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NON LAVORANO E NON STUDIANO: ECCO COME VIVONO 2,3 MILIONI DI GIOVANI ITALIANI

Luglio 11th, 2016 Riccardo Fucile

VOLONTARIATO, SPORT, LAVORETTI: LE TRIBU’ DEI NEET NON ACCETTANO LA LORO CONDIZIONE … MA L’UNICA ISTITUZIONE AMICA RIMANE LA FAMIGLIA

Ma cosa fanno veramente i Neet? Sono davvero solo dei forzati del divano oppure anche tra di loro passa una linea di ulteriore disuguaglianza?
Una divisione che separa gli «esogeni», quelli che sono impegnati ogni giorno in un duro corpo a corpo con un mercato del lavoro che non vuole includerli, dagli «endogeni», gli scoraggiati che si sentono drammaticamente inadeguati e sono portati ad arretrare davanti a qualsiasi sfida?
L’Italia ha il triste primato europeo dei giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano, non lavorano e non sono impegnati in un corso di formazione.
Parte di loro – un milione su 2,3 totali – compare alla voce «disoccupati» ed è disponibile dunque a iniziare un lavoro nelle successive due settimane.
Sono 700 mila – sempre secondo le classificazioni statistiche – «le forze di lavoro potenziali», le persone che nelle ultime 4 settimane non hanno cercato lavoro ma sono mobilitabili a breve, infine ci sono gli «inattivi totali» che raggiungono quota 600 mila.
Dietro questi ultimi c’è quasi sempre un percorso accidentato di studi con bocciature e interruzioni, un basso livello di autostima e una forte dipendenza dal contesto familiare di provenienza.
Ma per calibrare gli interventi e non limitarsi a invocare misure miracolose è forse necessario capire da dentro il fenomeno Neet (in Italia «nè nè»), monitorare i loro comportamenti, le piccole mosse che maturano nel quotidiano, sapere come e dove passano la giornata.
Il programma di Garanzia Giovani avrebbe dovuto servire anche a questo ma purtroppo non è stato così. Eppure una strategia d’attacco bisognerà  darsela in tempi brevi perchè non possiamo permetterci di bruciare quasi un’intera generazione.
Un giorno qualcuno, legittimamente, ci chiederà  dove eravamo quando il Paese della Bellezza dilapidava una quantità  così rilevante di capitale umano.
Cosa fanno
In aiuto alla nostra ricognizione viene una delle poche ricerche («Ghost») su cosa fanno i Neet condotta nel 2015 da WeWorld, una Onlus impegnata nel secondo welfare.
L’indagine è articolata su più campioni, integrata da interviste individuali a giovani tra i 15 e i 29 anni e ci conferma il peso delle condizioni di disuguaglianza a monte che determinano la caduta in una trappola. In più ci aiuta a focalizzare una porzione interessante dei Neet, i volontari.
È chiaro che la scelta di fare volontariato (condivisa in Italia da un milione di coetanei, maschi e femmine alla pari) nasce come opzione di ripiego ma è pur sempre una scelta sorretta da un robusta rete valoriale e dall’incoraggiamento dei genitori che condividono/supportano.
È un antidoto al sentirsi Neet e identifica una tribù di giovani che come dicono loro stessi «non si lascia andare» .
Anzi ha persino maturato un atteggiamento critico nei confronti degli altri giovani a cui rimprovera un atteggiamento passivo, «una mancanza di progettualità ».
Senso di esclusione
I volontari seppur non contrattualizzati, non si considerano e non si sentono parcheggiati in una Onlus e quando devono parlare della loro esperienza usano la parola «lavoro».
È evidente dai racconti che avere un ambito di socializzazione serve a mitigare il senso di esclusione ma l’unica istituzione veramente amica è la famiglia.
Il 92% pensa che abbia un ruolo positivo e solo l’8% le rimprovera la condizione di Neet «perchè non ascolta i bisogni dei giovani».
Volontari o non, la fiducia nello Stato e nelle istituzioni è al 19%, nei politici al 14% e la prima parola abbinata ai partiti è «corruzione». I volontari, pur sorretti da una forte identità , sono pessimisti sul futuro, non vedono maturare miglioramenti a breve, almeno per tre anni.
Del resto è la prima grande crisi che vivono, non hanno in mente raffronti. Temono però che la recessione favorisca il dilagare di raccomandazioni e precariato e allarghi l’area del lavoro nero.
Sono coscienti che la loro attività  nelle Onlus spesso non è coerente con la formazione ricevuta ma confidano che possa aggiungere skill al proprio curriculum e in questa convinzione sono aiutati dall’opinione di molti reclutatori. Che sostengono come la gestione di attività  complesse, e spesso caratterizzate da piccole e grandi emergenze, faccia maturare in fretta.
Una vera tribù
La seconda tribù dei Neet che seppur con qualche approssimazione si può intravedere è quella degli sportivi che a sua volta ospita molte figure, dal frequentatore di palestre al tifoso ultrà .
Lo sportivo vive in un mondo in cui i valori della competizione più dura riempiono la giornata e diventano una piccola filosofia di vita.
Del resto il mondo dello sport ha giornali, tv, produce lessico, genera meccanismi di solidarietà  che creano attorno al nostro Neet un effetto-comunità  ed evitano la ghettizzazione.
Sia chiaro però: mentre il volontario interpreta tutto nella chiave del «noi», lo sportivo si trova più a suo agio usando la prima persona singolare. Anche loro non si sentono Neet perchè hanno una vita attiva e anche solo essere legati a una pratica continuativa, o meglio far parte di un club, aiuta a non sentirsi fantasmi.
A Torino è nato negli anni scorsi a cura di Action Aid un programma-pilota di recupero dei Neet (vedi intervista 2) centrato sull’attività  sportiva che insegna ad affrontare «vittorie e sconfitte e attraverso lo sport dà  la forza per riprendere gli studi o cercare lavoro».
Dentro l’ampia tribù troviamo figure diverse: il mistico del fitness, il patito del calcetto, l’atleta tesserato convinto di poter diventare un campione, il tifoso organizzato. È chiaro che a differenza dei volontari queste esperienze non si rivelano professionalizzanti, non aggiungono molto al curriculum.
Per finanziare i suoi corsi, attività  e tornei il Neet attinge alla paghetta dei genitori (che si chiama così anche nell’era di Facebook) e finisce per prolungare la condizione adolescenziale. È vero che le palestre (in Italia sono 8.500) fanno a gara nell’offrire abbonamenti a prezzi stracciati, mentre nell’ambito del tifo organizzato i gruppi giovanili spesso operano come piccole ditte, ricevono ingaggi per servizi e piccoli lavori che ridistribuiscono al loro interno per finanziare trasferte, ingressi allo stadio e coreografie.
Colpa dell’iperprotezione
Non va nascosto che in qualche caso questo tipo di attività  è monitorato dalle Questure, secondo le quali nel tempo si sono create zone grigie (la più alta quota di tifosi sottoposti a provvedimenti restrittivi – il 55% – è nell’età  18-30).
È difficile che lo sportivo trovi un lavoro stabile nel settore che lo appassiona (a meno che non sfondi) e quindi più del volontario questa si presta a essere una condizione di passaggio.
Ma il rapporto di dipendenza con la famiglia che lo sportivo perpetua è tra i motivi che fanno dire al demografo Alessandro Rosina, nel suo libro dedicato ai Neet, come «l’iperprotezione tende a mantenere immaturi più a lungo i figli, mentre nei Paesi nord-europei la spinta all’autonomia subito dopo i 20 anni porta a confrontarsi prima con la realtà  circostante».
Risultato: i giovani italiani sono nella maggior parte dei casi «passivamente dipendenti dai genitori» e «disorientati sul proprio futuro».
Arrangiarsi coi piccoli lavori
La terza tribù di Neet che si può individuare è quella di chi si arrangia con i piccoli lavori.
«Non studio ma con le promozioni lavoricchio» dice Anna, torinese. Aggiunge Silvia, una coetanea milanese: «Ho studiato come estetista, ho fatto periodi di stage in centri benessere, ho accudito bambini e ho fatto persino la donna delle pulizie».
La ricerca Ghost ci dice che l’80% degli intervistati ha avuto esperienze intermittenti, nella maggior parte dei casi un ingaggio nella ristorazione e nel commercio come cameriere, commessa, fattorino per consegne a domicilio, facchinaggio leggero e volantinaggio, dogsitting.
Un 20% ha già  fatto l’operaio per brevi periodi. Il 44% sottolinea che l’interruzione del rapporto seppur precario di lavoro è stata subita, loro avrebbero continuato.
E infatti ci tengono a smentire che i Neet stiano a vegetare davanti alla tv, i media li presentano come fannulloni e invece «noi ci sbattiamo da mattina a sera, siamo attivi».
Nella grande tribù dei lavoretti un comparto importante e per certi versi specializzato è quello femminile.
L’occupazione prevalente è la babysitter, figura richiestissima, dotata di una propria identità  sociale e abituata a fare i conti con il passaparola della reputazione.
Nelle grandi città  le stesse ragazze fanno anche spesso le hostess, attività  più stressante ma pagata tramite i voucher.
In definitiva la tribù dei lavoretti entra e esce di continuo dal mercato del lavoro, non riesce a stabilizzare un proprio profilo professionale e stenta a includere nel curriculum la maggior parte delle esperienze.
La famiglia rimane sullo sfondo, si comporta come un ammortizzatore sociale nelle fasi di totale inoccupazione, segue con trepidazione il rinvio delle scelte di vita della prole.
Nel 55% dei casi i genitori restano decisivi per scegliere il percorso di studio e sono anche il principale veicolo per cercare lavoro grazie alle conoscenze (al 32%, superando Internet al 21% e la consegna del curriculum vitae di persona al 14%). Commenta Stefano Scabbio, amministratore delegato di Manpower: «Bisogna distinguere tra lavoro intermittente e un lavoretto che manca di sviluppo professionale, è legato al breve termine e serve solo al guadagno temporaneo. Ai ragazzi per crescere servirebbe una specializzazione orizzontale e una formazione rivolta al digitale e saltando di qua e di là  non si ottengono».
I laureati
Una quarta tribù dei Neet è quella dei già  laureati, potenzialmente più occupabili ma ingabbiati anche loro. I numeri dicono che su 10 giovani Neet uno è laureato, 5 sono diplomati e 4 hanno al massimo la licenza media.
Lo riporta nel suo libro Rosina citando una ricerca Oecd e aggiunge che il rischio di restare nella trappola dell’inattività  volontaria è superiore per chi ha basse competenze.
I dati dell’ultimo Rapporto Istat dicono che un laureato impiega in media 36 mesi nel trovare lavoro, ma se è in possesso di un titolo umanistico l’attesa è più lunga.
Un laureato dunque transita nella condizione di Neet quasi a sua insaputa e finisce per alimentare il mercato delle ripetizioni a studenti più giovani (vedi intervista 4).
Su 100 docenti pomeridiani 30 sono per lo più freschi laureati. Il 90% dei ricavi non è dichiarato al Fisco e vale 800 milioni di euro l’anno, secondo stime della Fondazione Einaudi.
Un laureato disoccupato è dunque automaticamente un Neet al punto che Ivano Dionigi, ex rettore e ora presidente di Almalaurea, punta l’indice verso il sistema del 3+2, le lauree triennali deboli viste come concausa dell’allargarsi del fenomeno. E i dati gli danno ragione: i laureati disoccupati sono il 20,6% con picchi di oltre il 30% nelle specializzazioni umanistiche.
La trappola del divano
Il minimo comun denominatore delle tribù di cui abbiamo parlato è una sorta di resilienza all’apatia, il tentativo di uscire dalla trappola del divano.
Ma nel grande contenitore della disuguaglianza giovanile c’è un girone ancor più svantaggiato. È quello dei Neet endogeni, come li chiamano gli psicologi del lavoro, giovani che non si integrano a prescindere dalle condizioni esterne del mercato del lavoro.
Non si sentono adeguati ai ritmi della vita contemporanea, hanno la tendenza ad auto-isolarsi e non emanciparsi dalla famiglia, sono demotivati sul futuro.
È lo zoccolo duro dell’apartheid generazionale e le catene che li hanno bloccati rimandano quasi sempre all’eredità  negativa del contesto familiare: una storia di immigrazione, un basso livello di scolarizzazione, vivere in territori marginali, genitori disoccupati o anche solo divorziati.
Nel mondo che esalta l’innovazione, che registra il trionfo del digitale, che si prepara a governare l’intelligenza artificiale loro rappresentano la più desolata e mal illuminata delle periferie.

(da “la Stampa”)

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“DIMENTICATE DALLO STATO”, L’ULTIMO SCHIAFFO ALLE DONNE

Luglio 11th, 2016 Riccardo Fucile

CHIUSI I CENTRI ANTIVIOLENZA: TRE IN UN MESE E SOLDI BLOCCATI DALLA BUROCRAZIA… LA RETE ASSISTE 15.000 DONNE OGNI ANNO

L’avvocata Titti Carrano, presidente dell’Associazione Nazionale dei Centri Antiviolenza apre la mail del suo studio romano e non nasconde lo stupore.
«Mi ha scritto la Boschi». Cioè? «La ministra. L’abbiamo cercata a maggio, quando ha assunto le deleghe per le pari opportunità . Speravamo in un confronto».
«Lo abbiamo avuto con tutte le colleghe che l’hanno preceduta. E lo prevede la convenzione di Istanbul. Non ci ha mai risposto. Fino ad ora».
Beh, che dice la mail?
«Che a breve saremo resi partecipi costituendo l’Osservatorio previsto dal piano nazionale contro la violenza. Dunque non dice niente».
Eppure le cose su cui discutere, spiega l’avvocata, sarebbero molte. Partendo da due domande facili: perchè dopo avere firmato la convenzione di Istanbul sulla violenza di genere, varato una legge con l’intento di tutelare le donne che doveva essere una delle bandiere di questa legislatura e previsto con un decreto del 2013 la ripartizione delle risorse da destinare, lo Stato lascia morire i centri anti violenza?
E perchè i 16,5 milioni di euro distribuiti alle Regioni per i centri sono stati corrisposti solo in piccola percentuale, mentre i 18 milioni stanziati dalla legge 119 del 2013 per il 2015-2016 non stati ancora erogati?
Temi non secondari in un Paese in cui ogni due giorni una donna viene ammazzata da un uomo. Spesso il suo compagno.
E in cui ogni anno i 75 centri della rete D.i.Re. aprono le porte a quindicimila donne italiane e straniere in cerca di aiuto.
«Nonostante la previsione normative e la dimensione del problema, solo sei regioni hanno organizzato confronti con noi. Il punto è che le leggi ci sono, ma è come se non ci fossero. Perchè nessuno le rispetta. E con i soldi va anche peggio. I finanziamenti vengono stanziati. Ma la burocrazia li blocca».
Così, in attesa che qualcuno metta mano alla palude burocratica, i centri chiudono.
Gli ultimi due sono stati Le Onde di Palermo che in vent’anni ha aiutato diecimila donne e che ora è ridotto all’ascolto telefonico e Casa Fiorinda di Napoli, struttura sequestrata alla camorra.
Cicatrici che si moltiplicano, correndo dalla Sicilia alla Lombardia, dalla Sardegna, al Veneto.
«Nel frattempo, secondo i dati Istat, in Italia una donna su tre continua a essere vittima di violenza». Davvero i centri si possono trattare come se non fossero componenti chiave dell’organizzazione sociale?
La voce di Aissa
Ieri sera, alla Rocca di Imola, davano «Fuocammare», il film di Gianfranco Rosi che racconta l’emergenza immigrazione vista da Lampedusa, e la piazza era piena. È stato il centro antiviolenza Trama di Terre a organizzare l’evento.
E quando è scesa la notte, prima che lo schermo si riempisse di immagini, Aissa, che viene dalla Nigeria e che a Trama di Terra ha ritrovato una parte di sè, si è messa a cantare con tutta la voce che ha nella pancia. Era il suo modo per dire che lei esiste. E soprattutto resiste.
A 20 anni ha accumulato negli occhi e nel corpo mille volte di più dell’ orrore che un essere umano dovrebbe conoscere in una vita.
Nel suo tragitto da Lagos all’Italia, passando per la Libia, l’hanno ripetutamente violentata, picchiata, costretta ad assistere alla decapitazione e alla tortura dei suoi compagni di viaggio e di prigionia.
A ogni umiliazione ha risposto rifugiandosi nella melodia che continua a vibrarle dentro. Anche quando la barca che la portava verso la Sicilia si è ribaltata e il carburante che usciva dai serbatoi le ustionava la carne confondendosi con l’acqua salata, Aissa ha cantato.
Non aveva più la pelle delle cosce quando una nave italiana l’ha caricata. Però si affidava alla voce, proprio come ieri sera, di fronte a un piccolo popolo ipnotizzato dal suo dolore. A questo serve Trama di Terre. A consentire alle donne come Aissa di non finire nella pattumiera dell’indifferenza.
Stamattina il centro è aperto come sempre e Tiziana Dal Pra, che l’ha fondato nel 1999, è al lavoro con le sue dieci collaboratrici.
Se stanno in piedi da diciassette anni è perchè sanno come trovare i fondi – Bruxelles, i privati, la Regione, il Comune, uno sforzo estenuante che si sovrappone al lavoro quotidiano – e perchè per Imola, 68mila abitanti, il 10% stranieri, sono diventati un punto di riferimento imprescindibile, uno spazio protetto, cresciuto nel cuore del paese, che offre accoglienza, ascolto, opportunità  e ospitalità .
Vi aiuta questo governo? «Il governo Renzi, dici?». Lui. «Ma per carità , lasciamo stare. Però in Regione c’è grande sensibilità ».
Trama di Terre
Di fianco alla biblioteca interculturale, piena di libri in inglese e francese, Giulia D’Odorico organizza la giornata assieme a una mediatrice culturale.
Il problema del momento è come recuperare delle posate per una delle case e poi fissare l’appuntamento con un dentista per una madre e per il suo bambino.
Ci si occupa di tutto, «dall’ago all’elefante» dicono in Romagna, e intanto ci si preoccupa di chiarire che lo si fa per una scelta di campo.
«Una scelta politica», precisa Tiziana. «O si parte dal presupposto che la violenza di genere è un fatto e non si può risolvere con interventi emergenziali o non si va da nessuna parte».
I centri rimangono il bastione più solido del femminismo. «Esatto, femministe. Guarda il nostro cartello. Dice: leali, orgogliose, grassottelle, pacifiste, intellettuali, operaie, belle, orgogliose, giovani, etero, lesbiche. E non sai per questa parola “lesbiche” le battaglie che abbiamo dovuto fare».
Si siede in una stanza di lavoro assieme ad Alessandra Davide, responsabile del centro antiviolenze, versa nei bicchieri una bevanda allo zafferano e racconta di una signora settantenne, italiana, che dopo trent’anni di violenze ha bussato alla loro porta. «Il marito l’ha sempre menata.
Ma quando le forze gli sono venute meno si è concentrato sulla violenza psicologica. Fai schifo, non sai cucinare, sei una madre di m…. Bene, questa signora è venuta e ci ha detto: per anni mi ha picchiata. E adesso vuole farmi passare da pazza. E io non ci sto più». Viene voglia di festeggiare.
C’è un caldo che squaglia. Nel cortile donne con bambini. Italiane e africane. Schiamazzi che arrivano dalla strada. «Serve un salto culturale. E una maggiore integrazione con le istituzioni che si occupano di donne. I servizi sociali, per esempio, che hanno un approccio neutro, e anche con gli ospedali, con i pronto soccorso», dice Alessandra.
Cioè? «Spesso si confonde il conflitto con la violenza. Il conflitto è fisiologico, la violenza – fisica o psichica – è patologica e inaccettabile. A quel punto è assurdo sentire parlare dell’importanza della bi-genitorialità , come tendono a fare i servizi, o addirittura vedere il tentativo di arrivare all’affido condiviso dei bambini. La donna va difesa. E con lei i bambini, che pagano costi altissimi. Quanto agli ospedali mi limito a osservare un dato: lo scorso anno, a Imola, 142 donne sono state ricoverato a seguito di maltrattamenti accertati. Sai quante sono arrivate al centro? Una».
Tiziana la pensa come lei. «Siamo in un Paese condizionato dalla Chiesa cattolica e spesso nei pronto soccorso, quando arriva una donna violentata, le danno il farmaco contro l’Aids, ma la pillola del giorno dopo no. Fanno obiezione di coscienza. In ginecologia otto medici su dieci. C’è una legge dello Stato. Ma loro non la applicano. Chiedi al San Camillo di Roma per capire».
Obiezione di coscienza
Il San Camillo, allora, dove il reparto che accoglie le donne decise a interrompere la gravidanza è in un seminterrato al quale si accede da una scaletta esterna. «Come se ci fosse un problema di cattiva coscienza», dice la psicologa Augusta Angelucci. Eppure qui arrivano donne da tutta Italia. «Stamattina abbiamo incontrato dodici ragazze. Solo due di Roma. Le altre sono arrivate da Viterbo o da Latina. Ma spesso incontriamo ragazze siciliane o della Basilicata».
Il perchè è semplice: a casa loro l’interruzione di gravidanza, prevista dalla legge 194, non viene praticata. I medici non vogliono. E se anche vogliono trovano primari che glielo impediscono.
«Le sembra folle? E’ il caso di un mio collega con cui ero al telefono poco fa», dice Giovanna Scassellati, primaria del reparto. «Dunque noi facciamo quindici aborti al giorno. Tremila in un anno. E lavoriamo come dei pazzi perchè tra il diritto della donna e quello del medico obiettore secondo lo Stato vale più quello del medico obiettore. Ma sono convinta che si ci fosse un piccolo incentivo economico i medici obiettori si ridurrebbero di colpo. Pensi che quando per un mio problema personale sembrava che il mio posto fosse disponibile, quattro colleghi obiettori hanno firmato un foglio per dire che non lo erano più. Buffo no?».
Un problema culturale? «Un problema culturale grande come un palazzo», dice Angelucci.
Casa Fiorinda
Nord, centro, sud. La violenza non fa distinzione geografiche o di censo. I ricchi menano e offendono quanto i poveri.
Tania Castellaccio, operatrice della cooperativa sociale Dedalus e di Casa Fiorinda a Napoli, racconta la storia di una proprietaria terriera, madre di quattro figli sposata con un ricco imprenditore.
Lui la picchiava. Lei non voleva esporre la famiglia alla vergogna. Il marito la offendeva, spalleggiato dai due figli più grandi e lei ha trovato la forza di rivolgersi a Casa Fiorinda solo quando la figlia e il figlio dodicenne le hanno detto: mamma, andiamo via.
«E’ venuta da noi. Si è rivolta a un giudice e ora è rifiorita». Ad appassire è stata Casa Fiorinda. «Finito l’ultimo progetto non c’erano più i soldi. O meglio c’erano – ci sono – ma incastrati in qualche pastoia burocratica che vede contrapporsi lo Stato, la Regione e il Comune. Ma a pagare siamo noi. E le donne di Fiorinda, che ora sono state ricollocate in un centro di Pozzuoli gestito da un attivista pro life. I fondi non possono finire a chi non mette il bene delle donne in cima alle priorità », dice Lella Palladino, una delle più note femministe campane.
«Con Eva, la mia cooperativa, abbiamo assistito più di mille donne. Soldi pubblici zero. Ce li facciamo dare dalle multinazionali, che così si lavano un po’ la coscienza».
Sorride. Ma l’assenza dello Stato le fa male.
«Gli interventi pubblici sono sempre a progetto. Così quando ne finisci uno non sai mai se potrai cominciarne un altro. Ma la violenza non si ferma. Anche se lo Stato non se ne accorge e. Però non ci fermiamo neanche noi». Si alza. E abbraccia Tania che dice. «Casa Fiorinda è stata dedicata a una donna ammazzata a colpi d’ascia. Le pare che possiamo tirarci indietro?».

Andrea Malaguti
(da “la Stampa”)

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