Luglio 20th, 2016 Riccardo Fucile
ALMENO 500 SBATTUTI FUORI PRIMA DEL REGOLAMENTO NULLO… A ROMA ORMAI SOLO 300 ATTIVISTI… E A NAPOLI SI PREPARA UN’AZIONE LEGALE COLLETTIVA
«Nel M5S ci sono almeno 500 persone sbattute fuori prima di un certo regolamento e comitato d’appello… o procedura minima di facciata».
L’uomo che fornisce queste cifre sa molto di tutta la storia delle origini del Movimento cinque stelle.
Si chiama Ernesto Tinazzi, è il fondatore del meet up 878, uno dei meet up storici – e anche uno dei più discussi e attaccati dai media mainstream.
L’«878» era una lista, laziale, di 511 aderenti, la gran parte dei quali superortodossi e convinti del progetto delle origini di Grillo e Casaleggio, al punto che a Milano le analisi di Tinazzi erano ascoltate con attenzione.
Era considerato un influencer. La sua truppa, forte e anche capace di intimorire assai nelle dinamiche social. Quindi apprezzatissimo da Casaleggio.
Poi accadde qualcosa. Dissero ai due fondatori che Tinazzi si stava facendo un suo simbolo – cosa non vera – fatto sta che la Casaleggio diffidò tutto il meet up.
Subìto questo trattamento, Tinazzi avrebbe potuto organizzare azioni roboanti, cause persino di gruppo. Non lo ha fatto. Parentesi: dal suo meet up sono venuti tantissimi deputati e senatori, ora lieti nel vortice della vita romana. Ruocco, Taverna, Di Battista sono stati da loro assai sostenuti.
Ne avrebbe di cose da raccontare, Tinazzi.
A questi 500 vanno sommati gli «espulsi» in senso tecnico, almeno altri 300 in tutta Italia che (dopo il varo del Regolamento del 23 dicembre 2014, ora dichiarato «nullo» dal Tribunale) hanno ricevuto una mail con una comunicazione.
Prima di quella data le espulsioni avvenivano con un post scriptum sul blog, spesso anche senza: un bel giorno il militante si svegliava e si trovava «cliccato», disattivato dal server della Casaleggio.
Al massimo con una lettera di diffida all’uso del simbolo. Questa carica degli 800 delinea i contorni di una gigantesca cacciata del dissenso, per una forza di un paese democratico; una cacciata di cui per la prima volta siamo in grado di determinare con precisione l’entità .
Trentasei espulsi a Napoli, una trentina a Roma, almeno 50 espulsi in Emilia – tra cui i casi storici di Favia e Salsi, o quello recente di Lorenzo Andraghetti, reo di aver tentato di sfidare Massimo Bugani, prescelto dalla Casaleggio – una decina in Calabria, dove l’uomo forte è Nicola Morra, e dopo le espulsioni il Movimento è precipitato al 4%.
Ieri Federico Pizzarotti (per ora solo «sospeso») ha scritto ormai spazientito a Grillo, consapevole ormai di avere armi giuridiche assai forti: «Il tempo dell’attesa è finito. Se non dovessero arrivare in tempi brevi risposte sulla mia situazione, interpreterò l’atteggiamento per quello che è: la chiara volontà di arrivare a una rottura senza neppure il coraggio di assumersene la responsabilità . Pretendiamo chiarezza, l’indifferenza non rende piccolo chi la subisce, ma chi la attua».
A Napoli doveva esser candidato alle regionali Angelo Ferrillo, un militante storico della Terra dei fuochi.
Fu espulso con accuse pretestuose. Fece una lista civica (che appoggiò Caldoro). Ora annuncia di non voler affatto rientrare ma di voler «avviare un’azione legale collettiva» contro i responsabili: «Il M5S non è riformabile, nè dall’interno nè dall’esterno. È un partito azienda col potere di firma nelle mani di una sola persona e gestito in comproprietà da una srl».
«Conquistano il consenso elettorale mediante il plagio o l’inganno e la menzogna», dice.
In tanti stanno catalizzando questa rivolta degli espulsi.
Roberto Motta a Roma riceve decine di telefonate. Idem l’avvocato Borrè.
Altri, sempre nella Capitale, ci dicono questo: «A Roma sono rimasti nel M5S in tutto 300 attivisti; se pensate che 200 sono stati assorbiti nei municipi capirete che la base non esiste più».
Il Movimento della partecipazione è diventato un partito degli eletti, senza più una vera e propria base.
Jacopo Iacoboni
(da “La Stampa”)
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Luglio 20th, 2016 Riccardo Fucile
M5S E PD SI ACCUSANO A VICENDA SUL VOTO SEGRETO
Chi ha salvato Silvio?
È questa la domanda che si fanno gli esponenti del Pd e del MoVimento 5 stelle, accusandosi reciprocamente, dopo che l’aula del Senato, con voto a scrutinio segreto, non ha dato l’autorizzazione all’utilizzo di intercettazioni telefoniche di Silvio Berlusconi.
Intercettazioni che avrebbero svelato i colloqui tra l’ex Cavaliere e alcune delle cosiddette Olgettine.
I voti favorevoli sono stati 120, i contrari 130 e 8 gli astenuti.
La giunta per le immunità parlamentari aveva chiesto il via libera all’autorizzazione. In aula si sono subito scatenate le proteste del MoVimento 5 stelle che hanno spinto il presidente Pietro Grasso a sospendere la seduta.
Ma fuori dall’emiciclo, il Pd non le manda a dire e attacca i grillini. “Nei giorni scorsi – afferma il senatore Pd Francesco Russo – qualcuno aveva ipotizzato che, nascondendosi dietro il voto segreto, i senatori 5 stelle stessero preparando un’imboscata per salvare Silvio Berlusconi e scaricare la responsabilità sul Partito Democratico”.
“Spero davvero che i colleghi grillini non abbiano in così breve tempo imparato i peggiori trucchi della Prima Repubblica – sottolinea l’esponente Pd – ma voglio notare che chi urla di più rischia di essere tra i principali indiziati. Ma soprattutto voglio sottolineare un dato inequivocabile. La somma dei voti espressi dal Partito Democratico (96) e dal Movimento 5 Stelle (24) è esattamente 120, il numero dei voti totali di chi si è espresso a favore della richiesta dei giudici di utilizzare le intercettazioni di Berlusconi”.
Anche il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio del Pd, Luciano Pizzetti, afferma: “Le manovre sporche dei Cinque stelle salvano Berlusconi con il voto segreto. Come la Lega salvò Craxi nel 1992. Parlano di moralità ma agiscono nell’ombra”.
Il capogruppo al Senato del MoVimento 5 stelle, Stefano Lucidi, accusa invece senza mezzi termini i democrat, denunciando la resurrezione del patto del Nazareno: “Il Pd con il voto segreto salva Berlusconi e prova a puntellare la sua sempre più scricchiolante maggioranza”.
Laconico il senatore di M5s, Nicola Morra, che su Twitter scrive: “Pd salva berlusconi e accusa il M5s. La prima gallina che canta ha fatto l’uovo”.
(da “Huffingtonpost“)
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Luglio 20th, 2016 Riccardo Fucile
I MINORI NON ERANO ADOTTABILI PERCHE’ NON ERANO ORFANI, MA L’ASSOCIAZIONE ITALIANA AVEVA GIA’ INTASCATO I SOLDI DALLE FAMIGLIE… DA QUI LA MESSINSCENA DI UN RAPIMENTO DA PARTE DI INESISTENTI BANDE ARMATE
La butta sul ridere Marco Griffini, 69 anni, presidente dell’associazione Aibi di San Giuliano Milanese. «Una domanda mi assilla e non mi fa dormire: ma poi il motorino è stato recuperato?», chiede dalla sua pagina Twitter.
Scrive la domanda dopo aver letto su “l’Espresso” l’inchiesta sulle adozioni di bambini sottratti ai loro genitori in Africa e su altre presunte irregolarità che coinvolgono la sua organizzazione. È la più potente in Italia, con sponsor fin dentro il Parlamento.
Ma è un sarcasmo cinico quello del presidente-padrone, fondatore dell’ente cattolico autorizzato dallo Stato: perchè il proprietario di quel motorino, Raymond Tulinabo, ex affidatario dei bimbi destinati ad Aibi nella regione orientale del Congo, è stato fatto arrestare con una falsa accusa dal partner locale dell’associazione milanese, il presidente del Tribunale dei minori di Goma, Charles Wilfrid Sumaili.
E una volta in carcere, come ritorsione è stato più volte torturato.
La colpa di Tulinabo: aver portato al sicuro al di fuori del controllo di Aibi e del giudice quattro bambini adottati da famiglie italiane.
Un trasferimento deciso a Roma in collaborazione con le autorità congolesi per presunte gravi difformità dell’ente di Griffini nelle procedure di adozione: a cominciare dalle bugie raccontate a quattro coppie italiane sul rapimento dei loro figli, in attesa di partire per l’Italia.
È il seguito del film horror, questa volta visto con gli occhi delle mamme e dei papà italiani che aspettano i loro piccoli. Mesi di lacrime e paura. L’attesa straziante di una notizia.
Fino a scoprire che la storia del sequestro dei quattro bimbi è una messinscena. Pianificata in Congo. E condivisa dai vertici di Aibi, nonostante le carte dimostrino che a San Giuliano Milanese da fine marzo 2014 siano al corrente che la verità è un’altra.
Anche questo emerge dalle segnalazioni inviate alla Commissione per le adozioni internazionali, l’autorità di controllo della Presidenza del Consiglio che sta indagando: quei bimbi non sono orfani, non sono mai stati rapiti. Sono semplicemente tornati dai loro genitori.
Ma su questo segreto viene costruita l’incredibile trama che per due anni protegge i ladri di bambini: la rete congolese che con la scusa di far studiare i piccoli, li ha sottratti alle loro povere famiglie.
Lo scrive in un rapporto interno lo stesso rappresentante legale di Aibi a Goma, l’avvocato Martin Musavuli: «Le bimbe erano state prese per ragioni di studio». Insomma, non c’è niente da ridere. In quei giorni di fine aprile 2014 basterebbe essere sinceri con i genitori in Italia, che tra l’altro hanno pagato migliaia di euro ad Aibi per le pratiche di adozione. E avviare una verifica, in sintonia con la Commissione di controllo di Palazzo Chigi.
Basterebbe insomma ammettere che Mirindi, 6 anni, assegnata a una coppia in provincia di Brescia, Melanie, 10 anni, destinata a Cosenza, il piccolo Aimè, 6 anni, a Roma e Nicole, stessa età , a Casorate Primo nel Pavese, non possono essere adottati: perchè, contrariamente a quanto dichiarato nelle sentenze, i loro genitori naturali li reclamano.
L’avvocato Musavuli e l’assistente sociale di Aibi, Oscar Tembo, scoprono infatti che i bimbi, prelevati da un orfanotrofio a Goma il 7 marzo 2014, sono tornati a casa. Di Melanie, Mirindi e Aimè rintracciano i familiari. Melanie la vedono addirittura di persona.
E lei, per paura di essere riportata in istituto, si nasconde. Sapere che i bambini sono comunque al sicuro sarebbe un bene anche per le famiglie adottive che li attendono in Italia.
Invece sentite cosa accade.
Quanti collaborano con Aibi e sono al corrente della delicata questione raccontano a “l’Espresso” che mamme e papà , ignari di tutto, vengono convocati soltanto nell’ultima decade di aprile. Cioè un mese e mezzo dopo la scomparsa dei piccoli dall’orfanotrofio.
È il caso di una coppia di Roma contattata per telefono da Aibi. Chiamano il padre e gli chiedono di presentarsi con la moglie il giorno dopo, il 24 aprile, nell’ufficio dell’associazione nella capitale. Spiegano che riceveranno una comunicazione urgente su Aimè, il loro bimbo.
Verrà data in videoconferenza da Valentina Griffini, la figlia del presidente, responsabile per le attività all’estero. I genitori non hanno mai abbracciato Aimè. Ma è solo un dettaglio fisico. L’amore non ha confini. L’hanno visto in fotografia, gli hanno parlato al telefono.
Dal 15 agosto 2013, giorno della sentenza di adozione in Congo, Aimè è loro figlio a tutti gli effetti. E su di loro gravano tutti i doveri della potestà genitoriale. Compresa la protezione.
L’operatrice che telefona al padre è invece tra i dipendenti di Aibi che a metà marzo hanno ricevuto il primo rapporto da Goma dell’avvocato Musavuli.
Già in quel resoconto il rappresentante congolese dell’associazione di Griffini avverte che i bambini sono tornati in famiglia.
E aggiunge: alla direttrice dell’orfanotrofio, Bènèdicte Masika, «è stata fatta la domanda del perchè non abbia mai anticipato la situazione, in modo da evitare ad Aibi di pagare le spese di mantenimento per quei bambini che hanno i genitori.
E lei ha risposto che all’inizio non conosceva il legame di parentela. Quando l’ha saputo, purtroppo, la procedura di adozione era quasi alla fine. Ed era dunque troppo tardi».
L’operatrice di Aibi però non rivela al padre di Aimè il contenuto del rapporto arrivato via email da Goma. E nella conversazione con lei, il papà ovviamente si preoccupa. Pretende di sapere la ragione della convocazione. La donna risponde che non è possibile parlarne al telefono. Per la delicatezza del tema, bisogna aspettare la videoconferenza. Panico. Il papà insiste. Lo tranquillizzano dicendo che il motivo non è comunque un problema di salute.
Il pomeriggio del 24 aprile alcuni colleghi di Aibi nella sede milanese vedono la stessa operatrice e Valentina Griffini sedute alla scrivania, davanti alla telecamera e allo schermo collegato con l’ufficio romano.
Il padre e la madre del piccolo adottato in Congo si siedono accanto a un’impiegata e alla psicologa di Aibi. Il loro volto è pallido. La voce di Valentina Griffini comunica senza troppi giri di parole che sei bambini dell’orfanotrofio “Spd” di Goma sono stati rapiti. Tra loro c’è Aimè.
In realtà i bimbi scomparsi sono nove, non sei. La figlia di Marco Griffini ha ricevuto via email lo stesso report che il suo rappresentante legale a Goma ha mandato agli altri operatori.
Da responsabile dell’attività all’estero, non può non averlo letto. Perfino lei, però, sostiene la finzione dell’assalto. Parlano di un gruppo armato.
Raccontano che la notizia è stata data in ritardo perchè le autorità locali hanno chiesto qualche settimana per avviare le indagini.
Gli operatori di Aibi spiegano alla coppia che potrebbe essere stato un attacco di alcune bande di guerriglieri dell’Uganda, poichè è la prima volta che in Congo vengono presi di mira i bambini.
Prima di chiudere il collegamento viene proposta la possibilità di adottare un nuovo piccolo al posto di Aimè: grazie alle conoscenze che Aibi ha con il giudice del Tribunale dei minori di Goma, il presidente che farà arrestare Raymond Tulinabo, poi torturato in prigione.
Dalla sede milanese dei Griffini dicono sia persona rispettabilissima e stimata. Chiedono anche la massima riservatezza, perchè non tutte le coppie coinvolte sono state ancora informate.
La madre italiana di Aimè esplode in un pianto inconsolabile. Il padre guarda impietrito verso l’obiettivo della telecamera. Fino a quando nella sede milanese qualcuno si alza e, con il collegamento, spegne anche la loro espressione di dolore. Passa un’intera settimana senza nessun nuovo contatto risolutivo. A fine aprile la coppia informa il ministero degli Esteri. La mamma e il papà del piccolo sollecitano un altro incontro con Aibi.
Vorrebbero parlare di persona con Valentina Griffini. Non riescono. L’appuntamento dell’8 maggio è una seduta con la psicologa su come affrontare il dolore: basterebbe raccontare la verità e il carico psicologico sarebbe molto meno pesante. Ma nemmeno la psicologa conosce i retroscena.
Qualche giorno dopo Valentina Griffini al telefono fornisce le ultime novità .
Racconta di sei uomini armati. Sono arrivati davanti all’orfanotrofio su un’auto di cui non si conosce la targa. Hanno attaccato l’istituto di mattina, a fine marzo.
Perfino il giorno dell’assalto è diverso da quello della scomparsa dei piccoli ospiti.
Il gruppo armato ha quindi preso i sei bambini ed è scappato con loro sulla stessa macchina. Sì, dodici persone su una sola auto.
La Griffini sostiene che grazie agli ottimi contatti con la polizia, le indagini proseguiranno fino a quando lo vorranno i genitori italiani. Il 13 maggio però, sempre secondo quanto raccontano alcuni collaboratori di Aibi, nella sede milanese scoppia una grana.
Qualcuno da Roma informa Valentina Griffini o suo padre che la coppia ha avvertito il ministero degli Esteri. È in arrivo una richiesta di chiarimento. E Valentina chiama i genitori di Aimè che disperati attendono novità . Ma non dà notizie del bambino. Li rimprovera. Sostiene che a causa della segnalazione al ministero, Aibi dovrà uscire allo scoperto con le istituzioni.
In particolare, con la Commissione per le adozioni internazionali. E questo potrebbe mettere in pericolo la soluzione del caso e tutte le adozioni in Congo.
Eppure Aibi avrebbe dovuto avvertire immediatamente l’autorità di controllo della Presidenza del Consiglio.
I genitori adottivi di Aimè insistono nel voler vedere qualcosa di scritto sul rapimento del bimbo: i verbali di polizia, oppure i rapporti interni dell’associazione. Lo chiedono agli operatori dell’ufficio romano. Ma al telefono dalla sede milanese Valentina Griffini prende tempo. E ripete che senza la segnalazione al ministero degli Esteri e quindi alla Commissione per le adozioni, tutta la procedura sarebbe stata gestita con più facilità .
Se ne vanno altre due settimane e il 17 giugno la figlia del presidente di Aibi, sempre al telefono, rivela al papà italiano di Aimè che a Goma l’inchiesta verrà probabilmente chiusa. Invece è già archiviata da una settimana: dal 10 giugno 2014, come conferma il rapporto della polizia locale.
È comunque un’indagine surreale. Nel senso che viene formalmente aperta il 31 marzo, ventiquattro giorni dopo il fatto, quando la direttrice dell’orfanotrofio mette a verbale la storia dell’assalto armato da parte di uomini non identificati. E smentisce così la sua precedente denuncia in cui, il giorno dopo la scomparsa dei bambini tra i quali i quattro italiani, accusava quattro persone, con nomi e cognomi.
La versione inventata il 31 marzo aiuta a risolvere la lite documentata nelle carte tra l’avvocato di Aibi, che minaccia di denunciare la direttrice dell’orfanotrofio per frode, e lei che propone di chiedere un prestito in banca, per rimborsare l’associazione italiana delle spese sostenute con i bambini rientrati in famiglia.
La questione arriva fino alla sede milanese. Lo si legge in un report interno già a metà marzo, quando viene scritta la seguente nota: «Sulle problematiche sorte presso il centro Spd, abbiamo ricevuto da parte di Eddy il report di Martin con le valutazioni di Oscar. Pensiamo che organizzare un incontro tra Martin, Oscar e la direttrice sia importante e necessario per mettere chiarezza in merito alla situazione dei bambini spariti e le loro vere famiglie d’origine».
Eddy Zamperlin è il rappresentante italiano di Aibi, inviato per l’occasione a Goma. Martin è l’avvocato Musavuli. E Oscar Tembo, l’assistente sociale a Goma dell’associazione di Griffini.
Così il primo aprile la comoda messinscena del sequestro viene sottoscritta da tutti i protagonisti al termine di una riunione nella sede locale di Aibi: ci sono l’avvocato Musavuli, la direttrice, il presidente del Tribunale dei minori e Zamperlin.
Anche lui, come la collega Filomena Giovinazzo, ha già ricevuto via email i resoconti di Musavuli che aggiornano Aibi sulla reale storia dei bambini. Nessuno di loro però dirà mai la verità ai genitori di Melanie, Mirindi e Nicole.
E nemmeno alla mamma e al papà di Aimè. Quando molto tempo dopo vengono a sapere da funzionari della Presidenza del Consiglio che i bambini stanno bene, liberano l’angoscia in un pianto incontenibile. I piccoli sono salvi. Ma loro, se vogliono adottare un altro bimbo, hanno perso anni preziosi. Di quei giorni di terrore restano come affreschi le comunicazioni interne di Aibi.
«Capiamo la difficoltà nell’individuare due sorelline che rispondano ai criteri di Melanie e Amini», è scritto nel report numero 2014 del 19 maggio di due anni fa, quasi un mese dopo la comunicazione della scomparsa alle coppie italiane: «La bimba che ci proponi purtroppo è troppo piccola. Come età dobbiamo almeno essere su quella delle due bimbe sbinate».
Sbinate: contrario di abbinate ai genitori. Amini, 9 anni, è stata assegnata a una famiglia di Cosenza con Melanie. Nella sentenza di adozione le fanno risultare sorelle germane, ma non lo sono.
Infatti Melanie torna dalla sua mamma. Amini resta in istituto. E lì viene dimenticata. Trovare bambini che si assomiglino è un’attività di Aibi. Lo si legge in un altro report con le comunicazioni dalla sede centrale: «Come procede la ricerca di due sorelline in sostituzione delle sorelline Issa?»
Fabrizio Gatti
(da “L’Espresso”)
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Luglio 20th, 2016 Riccardo Fucile
A KIEV SALTA PER ARIA L’AUTO SU CUI VIAGGIAVA IL NOTO GIORNALISTA LIBERALE UCRAINO
Il noto giornalista liberale ucraino era uscito di casa, salito sull’auto del giornale e, dopo appena qualche decina di metri, la macchina è esplosa uccidendolo ha spiegato la testata per la quale lavorava, “Ukrainska Pravda
Il sito del popolare quotidiano precisa che la deflagrazione è avvenuta alle 7:45 all’angolo tra via Bogdan Khmelnitski e via Ivan Franko, non lontano dal teatro dell’Opera di Kiev. L’auto era della direttrice del giornale, Olena Pretula.
Sheremet viveva in Ucraina da cinque anni, prima lavorava alla tv di Stato russa ed aveva realizzato diverse inchieste sul mondo ucraino, russo e bielorusso.
Anche la polizia, in un comunicato, fa sapere che gli investigatori al momento “qualificano l’accaduto come omicidio premeditato”.
Le foto pubblicate online da Ukrainska Pravda mostrano l’auto dopo l’esplosione.
La vettura, una Subaru XV secondo l’agenzia Unian, ha il cofano e lo sportello anteriore sinistro parzialmente divelti.
Sull’asfalto e sul selciato dell’incrocio che l’auto stava attraversando si nota una gran quantità di schiuma bianca, con ogni probabilità degli estintori che sono stati usati per spegnere le fiamme, uno dei quali si intravede sotto il lato posteriore dell’auto.
La deflagrazione è avvenuta all’angolo tra via Bogdan Khmelnitski e via Ivan Franko, proprio davanti a un McDonald’s e non lontano dal teatro dell’Opera di Kiev.
I colpevoli” dell’uccisione del giornalista Pavel Sheremet “devono essere puniti” ha dichiarato il presidente ucraino Petro Poroshenko in un post su Facebook annunciando di aver chiesto alle forze dell’ordine di “indagare immediatamente su questo crimine”.
“L’Ucraina (non il Paese, ma il sistema) sta diventando la fossa comune dei giornalisti e del giornalismo” ha invece scritto su Facebook la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, dopo l’uccisione a Kiev del reporter.
Il giornalista, 44enne di origine bielorussa, aveva lasciato l’emittente statale russa Otr perche’ critico nei confronti della politica adottata sulla questione Ucraina dal governo di Mosca e condannava l’annessione russa della Crimea.
(da “Huffingtonpost”)
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Luglio 20th, 2016 Riccardo Fucile
EFFICIENTISMO PADANO: USO ALLEGRO DI CARTE DI CREDITO AZIENDALI E CONSULENZE
Dall’ex manager che ha percepito uno stipendio troppo alto ai dipendenti che hanno usato la carta di credito aziendale. Per viaggi, banchetti e film.
Fino ai fondi pubblici dati a chi non aveva i requisiti, e alle consulenze stipulate senza che ce ne fosse bisogno.
Dopo i rilievi fatti dal Comitato regionale dei controlli sui conti di Ilspa, ecco che emergono nuove magagne nelle partecipate regionali.
I problemi emergono da una relazione inviata prima alla giunta e che oggi arriverà in Commissione antimafia.
Nel documento viene esaminata l’attività delle società nel 2015 e, per Finlombarda, nel 2014. E il quadro che emerge è tutt’altro che positivo.
A partire da Arca, che si occupa degli acquisti e degli appalti centralizzati per ospedali e enti regionali.
Nei conti di questa mega centrale sono state trovate diverse spese con le carte aziendali, o addebitate alla società , senza che fosse necessario.
Si va da 16mila euro non dovuti pagati a un dipendente, alle spese per un banchetto a Milano (360 euro) e per due viaggi – uno da 1.800 euro e l’altro da 1.042 – che poco avrebbero avuto a che fare con l’azienda.
Fino a un acquisto da 60,95 euro su un sito che vende film e prodotti cinematografici. Di qui, la raccomandazione degli ispettori di “specificare nei regolamenti aziendali le modalità esclusive di utilizzo della carta di credito aziendale assegnata, nonchè un vademecum delle spese di rappresentanza”.
A Finlombarda, la cassaforte della Regione, per gli anni tra il 2014 e il 2015 gli ispettori contestano lo stipendio troppo alto del direttore: la società è guidata dall’anno scorso da Paolo Altichieri, succeduto a Giorgio Papa che ne è stato numero uno dal 2011 al 2015, quando ha lasciato dopo che il suo stipendio fu ridotto da 320mila a 240mila euro.
Adesso, i controllori sottolineano come Finlombarda debba “presentare un nuovo piano di recupero mensile della maggior retribuzione erogata nell’anno 2014 al dg, coerente con le previsioni retributive, e monitorarne in seguito l’effettiva e corretta attuazione “.
Tradotto: dovrà chiedere indietro i soldi in più pagati all’ex manager. E non solo: dovrà fare più attenzione a come i dipendenti usano il Telepass, i cellulari e le carte aziendali.
A Eupolis, l’istituto per le statistiche e le ricerche, i controllori contestano invece le troppe consulenze stipulate, con spese da 5,4 milioni nel 2013 e 5,8 nel 2014.
Mentre bacchettano la Direzione sport della Regione per l’elargizione di contribuiti “a beneficiari privi dei requisiti” in almeno in cinque occasioni: di qui, la raccomandazione di scrivere con maggiore chiarezza i futuri bandi di concorso. La struttura di Audit si è poi concentrata sull’ex Asl Milano 1 (ora Ats di Milano) e sull’ospedale di Pavia: le due aziende sono state coinvolte nell’inchiesta che ha travolto l’ex vice presidente regionale Mario Mantovani.
Proprio in seguito alla bufera, si sono mossi i controllori. Che hanno riscontrato in entrambe le aziende “carenze sistematiche” per quanto riguarda il rispetto delle regole.
“I fatti rilevati dimostrano che il problema non è nella mancanza di controlli, ma nell’opacità in cui i vertici delle società regionali sono stati lasciati operare dalla giunta Formigoni e da quella di Maroni – attacca il capogruppo dem Enrico Brambilla – . Vedremo se l’Agenzia regionale anticorruzione, oltre che costosa, sarà utile per impedire che nelle partecipate si usino carte di credito per acquisti personali o si adottino criteri discrezionali per assegnare incarichi e consulenze”.
(da “La Repubblica”)
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Luglio 20th, 2016 Riccardo Fucile
L’EX BRACCIO DI DESTRO DI MARONI CONDANNATO PER LO SCANDALO DELLE CLINICHE ODONTOIATRICHE…LADY DENTIERA SARA’ PROCESSATA CON RITO ORDINARIO
Il Tribunale di Monza ha accolto la richiesta di patteggiamento a due anni e sei mesi per Fabio Rizzi, ex presidente della commissione sanità di Regione Lombardia, accusato a vario titolo di corruzione nel maxi scandalo sulla sanità odontoiatrica in Lombardia.
Il gup però ha respinto la richiesta di patteggiamento avanzata dalla zarina delle cliniche odontoiatriche, Paola Canegrati.
Il pm Manuela Massens aveva dato il via libera per una pena di 4 anni e 2 mesi, ma il gup ha respinto mandando a processo con rito ordinario l’imprenditrice che, dopo lo scandalo, è stata ribattezzata Lady Dentiera.
Inoltre, la compagna dell’ex consigliere regionale Rizzi, Lidia Pagani, è stata condannata a quattro mesi con pena sospesa per favoreggiamento personale con non menzione della condanna.
“Attendiamo i motivi della sentenza e vedremo il da farsi – ha commentato l’avvocato Monica Alberti – valuterò per Rizzi se chiedere l’affidamento in prova”
(da “La Repubblica”)
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Luglio 20th, 2016 Riccardo Fucile
INSULTI ALLA VEDOVA DI EMMANUEL E ALLA BOLDRINI: SOSPESO DAL SERVIZIO E DENUNCIATO PER ISTIGAZIONE ALL’ODIO RAZZIALE E DIFFAMAZIONE… ORA SI IDENTIFICANO ANCHE ALTRI UTENTI: PER UNA VOLTA NON SI E’ FATTO FINTA DI NULLA
“È vero, sono stato io. Ero nervoso, gli ultimi attacchi terroristici mi avevano dato alla testa”. Avrebbe risposto così, davanti al procuratore Giuseppe Nicolosi, il poliziotto in servizio alla questura di Prato finito nella bufera per alcuni commenti shock apparsi sulla sua pagina Facebook, con violenti insulti alla vedova del ragazzo nigeriano ucciso a Fermo e irriferibili invettive contro la presidente della Camera, Laura Boldrini.
L’agente, sotto indagine per i reati di istigazione all’odio razziale e diffamazione a mezzo stampa, si è presentato in procura accompagnato dal suo legale, l’avvocato Marco Parducci.
Un faccia a faccia durato meno di un’ora, durante il quale si sarebbe mostrato pentito per le frasi, dando la “colpa” a un attacco di rabbia scatenato dalla campagna di terrore dei seguaci dell’Is.
Le conseguenze rischiano comunque di essere pesanti.
Oltre all’inchiesta penale, sul poliziotto – già spostato in via cautelare da ruoli operativi a un lavoro d’ufficio, lontano dal pubblico – pende infatti un procedimento disciplinare avviato dal questore Paolo Rossi.
I primi provvedimenti, alla luce della “confessione” resa in Procura, potrebbero scattare a breve. Nessuna voglia di parlare, intanto, da parte dell’agente. “Posso solo dire che sono state rese dichiarazioni, che il mio assistito non si è avvalso della facoltà di non rispendere – dice l’avvocato Tarducci – Per il resto siamo ancora in fase di indagine, non possiamo entrare nel merito della vicenda”.
Il caso esplode la scorsa settimana, poche ore prima della strage di Nizza.
In un crescendo di odio, l’agente attacca prima la vedova del ragazzo di Fermo, poi si scaglia con incredibile violenza contro la presidente della Camera, oggetto di insulti sessisti e macabri auspici.
Diversi i post, poi rimossi, che finiscono sul tavolo della squadra mobile e della polizia postale.
“Giustizia è stata fatta e quella donna, nera bianca o gialla che sia deve essere incriminata e lasciata alla sua vita inutile…”, il primo messaggio, pubblicato insieme con un articolo di stampa in cui si parla della presunta nuova versione di Chiniery sui fatti che hanno portato alla morte del marito.
Poi gli attacchi si concentrano su Boldrini, per la scelta di non partecipare ai funerali delle nove vittime italiane del terrorismo a Dacca e “santificare” invece due persone, Emmanuel e sua moglie, che “che hanno mandato in galera un innocente”.
Le frasi suscitano indignazione tra gli utenti, ma c’è anche chi le difende, donne comprese.
Il tam tam finisce per rimbalzare in tutta la città , tanto che nel giro di poche ore gli screenshot raggiungono gli uffici di polizia e poi il tavolo dello stesso questore Paolo Rossi.
La reazione è dura: prima una segnalazione d’urgenza in procura, poi un provvedimento amministrativo “in via cautelare”, con il poliziotto spostato in un ufficio in attesa della fine degli accertamenti. In un primo momento le indagini si concentrano proprio sul profilo Facebook, per sgombrare il campo da ipotesi come un furto d’identità , un hackeraggio, o uno scherzo di cattivo gusto, ma col passare dei giorni i dubbi lasciano spazio alle prime certezze.
Fino a ieri pomeriggio, quando l’agente si è presentato in Procura e ha ammesso la paternità delle frasi. Le indagini vanno comunque ancora avanti.
Non si esclude, al momento, che nel mirino possano finire anche altri utenti che hanno aderito ai commenti razzisti.
(da “La Repubblica“)
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Luglio 20th, 2016 Riccardo Fucile
AVEVANO COMPIUTO ATTENTATI CON ESPLOSIVO A QUATTRO CHIESE DELLA CITTADINA
Sono di Fermo, entrambi intorno ai 36 anni, i due uomini sottoposti a fermo di polizia giudiziaria nell’ambito dell’inchiesta sugli ordigni esplosi davanti alle chiese del Fermano.
Secondo le prime indiscrezioni, proverrebbero dall’ambiente degli ultrà della Fermana e sarebbero in qualche modo legati ad Amedeo Mancini, in carcere per l’omicidio del nigeriano Emanuel Chidi Namdi.
Uno dei due sarebbe una sorta di ideologo, convertito dai valori ultrà di destra a quelli anarchici.
In casa dell’uomo i carabinieri hanno trovato e sequestrato alcuni libri che testimonierebbero questo passaggio e gli orientamenti ideologici dell’indagato.
In questo contesto avrebbe maturato la decisione di colpire l’ordine costituito, scegliendo in particolare le chiese.
Sarebbe stato lui a dare incarico all’altro fermato di confezionare gli ordigni che avrebbero poi materialmente posizionato insieme nei luoghi da colpire.
I due fermani, che vivono facendo lavori saltuari, sono stati arrestati per ordine della Procura di Fermo con l’accusa di danneggiamento aggravato e violazione dell’art. 1 della legge in materia di armi, relativamente al confezionamento e al possesso degli ordigni.
Gli ordigni fatti esplodere negli ultimi mesi davanti ad altrettante chiese di Fermo sono quattro: tra febbraio e marzo due bombe rudimentali sono scoppiate davanti al Duomo e davanti all’ingresso della chiesa di San Tommaso, nel quartiere di Lido Tre Archi. Nella notte tra il 12 e il 13 aprile, un altro ordigno ha danneggiato l’ingresso della chiesa di San Marco alle Paludi, parrocchia retta da monsignor Vinicio Albanesi della Comunità di Capodarco. A fine maggio, un ordigno inesploso era stato trovato davanti alla Chiesa di San Gabriele dell’Addolorata.
L’inchiesta sui quattro episodi è condotta dalla Procura di Fermo.
Tra le ipotesi fatte finora, quella di gesti intimidatori nei confronti della chiesa fermana, particolarmente attiva a fianco di poveri, immigrati, disagiati.
“Siamo una chiesa che dà fastidio” aveva detto lo stesso don Vinicio in occasione dell’attentato a San Marco.
Poi, dopo l’omicidio di Emmanuel, il migrante nigeriano colpito con un pugno dall’ultrà Amedeo Mancini e morto dopo poco, il sacerdote aveva rilevato che dietro gli episodi vi sarebbe lo stesso ‘clima’: “un contenitore di un magma formato da violenza, aggressività , frustrazione, esibizionismo”, non organizzato ma formato da “schegge impazzite in grado di coagularsi all’occorrenza”.
(da “Huffingtonpost”)
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Luglio 20th, 2016 Riccardo Fucile
LA DIMOSTRAZIONE CHE PER GLI ASSASSINI DELL’ISIS LA RELIGIONE E’ SOLO UN PRETESTO
“La conferma della notizia della morte di nostri connazionali accresce il dolore per la strage di Nizza. Sono vicino, con grande solidarietà , ai familiari di Maria Grazia Ascoli, Mario Casati, Angelo D’Agostino, Carla Gaveglio, Nicolas Leslie, Gianna Muset, il cui sangue innocente è stato sparso da una mano violenta e folle, armata dall’intolleranza e dal fanatismo”, ha affermato il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in una dichiarazione diffusa dal Quirinale.
“Piangendo i nostri morti e uniti al cordoglio per tutte le vittime del terrorismo – dice ancora il Capo dello Stato – ribadiamo con forza che la violenza oscurantista del fondamentalismo di matrice islamica, come ogni forma di terrorismo, non ci piega. L’odio e la furia brutale, che non si ferma nemmeno davanti ai bambini, ci spingono ancor di più a difendere i nostri valori e a rifiutare ogni forma di violenza”.
Nizza, una strage senza senso, in nome di un niente che si fa beffa perfino di quell’Allah urlato per uccidere “infedeli”.
Le vittime sono state infatti tutte formalmente identificate.
Almeno 30 delle 84 persone uccise erano di religione musulmana. Lo ha riferito il quotidiano cattolico francese La Croix, precisando che 20 erano di nazionalità tunisina come l’attentatore, Mohamed Lahouaiej Bouhlel.
A confermare il numero di musulmani è stato l’imam di Nizza e presidente dell’Unione dei musulmani della regione delle Alpi marittime, Otmane Aissaoui. Tra i 30 musumani ci sono anche alcuni bambini, ha precisato.
(da agenzie)
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