelli che fanno più fatica ad andare avanti.
Il lavoro non è necessario solo per l’economia, ma per la persona umana, per la sua dignità , per la sua cittadinanza e anche per l’inclusione sociale. Torino è storicamente un polo di attrazione lavorativa, ma oggi risente fortemente della crisi: il lavoro manca, sono aumentate le disuguaglianze economiche e sociali, tante persone si sono impoverite e hanno problemi con la casa, la salute, l’istruzione e altri beni primari.
L’immigrazione aumenta la competizione, ma i migranti non vanno colpevolizzati, perchè essi sono vittime dell’iniquità , di questa economia che scarta e delle guerre. Fa piangere vedere lo spettacolo di questi giorni, in cui esseri umani vengono trattati come merce
In questa situazione siamo chiamati a ribadire il «no» a un’economia dello scarto, che chiede di rassegnarsi all’esclusione di coloro che vivono in povertà  assoluta – a Torino circa un decimo della popolazione.
Si escludono i bambini (natalità  zero!), si escludono gli anziani, e adesso si escludono i giovani (più del 40% di giovani disoccupati)! Quello che non produce si esclude a modo di «usa e getta».
Siamo chiamati a ribadire il «no» all’idolatria del denaro, che spinge ad entrare a tutti i costi nel numero dei pochi che, malgrado la crisi, si arricchiscono, senza curarsi dei tanti che si impoveriscono, a volte fino alla fame.
Siamo chiamati a dire «no» alla corruzione, tanto diffusa che sembra essere un atteggiamento, un comportamento normale. Ma non a parole, con i fatti. «No» alle collusioni mafiose, alle truffe, alle tangenti, e cose del genere.
E solo così, unendo le forze, possiamo dire «no» all’iniquità  che genera violenza.
Don Bosco ci insegna che il metodo migliore è quello preventivo: anche il conflitto sociale va prevenuto, e questo si fa con la giustizia.
In questa situazione, che non è solo torinese, italiana, è globale e complessa, non si può solo aspettare la «ripresa» – «aspettiamo la ripresa…» -.
Il lavoro è fondamentale – lo dichiara fin dall’inizio la Costituzione Italiana – ed è necessario che l’intera società , in tutte le sue componenti, collabori perchè esso ci sia per tutti e sia un lavoro degno dell’uomo e della donna.
Questo richiede un modello economico che non sia organizzato in funzione del capitale e della produzione ma piuttosto in funzione del bene comune.
E, a proposito delle donne – ne ha parlato lei (la lavoratrice che è intervenuta, ndr) -, i loro diritti vanno tutelati con forza, perchè le donne, che pure portano il maggior peso nella cura della casa, dei figli e degli anziani, sono ancora discriminate, anche nel lavoro.
È una sfida molto impegnativa, da affrontare con solidarietà  e sguardo ampio; e Torino è chiamata ad essere ancora una volta protagonista di una nuova stagione di sviluppo economico e sociale, con la sua tradizione manifatturiera e artigianale – pensiamo, nel racconto biblico, che Dio ha fatto proprio l’artigiano… Voi siete chiamati a questo: manifatturiera ed artigianale – e nello stesso tempo con la ricerca e l’innovazione.
Per questo bisogna investire con coraggio nella formazione, cercando di invertire la tendenza che ha visto calare negli ultimi tempi il livello medio di istruzione, e molti ragazzi abbandonare la scuola. Lei (sempre la lavoratrice) andava la sera a scuola, per poter andare avanti…
Oggi vorrei unire la mia voce a quella di tanti lavoratori e imprenditori nel chiedere che possa attuarsi anche un «patto sociale e generazionale»
Mi è piaciuto tanto che voi tre abbiate parlato della famiglia, dei figli e dei nonni. Non dimenticare questa ricchezza!
I figli sono la promessa da portare avanti: questo lavoro che voi avete segnalato, che avete ricevuto dai vostri antenati. E gli anziani sono la ricchezza della memoria.
Una crisi non può essere superata, noi non possiamo uscire dalla crisi senza i giovani, i ragazzi, i figli e i nonni. Forza per il futuro, e memoria del passato che ci indica dove si deve andare. Non trascurare questo, per favore. I figli e i nonni sono la ricchezza e la promessa di un popolo.
A Torino e nel suo territorio esistono ancora notevoli potenzialità  da investire per la creazione di lavoro: l’assistenza è necessaria, ma non basta: ci vuole promozione, che rigeneri fiducia nel futuro.
Ecco alcune cose principali che volevo dirvi. Aggiungo una parola che non vorrei che fosse retorica, per favore: coraggio!.
Non significa: pazienza, rassegnatevi. No, no, non significa questo. Ma al contrario, significa: osate, siate coraggiosi, andate avanti, siate creativi, siate «artigiani» tutti i giorni, artigiani del futuro!
Con la forza di quella speranza che ci dà  il Signore e non delude mai. Ma che ha anche bisogno del nostro lavoro.
Per questo prego e vi accompagno con tutto il cuore.
Il Signore vi benedica tutti e la Madonna vi protegga.

Papa Francesco
(da “La Stampa”)

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BERLUSCONI: “UNIAMO LEGA E FORZA ITALIA”. COSI’ A DESTRA SAPPIAMO PER CHI NON VOTARE

Giugno 22nd, 2015 Riccardo Fucile

SILVIO PROPONE LA SOLITA MINESTRA DEL “CONTENITORE PIU’ AMPIO”… NON CONTANO I CONTENUTI MA SOLO L’ITALICUM PER ARRIVARE AL BALLOTTAGGIO

“Forse occorrerà  realizzare un contenitore più ampio, del quale FI e la Lega siano parte, che si rivolga non solo ai partiti ma anche alle associazioni, ai gruppi, ai movimenti d’opinione, ai cittadini non organizzati in partiti”.
E’ quanto afferma il leader di FI Silvio Berlusconi in un in’intervita a Il Giornale.
“E’ normale – continua – che in un movimento possano esserci opinioni diverse sulle linee da seguire, ma se la minoranza non riesce a convincere la maggioranza sulla sua tesi deve adeguarsi alla tesi della maggioranza altrimenti lasciare il partito”.
“Il nostro primo obiettivo è ridare un motivo serio per tornare a votare agli italiani che hanno disertato le urne – aggiunge – Per riuscirci mi impegnerò personalmente, ma tutte le forze che si riconoscono nel centrodestra devono saper rinunciare a qualche loro convenienza per imboccare un cammino comune fatto di lungimiranza e generosità  vero l’Italia e gli italiani”.
“Se il Partito democratico presentasse in Parlamento qualche miglioramento della legge elettorale o della riforma costituzionale – conclude – noi voteremmo a favore di quella norma come voteremmo qualsiasi provvedimento da chiunque proposto che giudicassimo positivo per il Paese”.
A fronte della nuova legge elettorale che porta al ballottaggio solo i primi due partiti, sembra che la preoccupazione di Berlusconi sia solo quella arrivarci, non di una linea politica definita e di un centrodestra ricostruito dalla fondamenta su valori e programma.
La solita minestra riscaldata…

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MIGRANTI, COSI’ SI FERMA L’ESODO DALL’AFRICA. BASTANO POCHI EURO PER CREARE LAVORO E RALLENTARE IL FLUSSO

Giugno 22nd, 2015 Riccardo Fucile

I RARI PROGETTI ITALIANI VENGONO CHIUSI DALL’EUROPA, MENTRE PARIGI E LONDRA SFRUTTANO LE RISORSE DELLE LORO EX COLONIE E RESPINGONO I PROFUGHI

L’alternativa all’emigrazione in Europa, al caos umanitario, ma anche all’idea di bombardare i barconi in Libia, costa davvero poco.
Con venticinquemila euro, a Sud del deserto del Sahara si possono creare venti posti di lavoro. Con i 746 milioni consumati dall’Italia per l’emergenza sbarchi nel 2014, daremmo un’attività  duratura a 597 mila persone.
Con i due miliardi e 288 milioni spesi dal nostro governo negli ultimi quattro anni, avremmo potuto far lavorare un milione e 830 mila uomini e donne.
E garantire una ricaduta positiva sulle loro famiglie per un totale di dodici milioni e ottocentomila persone.
In altre parole, con un investimento di 180 euro per persona in Africa e un progetto decente, e soprattutto gestito dai beneficiari, potremmo alla fine fermare al via gran parte degli emigranti in cerca di lavoro.
Destinando così l’accoglienza in Europa a quanti chiedono asilo o protezione umanitaria perchè davvero in fuga da guerre o dittature: come siriani, eritrei e somali.
Il successo dell’esperimento è tutto qui, nel caldo torrido di Makalondi, sulla strada nazionale che dal Burkina Faso porta a Niamey, la capitale del Niger.
Un successo talmente a buon mercato che proprio in questi giorni il progetto, avviato nel 2012 dall’associazione piemontese “Terre solidali” e dall’Università  di Torino, verrà  chiuso e archiviato dall’Unione Europea.
Non è una bocciatura. Funziona proprio così. Bruxelles ci mette il 75 per cento dei soldi necessari, gli altri bisogna trovarseli.
Poi però i risultati devono essere raggiunti e rendicontati all’Ue in appena tre-quattro anni, in modo che il commissario di turno possa appropriarsi di cifre e applausi nel corso del mandato. L’Europa industriale sta depauperando il continente da secoli, ma noi pretendiamo che gli africani si rimettano in piedi nel giro di trentasei-quarantotto mesi.
Con questi cappi al collo, qualunque Sergio Marchionne troverebbe più conveniente e capitalistico pagarsi il viaggio sul barcone.
Ridotta al caos la Libia, quello del Niger è il primo governo che si incontra a Sud di Lampedusa.
Dovremmo chiederci perchè negli ultimi quindici anni, da quando l’Africa ha cominciato a sbarcare, i progetti efficaci come quello di Makalondi siano rimasti una rara eccezione. E la risposta non è difficile da trovare.
Eccola in bella mostra sotto i 47 gradi all’ombra del piazzale dell’aeroporto internazionale di Niamey.
A sinistra, dalla pancia di un gigantesco aereo da trasporto, l’esercito di Parigi sta scaricando armi, container e mezzi per l’operazione militare “Barkhane” che dalla scorsa estate attraversa Ciad, Niger e Mali.
A destra, è parcheggiata la flotta di aeroplani noleggiati dalle organizzazioni che partecipano alla globalizzazione umanitaria: Nazioni Unite, Programma alimentare mondiale, Organizzazione mondiale della sanità . Il bastone e la carota, con cui il mondo ricco ha sempre dominato.
È immorale che in queste ore, lassù alla frontiera di Mentone, sia proprio la Francia a impedire la libera circolazione di persone, come accade in occasione di gravi fatti di criminalità .
Come se fossimo noi italiani i criminali, per aver scelto di portare soccorso in mare e ridurre il numero dei morti.
Mentre lo stesso governo di Parigi continua a produrre instabilità , povertà  e profughi con i suoi piani strategici a sud del Sahara.
In questi ultimi drammatici mesi, l’Unione Europea era forse troppo scossa dal massacro di “Charlie Hebdo” per rendersene conto.
Ma visti da qui, i responsabili del caos dal 2011 in poi non sono certo le migliaia di persone sbarcate. E nemmeno gli italiani che le hanno soccorse.
La voce è quella di Jean-Pierre Chevènement, già  ministro francese della Difesa e dell’Interno, in un’intervista a “Le Figaro”: «Nel 2011 noi abbiamo distrutto la Libia… sotto la guida di Sarkozy. Abbiamo violato la risoluzione delle Nazioni Unite, che ci dava il diritto di proteggere la popolazione di Bengasi, e ci siamo spinti fino al cambiamento del regime».
Di fronte al disastro umanitario, il presidente del Niger, Mahamadou Issoufou, è altrettanto diretto: «Bisogna che francesi, americani e britannici vadano in prima linea a riparare i danni che hanno provocato», dice al quotidiano “Le Parisien”: «Che ci assicurino le service après-vente», il servizio post-vendita, aggiunge con ironia il presidente nigerino.
Per ora, però, il servizio offerto dal governo socialista di Manuel Valls sono i gendarmi alla frontiera meridionale.
E l’ordine perentorio: «I migranti non passano, se ne devono occupare gli italiani». Posizione in sintonia con il collega britannico David Cameron, che sulla proposta di trasferire almeno quarantamila rifugiati da Italia e Grecia, si rifiuta di accogliere un solo straniero al di là  della Manica.
Makalondi, municipio rurale di ottantamila abitanti appena oltre la frontiera, è il primo cartello del Niger lungo la rotta percorsa ogni mese da almeno diecimila ragazzi e poche ragazze che da tutta la regione del Sahel, da Gambia, Senegal, Mali, Niger e Nigeria, continuano a salire verso la Libia e l’Europa.
Fino a vent’anni fa questa era una regione semiarida di alberi d’alto fusto. Ora è una distesa di sabbia, cespugli e arbusti. La costante riduzione delle piogge e la necessità  di energia hanno aperto il paesaggio al deserto.
La capitale brucia per cucinare mille tonnellate di legna al giorno e nel giro di pochi anni hanno tagliato anche gli alberi di Makalondi.
I venticinquemila euro del progetto italiano sono stati affidati a un’associazione di donne che ha scelto in autonomia come investirli: hanno aperto un laboratorio alimentato a energia solare per la trasformazione e la vendita di cereali e per la produzione di mangimi animali macinati dagli scarti dell’agricoltura.
Non è stato facile, all’inizio. «I progetti di cooperazione decentrata della Regione Piemonte andavano molto bene», racconta Stefano Bechis, ricercatore del dipartimento di Economia e ingegneria agraria (Deiafa) dell’Università  di Torino: «Finchè è arrivata la giunta Bresso che li ha resi più difficili da gestire. E infine il presidente leghista Cota, che da una parte diceva che gli africani vanno aiutati a casa loro e dall’altra chiudeva la cooperazione regionale decentrata. Come volesse aiutare gli africani chiudendo la cooperazione, è un mistero di quella mente eccelsa dell’ex governatore».
Il progetto per il laboratorio però è sopravvissuto ai cambi di rotta della Lega grazie all’approvazione di Bruxelles, all’autofinanziamento e a una donazione della Valle d’Aosta.
Ed ecco Catherine Yonli Banyoua, 38 anni, la responsabile, e Madan Terigaba, 42, la tesoriera della piccola impresa, sedute a confezionare pacchi di cuscus con altre sette donne.
«Fino a tre anni fa qui non c’era più raccolto», spiega Catherine, «il progetto ha riportato lavoro e cibo. Abbiamo clienti che rivendono i prodotti in Ghana. Siamo solo donne perchè la trasformazione del raccolto la fanno le donne. Agli uomini toccano i lavori pesanti».
Nessuno ha parenti saliti sui barconi? «No», sorride lei, «nessuna di queste famiglie ha intenzione di andare in Europa. Se c’è lavoro, nessuno si muove».
Ousseini Adamou, 46 anni, e Paolo Giglio, 62, partito da Ivrea per l’Africa quarantadue anni fa, hanno seguito la formazione del personale e l’avviamento.
I venticinquemila euro iniziali sono serviti anche per l’acquisto di pannelli solari e batterie cinesi, più a buon mercato. Raccontano che da gennaio 2014 il laboratorio è autonomo, non riceve più soldi.
Le donne trasformano e confezionano sei quintali di prodotti al mese: miglio, cuscus, farina di grano, bevande a base di cereali. E incassano ciascuna uno stipendio di 30mila franchi, quasi 46 euro.
Metà  viene impiegata per vivere, metà  depositata sul conto dell’impresa per la manutenzione dei due congelatori e la sostituzione delle batterie tra tre anni. «Hanno già  risparmiato tre milioni di franchi», rivela Paolo Giglio, «sono quattromila 500 euro. Avere quella somma a Makalondi è un grande successo. Non servono costose campagne decise altrove. Occorrono progetti su misura, scelti da chi ne beneficerà . Come hanno fatto le donne di Makalondi. Da anni arrivano da tutto il mondo laureati in diritti umani, antropologia, macroeconomia. Costano tanto e combinano poco. Abbiamo bisogno che ci mandino artigiani, falegnami, fabbri, agricoltori che insegnino il mestiere. Ci vorrebbero tante scuole professionali, come quelle dei salesiani che negli anni Sessanta hanno contribuito a formare gli operai del nostro boom economico».
Tra i progetti a misura di famiglia ce n’è un altro realizzato dall’associazione “Terre solidali” nella zona di Niamey e dalla Ong “Bambini del deserto” di Modena ad Agadez, la porta del Sahara, passaggio obbligato verso la Libia e l’Europa.
Si basa sull’intuizione di uno studente di agronomia dell’università  di Perugia, Aaron Aboussey Mpacko, 23 anni. Aaron, nato in Camerun e stroncato da un infarto durante una partita di calcio, stava studiando una soluzione che riducesse la distruzione delle foreste per ricavare legna da ardere.
Ha così costruito un prototipo semplificato di stufa a gassificazione. Dopo la morte del ragazzo, Stefano Bechis dall’Università  di Torino e Paolo Giglio da Niamey hanno portato avanti l’idea.
Oggi 350 famiglie del Niger usano abitualmente stufe Aaron in grado di fornire la stessa energia per cucinare, riducendo però il consumo di legna del 75 per cento.
Sono grandi quanto un bidone, larghe poco più di una pentola e sono state costruite da tre fabbri nella bolgia del mercato di Katako, il cuore popolare della capitale.
Il processo di gassificazione non brucia legno, ma estrae gas dalla biomassa dei pellet ricavati dalla macinatura di scarti agricoli ed eventualmente da altra legna.
E come residuo fornisce il 30 per cento del peso in carbone vegetale, riutilizzabile in stufe tradizionali oppure come concime. Secondo lo studio dell’Università  di Torino, con questo sistema l’attuale fabbisogno annuo di legna in tutto il Sahel basterebbe per quattro anni. Si creerebbero posti di lavoro per la produzione e la commercializzazione delle stufe e del pellet. E si ridurrebbero le malattie respiratorie di donne e bambini poichè la fiamma non produce fumi.
Il passo successivo prevede la piantumazione di alberi, sfruttando il bosco per stabilizzare il suolo e coltivare cereali nella penombra.
«Soltanto con la potatura dei rami di cinquanta ettari si potrebbe dare energia a 500 famiglie», spiega Giglio. Si tratta di energia a prezzi accessibili. Costruire una stufa Aaron in Niger richiede 24 euro. Ma grazie a una parte del milione e 100 mila euro finanziati dall’Ue per una rete di interventi, sono state finora vendute a circa 6 euro.
«L’Unione Europea ci ha dato fiducia. Con il progetto “Niger Energie” un migliaio di persone delle fasce più deboli mangia in modo adeguato», spiega Laura Alunno, presidente di “Terre solidali”, «e diffonde un modello socioeconomico che si basa sull’associazionismo e sul rafforzamento delle capacità  locali. Siamo consapevoli che questi progetti sono una goccia nel mare. L’Africa ha bisogno di infrastrutture e di vendere al miglior offerente le proprie risorse. Se all’Africa venisse data questa opportunità , l’emigrazione si fermerebbe».
La tensione senza precedenti tra governi europei in questi giorni fa assomigliare l’Unione di Jean-Claude Juncker alla fallimentare Società  delle Nazioni che accompagnò il pianeta alla Seconda guerra mondiale.
Sullo sfondo, il piano militare per bombardare i pescherecci libici potrebbe essere approvato a fine giugno e aprire il Mediterraneo a ulteriori sconvolgimenti.
Non abbiamo nemmeno capito che tutto questo non servirà  a nulla se chi parte ha la determinazione di Ebrima Sey, 32 anni, in viaggio con l’idea di trovare un lavoro ovunque in Europa.
Il suo obiettivo è sfamare la moglie e il figlio Wally, 2 anni, rimasti ad aspettare a Serekunda, la principale città  del Gambia.
È partito da 34 giorni e alle tre del pomeriggio scende alla stazione degli autobus a Niamey. Con Ebrima, ecco altri 76 emigranti di Gambia, Senegal, Mali, tutti con l’intenzione di andare in Libia. E poi in Italia.
Ebrima indossa la maglia della nazionale francese, numero di Zidane sulla schiena e un solo zainetto come bagaglio, il flacone di shampoo, l’asciugamano, le ciabatte di gomma, il diploma dell’istituto tecnico per “saldatori metalmeccanici” e il certificato della polizia di Banjul da cui risulta che è libero da denunce e condanne.
Lui è certo che gli serviranno in Europa. «Sono partito», racconta, «perchè mia moglie mi chiedeva soldi per comprare cibo e io senza un lavoro stabile non ne avevo».
Come paga il viaggio? «Ho venduto il mio motorino e ho un numero di telefono per chiamare chi mi manda i soldi. È mio cugino».
Come lo rimborserà ? «Quando lavorerò in Italia, lo rimborserò».
Ha conoscenti già  sbarcati in Italia? «Conosco nove gambiani già  arrivati in Italia».
Ha paura dei pericoli del deserto? «No».
Sa che c’è una guerra in Libia? «Sì».
Non ha paura di essere sequestrato o ucciso in Libia? «No».
Ha saputo delle migliaia di morti annegati tra la Libia e l’Italia? «Sì, avevo un piccolo computer. L’ho visto su YouTube».
Non ha paura che possa capitare anche a lei? «No, non ho paura perchè ho fede. So che Dio mi guiderà ».
La sua sicurezza vacilla solo sulle informazioni pratiche del viaggio.
In quanti giorni si aspetta di arrivare in Italia? «Tre, quattro settimane», risponde Sey con eccessivo ottimismo.
Quanto pensa di pagare per arrivare in Europa? «Duecento, trecento euro».
I libici chiedono milleseicento dollari americani per attraversare il mare. «Per arrivare in Italia?», domanda lui. Sì. «Non lo sapevo».
Guarda a lungo nel vuoto. «Però in Libia potrò lavorare per mettere da parte i soldi», dice subito dopo.
E quando si aspetta di rivedere suo figlio? Davanti a obiettivi così forti come il sostegno alla propria famiglia, i sentimenti vengono pigiati in fondo al cuore dagli imperativi che la mente si impone. La domanda è involontariamente intima.
Gli occhi di Ebrima cominciano a luccicare. Poi esplodono come il crollo di una diga in un pianto inconsolabile. Stanotte che doveva essere l’ultima, prima di raggiungere il deserto, ha parlato al telefono con sua moglie. E sfinito, sdraiato su un tappeto di plastica della stazione, si è addormentato con il cellulare in mano.
Gliel’hanno rubato con tutti i contatti registrati in memoria per continuare il viaggio.
Il Gambia, 172esimo Paese su 187 per indice di sviluppo, nel 2014 ha dato all’Italia 8.556 richiedenti asilo.
Quest’anno sono 3.115 i connazionali di Ebrima già  arrivati: il sesto gruppo dopo Eritrea, Mali, Nigeria, Somalia, Siria e davanti a Senegal e Sudan.
Il presidente del Gambia, Yahyah Jammeh, un ex militare al potere dal 1994, ha fatto parlare di sè un mese fa promettendo di tagliare la gola ai giovani che si dichiarano gay.
L’Unione Europea, che l’ha sostenuto nel suo piano di privatizzazioni da fare invidia a Henry Ford, sei mesi fa gli ha tolto i finanziamenti. Il disastro economico all’inseguimento di una crescita squilibrata del Pil, che nel 2014 era al 4,6 per cento, è arrivato quest’anno con un meno 1,4. Come sempre, paga il popolo.
Probabilmente nelle prossime settimane vi spalmerete sulla pelle il biossido di titanio estratto a tonnellate dalle sabbie del Gambia: è la protezione bianca contenuta nelle creme solari.
Stiamo parlando del più piccolo Stato dell’Africa continentale: un milione 970 mila abitanti appena, compresi i minori sotto i 15 anni che sono il 46 per cento. Gli adulti in Gambia parlano quasi tutti inglese.
Non perchè si siano iscritti al British Institute per corrispondenza. Ebrima Sey e i suoi connazionali lo parlano perchè fino al 1965, un anno prima della nascita dell’attuale premier David Cameron, il Gambia era parte del Regno Unito.
Con le dovute proporzioni, la stessa storia si ripete in Mali: colonia francese fino al 1960, 176esima posizione per indice di sviluppo, Paese ora spaccato in due dopo che la Francia è intervenuta per fermare le milizie di Al Qaeda e ha consegnato il Nord a un’altra fazione di terroristi tuareg.
E si ripete in Niger: colonia di Parigi fino al 1960, abitanti raddoppiati in quindici anni fino agli attuali 19 milioni 268 mila, il Paese all’ultimo posto nel mondo per l’indice di sviluppo umano, nonostante l’uranio nigerino estratto a costi irrisori dall’azienda statale francese Areva.
L’uranio che parte da qui accende un terzo dell’energia elettrica prodotta in Francia: un ospedale su tre, un treno su tre, un’industria su tre, una lampadina su tre.
Mentre in Niger il 93 per cento degli abitanti non ha accesso all’elettricità . E anche dove c’è, spesso non arriva.
Stanotte, come ieri notte, la temperatura martella le tempie.
Sembra di vivere nella “Febbre” di Wallace Shawn. L’aria si appiccica al sudore.
Un amico medico dell’Ospedale nazionale rivela che quando manca la corrente e i ventilatori appesi ai soffitti si fermano, tra gli anziani e i bambini ricoverati si muore a grappoli. Muoiono di caldo, di complicazioni.
Anche adesso, dice il medico, nell’ennesima notte di questa capitale senza luce.
Nelle stesse, identiche ore in cui a Parigi il presidente Franà§ois Hollande dichiara che la fuga da questo inferno, dove ancora si parla francese, è un problema che non lo riguarda.

Fabrizio Gatti
(da “L’Espresso”)

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ADDIO A LAURA ANTONELLI, LA BELLEZZA CHE FECE SOGNARE E’ MORTA IN SOLITUDINE

Giugno 22nd, 2015 Riccardo Fucile

AVEVA 74 ANNI, LA POPOLARITA’ RAGGIUNTA CON “MALIZIA”

Con le sue vestaglie succinte, le calze con la riga, le curve morbide e quel viso indimenticabile aveva fatto sognare gli italiani nel corso degli anni Settanta.
E’ morta a Ladispoli, vicino a Roma, l’attrice Laura Antonelli, aveva 74 anni.
A dare l’allarme stamattina è stata la donna delle pulizie che l’ha trovata per terra in casa, gli operatori del 118 non hanno potuto fare altro che constatare il decesso. Aveva raggiunto la popolarità  con film-cult come Malizia di Salvatore Samperi (1973) e Sessomatto di Dino Risi conquistando il titolo di icona-sexy del nostro cinema, ma aveva lavorato anche con grandi maestri come Visconti, Scola e Patroni Griffi.
Nata a Pola in una famiglia istriana, il 28 novembre 1941, da ragazza, ormai trasferita a Roma, sembrava destinata a fare l’insegnante di educazione fisica, ma subito dopo aveva girato alcuni caroselli pubblicitari e si era messa in luce come attrice di fotoromanzi.
Il debutto nel cinema avvenne a 25 anni con Le sedicenni (opera prima di Luigi Petrini, 1966), presto seguito da altri film che rivelano il suo irresistibile e morbido sexy-appeal.
Venere dall’aria dolce e dallo sguardo sognante (in parte merito della miopia), nel 1971 conquistò il cuore di Jean-Paul Belmondo durante le riprese de Gli sposi dell’anno secondo (Jean-Paul Rappeneau).
Con Malizia (Salvatore Samperi, 1973), si aggiudicò un David di Donatello e un Nastro d’argento come miglior attrice.
Il film incassò 6 miliardi di lire catapultando l’attrice nell’immaginario erotico degli italiani grazie alla sua cameriera sensuale che oltre a far girare la testa al padre vedovo (Turi Ferro) popola i sogni dei due figli maschi.
A contribuire alla bellezza della Antonelli la fotografia del premio Oscar Vittorio Storaro.
Attraversò gli anni ’70 esibendo sullo schermo le sue forme senza veli (“In fondo ci spogliamo tutti una volta al giorno”), arrivando a moltiplicarsi nei divertenti episodi di Sessomatto (Dino Risi, 1973).
Sotto la guida di registi come Giuseppe Patroni Griffi (Divina creatura, 1975) o Luchino Visconti (L’innocente, 1976) dimostrò di saper affrontare ruoli più drammatici e impegnativi, senza mai rinunciare all’arte della seduzione, magari con l’aiuto di fili di perle o di merletti trasparenti.
Particolarmente a suo agio nell’incarnare bellezze d’altri tempi, nel 1981 si fece rubare la scena da un’attrice molto meno bella di lei, la brava Valeria D’Obici, (Passione d’amore, Ettore Scola, 1981).
Per assicurarsi le grazie del giovane figlio di Sean Connery, Jason, si trovò a fare ancora i conti con una rivale, insidiosa e attraente come Monica Guerritore ne La venexiana (Mauro Bolognini, 1985).
Superati i 40 anni giocò a conquistare i comici più popolari del cinema italiano. Anche se un tipo come Diego Abatantuono ce la mette tutta per resisterle (Viuuuulentemente…mia, Carlo Vanzina, 1982) e Maurizio Micheli viene interrotto sul più bello dall’arrivo di suo marito, il “resuscitato” pieno d’alghe Adriano Pappalardo (Rimini Rimini, Sergio Corbucci, 1987).
Dopo un tentativo mal riuscito di ripercorrere le glorie di un tempo, (Malizia 2000, Salvatore Samperi, 1991) la scelta di ritirarsi.
Ma i giornali erano tornati a parlare di lei quando l’amico Lino Banfi lotterà  per farle avere l’assistenza della legge Bacchelli ma lei rispose con una lettera in cui chiedeva di essere dimenticata.

Chiara Ugolini
(da “La Repubblica”)

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