Luglio 1st, 2016 Riccardo Fucile
LA LOMBARDI INSISTE PER UN RUOLO DI PRIMO PIANO A FAVORE DI DE VITO… DI MAIO OTTIENE UN ASSESSORATO PER LA FEDELE LAURA BALDASSARRE
Prima il “fuoco amico” di Roberta Lombardi sulla nomina del vicecapo di gabinetto di Virginia Raggi indicato come “filo-Alemanno”.
Poi i dubbi di Marcello De Vito, mister preferenze del M5S sull’annuncio della giunta: «È probabile ma non certo», dice, che arrivi il 7 luglio, durante la prima seduta del consiglio comunale.
Una formula vaga quanto basta che segnala, ancora una volta, le difficoltà che la sindaca a 5 Stelle sta riscontrando nel comporre la sua squadra.
Parole che, al netto dello svarione sul regolamento (un sindaco è obbligato a presentare la sua squadra durante il primo consiglio comunale) riportano all’interno del M5S le criticità dei primi 12 giorni di governo Raggi.
La sindaca, al momento, appare stretta tra le correnti, nel mirino proprio della Lombardi, deputata romana e componente di peso del “mini-direttorio” che supporta la neo eletta. Ma, soprattutto, primo sponsor di De Vito che lei avrebbe voluto come candidato al Campidoglio
Bisogna partire da qui per provare a leggere le prime mosse della Raggi, unica tra i sindaci eletti il 19 giugno a non avere completato la sua giunta.
E vale la pena tornare alle Comunarie 5 Stelle di febbraio, che vedevano contrapposti De Vito (già candidato nel 2013 contro Ignazio Marino, “portato” dalla Lombardi) e Raggi (sostenuta da Alessandro Di Battista).
Vinse quest’ultima e proprio Di Battista, pubblicamente, tentò la mediazione: «Il candidato sindaco che vincerà , nomini il secondo arrivato come vicesindaco».
Una proposta destinata a naufragare di fronte alla netta contrarietà della Raggi che per quel ruolo, già allora, avrebbe preferito di gran lunga Daniele Frongia, suo braccio destro
Cinque mesi dopo, nonostante il 67% al ballottaggio, la sindaca ha dovuto sottostare ai veti interni: il suo no a De Vito vicesindaco (dirottato ora alla presidenza dell’Assemblea capitolina) ha scosso i delicati equilibri del M5S.
E così, la Raggi, come contraccolpo, è stata costretta a rinunciare a Frongia in giunta, nominandolo capo di gabinetto.
Col doppio risultato di lasciare scoperta la casella di vicesindaco che ora andrà a un esterno al M5S (a Livorno e a Parma quell’incarico è stato assegnato al più votato in consiglio). E spostando Frongia alla guida del suo gabinetto.
Per supportare quest’ultimo (che, a causa della legge Severino non può firmare atti di spesa) è stato “ingaggiato” come suo vice-Marra, criticato due giorni fa dalla Lombardi
Ora, nonostante non sia stata resa pubblica l’ordinanza di nomina, filtra che l’incarico del dirigente capitolino (che ha lavorato anche alla Regione Lazio sotto Renata Polverini) sarà «a tempo». Durerà , dicono, 10-15 giorni, il tempo di mettere in moto la macchina amministrativa.
Poi verrà sostituito (forse da un magistrato) e lui potrebbe andare a ricoprire un altro ruolo
Al di là del caso specifico, resta la conflittualità mai sopita con la Lombardi che, al momento, non vedrebbe riconosciuto il suo peso in giunta.
Al contrario di Luigi Di Maio, ad esempio, che potrebbe incassare la nomina dell’assessore al Sociale, Laura Baldassarre, collaboratrice (in Unicef e al Garante dell’infanzia) di Vincenzo Spadafora che per Di Maio cura i rapporti istituzionali.
Le posizioni da occupare all’interno dell’amministrazione, però, sono ancora tante e la Lombardi sembra stia premendo per avere persone di riferimento all’Urbanistica e al Patrimonio
Mauro Favale
(da “La Repubblica”)
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Luglio 1st, 2016 Riccardo Fucile
A RISCHIO L’UOMO CHE HA GESTITO LA CAMPAGNA DI VIRGINIA, CONSIDERATO TROPPO INDIPENDENTE DALLO STAFF
Di solito, per consuetudine e anche per logica, il sindaco di Roma fa due nomine quasi sempre contestualmente: il capo di gabinetto e il portavoce.
Sono due ruoli fortemente politici, due veri bracci destri del sindaco, un po’ come nei giornali il vicedirettore e il caporedattore centrale.
Invece ieri l’altro Virginia Raggi ha nominato soltanto il capo di gabinetto, Daniele Frongia. Come mai, cosa sta succedendo?
La Stampa può raccontarlo con precisione: si è aperta una feroce guerra interna sulla nomina del portavoce.
Una guerra la cui posta in gioco va molto oltre una persona, e riguarda il timore di fondo del direttorio M5S: non è che Virginia Raggi finisce per diventare troppo autonoma dal gruppo-Di Maio?
Intelligente, dotata di abilità di mediazione e anche, oggettivamente, di relazioni notevoli, sarebbe un alter ego sempre più scomodo per l’aspirante candidato premier.
Raggi ha già puntato i piedi su Daniele Frongia, che era vissuto dagli avversari interni del sindaco – l’asse che da Roberta Lombardi porta dritto a Luigi Di Maio – come personaggio troppo autonomo, e troppo in sintonia con Virginia.
Se Virginia portasse a casa adesso anche un portavoce estraneo alla cordata Lombardi-direttorio, dotato di capacità e indipendenza, la sua autonomia ne risulterebbe raddoppiata.
Morale: la cordata centrale che da Di Maio scende fino a Roberta Lombardi sta riuscendo a far fuori il candidato naturale a portavoce della Raggi.
Intanto raccontiamo chi è; e poi diremo come vogliono silurarlo.
Si chiama Augusto Rubei, è un giovane romano di borgata, nato a San Basilio da genitori che vendevano il formaggio, e neanche avevano pensato di farlo studiare.
Rubei ha studiato da solo, si è laureato in scienze della comunicazione – tra i suoi professori di master c’è stato anche Gianfranco Astori, oggi consigliere di Sergio Mattarella – ha lavorato per diverse agenzie di stampa, e poi come ghostwriter politico, prima di essere assunto nell’ufficio comunicazione del Movimento alla Camera, in una stagione ormai remota in tutti i sensi.
Rubei è un tipo fumantino, come molti di quelli venuti su da soli. La grande costruzione mediatica della Raggi in questa campagna elettorale si deve a lui, come si deve a lui la scelta di incassare in silenzio nei momenti più sfavorevoli alla Raggi (per esempio la vicenda dello studio Previti, o le consulenze che riconducevano al giro Panzironi), per affermare poi un volto spigliato, fresco, e non contaminato da scivolate.
Obiettivamente, la strategia ha funzionato.
Come tentano, i suoi avversari, di farlo fuori, e chi sono?
Il braccio dell’operazione è Rocco Casalino, l’ex del Grande Fratello, finito poi a guidare la comunicazione del M5S.
La modalità è stata semplice: è stata fatta ripetutamente pervenire, al team degli amici fidati della Raggi (non sono tantissimi) la frase (testuale) «Rubei non lavora per Virginia, lavora per altri, è un uomo di Loquenzi-Lombardi».
Una cosa non vera anche solo logicamente, perchè Ilaria Loquenzi (la sempre vacillante capa della comunicazione cinque stelle alla Camera) non è stata mai amata neanche dai deputati M5S – che volevano sfiduciarla – figurarsi se può guidare una persona come Rubei, o fare da tramite tra lui e l’asse Lombardi-direttorio.
Poi sono state molto enfatizzate – e raccontate a ondate – un paio di occasioni in cui Rubei ha detto pubblicamente alla Raggi che non era d’accordo con alcune scelte.
Insomma, si è costruita addosso a Rubei un’immagine non veritiera. Raggi tuttora lo stima molto; sa che il tandem ha funzionato, e aveva pensato di nominarlo, magari come capo ufficio stampa, un ruolo non politico, rispetto al portavoce.
Ma certo, come diceva uno che se ne intendeva, ripeti un bugia dieci, cento, o più volte, e diventerà verità . O almeno ha insinuato un tarlo in Virginia.
La cordata da Lombardi a Di Maio chi vorrebbe al posto di Rubei?
L’ideale sarebbe uno dei «Rocco boys», personaggi selezionati da Casalino – e ora nello staff comunicazione del Senato, dove non manca financo un disegnatore di costumi da uomo – che darebbero agli avversari della Raggi la certezza di controllarne ogni mossa, riferirla in tempo reale agli altri, e insomma: più che un portavoce, un agente del nemico. La partita è indirizzata, ma non chiusa.
Sarà interessante vedere come andrà a finire perchè ne dipende un pezzo dell’autonomia di Virginia da chi vorrebbe commissariarla.
Jacopo Iacoboni
(da “La Stampa”)
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Luglio 1st, 2016 Riccardo Fucile
IL VECCHIO MOVIMENTO, PIENO DI DEBITI, NON TIRA PIU’
Ancora dolorante per essere stato «squartato» (copyright Confalonieri) ma sempre più pimpante, Berlusconi in queste settimane di riposo forzato ha avuto molto tempo per riflettere sulla sua creatura politica.
E più la osservava dal letto d’ospedale più non la riconosceva come propria, come fosse diventata un’escrescenza, una stucchevole estranea lacerata dai conflitti, una figlia da rinnegare.
Nel gergo commerciale del fondatore, Forza Italia è ormai «un brand logorato».
Da qui l’idea che si è trasformata giorno dopo giorno in convinzione, in attesa di diventare presto decisione: rottamare Forza Italia, rimetterla nell’album dei ricordi da cui era stata tirata fuori nel 2013 dopo la batosta subita dal Pdl alle amministrative e la scissione di Alfano.
E lanciare sul mercato un nuovo soggetto politico.
«Dobbiamo mettere in campo — ha spiegato l’ex Cavaliere ai pochissimi ammessi nella suite del San Raffaele — qualcosa che sia realmente competitivo con i Cinque Stelle e con Renzi. Sta cambiando tutto molto velocemente e solo noi restiamo fermi».
Anche i tempi, grosso modo, sono stati stabiliti e sono legati al risultato del referendum costituzionale di ottobre.
Sarà quello lo spartiacque della politica italiana.
Dopo il referendum si dovrebbe tenere quel congresso di rifondazione evocato ieri da Fedele Confalonieri nell’intervista a questo giornale.
Sarà quella la sede per il cambio del nome e l’auspicato rilancio, con una nuova leadership.
Per sè, come suggeriva l’amico “Fidel”, il capo ha riservato il ruolo di commissario tecnico, di «coach». Ma niente più impegni diretti.
Su questo la primogenita Marina – da quando il padre è uscito dalla rianimazione si è fatta un punto d’onore di fargli sempre compagnia a colazione — è stata categorica.
Dunque il partito sarà affidato a qualcun altro, con due nomi che al momento svettano su tutti gli altri: Giovanni Toti, il governatore della Liguria che il “partito Mediaset” considera più affidabile, e Mariastella Gelmini, forte del successo personale a Milano.
Sarà uno di questi due a sfidare Salvini e Meloni alle primarie del centrodestra. Che certamente si faranno.
Berlusconi, ed è questa la seconda notizia, è infatti sicuro che l’Italicum cambierà e si arriverà a un premio di coalizione che gli consentirà di rimettere in piedi il vecchio centrodestra.
Gli ambasciatori gli riferiscono infatti di alcuni sondaggi riservati, effettuati da persone di fiducia del premier, per testare la disponibilità di Forza Italia ad appoggiare una modifica “chirurgica” della legge elettorale.
Con passaggio, appunto, dalle singole liste alle coalizioni. E il mantenimento dei capilista bloccati, a cui tengono moltissimo sia Berlusconi che Renzi.
Il destino di Forza Italia è dunque segnato.
Oberata di debiti, nonostante la ristrutturazione operata dalla tesoriera Maria Rosaria Rossi (che ha lasciato due giorni fa il posto all’anziano Alfredo Messina, vicepresidente Mediolanum) e con tutti i suoi beni pignorati dai creditori, il partito berlusconiano è un pallido simulacro di quella corazzata che nel ’94 rivoluzionò la politica italiana e nel 2001 fece cappotto.
I risultati elettorali delle amministrative, tranne che a Milano, sono stati imbarazzanti: 4,6 per cento a Torino, 9,6 per cento in quella Napoli che idolatrava Berlusconi come una divinità pagana, fino alla catastrofe di Roma, con Forza Italia ridotta a un cespuglio del 4,2 per cento.
Proprio lo spettacolo romano, con lo scarico di responsabilità tra i dirigenti coinvolti nel tracollo, sarebbe stata l’ultima goccia che ha convinto il leader a dar retta ai consigli di Marina e farla finita con quel «covo di vecchie vipere».
Quanto al nuovo nome del partito che verrà , le opzioni sono tutte sul tavolo.
Compreso quel “L’Altra Italia” già messo dai grafici su bozzetto un anno fa.
«Ma il nome – spiega uno dei pochi frequentatori del San Raffaele – dipenderà anche dai compagni di strada che avremo. Ancora non è chiaro se andremo con Salvini oppure faremo un nuovo centro con Alfano, Fitto e gli altri».
Francesco Bei
(da “La Stampa”)
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Luglio 1st, 2016 Riccardo Fucile
“SIAMO VITTIME DI FURTI E VESSAZIONI CONTINUE, LO STATO NON CI PROTEGGE”
I fantasmi tirano pietre. La rivolta dei cinesi di Toscana accende i riflettori su una comunità declassata a livello di ectoplasma sociale, economico, culturale.
Poi la scintilla all’improvviso. Un controllo della Asl in un capannone mercoledì pomeriggio, un’operazione contro il lavoro nero.
Un alterco che degenera tra i carabinieri e un imprenditore. Benzina su una tensione esasperata dal caldo. Non passa mezz’ora che sulla strada ci sono più di trecento cinesi ed è battaglia.
Scagliano pietre e bottiglie contro le forze dell’ordine, partono le cariche, volano le manganellate. Tra gli stranieri, ci sono i genitori. Ma soprattutto i figli, la seconda generazione, molti nati in Italia: i più incattiviti. È violenza fino a tarda notte.
Rione Osmannoro: la zona commerciale e artigianale di Sesto Fiorentino, periferia nord del capoluogo.
Il capannone vicino a Ikea è un enorme spazio aperto, diviso da un muro che nasconde i servizi igienici. Da un lato lavorano 21 ditte artigiane, dall’altro 17. Micro imprese familiari, ognuna di 2, 3 persone.
La formula funziona così e si ripete tal quale in altri quattro capannoni circostanti. Ci sono basse paratie che suddividono gli spazi.
Le famiglie cinesi li affittano («paghiamo 700 euro al mese»), installano i loro macchinari, le macchine da cucire professionali, e iniziano a produrre.
Una borsa dopo l’altra. Ognuna viene venduta a 10 euro. Irene ha 19 anni, è arrivata in Italia nel 2011 con i genitori. Lavoravano a Napoli, sempre nel manifatturiero, lei dava una mano ai tavoli di un ristorante.
Un mese fa la decisione. Il trasferimento, un’attività in proprio: «Vendiamo agli ambulanti dei mercati». Non è un lavoro redditizio: «Su ogni pezzo guadagniamo 3 euro». Il caldo è soffocante. All’ingresso un pacco di pan carrè, una confezione di pannolini, sotto il tavolo giochini di plastica. È l’area dove i bambini giocano.
Qui arrivano l’altro pomeriggio i carabinieri, sbarrano le porte di accesso. Vogliono evitare il fuggi fuggi di lavoratori non in regola.
Un anziano, che ha un bimbo di 10 mesi in braccio, tenta di andarsene: «Qui fa caldo per il bambino». L’uomo perde il controllo, posa il bebè su un tavolo, aggredisce un militare, lo morde. Quattro colleghi del ferito bloccano l’aggressore a terra. Arriva un’ambulanza, ma un altro lavoratore chiude i cancelli, bloccando all’interno i militi e gli uomini dell’Arma: «Nessuno soccorreva il nostro connazionale, pensavano solo al carabiniere».
Entrambi sono stati arrestati, il 26 luglio saranno processati.
La chiamata alle armi passa per i telefonini. «Non c’è cinese, di ogni età — racconta Angelo Hu — che non sappia utilizzare lo smartphone, è l’unico modo per restare collegati alle radici». Usano tutti WeChat.
Le informazioni corrono sulla messaggeria istantanea, in meno di mezz’ora arrivano in 300 dalle fabbriche vicine. È l’inizio della battaglia.
Hu fa politica: è consigliere comunale nel vicino Comune di Campi Bisenzio, tra le fila di Sinistra Italiana. A Campi, 47 mila abitanti, i suoi connazionali sono 5 mila. Nell’area nord di Firenze 10 mila. Tutti lavorano all’Osmannoro.
Numeri diversi da Prato, 10 chilometri di distanza: 20 mila regolari, 15 mila no, che dormono nelle fabbriche dormitorio. Qui è diverso, tutti vivono negli appartamenti. Di notte i capannoni chiudono. Meglio, chiudevano.
Perchè emerge l’altra faccia della realtà : «Questa non è una rivolta verso lo Stato. È una rivolta per più Stato, che non sia però solo esattore e controllore, ma garantisca la sicurezza».
Negli ultimi 6 mesi due fabbriche sono state svuotate: i criminali arrivano indisturbati con i camion e portano via tutto: macchine tessili, prodotti, materie prime.
Quasi ogni sera chi rincasa a piedi viene rapinato. «Siamo gente che lavora, non vogliamo solo controlli e vessazioni, ma più sicurezza».
Le case: c’è tanta richiesta e gli affitti sono alle stelle.
Wang vive nel vicino sobborgo di Peretola. Ci schiude la porta del suo appartamento. Una cucina, un bagno, tre stanze da letto, una per i genitori, due per i figli grandi. L’affitto? «Mille euro al mese». La sala? «Non c’è, quelli con la sala costano ancora di più, viviamo in cucina».
C’è un quadretto con la Muraglia, una tv: «Non la guardiamo mai. Quando rincasiamo c’è solo il tempo per riposare e tornare al lavoro».
Marco Menduni
(da “La Stampa”)
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Luglio 1st, 2016 Riccardo Fucile
VOUCHER, LICENZIAMENTO ILLEGITTIMO E RESPONSABILITA’ SUGLI APPALTI: I TRE REFERENDUM DELLA CGIL
Oltre 3,3 milioni in totale: sono le firme raccolte dalla Cgil sui tre referendum (cancellazione del lavoro accessorio ossia dei voucher, nuovo reintegro in caso di licenziamento illegittimo per tutte le aziende al di sopra dei cinque dipendenti e reintroduzione della piena responsabilità solidale negli appalti) che accompagnano la proposta di legge di iniziativa popolare, intitolata «Carta dei diritti universali del lavoro» e voluta dallo stesso sindacato.
«È un risultato straordinario e importante, che testimonia il consenso che le proposte della Cgil incontrano nel Paese»: ha commentato la segretaria generale del sindacato di Corso d’Italia, Susanna Camusso.
Per il leader della Cgil il numero delle firme raccolte è «il frutto del lavoro volontario dei militanti e dei delegati della Cgil, oltre che dell’impegno di tutti i dirigenti, funzionari e collaboratori dell’organizzazione, ai quali vanno il mio ringraziamento e quello di tutta la Cgil».
«Ora attendiamo con fiducia», ha aggiunto la leader del sindacato, «che la Corte di Cassazione si pronunci sull’ammissibilità dei nostri quesiti referendari. Siamo pronti per la prova del voto, convinti delle nostre ragioni».
Il segretario generale della Cgil ha poi ricordato che nei prossimi tre mesi prosegue la raccolta di firme per la proposta di legge di iniziativa popolare «Carta dei diritti universali del lavoro».
«Abbiamo raccolto oltre un milione di firme per ciascuno dei tre referendum abrogativi, possiamo fare ancora di piu’ con le firme a sostegno della Carta.
La #SfidaXiDiritti continua», ha concluso.
Valeria Palumbo
(da “il Corriere della Sera“)
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Luglio 1st, 2016 Riccardo Fucile
LA LICENZA NON SARA’ PIU’ BRITANNICA, RICHIESTO UN NUOVO CERTIFICATO DI VETTORE AEREO… DOPO RYANAIR SI DISIMPEGNA ANCHE IL SETTORE VETTORE LOW COST EUROPEO PIU’ IMPORTANTE
Prima o poi doveva accadere. Per non perdere i diritti di volo europei, garantiti unicamente alle compagnie comunitarie, easyJet chiede di “emigrare” in un altro Paese e ha annunciato in queste ore di aver chiesto un certificato di vettore aereo in “un’altra nazione dell’Unione europea”.
La notizia è arrivata a soli otto giorni dalla vittoria della Brexit al referendum.
Il certificato (Coa) emesso dall’autorità per il trasporto aereo di ciascun Paese (come l’Enac in Italia), “dovrà consentire a easyJet di volare in tutta Europa come facciamo oggi” ha scritto la compagnia in una nota. Easyjet ha avviato “un procedimento formale per acquisire” la licenza in un diverso Paese europeo.
Questo per garantire stabilità al vettore di stanza in Gran Bretagna che rischia, una volta uscita Londra dall’Unione, di dover ricontrattare tutti i diritti di volo, e dunque di veder sfumare la possibilità di effettuare le tratte oggi esistenti.
“EasyJet sta facendo pressione sul governo del Regno Unito e l’Unione europea per garantirsi la possibilità di continuare a operare in un mercato pienamente liberalizzato e deregolamentato nel Regno Unito e in Europa come oggi” spiega un comunicato della società , “come parte della pianificazione di emergenza di EasyJet prima del referendum ha avuto contatti informali con un certo numero di autorità regolatorie aeronautiche europee per ottenere un certificato di operare aeronautico un in un paese dell’Unione Europea per consentire a EasyJet di volare in tutta Europa come avviene oggi”.
La conferma di una “trattativa” viene dalla stessa azienda: “EasyJet ha iniziato il processo formale per acquisire il certificato”.
Il vettore low-cost ha poi aggiunto che non c’è “alcun bisogno di apportare altre modifiche operative o strutturali fino a quando l’esito dei negoziati di uscita Ue della Gran Bretagna non diventerà chiaro”.
EasyJet ha visto nelle ultime ore addensarsi molte nubi sulla sua rotta. Prima le difficoltà per il suo futuro “comunitario” poi il profit warning di lunedì (che ha provocato un tracollo in Borsa) e ora il cambio di passo, a sorpresa e molto deciso, in direzione dell’Europa.
La seconda compagnia europea low cost per importanza, la terza in Italia, ha così scelto la via del colpo di teatro, una mossa che le consentirà di mantenere gran parte dei collegamenti che nel corso degli anni le hanno garantito ottimi profitti.
Resta però incerta la questione legata ai voli da e per la Gran Bretagna, che subiranno, quasi sicuramente, un drastico taglio nei prossimi mesi e nel contempo anche i profitti di easyJet saranno trascinati in basso.
Già Ryanair ha ammesso che nel corso del 2016 e del 2017 diminuiranno gli investimenti nel Regno Unito e i prezzi dei biglietti aumenteranno considerevolmente (“di almeno il 20% in più” ha spiegato il numero due del vettore irlandese Kenny Jacobs) proprio per il calo di possibili rotte da e per l’Uk.
(da “La Repubblica”)
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Luglio 1st, 2016 Riccardo Fucile
LA CORTE COSTITUZIONALE RILEVA TROPPE IRREGOLARITA’ NELLO SPOGLIO… IL NUOVO VOTO A SETTEMBRE
Dopo il primo turno vinto dall’estrema destra e dopo il ballottaggio vinto sul filo di lana dai Verdi, le elezioni presidenziali in Austria si avviano ora verso un terzo atto. La Corte costituzionale austriaca, infatti, ha deciso questa mattina che il ballottaggio, vinto lo scorso 22 maggio dal candidato dei Verdi Alexander Van der Bellen, va annullato a causa delle irregolarità verificatesi nelle operazioni di scrutinio.
La Corte si è pronunciata dopo aver esaminato e accolto il ricorso presentato dal partito di ultradestra del candidato Norbert Hofer, sconfitto dallo sfidante per una manciata di voti.
Il ministero dell’Interno austriaco ha già annunciato che il nuovo voto dovrebbe tenersi tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre, anche se la scelta definitiva della data verrà comunicata martedì prossimo. Secondo il quotidiano Kurier, la data più probabile potrebbe essere il 18 settembre.
La sera del 22 maggio, alla chiusura dei seggi, in base agli exit poll Hofer sembrava in vantaggio, ma il risultato finale uscito dal conteggio di circa 700mila voti per corrispondenza ha decretato la vittoria di Van der Bellen con uno scarto di circa 30.000 voti soltanto.
Van der Bellen, in pratica, è diventato nuovo presidente dell’Austria con il 50,3 per cento delle preferenze, rispetto al 49,7 per cento di Hofer.
Il Partito della Libertà cui Hofer appartiene, a questo punto, ha deciso di presentare ricorso affermando che nella maggior parte dei 117 distretti elettorali si erano verificate varie violazioni di legge.
Prima fra tutte, lo scrutinio dei voti per corrispondenza iniziato prima che i funzionari della commissione elettorale arrivassero.
In altri casi, invece, alle operazioni di spoglio avrebbero preso parte persone non autorizzate.
Il partito aveva anche affermato di poter dimostrare che al voto avrebbero partecipato ragazzi di età inferiore ai 16 anni e stranieri.
Oggi da Vienna è arrivata la sentenza della Corte, che ha riscontrato irregolarità in 94 distretti.
Le schede votate o scrutinate in maniera irregolare sarebbero circa 78mila, numero che supera di gran lunga quello dei voti di distacco tra i due candidati.
Nel corso delle due settimane di udienza dedicata all’esame della questione, i giudici hanno ascoltato circa 90 testimoni, tra cui membri dei seggi di tutto il Paese.
E molti di loro hanno ammesso che spesso non è stata rispettata alla lettera la legge elettorale, in particolare per quanto riguarda i tempi e le modalità del conteggio dei voti per posta.
La Corte ha poi dichiarato illegittima la prassi seguita dal ministero dell’Interno di inviare a stampa e istituti di sondaggistica i risultati locali prima della chiusura definitiva di tutti i seggi.
Si congela quindi l’insediamento ufficiale di Van der Bellen che avrebbe dovuto avvenire il prossimo 8 luglio.
Non appena il presidente uscente Heinz Fischer lascerà l’incarico, quindi, la presidenza verrà assunta ad interim collegialmente dai presidenti delle due Camere. Mentre Hofer spera ora di avere una nuova opportunità per diventare il primo presidente ultranazionalista, anti-immigrati e di estrema destra di uno Stato membro dell’Unione europea.
Un profilo che preoccupa l’Europa, visto che dopo il referendum sulla Brexit lo stesso Hofer aveva dichiarato di essere favorevole a promuovere un identico referendum in Austria: secondo lui, se l’Unione continua ad andare nella direzione sbagliata, è giusto chiedere ai cittadini austriaci un parere sulla permanenza del Paese tra gli Stati membri.
“Le elezioni sono il fondamento della nostra democrazia e il nostro compito è di garantirne la regolarità . La sentenza deve rafforzare il nostro stato di diritto”, ha detto il presidente della Corte costituzionale Gehrart Holzinger prima di leggere il dispositivo con cui è stato accolto il ricorso.
E’ la prima volta che viene annullato un ballottaggio in Austria.
“Non ci devono essere dubbi sulla legittimità di nessuna elezione. La decisione della Corte di ripetere il ballottaggio delle presidenziali non è qualcosa di cui rallegrarsi, ma dimostra che la democrazia e lo stato di diritto funzionano”, ha dichiarato il cancelliere austriaco Christian Kern, commentando la decisione e sottolineando che le elezioni sono state invalidate “per un errore formale e non per manipolazioni o brogli”.
Kern ha poi aggiunto: “Spero che ora ci sarà una campagna elettorale breve e non emotiva. Siamo interessati a concludere rapidamente le elezioni. Chiedo a tutti i cittadini di esercitare il loro diritto di voto”.
(da agenzie)
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Luglio 1st, 2016 Riccardo Fucile
50.000 DI “NUOVI” ITALIANI IN PIU’ RISPETTO AL 2014: “DIVENTATI CONNAZIONALI COMUNITA’ DI ANTICO INSEDIAMENTO, PRIMA ERANO I MATRIMONI A DETERMINARE LE NUOVE NATURALIZZAZIONI”
L’Italia è il Paese d’Europa che nel 2015 ha visto il maggiore incremento di nuovi cittadini: 50mila persone in più (il 37%) rispetto al 2014.
Non solo: proprio nel 2014 è stata la nazione, seconda solo alla Spagna, col maggior numero di naturalizzazioni (il 15% dell’intera Unione europea).
Il dato è stato elaborato dalla Fondazione Ismu (Istituto per lo studio della multietnicità ) di Milano.
L’anno passato sono stati 178mila gli stranieri residenti che hanno ottenuto il passaporto della nostra Repubblica, circa 35 su mille dei 5 milioni di stranieri regolarmente residenti. La notizia non è irrilevante se si considera che l’Italia è uno degli Stati con le regole più restrittive in materia.
E in cui lo ius sanguinis (il sistema che basa la concessione della cittadinanza solo sulla discendenza di “sangue” da italiani) è applicato in maniera molto solerte.
Se non si hanno avi italiani è infatti possibile la naturalizzazione solo dopo due anni di matrimonio, oppure per residenza: almeno 10 anni in Italia se cittadino extracomunitario, 4 anni se appartenente all’Unione europea.
Solo la Svizzera ha leggi più severe.
“Sono diventati italiani — spiega a ilfattoquotidiano.it Giorgia Papavero, ricercatrice del settore monitoraggio dell’Ismu — soprattutto molti di coloro che appartengono a comunità di antico insediamento e che hanno maturato i requisiti di acquisizione per residenza: soprattutto albanesi e marocchini. Mentre in passato a determinare molte nuove cittadinanze erano principalmente i matrimoni”.
Colpisce anche un altro dato: quasi 4 nuovi italiani su 10 nel 2015 sono minorenni. “Quando i genitori diventano italiani, automaticamente anche i figli prendono la cittadinanza”, spiega ancora la ricercatrice.
Il numero di stranieri che hanno ottenuto passaporto italiano nell’ultimo quindicennio è aumentato in modo esponenziale, in particolare in regioni come Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna.
Appena 12mila stranieri avevano infatti ottenuto la cittadinanza nel 2002, quando in Italia quelli con i documenti in regola erano poco più di un milione: l’Ismu calcola che nel 2016 potrebbero esserci addirittura 190mila nuovi cittadini italiani nati all’estero.
Ma non sarà sempre così, anche perchè negli ultimi anni i flussi migratori verso lo Stivale si sono ridotti: “Nei prossimi anni — ragiona Giorgia Papavero — l’aumento di nuove acquisizioni di cittadinanza dovrebbe stabilizzarsi”.
Di fronte a questo dato ce n’è poi un altro, ben noto alle cronache, di italiani che vanno via dal Belpaese.
Le stime dell’Istat indicano che su 100mila italiani che sono emigrati nel 2015, 25mila sono proprio cittadini italiani di origine straniera che decidono di tornare nella loro patria di origine o di trasferirsi in un’altra parte del mondo.
Nel frattempo nel resto d’Europa le acquisizioni di cittadinanza diminuiscono.
Secondo i dati Eurostat del 2014 (gli ultimi a disposizione) sono 890mila i cittadini stranieri che hanno ottenuto la cittadinanza di uno degli stati membri, il 9% in meno rispetto al 2013.
Il calo più forte si è avuto nel Regno Unito, in Spagna (che comunque rimane il Paese che in questi anni ha avuto più nuovi cittadini, il 25% di tutti quelli europei), in Belgio, in Grecia e in Svezia.
Al contrario il più significativo aumento in termini assoluti è stato rilevato in Italia (con più 30mila nel 2014 rispetto al 2013), seguita dalla Francia e dall’Olanda.
David Marceddu
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Luglio 1st, 2016 Riccardo Fucile
CANDIDATURA IDEALE PER NON SPAVENTARE I MERCATI E FAR PACE CON LA UE
Il partito conservatore in frantumi, la leadership laburista indebolita dal suo interno, l’Europa schierata sulla linea dura, e una pesante ombra sull’economia britannica. Eccola, a distanza di appena sette giorni, la panoramica del Regno Unito post Brexit. Un quadro fosco da cui il partito di David Cameron prova a uscire giocando una carta a sorpresa: quella di Theresa May, ministro dell’interno, già soprannominata da alcuni media la “Angela Merkel inglese”.
A muovere l’ultimo tassello del domino dei colpi di scena è stato questa mattina l’ex sindaco di Londra Boris Johnson, annunciando di rinunciare a correre come successore di David Cameron.
Se già le dimissioni del premier britannico all’indomani del voto britannico avevano sorpreso gli osservatori, il passo indietro di Johnson ha cambiato nuovamente le carte in tavola all’interno dello scacchiere dei Tories.
Una scelta sorprendente ma quasi obbligata, quella di Johnson, dopo essere stato scaricato — se non proprio pugnalato alle spalle – da uno dei suoi ex alleati principali nella battaglia per il “Leave”,il ministro della Giustizia Micheal Gove: “Con riluttanza, sono arrivato alla conclusione che Boris non abbia la capacità di fornire una leadership o costruire la squadra per il compito che abbiamo di fronte. Ho deciso quindi di avanzare la mia candidatura per la leadership”, ha detto Gove lanciando la sua candidatura.
Fuori Cameron, fuori George Osborne — troppo coinvolto nella campagna per il Remain, fuori Boris Johnson, è con la May che ora il popolo conservatore spera di ricomporre il partito dopo la lotta fratrcida del referendum.
E il ministro sembra il candidato perfetto.
Strenua antieuropeista da una parte — e quindi credibile interprete del voto pro-Leave – ma così vicina a David Cameron da sposare in campagna la causa del Remain, pur di rimanere fedele all’ex premier.
Non a caso la stampa conservatrice ha già speso più di una buona parola nei suoi confronti. E se il Sunday Times l’ha incoronata come “l’unica figura in grado di unire la fazioni in lotta nel partito” il Daily Telegraph ha però scritto che “neppure gli alleati più fedeli di May dicono che è in grado di accendere i fuochi della passione”.
Lanciando ufficialmente la sua candidatura stamani May ha detto: “Il nostro paese ha bisogno di una leadership collaudata per guidarlo in un periodo di incertezza politica ed economica”.
E ancora “Abbiamo bisogno di una leadership che possa unire il nostro partito e il nostro paese”. Avvertendo poi che sulla Brexit non c’è spazio per una marcia indietro: “Brexit vuol dire Brexit. La campagna è stata combattuta, il voto si è tenuto, l’affluenza è stata elevata e l’opinione pubblica ha fornito il suo verdetto” ha detto.
In sinstesi. Serve un partito unito, una leadership credibile tanto per il popolo che ha scelto di lasciare la Ue, quanto per la stessa Ue con cui bisognerà negoziare l’uscita, e la May sembra la candidata ideale.
Figlia di un pastore anglicano e sposata con un banchiere, Theresa May ha cominciato la propria carriera politica nel 1986.
Dopo aver tentato per due volte — senza successo — di entrare in Parlamento è stata finalmente eletta a Westminster nel 197.
Dal 2002 al 2003 è stata è stata la prima donna segretario generale del partito. Nominata ministro degli interni nel 2010, quando David Cameron è diventato per la prima volta premier, ha mantenuto il suo incarico nel 2015.
E se il fronte dei Tories è alle prese con la lotta per la nuova leadership, quello laburista vede sempre più in bilico il posto di Jeremy Corbyn.
Dopo le dimissioni in massa dei 20 membri del governo ombra dopo la sconfitta referendarie e la mozione di sfiducia approvata ieri e il rifiuto del segretario di fare un passo indietro oggi il numero uno dei labour è finito nell’occhio del ciclone per una frase pronunciata durante la presentazione del rapporto sull’antisemitismo all’interno del partito: “I nostri amici ebrei non sono responsabili delle azioni di Israele o del governo Netanyahu più di quanto non lo siano i nostri amici musulmani riguardo ai vari stati islamici o organizzazioni islamiche”.
Una frase che da molti è stata giudicata un improprio paragone tra Israele e lo Stato Islamico.
(da “Huffingtonpost”)
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