Luglio 22nd, 2016 Riccardo Fucile
BEPPE NON VUOLE RISCHIARE DI PAGARE DI TASCA COME UNICO GARANTE, IL NIPOTE NON MOLLA IL RUOLO, CASALEGGIO JR NEPPURE: ALLA FINE LA PROPRIETA’ DEL SIMBOLO RESTA IN FAMIGLIA
Adesso il problema si chiama Grillo. Ma non inteso come Beppe. Bensì come Enrico, cioè il nipote del leader pentastellato, avvocato e vicepresidente dell’associazione M5S.
E’ nel suo studio a Genova, dove c’è la sede legale del Movimento, che il Direttorio grillino si è riunito per decidere nei fatti la nuova struttura.
Ed è qui che tra il Direttorio (Di Maio, Di Battista, Fico, Ruocco, Sibilia) ed Enrico Grillo sarebbe andato in scena un braccio di ferro sulla proprietà del simbolo M5S. Secondo quanto si apprende, il nipote di Beppe avrebbe frenato l’operazione sul marchio stellato che al momento appartiene all’associazione Movimento 5 Stelle, formata, fino alla scomparsa di Gianroberto Casaleggio nell’aprile scorso, da quattro soci: lo stesso Grillo, Casaleggio, Enrico Nadasi (commercialista di Grillo) ed Enrico Grillo.
Mentre il Movimento cambia il corso della sua storia, Beppe Grillo è in vacanza a Olbia, anche se più fonti ben accreditate avevano riferito che nel giorno del mega vertice il comico si trovava a Genova dove era stato raggiunto dal Direttorio anche per i suoi 68 anni.
Insomma, attorno alla presenza del leader pentastellato si è alimentato un giallo. Roberto Fico scrive su Facebook: “Peccato che noi cinque siamo a Genova ma Beppe è in vacanza e quindi si trova proprio in un’altra regione”.
Così un utente chiede: “Allora, per quale motivo siete a Genova?”.
In mattinata viene riferito — da fonti parlamentari – della riunione nello studio legale di Enrico Grillo, senza però lo zio.
Carlo Sibilia, dal canto suo, prova a confondere le acquee: “Nessuna riunione segreta. Non c’è nessun cambio di proprietà ”.
Luigi Di Maio va oltre: “Grillo e il suo futuro non sono in discussione nel Movimento 5 Stelle. L’unica cosa da fare – spiega – è che dobbiamo adeguare un po’ di scartoffie ad alcune ordinanze della magistratura che sono state emesse negli ultimi giorni”.
Il riferimento è alla questione dei ricorsi dopo che il tribunale di Napoli ha dato ragione agli espulsi e quindi Beppe Grillo, in quanto unico garante e presidente del Movimento, rischierebbe di rimetterci i soldi di tasca sua.
Anche per questo è stato deciso di creare un comitato di garanti ad hoc e di modificare lo statuto.
Non solo. Il passaggio storico sta nella volontà di Grillo di non essere più lui il proprietario del simbolo in quanto presidente dell’associazione.
Dell’associazione però, come è noto, fa parte anche il nipote che — secondo quanto si apprende — non sarebbe intenzionato a cedere la proprietà per lasciare tutto lo spazio ai parlamentari.
Quindi, la via di mezzo che porterebbe alla quadra – si ragiona in queste ore – sarebbe un ingresso del Direttorio nell’associazione al posto di Gianroberto Casaleggio.
In questo caso però si aprirebbe un problema enorme con alcuni deputati e i senatori ortodossi, convinti ancora che “uno vale uno” e che soffrono la sovraesposizione del Direttorio.
In questo contesto però anche l’Associazione Rousseau, fondata da Davide Casaleggio, non vuole essere esclusa.
Insomma, nella storia dei partiti le litigate su chi deve tenere il simbolo sono sempre avvenute una volta compiuta la scissione, nel caso dei 5Stelle avviene quando il leader Beppe Grillo ha deciso di fare un passo indietro causando un terremoto nel Movimento che prova a camminare sulle sue gambe.
(da “Huffingtonpost”)
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Luglio 22nd, 2016 Riccardo Fucile
TRA MENU TRICOLORE E GAFFE DI TOTI, SI DELINEA IL FUTURO PARTITO
Villa San Martino (Arcore) ore 14,15. Il menù tricolore è stato già servito a tavola. Silvio Berlusconi, un po’ stanco ma lucido, è seduto tra Gianni Letta, l’uomo della diplomazia e dalla tutela aziendale, e Valentino Valentini, l’uomo dei dossier più delicati, odiato dal cerchio magico che fu.
Il Cavaliere racconta quanto è stata dura: l’intervento, il dolore, la paura.
Poi fa ingurgitare alla riottosa nomenklatura il piatto forte del giorno: “Il partito non gira e va riorganizzato, ho chiesto a Stefano Parisi di fare una due diligence. È un manager, un tecnico, chi meglio di lui? Personalmente lo stimo e penso possa essere utile”.
La nomenklatura azzurra ascolta con rispettoso silenzio. Attorno al tavolo i capigruppo di camera e Senato, i vice. E poi: Antonio Tajani, Mara Carfagna, Maurizio Gasparri, Altero Matteoli, Gregorio Fontana, Sestino Giacomoni e Giovanni Toti
Olive, mozzarelline, pomodorini, per antipasto. Maccheroncini tricolori. Un trionfo di verdure, tricolori anch’essi.
Tutto è politica ad Arcore, compreso il ritorno del menù abolito nell’era del “cerchio magico”.
Meno digeribile la pietanza del partito e della sua riorganizzazione, che è stata già affidata a Stefano Parisi, da Berlusconi, Letta e Confalonieri.
E che prevede la chiusura di Forza Italia e l’apertura di una nuova ditta, con molta società civile e pochi politici di professione.
Stefano Parisi, manager, ha il ruolo chiave di studiarla, pensarla, realizzarla: “Parisi — dice Berlusconi – è un tecnico, non un professionista della politica, che può darci una mano a far girare un partito che non va”.
Nel favoloso mondo berlusconiano, molto meno decisionista di come lo si rappresenta e si autorappresenta, tutto accade in modo poco lineare.
Berlusconi, consapevole dell’ostilità dei commensali all’idea, fa come ha sempre fatto. E cioè tira dentro Parisi, senza investirlo ufficialmente.
Un po’ come fece con Giovanni Toti, quando doveva fare fuori Raffaele Fitto. Fu prima inserito alle riunioni, poi nominato consigliere politico, poi candidato. E infatti il “contributo di Parisi” è nominato nel comunicato finale in cui si annuncia il rilancio del partito. Non una designazione ma l’inizio di un percorso.
Al giro di tavolo emerge la contrarietà a Parisi, secondo una scientifica divisione dei ruolo messa a punto in tanti pranzi e riunioni.
La critica è dolce e prudente nell’intervento della Gelmini, dura in quello di Romani, una clava in quello di Matteoli: “Presidente, Parisi non può venire qua a insegnarci come si fa la politica”.
Gran finale, Giovanni Toti: “Il programma che ha illustrato Parisi non è tecnico, è politico. In politica non ci si può improvvisare, ci vuole esperienza”.
Una frase giudicata poco felice dai commensali che ricordano quando fu preso da Mediaset e improvvisato politico alla bisogna.
Alla fine della riunione lo spin di Toti per i giornalisti è: “Nessuna nomina, Parisi è solo un contributo come gli altri. A Berlusconi non è piaciuta la sua intervista”.
Un paio d’ore scarse, una fatica per Berlusconi, tanto lucido di testa quanto ancora molto fragile di corpo.
Che però il vecchio leader ha voluto sopportare non per amore nei confronti dei presenti che comincia a non sopportare più, ma sia per introdurre il discorso Parisi che maturerà a settembre sia per dare un’idea di normalità : la riunione ad Arcore, il comunicato, la notizia che esce sui giornali.
Un modo per dire “ci siamo”.
Non doveva essere il luogo delle decisioni, che sono già state prese altrove. Felice Renato Brunetta, il più lineare e il meno tramatore di tutti.
Che ha incassato, nel comunicato finale il no al referendum, la madre di tutte le battaglie, da cui dipenderà il futuro del governo, del sistema politico e dei singoli partiti.
Il resto, ripete, “sono chiacchiere”. Dategli torto.
(da “Huffingtonpost”)
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Luglio 22nd, 2016 Riccardo Fucile
LA POLIZIA: “AL MOMENTO NESSUNA INDICAZIONE DI PISTA ISLAMICA”… UNO DEGLI ATTENTATORI: “SONO TEDESCO, STRANIERI DI MERDA”
Monaco di Baviera è sotto assedio per un attentato terroristico in corso.
Le autorità hanno dichiarato “lo stato d’emergenza” in tutta la città . Arrivate le forze Speciali Gsg9 della polizia per dare la caccia ai tre sospetti attentatori che al centro commerciale Olympia hanno ucciso almeno 6 persone ferendone molte altre.
La polizia ha anche esortato i cittadini di tutta la città – dove ogni trasporto pubblico è stato sospeso – a restare in casa. In un comunicato ufficiale la polizia di Monaco ha parlato di una “grave situazione terroristica”.
Tutto è iniziato poco prima delle 18 in un fast food nel centro commerciale nel quartiere Moosach, la zona che ospitò il villaggio delle Olimpiadi del 1972, ma per parlare di terrorismo la polizia ha atteso le 20.
Le esplosioni si sentono chiaramente in un video amatoriale trasmesso dalle tv all news tedesche, in cui si vede la gente in fuga e un uomo che esce dal McDonald’s con una pistola in mano sparando sui passanti. Non si sa ancora chi lo abbia pubblicato su Twitter.
C’era anche un uomo che sparava dal tetto del centro commerciale.
Lo riferiscono testimoni ai media locali, mentre le tv mostrano un video che mostra appunto un uomo, molto probabilmente armato, sul tetto del centro commerciale. “Testimoni hanno riferito di tre persone con armi da fuoco”: lo scrive la polizia di Monaco sulla sua pagina Facebook
Secondo il quotidiano Tagersspiegel, che cita fonti della polizia, almeno uno dei tre killer che ha aperto il fuoco avrebbe indossato un giubbotto antiproiettile.
Le stesse fonti riferiscono che gli attentatori sarebbero armati con fucili d’assalto. Testimoni oculari hanno detto che gli autori della sparatoria imbracciavano “fucili” e hanno sparato a caso sui passanti. Lo ha riferito la tv bavarese Br, aggiungendo che le motivazioni dell’attacco sono ancora ignote.
Il giornale ha anche pubblicato un video, che sembra girato da un edificio sovrastante al tetto del supermercato della sparatoria, in cui si vede il presunto attentatore. Secondo il quotidiano il presunto terrorista urla “sono tedesco”.
La tv N24 ha riferito che una testimone oculare avrebbe sentito uno dei tre attentatori gridare “stranieri di merda”.
La notizia non ha al momento una conferma ufficiale ma viene riferita anche dal sito del quotidiano locale Abendzeitung citando “altri testimoni”, ma aggiunge che si tratta di “voci”.
Il sito della rivista tedesca Focus riferisce che sarebbe stato arrestato uno dei tre terroristi. Ma la polizia ha smentito.
In centro si sono diffuse voci, anche queste poi smentite, di altri attentati. Ci sono state scene di panico, le persone che affollavano l’area pedonale hanno gridato, alcune sono scoppiate in lacrime, accentuando il caos.
La situazione resta totalmente caotica. Testimoni oculari riferiscono che tutti i negozi del centro di Monaco sono chiusi con i clienti asserragliati all’interno che non escono. La stessa polizia ha lanciato l’appello a non percorrere le piazze e a cercare rifugio dove possibile.
Oltre ad evacuare tutta la metro la polizia ha chiuso la stazione centrale della città bavarese, la Hauptbahnof. Bloccati tutti i treni in arrivo e in partenza. In stazione la gente ha iniziato a camminare sui binari per scappare. Il traffico automobilistico in entrata verso la città è bloccato. Fermi i trasporti pubblici
Una portavoce delle forze dell’ordine ha confermato che nel centro è in corso una seconda operazione di polizia, separata rispetto a quella scattata in seguito alla sparatoria nel centro commerciale.
Testimoni citati dalla stampa locale hanno parlato di 15 corpi a terra. Altre fonti riferiscono di almeno sei morti.
“Al momento è in corso una grande operazione, si prega di evitare la zona”, scrive la polizia di Monaco di Baviera su Twitter. “A causa della situazione ancora poco chiara chiediamo a tutte le persone nell’area urbana di Monaco di stare a casa o di cercare protezione negli edifici vicini a dove si trovano”, afferma ancora la polizia
“La polizia è molto nervosa, gruppi di 10-12 poliziotti pattugliano la zona dove è avvenuta la sparatoria e si muovono armi alla mano in tutte le direzioni”, riferisce un reporter della tv pubblica bavarese Br sul luogo.
Sul posto sono giunte le truppe speciali, pompieri e decine di ambulanze. “L’intera zona attorno al centro commerciale Olympia è stata evacuata, l’azione della polizia è in corso”.
Il presidente della Baviera Horst Seehofer e il ministro dell’Interno del Land Joachim Hermann hanno riunito l’unità di crisi alla cancelleria di Monaco. Hermann è rientrato precipitosamente in città appena avuta notizia della sparatoria.
La Farnesina ha attivato l’Unità di crisi. Lo ha annunciato il ministero degli Esteri in un tweet. Sono in corso verifiche con il consolato generale italiano
I social media hanno attivato un “safety check” dopo l’attentato di Monaco per far sapere ad amici e followers che si sta bene. E come già accaduto in altri attentati diversi abitanti di Monaco offrono ospitalità a chi è rimasto in mezzo alla strada. Usano su Twitter l’hashtag #OffeneTà¼r oppure #opendoor, ovvero ‘porta aperta’ in tedesco e inglese, per informare la gente dove è possibile rifugiarsi.
(da “la Repubblica”)
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Luglio 22nd, 2016 Riccardo Fucile
PER IL 75% GLI ATTENTATI DELL’ISIS NON METTONO IN PERICOLO LA SOCIETA’ MULTICULTURALE
Gli italiani sono contro le maniere forti ma per una maggiore prevenzione nel contrasto al fondamentalismo islamico.
E’ quanto emerge da un sondaggio condotto da Ixè per la trasmissione di Rai Tre Agorà .
Il 69% degli intervistati ritiene che nei confronti del fondamentalismo servirebbe una maggiore prevenzione, secondo un sondaggio Ixè per Agorà Estate (Raitre).
Per il 29% andrebbero usate invece le maniere forti.
Non solo: per il 75% degli italiani gli attentati ad opera dell’ISIS che hanno colpito l’Europa nel 2015 – 16 non mettono a rischio la società multiculturale.
Solo per il 23% invece questa integrazione è a rischio.
E ancora: il 63% degli italiani non è d’accordo con la dichiarazione del premier Valls, che ritiene di essere in guerra con i terroristi dell’ISIS, secondo un sondaggio Ixè per Agorà Estate (Raitre).
Il 36% invece pensa che siamo in conflitto con i terroristi.
Quanto al recente attacco di Nizza, il 42% degli italiani crede che l’attentatore dello scorso 14 luglio sia un soldato dei terroristi dell’ISIS.
Ma per la maggioranza degli intervistati, il 51%, era solo un emarginato con problemi psichici.
Infine, a proposito delle presidenziali Usa, il 69% degli italiani voterebbe per la candidata democratica Hillary Clinton.
Solo il 19% darebbe fiducia al candidato repubblicano Donald Trump.
(da “Huffingtonpost“)
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Luglio 22nd, 2016 Riccardo Fucile
IL SETTIMANALE ECONOMICO NON SI FIDA DEI CINQUESTELLE AL GOVERNO: “IL LORO PROGRAMMA UN GROVIGLIO DI INGENUITA’ E CINISMO”
“Un partito che ha davanti un chiaro sentiero verso la vittoria ma nozioni ambigue su cosa fare se vince”.
Così il settimanale britannico The Economist analizza, in un lungo articolo da Torino, la “questione” Cinque Stelle con un attenzione particolare sulla vittoria di Chiara Appendino.
“La difficile prospettiva economica è una delle ragioni per cui alle scorse Comunali” Appendino “ha posto fine a 23 anni di governo del centrosinistra” a Torino, scrive The Economist allargando poi il raggio a tutto il Movimento.
“Il suo più grande vantaggio ad attrarre sia a destra sia a sinistra”, osserva il settimanale londinese spiegando come questa particolarità renda i 5 Stelle “molto efficaci” in un sistema a doppio turno.
E, ricorda The Economist, grazie alla nuova legge elettorale l’Italia ha un sistema a doppio turno “non solo a livello locale ma anche nazionale”.
Ma, sottolinea il foglio d’Oltremanica, “il M5S è impreparato a governare. I suoi impulsi di destra e di sinistra sono in tensione” e, “peggio, gli sforzi del Movimento per stimolare gli input dai cittadini sono, sebbene lodevoli, hanno lasciato il loro programma in un groviglio di ingenuità , ambiguità e cinismo”, scrive The Economist facendo alcuni esempi: “la loro politica estera è pervasa di anti-americanismo” laddove sul piano economico viene proposto un referendum sull’euro che “può essere incostituzionali”. Ma, “coerenti o meno, i 5 Stelle sono popolari e, al ballottaggio, secondo i sondaggi vincerebbe. E l’Italia potrebbe ritrovarsi a dare più potere al suo governo solo per eleggere un partito che non ha idea di come usarlo”.
(da “Huffingtonpost“)
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Luglio 22nd, 2016 Riccardo Fucile
DALL’800 L’ORO NERO ERA IL RISCATTO DEI CAMALLI
Nel linguaggio portuale, le merci «alla rinfusa», secche o liquide, sono quelle che viaggiano nelle stive senza essere imballate.
Durante l’epoca del vapore, il carbone che alimentava fabbriche, treni e le stesse navi che lo trasportavano, era il principe delle rinfuse: nel 1900, a Genova, di questa merce ne venivano scaricate 2 milioni di tonnellate.
Stasera la nave «Interlink Veracity» consegnerà sotto la Lanterna le ultime 20 mila tonnellate di combustibile destinate alla centrale Enel del porto.
Trasmesso l’ultimo watt di energia, si inizierà lo smantellamento dell’area per riconsegnarla al demanio.
In base agli accordi, tutto dovrà tornare come al 1929, quando l’impianto iniziò l’attività .
Rimarrà solo il corpo centrale, sotto vincolo dei Beni culturali, la cui futura destinazione con buone probabilità sarà nei prossimi decenni argomento di campagne elettorali e dibattiti nei bar.
Dopo la «Interlink», il porto di Genova terminerà di movimentare carbone.
In termini di salute umana e dell’ambiente, è un’ottima notizia. In termini storici, si chiude un’epoca: se oggi la metà dei traffici del porto è costituita dal greggio, fino al secondo dopoguerra questa quota era coperta proprio dalla rinfusa nera.
A inizio ‘900, dei 7.000 lavoratori avviati quotidianamente al lavoro di banchina, 3.500 erano carbunè, divisi in facchini, coffinanti, scaricatori, pesatori.
Le navi in arrivo da Germania e Gran Bretagna affollavano la rada del porto, il carbone, scrive Pierfrancesco Pellizzetti nel saggio «Ragnatela di mare», era scaricato mediante chiatta, stipato in coffe (ceste) da 150 chili l’una, portate a spalla dai facchini lungo assi sospese larghe 30 centimetri.
Ogni giorno si caricavano 350-400 vagoni ferroviari destinati ad alimentare le industrie del Nord Italia, la giornata nella stagione mite arrivava a 14 ore, con paghe tra 2 e 5 lire.
Quando sotto l’azione di Gino Murialdi i lavoratori del carbone ottennero la loro prima casa in porto, una delle prime conquiste furono le docce, che portavano via la fuliggine di giornata.
Il carbone fu lo strumento attraverso cui i portuali poterono riscattarsi, lottando contro il caporalato, ottenendo potere negoziale verso la committenza, organizzandosi in lega per la prima volta nel 1892, dividendosi in cooperative, riunendosi in compagnia durante il fascismo, riformandosi sotto il nome di «Pietro Chiesa» nel dopoguerra. Con Murialdi, organizzatore della Compagnia, Chiesa fu il tribuno dei carbunè, e il primo firmatario del loro contratto collettivo di categoria.
Piemontese e socialista riformista come Murialdi, Chiesa fu anche il primo operaio in Parlamento e fondatore a Genova de Il Lavoro, il giornale della classe lavoratrice, essenziale strumento di affrancamento in quegli anni duri.
Gli ultimi elevatori a traliccio su Ponte Rubattino vennero abbattuti dopo la tromba d’aria del 1994, nella quale morì il gruista Armando Pinelli.
Il Terminal Rinfuse rimase con le gru che si vedono oggi, e che hanno una quarantina d’anni di attività .
Oggi la Compagnia ha 30 soci lavoratori, con stipendio da 600 a 1.200 euro al mese.
Il carbone serviva solo più alla centrale Enel, ma sul Terminal (il cui ultimo proprietario, il gruppo Ascheri, è in concordato preventivo) arriva ancora petcoke, clinker e ceneri per i cementifici, sabbie varie per la produzione di piastrelle, silicio per l’hi-tech, sale quando l’inverno gela le strade.
Recuperare con altra merce le 300 mila tonnellate annue di carbone garantite dalla vecchia centrale non è facile, ma nessuno in questo angolo di porto sotto la Lanterna vuole arrendersi.
Non l’otto volte console della Pietro Chiesa, Tirreno Bianchi («non cambieremo mai nome: carbunè è il nostro marchio e non lo lasceremo»), non il terminalista Augusto Ascheri che impiega 40 persone e che è in trattativa per cercare un nuovo partner industriale: negli ultimi è emersa una trattativa con la famiglia Ottolenghi, industriali partiti da Torino che hanno fatto di Ravenna il primo porto rinfusiero in Italia. Nemmeno l’armatore della «Interlink», Pietro Repetto della Levantina Bulk: «Bisogna guardare avanti, senza piangersi addosso. Finisce l’epoca del carbone, è vero. Ma questa rimane una città con potenzialità enormi: è da quest’idea che dobbiamo ripartire. I mugugni non servono a nulla».
Alberto Quarati
(da “la Stampa”)
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Luglio 22nd, 2016 Riccardo Fucile
USA, CINA, GIAPPONE, FRANCIA, GRAN BRETAGNA E GERMANIA ACCOLGONO SOLO 2 MILIONI DI PROFUGHI, MENTRE GIORDANIA, LIBANO, TURCHIA, SUD AFRICA, PAKISTAN E PALESTINESI NE ACCOLGONO 12 MILIONI
Ricche lo sono certamente. Ma, qualche volta, non nella solidarietà : sono le grandi potenze economiche mondiali.
In quante occasioni, in rissosi talk show televisivi, sentiamo qualche ospite gridare alla cosiddetta “invasione” di migranti e richiedenti asilo in arrivo.
Ebbene, di fronte a questo tentativo di aumentare la paura nell’opinione pubblica, spesso non basta appellarsi a quei principi di ospitalità e inclusione che sono – e dovrebbero continuare ad essere – a fondamento della cultura europea.
Occorre quindi riportare la discussione sui dati. Oggettivi. Incontestabili.
E i dati dicono che i sei paesi più ricchi nel mondo – Stati Uniti, Cina, Giappone, Germania, Francia e Regno Unito – pur contribuendo per più della metà all’economia globale, ospitano meno del 9% dei rifugiati.
Mentre altri sei paesi, ben più poveri ma vicini alle peggiori aeree di crisi, si stanno facendo carico del 50,2% dei rifugiati e richiedenti asilo di tutto il mondo.
Sono le cifre inserite nel rapporto di Oxfam “La misera accoglienza dei ricchi del mondo”.
Numeri che riportano su un piano di realtà , le dimensioni di un fenomeno troppo spesso affrontato con frasi fatte e non a partire dalle sue dimensioni reali.
Il rapporto rivela infatti, come l’anno scorso le sei maggiori economie del pianeta hanno ospitato complessivamente 2,1 milioni di rifugiati e richiedenti asilo, ossia solo l’8,88% del totale.
Un dato molto inferiore alla risposta di Giordania, Turchia, Libano, Sud Africa, Pakistan e Territorio Palestinese Occupato che – pur rappresentando meno del 2% dell’economia mondiale – hanno accolto oltre 11,9 milioni di persone.
In questo contesto i numeri relativi all’Italia, che ospita 134.997 persone (lo 0,6% del totale), sono ancora lontani da quelli raggiunti dalla Germania nell’ultimo anno. Questo paese infatti, in controtendenza rispetto alle altre cinque maggiori economie mondiali, ha aumentato il numero dei rifugiati accolti entro i propri confini arrivando a 736.740 persone.
Il rapporto di Oxfam ci dice, in sintesi, che anche sul fronte dell’accoglienza si può dare di più. Molto di più.
Per dare una speranza a 65 milioni di uomini, donne, anziani e bambini – il più alto numero mai registrato – in fuga da conflitti, persecuzioni e violenza e troppo spesso obbligati a rischiare la propria vita per raggiungere un luogo sicuro.
Siamo di fronte a una sfida complessa, che richiede una risposta globale ben coordinata e responsabilità condivise per affrontare due temi cruciali come l’accoglienza e la risoluzione dei conflitti e delle cause di instabilità in Siria, ma anche in altri paesi come Sud Sudan, Burundi, Iraq e Yemen.
A New York, il 19 e 20 settembre, la comunità internazionale affronterà il tema delle migrazioni con due summit di alto livello, convocati da Ban Ki Moon e da Barack Obama.
I due leader, giunti entrambi al termine del proprio mandato, avranno quindi l’occasione di fare la storia anche su questo tema, determinando una inversione di tendenza nel modo in cui fino ad oggi le persone in fuga sono state accolte e protette. Questo sarà possibile innanzitutto rigettando accordi che delegano ai paesi più vulnerabili e vicini alle aree di crisi il ruolo di guardiani delle frontiere delle aree più ricche del mondo, a scapito dei diritti delle persone che questi accordi dovrebbero – prima di tutto – proteggere.
E’ quello che è avvenuto con l’accordo UE-Turchia, che dalla sua entrata in vigore ha lasciato migliaia di uomini, donne e bambini in condizioni critiche e in assenza di certezze sui propri diritti, e che adesso rischia di essere visto come un precedente da altri paesi. Il Kenya, a esempio, ha annunciato la chiusura del campo profughi di Dadaab, affermando che, se l’Europa può permettersi di non accogliere i siriani, allora il suo governo può fare altrettanto con i somali.
Un altro modello è però possibile.
Basta avere la volontà politica di proteggere i diritti umani delle persone che oggi sono costrette a fuggire e quella di gestire il processo migratorio: un fenomeno che ha sempre determinato la storia del mondo e lo sviluppo del nostro pianeta.
Per questo Oxfam, con la petizione globale Stand As One, insieme alle persone in fuga,(che in un mese ha già raccolto più di 100.000 firme on line e in eventi pubblici), chiede ai leader dei paesi più ricchi di accogliere un maggior numero di rifugiati e, allo stesso tempo, di aumentare sostanzialmente gli aiuti a quei paesi che oggi ospitano la maggior parte delle persone costrette a fuggire.
Aiuti che devono essere volti a lottare contro la povertà , garantendo ai cittadini di quei paesi e ai rifugiati lì ospitati una accoglienza dignitosa e reali opportunità di lavoro, integrazione, educazione.
E’ qualcosa di possibile, realistico, necessario. È un investimento sul futuro.
Quello che una politica alta, nobile, espressione di una vera “comunità internazionale”, dovrebbe garantire.
(da “Huffingtonpost“)
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Luglio 22nd, 2016 Riccardo Fucile
LA DENUNCIA DI INPS E IRS… IL 44% DEI NUCLEI PIU’ DISAGIATI NON RICEVE ALCUN SOSTEGNO ECONOMICO
Sono diciotto i miliardi pubblici destinati sulla carta ogni anno agli anziani poveri.
Ma di questi, quasi cinque finiscono in mano a famiglie che povere certamente non sono, perchè guadagnano più di 23 mila euro netti l’anno.
Nelle stesse tasche va anche il 16% delle spese per assegni familiari e detrazioni per i figli a carico.
Tiriamo le somme: un quarto di tutte le spese statali per prestazioni assistenziali va a chi ha redditi più che dignitosi.
E una parte di queste a famiglie decisamente benestanti.
A darci il senso di un welfare malato di strabismo sono due recenti rapporti: uno dell’Inps, l’altro dell’Irs, l’Istituto per la ricerca sociale. E proprio ieri il presidente dell’Inps Tito Boeri, in audizione al Senato, ha ricordato gli effetti di questo parziale rovesciamento dello stato sociale.
Ma se c’è chi ha ricevuto aiuti avendone meno bisogno di altri, non c’è da stupirsi se, come rende noto lo stesso Irs, il 44 per cento delle famiglie italiane in povertà assoluta finisce per non ricevere alcun sostegno economico dallo Stato.
E’ sullo sfondo di questo fallimento, di questa clamorosa eterogenesi dei fini, che sono intervenuti a peggiorare le cose gli effetti catastrofici della lunga recessione italiana.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti: un aumento della povertà assoluta, che ormai coinvolge 4 milioni 600 mila persone, il 7,6% della popolazione.
Uno scenario così fosco ha convinto il governo a rilanciare la lotta alla povertà , prevedendo per la prima volta un “reddito di inclusione”, primo passo verso quel reddito minimo già attivo in quasi tutti i paesi europei, con l’eccezione della Grecia e appunto dell’Italia.
Sperimentato finora in 12 città , il Sostegno per l’inclusione attiva (Sia) – così si chiama il nuovo strumento – dal 2 settembre prossimo sarà esteso a tutta l’Italia.
A partire da quel giorno i potenziali beneficiari potranno fare domanda e dopo due mesi avere il primo aiuto economico. Ottanta euro a testa, 320 per una coppia con due figli, tetto di 400 euro.
Ma chi lo prenderà ? Quanta parte dei 4,6 milioni poveri assoluti?
La lista dei requisiti non è breve e neppure semplice.
Devi avere un Isee (indicatore della situazione economica) inferiore o uguale a 3 mila euro, non avere altri trattamenti economici pari o superiori a 600 euro, non possedere (nè tu nè alcun altro familiare) auto immatricolate nell’ultimo anno di cilindrata oltre 1300, oppure moto oltre i 250 immatricolate negli ultimi tre anni.
Ma soprattutto nella tua famiglia deve esserci un minore o un figlio disabile o una donna in stato di gravidanza accertata.
E non basta ancora: per avere il beneficio devi totalizzare almeno 45 punti legati a situazioni di particolare disagio: 25 se sei genitore single, 20 se hai 3 figli minorenni, 10 se un familiare non è autosufficiente, e così via.
Questa serie di condizioni limita i beneficiari a 800 mila, un milione di persone, di cui quasi mezzo milione di minori.
Con una spesa di 750 milioni.
Il ministro Poletti spera di raddoppiare il prossimo anno e di coprire in prospettiva un milione di minori. Ma per ora le finanze pubbliche non consentono più di questo.
Altri 160 milioni l’anno verranno dai fondi europei e con questi i Comuni dovranno attivare le misure di inclusione sociale e lavorativa degli stessi poveri.
L’intenzione del governo, insomma, è di creare una misura anti-povertà unica a livello nazionale e di carattere universale. Ma questo imporrebbe di riordinare quell’intricato coacervo di interventi occasionali, scollegati fra loro, al quale abbiamo dato il nome di assistenza sociale.
Di rimetter mano proprio a quel sistema frammentato e illogico che ha permesso di destinare gran parte della spesa assistenziale anche alle famiglie agiate.
Facciamo qualche esempio. Le detrazioni per i figli a carico ignorano gli incapienti, i quali guadagnano così poco che l’imposta dovuta è più bassa della detrazione che spetterebbe loro.
E avvantaggiano invece per un 20% (rende noto l’Inps) il 30% più ricco delle famiglie, grazie al fatto – spiega Boeri – che si ha diritto allo sconto anche se il reddito familiare è elevato.
Se poi ad essere incapiente è un lavoratore autonomo, non prenderà neppure l’assegno per il nucleo familiare.
Distorsioni meno gravi pesano sugli anziani poveri.
Per loro ci sono ben otto prestazioni Inps per nulla coordinate e con diversi sistemi di calcolo del reddito richiesto.
Il risultato che un terzo circa delle integrazioni al minimo (le stesse alle quali Matteo Renzi vorrebbe estendere gli 80 euro) va a famiglie sicuramente non povere (oltre i 23 mila euro di reddito disponibile equivalente).
Molte di queste riescono infatti ad avere ugualmente l’aiuto finanziario anche se in famiglia ci sono figli o altri parenti benestanti.
E che dire del nuovo sostegno ai disoccupati, l’Asdi, che esclude chi è senza lavoro da molto tempo? Lo stesso “reddito di inclusione” che sta lanciando il governo lascia a bocca asciutta molte famiglie, a cominciare da tutti i poveri maggiorenni che non vivono con minori.
Insomma, è difficile creare un sistema omogeneo di regole anti- povertà , come vorrebbe il governo, senza rimetter mano alla miriade di misure del passato. Eventualità che tuttavia è stata in gran parte già esclusa dal piano governativo.
Tanto da far dire a Boeri che il Sostegno di inclusione attiva “è un primo passo importante verso una misura universale, ma non ancora sufficiente “.
Marco Ruffolo
(da “La Repubblica”)
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Luglio 22nd, 2016 Riccardo Fucile
UNA FONDAZIONE CHE DOVREBBE ASSISTERE GLI ANZIANI, VICINA ALLA DIRIGENZA ROSSONERA, CEDE APPARTAMENTI DI LUSSO A PREZZI DI FAVORE… BENEFICIARI ANCHE TRE GIOCATORI DEL MILAN
La Fondazione Opera Pia Castiglioni Onlus di Milano è un ente di assistenza e beneficenza. Per statuto è chiamata ad assistere persone bisognose, soprattutto anziani in difficoltà .
Le sue finalità caritatevoli sono definite in modo chiaro nell’oggetto sociale depositato alla camera di commercio.
Resta invece ignoto il motivo che ha spinto questa fondazione, che riceve finanziamenti anche a fondo perduto dalla Regione Lombardia, a vendere il proprio patrimonio immobiliare ad alcuni dei campioni che hanno regalato al Milan di Silvio Berlusconi il suo ultimo scudetto, come Ignazio Abate, Zlatan Ibrahimovic e Marek Jankulovski.
A rivelarlo è un’inchiesta giornalistica de l’Espresso, che ricostruisce, attraverso testimonianze, documenti, visure societarie e catastali, l’intera storia degli immobili che l’ente lombardo di assistenza agli anziani ha ceduto a trattativa privata, nel 2011, alle stelle del calcio, a prezzi molto vantaggiosi.
Sul caso, scrive sempre il settimanale, indaga la Procura di Milano con la Guardia di Finanza.
Il procedimento è affidato al pm Giovanni Polizzi, lo stesso magistrato che ha incriminato per corruzione il politico e imprenditore di residenze per anziani Mario Mantovani, ex senatore di Forza Italia e vicepresidente nonchè assessore alla Sanità della giunta Maroni fino all’arresto, nell’ottobre 2015.
Tornato in libertà , ora Mantovani è sotto processo, ma è sempre consigliere regionale. L’ordinanza d’arresto documenta i suoi stretti rapporti con il presidente dell’Opera Pia Castiglioni, Michele Franceschina.
A sua volta Mantovani, già sottosegretario del governo Berlusconi, è da vent’anni uno dei politici lombardi più vicini al leader di Forza Italia.
I documenti raccolti da l’Espresso mostrano che il presidente dell’Opera Pia Castiglioni ha venduto a personaggi legati al Milan, tra cui alcuni calciatori che avevano vinto il campionato del 2011, una serie di appartamenti e negozi in un palazzo signorile in via Legnano, nel pieno centro di Milano, con vista sul Castello Sforzesco e sul parco Sempione.
Gli immobili risultano ceduti a prezzi molto favorevoli: meno della metà del valore di mercato stimato dall’Agenzia delle entrate per appartamenti dello stesso tipo e posizione.
Paolo Biondani e Giuseppe Oddo
(da “L’Espresso“)
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