Luglio 27th, 2016 Riccardo Fucile
“E AL MIO FUNERALE NON VOGLIO I FABBRICATORI DI ODIO CHE FANNO CARRIERA SULLE DISGRAZIE ALTRUI”
Non succederà , ma se dovesse accadere di restare ammazzato da chicchessia, per favore, vi prego, non uccidetemi una seconda volta.
Se dovessi essere sgozzato o decapitato o sventrato da un delirante di “Allah Akbar!”, vi prego, per favore, non uccidetemi due volte: non confondete l’Isis con l’Islam.
E se il mio uccisore dovesse essere un nero o un emigrato, vi prego, per favore, davanti alla mia bara non uccidete anche la mia memoria: non confondete il delinquente con l’emigrante.
Al mio funerale non voglio i maestri dell’imbroglio, i fabbricatori d’odio, coloro che investono sulle paure e coloro che fanno carriera sulle disgrazie altrui. Morirei una seconda volta.
E questa volta per davvero!
P.S. Dimenticavo. Dovessi morire per mano di un qualsiasi assassino vorrei il silenzio stampa. In fondo, a morire sarei solo io.
Non voglio prestarmi, nemmeno da morto, a questo gioco osceno che va in onda quotidianamente a reti unificate: quello di far credere che il nostro nemico sia l’Islam e non il terrorismo quotidiano e permanente di una finanza che affama, di un mercato che desertifica e di una politica nullafacente.
E le cui vittime sono milioni e milioni, non esclusi gli stessi terroristi.
Don Aldo Antonelli
(da “Huffingtonpost“)
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Luglio 27th, 2016 Riccardo Fucile
SOLO IL SINDACO PIPPI MELLONE, VIETANDO LA RACCOLTA NELLE ORE PIU’ CALDE E PORTANDO CONTAINER CON BAGNI E DOCCE, STA CERCANDO DI CAMBIARE LE COSE… LA VERGOGNA DI 15 GROSSI PROPRIETARI TERRIERI CHE HANNO FATTO RICORSO AL PREFETTO E AL TAR, MA MELLONE NON MOLLA
Il caporalato ai tempi di Internet vive grazie a Telegram e Whatsapp: messaggi in arabo, inglese e
francese per convocare i braccianti al lavoro e concordare le paghe, perfino le foto dei capisquadra per dimostrare chi ha lavorato e quanto.
Evolve la complessa organizzazione para-criminale che gestisce il lavoro nelle campagne del Salento.
E nel ghetto di Nardò i migranti non staccano gli occhi dai telefonini. Entrare in quella terra di mezzo in contrada Arene-Serrazze è impresa ardua. Difficile portare in mano videocamere e macchine fotografiche, pure il telefono cellulare è meglio metterlo via. Perchè i ragazzi del ghetto – almeno duecento, di una decina di nazionalità – dopo essere stati esibiti per anni sui media, guardano tutti con sospetto.
La rivolta della masseria Boncuri del 2011 ormai è un ricordo e l’obiettivo primario di ognuno è solo lavorare qualche ora al giorno e tornare al campo con pochi euro in tasca.
I più fortunati racimolano 30 euro a giornata, qualcuno molto meno, considerato che la raccolta del pomodoro viene pagata circa 3,5 euro a cassone (ciascuno da 350 chilogrammi) e le angurie 5 euro all’ora.
Contratti non ne ha firmati nessuno. O almeno così raccontano i lavoratori, mostrando fogli che indicano una fantomatica ‘disponibilità al lavoro’ acquisita dalle aziende. Con la mediazione rigorosa dei caporali, che sono stati i primi ad arrivare in Salento e ora gestiscono il lavoro con il telefonino, affidando ai capisquadra le verifiche nei campi e anche il trasporto delle persone.
Dal ghetto si parte alle 5,30-6, intorno alle 12,30 molti furgoni sono di ritorno perchè alcune aziende rispettano l’ordinanza del sindaco, Pippi Mellone, che ha inibito il lavoro dalle 12 alle 16.
I 15 proprietari delle ditte più grosse hanno fatto ricorso al prefetto e al Tar, ma per il primo cittadino indietro non si torna.
Lui la patata bollente dei braccianti l’ha ereditata a stagione iniziata: in un’area comunale accanto alle casupole sono state sistemate 22 tende (20 del ministero dell’Interno e due del Comune), container con bagni e docce inviati dalla Regione e da Coldiretti, aperto un presidio sanitario e avviati corsi sulla sicurezza sul lavoro.
Nel campo, però, trovano posto 132 persone a fronte di almeno 400 che orbitano nell’hinterland neretino e da quest’anno si spingono a lavorare fino al Brindisino, a Ginosa, al Metapontino.
Per gli altri resta il ghetto in cui neppure gli addetti alla raccolta della spazzatura vogliono mettere piede, limitandosi a svuotare i tre bidoni vicino al cancello.
Dentro, per forza di cose, i rifiuti sono ovunque, i servizi igienici non esistono e un odore nauseabondo ammorba l’aria.
Nelle casupole costruite con materiale di risulta si cerca di mantenere una parvenza di dignità , ma non è facile quando il pavimento è la terra rossa e abiti e suppellettili vedono l’acqua di radi.
I gruppi sono divisi per etnie e poi anche per tribù – spiega Angelo Cleopazzo di Diritti a Sud – ognuno con un capo che mantiene l’ordine e stempera i conflitti.
A pochi metri dall’ingresso il primo bar, con tre uomini intenti a preparare il pranzo per chi torna dal lavoro: “Oggi fave, pomodoro, uova e cipolla”, spiega un ragazzone che poi insiste per offrire il caffè.
Più avanti si cambia Paese d’origine e quindi menù: “Oggi uova e carne, assaggia questo frullato, lo faccio io tutti i giorni”. Il sapore è buono, il bicchiere grande costa un euro, 2 il panino, 50 centesimi il caffè.
Tutto è organizzato. Anche le sale tv sotto le tende, dove risuona il telegiornale di Al Jazeera, il barbiere, il meccanico, la sera tre o quattro disco-pub e le case delle prostitute, una quindicina di nigeriane portate dalle matrone e gestite da protettori. Perchè se pure nel ghetto di Nardò lo Stato non vuole entrare, dentro ci sono comunque persone.
Che hanno rinunciato ai diritti di lavoratori, ma non alla loro umanità .
(da “La Repubblica”)
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Luglio 27th, 2016 Riccardo Fucile
UNA CULTURA CHE BANALIZZA LA VIOLENZA VERBALE E FISICA SULLE DONNE
Matteo Salvini che mostra dal palco a Soncino una bambola gonfiabile definendola “la sosia di Laura Boldrini” e suscitando le risate del pubblico, donne comprese.
E poi 11 ragazzi minorenni accusati nel napoletano di aver violentato più volte una quindicenne attirata in trappola dal fidanzato. La ragazzina sarebbe stata filmata con un cellulare durante un rapporto sessuale con il proprio fidanzatino e successivamente è scattato il ricatto: è stata così costretta ad avere rapporti con gli amici di quest’ultimo sotto la minaccia di pubblicazione su Internet del filmato. Le violenze sono state filmate e diramate sui social.
Cosa hanno in comune queste due storie?
La banalizzazione della violenza sulle donne e una cultura sessista diffusa che “giustifica” atti come quello di Napoli.
Perchè se un uomo politico può usare quel linguaggio impunemente come facciamo a spiegare ai nostri figli che le donne non sono oggetti di consume e meritano rispetto? Laura Boldrini, presidente della Camera, è capace di difendersi e ha liquidato Salvini con intelligenza: “Le donne non sono bambole e la lotta politica si fa con gli argomenti, per chi ne ha, non con le offese”.
Ma la ragazza quindicenne come può difendersi?
Torniamo a parlare di un tema mai finito: la violenza di genere. Sistematica, trasversale, specifica e gravissima, culturalmente radicata, una violazione dei diritti umani tra le più diffuse.
I dati statistici sono inquietanti, e malgrado le campagne di sensibilizzazione non sono migliorati negli ultimi anni.
Resta cioè un problema serio che colpisce individui, famiglie, comunità , la società nel suo complesso. Superando ogni confine, non c’è luogo al mondo dove la violenza di genere sia eliminata.
Ed esiste inoltre un sommerso di violenze “ordinarie” su bambine, ragazze e donne di drammatiche proporzioni, nel quale rientrano anche forme più subdole, meno eclatanti, che annientano la soggettività della donna sul piano psicologico, economico e sociale, con conseguenze insidiosamente distruttive di vasta portata.
LA VIOLENZA NON È (SOLO) ALTROVE
Alziamo spesso il dito contro comunità e paesi dove le donne sono costrette nel burqua, lapidate per adulterio, e bambine stuprate e uccise da gruppi di maschi.
Ma sulle nostre atrocità siamo restii, tendiamo a confinarle come episodi di cronaca nera, a considerarle lontane da noi, quasi non ci appartenessero.
Non sembra, tutto sommato, ci sia uno sforzo attivo, un impegno sociale volto ad estirpare, a lavorare dal basso verso la violenza contro le donne, come succede ad esempio per la lotta contro il cancro al seno.
In Italia viene assassinata una donna ogni due o tre giorni. Secondo il terzo rapporto Eures riferito all’anno 2014, nel 94% dei casi l’assassino è uomo: il coniuge, il convivente, il fidanzato, un ex, a volte il padre.
Si tratta di delitti particolarmente efferati, realizzati con armi da taglio oppure a mani nude attraverso percosse, strangolamento, soffocamento. I corpi sono fatti a pezzi, bruciati, gettati in un burrone. Gelosia e possesso i moventi nella maggioranza dei casi. Come donne veniamo assassinate perchè si decide di uscire da una relazione di coppia, si esprime l’intenzione di farlo, si sceglie un nuovo compagno, si dà adito a gelosie. In altri casi perchè ad un certo punto il nostro partner vuole eliminarci come oggetto di intralcio. Per noi è l’intimità il luogo più violento al mondo.
LA VIOLENZA BANALIZZATA
Omicidio passionale, amore criminale, imprevedibilità del gesto folle, gelosia e raptus incontrollato sono però definizioni pericolose e fuorvianti. Perchè non fanno capire cosa succede veramente.
Non dicono che ci sono in genere denunce, abusi e maltrattamenti precedenti, escalation di vessazioni e persecuzioni.
Non fanno capire che molte volte la donna ha denunciato e chiesto aiuto ma sono mancate risposte adeguate dal punto di vista istituzionale. Non aiutano a comprendere lo scenario inquietante di queste barbarie, una cultura millenaria di possesso dell’uomo sulla donna, e di sottomissione femminile.
Della sopravvivenza di convinzioni pericolose legate al rapporto uomo-donna che affondano nel sentire comune, che portano lei a nascondere l’abuso, a non riconoscerlo, a pensare che poi lui cambierà , che se maltratta è “perchè mi ama veramente, bisogna sopportare, l’amore violento è quello più forte”.
Non rendono chiaro che la violenza è utilizzata nelle relazioni per affermare potere, controllo, dominio e possesso maschile sulla donna.
Che sussistono atteggiamenti e credenze a sostegno della violenza che influenzano il comportamento dei singoli, si infiltrano nelle relazioni, nelle comunità . Quando si giustifica, si scusa, si pensa che alla fine gli uomini siano biologicamente predisposti, impossibilitati a frenare il loro impeto aggressivo o sessuale.
Quando si banalizza pensando che la violenza in una coppia sia dopotutto inevitabile, forse le donne “godono” ad esse stuprate e se vogliono possono lasciare un compagno violento. Si nega, pensando che le donne esagerino sulle affermazioni di abuso. Si dà la colpa a chi subisce, a chi dice no ma vuole dire sì. Si tende ad avere una percezione ristretta nell’interpretazione della violenza, si riducono al minimo i danni. Si mostra meno empatia con la vittima e più con l’aggressore.
PARLIAMO DI VIOLENZA
Oggi si discute sull’appropriatezza del termine femminicidio, ci sono resistenze alla sua introduzione, sembra distingua forzatamente il delitto sulla base del sesso della vittima.
Di contro l’esigenza di identificare un concetto nuovo, o meglio un fenomeno tristemente antico, verso il quale è cambiata però la percezione della gravità . Non possiamo comunque fare a meno di ricordare che fino a ieri nella nostra storia, precisamente il 1981, questo tipo di crimine era salvaguardato.
Il nostro ordinamento giuridico prevedeva infatti pene scontate ad un uomo che uccideva in un impeto d’ira la moglie, la figlia o la sorella al fine di salvaguardare l’onore della propria famiglia. Era un “delitto riparatore”. È da qui che veniamo.
E quando si scrive e si parla, è la violenza a diventare soggetto, le donne oggetto mentre facciamo sparire gli autori dalla discussione.
Che sono uomini nella quasi totalità dei casi. La cultura della violenza fisica e sessuale di genere vede infatti a livello mondiale il maschio violento contro donne, bambini e altri uomini.
Ma quando si racconta questo fenomeno agghiacciante ci concentriamo soprattutto sulle vittime, si sorvola sui responsabili costruendo così un silenzio dannoso che limita la possibilità di concettualizzare, prendere consapevolezza e progettare soluzioni.
Non citare gli autori contribuisce a creare equivoci. Parlare di violenza domestica, contro le donne o femminicidio significa omettere i colpevoli. Non dare risalto allo squilibrio di potere nei rapporti di genere, centrale invece per spiegare e affrontare la violenza: donne e uomini non hanno lo stesso potere, le loro risorse, idee e lavoro non sono valutati allo stesso modo.
Spostando l’attenzione sui responsabili il sito Inquantodonna.it realizza una toccante e sconvolgente bacheca virtuale che mette online il volto delle donne uccise, degli assassini e, non dimentichiamo, dei figli molte volte coinvolti.
Si scopre che ciò che accomuna i carnefici, oltre ad essere partner intimi della vittima, è la volontà di affermare il «dominio» sulla donna assassinata, al punto di poterne disporre la morte.
E anche il fatto di beneficiare spesso di una certa indulgenza giudiziaria. Pene ridotte, patteggiamenti, permessi premio, domiciliari per tentato omicidio che permettono poi di completare il crimine.
Raramente rischiano l’ergastolo, a meno che non siano extracomunitari.
Forse anche l’utilizzo della parola “vittima” in un qualche modo evoca concetti di purezza morale che mettono sotto processo.
Smuove il pregiudizio per il quale ad esempio la vittima di stupro era vestita in modo provocatorio, andava in giro di notte da sola, non era così innocente, se l’è cercata. Come è successo, con commenti anche femminili, per le due turiste assassinate e lasciate in sacchi dell’immondizia in Ecuador.
Il post della pagina di Facebook “Ieri mi hanno uccisa” ha fatto il giro del mondo per difendere il diritto delle donne a viaggiare da sole, cioè senza la scorta di un maschio. Perchè se qualche uomo ci fa del male, alla fine sembra che la colpa sia sempre la nostra.
Brunella Gasperini
psicologa
(da “La Repubblica”)
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Luglio 27th, 2016 Riccardo Fucile
L’APPELLO DI TAHAR BEN JELLOUN: “DOBBIAMO SCENDERE IN PIAZZA E UNIRCI CONTRO DAESH”… “NON ABBIAMO BISOGNO DI OBBLIGARE LE NOSTRE DONNE A COPRIRSI COME FANTASMI NERI”
L’Islam ci ha riuniti in una stessa casa, una nazione. Che lo vogliamo o no, apparteniamo tutti a
quello spirito superiore che celebra la pace e la fratellanza.
Nel nome “Islam” è contenuta la radice della parola “pace”. Ma ecco che da qualche tempo la nozione di pace è tradita, lacerata e calpestata da individui che pretendono di appartenere a questa nostra casa, ma hanno deciso di ricostruirla su basi di esclusione e fanatismo.
Per questo si danno all’assassinio di innocenti. Un’aberrazione, una crudeltà che nessuna religione permette.
Oggi hanno superato una linea rossa: entrare nella chiesa di una piccola città della Normandia e aggredire un anziano, un prete, sgozzarlo come un agnello, ripetere il gesto su un’altra persona, lasciandola a terra nel suo sangue tra la vita e la morte, gridare il nome di Daesh e poi morire: è una dichiarazione di guerra di nuovo genere, una guerra di religione. Sappiamo quanto può durare, e come va a finire. Male, molto male.
Perciò dopo i massacri del 13 novembre a Parigi, la strage di Nizza e altri crimini individuali, siamo tutti chiamati a reagire: la comunità musulmana dei praticanti e di chi non lo è, voi ed io, i nostri figli, i nostri vicini.
Non basta insorgere verbalmente, indignarsi ancora una volta e ripetere che “questo non è l’Islam”. Non è più sufficiente, e sempre più spesso non siamo creduti quando diciamo che l’Islam è una religione di pace e di tolleranza.
Non possiamo più salvare l’Islam – o piuttosto – se vogliamo ristabilirlo nella sua verità e nella sua storia, dimostrare che l’Islam non è sgozzare un sacerdote, allora dobbiamo scendere in massa nelle piazze e unirci attorno a uno stesso messaggio: liberiamo l’Islam dalle grinfie di Daesh.
Abbiamo paura perchè proviamo rabbia. Ma la nostra rabbia è l’inizio di una resistenza, anzi di un cambiamento radicale di ciò che l’Islam è in Europa.
Se l’Europa ci ha accolti, è perchè aveva bisogno della nostra forza lavoro.
Se nel 1975 la Francia ha deciso il ricongiungimento famigliare, lo ha fatto per dare un volto umano all’immigrazione.
Perciò dobbiamo adattarci al diritto e alle leggi della Repubblica. Rinunciare a tutti i segni provocatori di appartenenza alla religione di Maometto.
Non abbiamo bisogno di obbligare le nostre donne a coprirsi come fantasmi neri che per strada spaventano i bambini.
Non abbiamo il diritto di impedire a un medico di auscultare una donna musulmana, nè di pretendere piscine per sole donne.
Così come non abbiamo il diritto di lasciar fare questi criminali, se decidono che la loro vita non ha più importanza e la offrono a Daesh.
Non solo: dobbiamo denunciare chi tra noi è tentato da questa criminale avventura. Non è delazione, ma al contrario un atto di coraggio, per garantire la sicurezza a tutti. Sapete bene che in ogni massacro si contano tra le vittime musulmani innocenti. Dobbiamo essere vigilanti a 360 gradi.
Perciò è necessario che le istanze religiose si muovano e facciano appello a milioni di cittadini appartenenti alla casa dell’Islam, credenti o meno, perchè scendano nelle piazze per denunciare a voce alta questo nemico, per dire che chi sgozza un prete fa scorrere il sangue dell’innocente sul volto dell’Islam.
Se continuiamo a guardare passivamente ciò che si sta tramando davanti a noi, presto o tardi saremo complici di questi assassini.
Apparteniamo alla stessa nazione, ma non per questo siamo “fratelli”.
Oggi però, per provare che vale la pena di appartenere alla stessa casa, alla stessa nazione, dobbiamo reagire. Altrimenti non ci resterà altro che fare le valigie e tornare al Paese natale.
Tahar Ben Jelloun
(da “La Repubblica“)
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Luglio 27th, 2016 Riccardo Fucile
SOCIETA’ DI COMODO IN ITALIA, CON TRIANGOLAZIONI IN POLONIA E SLOVACCHIA TRA 96 AZIENDE DEL NORD ITALIA E 12 ESTERE
I militari della guardia di finanza di Clusone, in provincia di Bergamo, l’hanno battezzata Penelope. Perchè nella tela, o meglio nella ragnatela di false fatture e società inesistenti, alla fine sono rimaste impigliate qualcosa come 96 ditte italiane e 12 estere attive nel settore del commercio dei filati.
La frode fiscale stimata ammonta complessivamente a 270 milioni di euro, con un danno per le casse dello Stato di 40 milioni di euro.
Sono 58 le persone denunciate, 15 delle quali accusate di associazione per delinquere. Di queste, 6 sono residenti in provincia di Bergamo, 9 nel Milanese, 16 in provincia di Varese, 8 in provincia di Biella, mentre gli altri sono per lo più residenti in varie parti del Nord Italia.
Le indagini sono partite da una verifica condotta nei confronti di una società di Cene, nel Bergamasco.
I militari, insospettiti dagli improvvisi affari d’oro registrarti nell’ultimo biennio, hanno approfondito le ragioni di tanto successo, arrivando a scoprire un ingente giro di fatture false messo in piedi attraverso società di comodo gestite da prestanome, in Italia e all’estero.
Il carosello delle fatture false partiva da soggetti economici italiani, proseguiva attraverso una serie di società filtro appositamente costituite in Polonia e Slovacchia, per poi tornare sul territorio nazionale attraverso una serie di società cartiere. Infine,
si concludeva nelle stesse imprese che avevano dato inizio al giro di affari fittizi, il tutto senza che vi fosse reale compravendita di merce.
In questo modo, sfruttando i benefici previsti dalla normativa sulle operazioni intracomunitarie, il sodalizio trasferiva un ingente credito Iva nelle casse dei beneficiari finali.
Gli accertamenti sono stati svolti in collaborazione con le autorità polacche e slovene che hanno anche loro avviato le indagini per frode fiscale.
(da “La Repubblica”)
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