Ottobre 10th, 2016 Riccardo Fucile
SE VINCESSE IL NO, IN UNA IPOTETICA SUCCESSIONE A MATTEO, SONO I TRE IN POLE POSITION
Appena cinquantacinque giorni, tanti ne mancano al referendum costituzionale, e Matteo Renzi potrebbe essere costretto a subire il rito del campanellino — quello che sancisce il passaggio di consegne tra il presidente del Consiglio uscente e il subentrante — dopo averlo inflitto a Enrico Letta.
E saranno pure soltanto retroscena, cose che «i giornalisti si divertono a scrivere», come ha detto ieri Dario Franceschini nell’intervista con Maria Latella.
Ma nei palazzi romani c’è un nome fra tutti che si rincorre per un’ipotetica successione a Renzi in caso di vittoria del No.
Quello, appunto del ministro della Cultura. Lo stesso Renzi, due giorni fa a Firenze, ha buttato lì una battuta davanti all’interessato. «Caro Dario, l’ultimo ferrarese che è passato di qui ha fatto una brutta fine, una finuccia…».
A Franceschini, che oltre a essere di Ferrara è anche un appassionato di storia, deve essere corso un brivido nella schiena pensando al dominicano Savonarola, arrostito in piazza della Signoria.
Ma se le battute servono a stemperare una tensione, la realtà non cambia. Perchè effettivamente se c’è qualcuno che può tenere unita l’attuale maggioranza e portarla a fine legislatura, mentre il Parlamento si impegna ad approvare una nuova legge elettorale, quello è Franceschini.
Leader di Areadem, un correntone a cui fa riferimento la maggioranza dei parlamentari Pd e alla quale appartengono, tra l’altro, entrambi i capigruppo: Zanda e Rosato.
Lo sa bene il premier quanto conti, visto che solo grazie a lui riuscì a far saltare il governo Letta. Vicino ai giovani turchi e alla sinistra di Orlando, Martina e Fassino, l’ex segretario Pd ha inoltre buoni rapporti con Forza Italia.
Un tassello non secondario in vista di un post-referendum dove giocoforza saranno il Pd e Berlusconi a doversi mettere d’accordo. Ma soprattutto il ministro della Cultura gode della stima del capo dello Stato.
A rimettere in cima al mazzo la carta Franceschini è stato, forse involontariamente, un suo fedelissimo, il deputato Piero Martino.
Che su Twitter ha ripubblicato, aggiungendo un commento positivo, un retroscena di Panorama sulle mosse che potrebbero portare il suo capo a soffiare la poltrona a Renzi.
Ingenuità o mossa calcolata? Fatto sta che a Montecitorio nei capannelli dem venerdì si parlava solo di questo tweet. E il giorno dopo…zac! Ecco Renzi che fulmina il ministro con la battuta sul rogo di Savonarola.
Ma se davvero le cose dovessero andare storte per il premier, ci sono almeno altri due uomini pronti a entrare nella rosa del capo dello Stato.
Il candidato naturale è Pier Carlo Padoan, per il suo standing internazionale e perchè Mattarella dovrebbe come prima cosa rassicurare i mercati.
Quello stesso Padoan che a Bloomberg, da Washington, ha promesso: «Continueremo a spingere sulle riforme anche se dovesse vincere il no».
Renzi quando l’ha letta è sobbalzato: «Continueremo chi?». Sebbene più defilato un altro candidato s’intravede sullo sfondo.
Il giovane Carlo Calenda, possibile premier di un governo che ancora spinga sulla crescita. Raccontano che lo sventurato se ne sia vantato di recente con la persona sbagliata, che immediatamente è corsa a spifferarlo al premier, mettendo Calenda in cattiva luce.
Perchè non bisogna dimenticare un dato fondamentale: il 5 dicembre forse Renzi non sarà più a palazzo Chigi, ma certamente resterà al Nazareno.
E qualsiasi successore dovrà avere anche il suo imprimatur.
Francesco Bei
(da “La Stampa”)
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Ottobre 10th, 2016 Riccardo Fucile
GLI IMMIGRATI SONO UNA RISORSA: DAI 5 MILIONI DI STRANIERI ARRIVANO 7 MILIARDI DI IRPEF E 11 DI CONTRIBUTI PREVIDENZIALI PAGANO DI FATTO 640.000 PENSIONI
Gli immigrati battono la Fiat, o quasi. Il Pil prodotto dagli stranieri nel nostro Paese infatti è pari a 127 miliardi di euro, di poco inferiore al fatturato (136 miliardi, per altro sbilanciati verso gli Usa) del grande gruppo automobilistico. Non solo.
Se fossero un’azienda, i “nuovi italiani” sarebbero la 25esima impresa più grande del mondo.
E ancora: il pianeta immigrazione produce 11 miliardi di contributi previdenziali ogni anno, 7 miliardi di Irpef e pesa per il 2% sulla spesa pubblica italiana.
Questa è la fotografia scattata dalla Fondazione Leone Moressa nel suo Rapporto annuale sull’economia dell’immigrazione.
Nel nostro Paese al 1 gennaio 2016 vivono oltre 5 milioni di stranieri, ovvero l’8,3% della popolazione totale.
Per lo più giovani: nel 2015, gli italiani in età lavorativa rappresentano il 63,2%, mentre tra gli stranieri la quota raggiunge il 78,1%.
Gli anziani, invece, sono il 23,4% tra gli italiani e solo il 3% tra gli immigrati. Importante il loro peso economico.
Per capirne l’ordine di grandezza, i ricercatori della Moressa ricorrono a un “gioco”: il Pil prodotto dagli stranieri nel 2015 è di 127 miliardi (8,8% del Pil nazionale), di poco inferiore al fatturato del gruppo FCA (pari a 136 miliardi).
Da dove proviene questa ricchezza?
Oltre la metà del “Pil dell’immigrazione” deriva dal settore dei servizi (50,7%), ma l’incidenza maggiore si registra nella ristorazione dove gli stranieri producono il 19% della ricchezza complessiva.
Esiste però un problema di produttività : il Pil degli immigrati in Italia è di poco superiore a quello del comparto tedesco della fabbricazione di veicoli.
Tuttavia, mentre in questo caso la produttività per occupato supera i 135mila euro, nel caso degli stranieri è di poco superiore ai 50mila.
Come si spiega? Il 47% degli immigrati è occupato (contro il 36% della popolazione italiana), ma nella maggior parte dei casi (66%) si tratta di lavori a bassa qualifica. Questo si traduce in differenze di stipendio e reddito molto alte.
Solo di Irpef la differenza procapite tra italiani e stranieri è di 2 mila euro. Non solo. Nel 2015 le famiglie con almeno un componente straniero al di sotto della soglia di povertà erano il 38%, contro il 6% delle famiglie totali.
Confronto occupazionale italiani e stranieri Italiani Stranieri
Occupati (15 ed oltre) 20.105.688 2.359.06
Incidenza occupati su popolazione totale 36,0% 47,0%
Tasso di occupazione (15-64 anni) 56,0 58
Percentuale di occupati a bassa qualifica 30,8% 66,0
Titolo di studio medio-elevato* occupati 69,3% 55,2%
*Diploma superiore/laurea – Elaborazioni Fondazione Leone Moressa su dati Istat
Il rapporto si sofferma poi sui benefici economici dell’immigrazione.
Essendo prevalentemente in età lavorativa, gli stranieri sono soprattutto contribuenti: nel 2014 i loro contributi previdenziali hanno raggiunto quota 10,9 miliardi e “si può calcolare che equivalgono a 640mila pensioni italiane”.
A questo va aggiunto il gettito Irpef complessivo versato dagli immigrati (l’8,7% del totale dei contribuenti) pari a 6,8 miliardi.
Molti tra loro poi fanno impresa: nel 2015 si contano 656mila imprenditori immigrati (principalmente da Marocco, Cina e Romania) e 550mila imprese a conduzione straniera (il 9,1% del totale).
Significativo il trend degli ultimi anni (dal 2011 al 2015): mentre le imprese condotte da italiani sono diminuite del 2,6%, quelle di immigrati hanno registrato un incremento del 21,3%.
Infine i costi. L’Italia è il Paese europeo che spende di più per le pensioni: quasi il 17% del Pil (270 miliardi). Ma oggi gli extracomunitari pensionati sono circa 71mila e i comunitari dell’Europa dell’Est circa 25mila. Quindi i pensionati stranieri sono solo 100mila mentre i pensionati totali oltre 16 milioni.
I settori in cui la spesa per l’immigrazione è più rilevante sono quelli del welfare e della sicurezza.
I ricercatori della Moressa calcolano comunque che “il costo degli stranieri sia inferiore al 2% della spesa pubblica”.
(da “La Repubblica”)
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Ottobre 10th, 2016 Riccardo Fucile
“CI SONO TEMI CHE GIACCIONO DA MESI IN COMMISSIONE”… ANCHE NELLA STESSA LEGA VOCI CRITICHE SULL’IMMOBILISMO DI MARONI
Consiglio regionale fermo per venti giorni. Mancano provvedimenti della giunta da approvare. L’ultimo è stato per dichiarare la lotta ai cinghiali.
Salta anche la seduta di martedì 18 ottobre che doveva essere dedicata a fare il punto sul dopo Expo.
Lo stop è stato imposto dal centrodestra, in testa la Lega, nonostante le insistenze del presidente del Consiglio, Raffaele Cattaneo, che voleva convocare l’aula.
La denuncia arriva dal movimento Cinque stelle, ma è condivisa anche da altri gruppi dell’opposizione di centrosinistra al Pirellone come il Pd.
Nel frattempo, molti progetti di legge proposti dalla minoranza, dalla lotta al fenomeno del cyberbullismo all’utilizzo della cannabis a scopo terapeutico, giacciono da mesi nelle commissioni consiliari.
Ne ha dovuto prendere atto l’ufficio di presidenza dopo che l’ultima riunione dei capigruppo ha deciso di sospendere i lavori per almeno due settimane.
La prossima seduta, che però non è stata ancora convocata, dovrebbe tenersi martedì 25 ottobre. L’ultima riunione d’aula martedì scorso è stata dedicata interamente ai question time e alle mozioni.
“La giunta detta i temi e i tempi del nostro lavoro, ma se non arrivano proposte stiamo fermi – attacca il capogruppo grillino in Regione Gianmarco Corbetta – Se penso che all’ultima conferenza dei capigruppo il rappresentante della giunta ha dichiarato che la loro priorità era la lotta ai cinghiali, mi viene da ridere. Se non hanno nulla da proporre, almeno potrebbero discutere i nostri provvedimenti fermi nelle commissioni”.
Non fa sconti alla maggioranza nemmeno il consigliere regionale del Pd Fabio Pizzul che commenta: “Delle due l’una: o è evidente che questa maggioranza fa fatica a mettersi d’accordo, o la giunta presieduta da Roberto Maroni ha poche idee. Entrambe le questioni ci dicono di un sostanziale stato di stallo di questa giunta, che va avanti solo per inerzia e senza avere una visione della Lombardia”.
Dal centrodestra, risponde il capogruppo della Lega Massimiliano Romeo, che di recente, in diverse occasioni, non ha mancato di sollecitare lo stesso governatore, che fa parte del suo partito, a un cambio di passo. “Un momento di pausa può essere utile per il lavoro delle commissioni. Certo ci auguriamo che i provvedimenti più importanti arrivino quando si discuterà il bilancio”.
Sta di fatto che nelle 24 sedute che si sono svolte dall’inizio dell’anno, l’aula si è concentrata più su temi come la “tutela della lingua lombarda” che su argomenti di stampo sociale.
(da “La Repubblica“)
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Ottobre 10th, 2016 Riccardo Fucile
IL PRESIDENTE DEL CONI SI TOGLIE QUALCHE SASSOLINO DALLA SCARPA
«È stato non vero, non giusto, non serio sostenere che le Olimpiadi di Roma 2024 sarebbero state le Olimpiadi del mattone»: così il presidente del Coni Giovanni Malago’ ai microfoni di `Radio anch’io sport’.
«Nel nostro programma non si prevedono costruzioni, l’unica cosa nuova sarebbe il villaggio degli atleti per 11mila giovani, che poi resterebbe costruito e utilizzabile per il polo universitario e l’ospedale di una certa zona di Roma».
«Ma se si optava per un’altra zona della città -ha proseguito Malagò- per noi sarebbe stato lo stesso, sempre mantenendo l’uso pubblico delle strutture. Di fatto non c’era nessun tipo di grande impianto o opera nuova da realizzare. Avremmo per esempio recuperato lo stadio Flaminio che è abbandonato, invece di costruirne uno nuovo» ha aggiunto il numero uno del Coni, o realizzato strutture smontabili.
Secondo il presidente del Coni non sono ancora maturi i tempi per un format organizzativo che però un giorno arriverà , cioè quello di far svolgere le Olimpiadi in più sedi e città .
«Oggi -ha poi detto Malagò in risposta a una domanda sulla possibilità di far svolgere i Giochi in più città – non è possibile, gli atleti vogliono stare insieme nel villaggio olimpico, vogliono partecipare alla cerimonia inaugurale, incontrarsi, e non stare a 600 km di distanza».
(da “La Stampa”)
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Ottobre 10th, 2016 Riccardo Fucile
STORICA SCONFITTA DELL’EX PATRON DI AIRONE: SFUMA UN AFFARE DI 7 MILIARDI
Non tutte le ciambelle riescono col buco. Nemmeno se ti chiami Carlo Toto e sei riuscito a piazzare una fallimentare AirOne all’Alitalia.
L’ex proprietario della compagnia low cost non è infatti riuscito ad ottenere l’ok dal ministero delle Infrastrutture (Mit) per alcune varianti sulle autostrade che gestisce in concessione: la A24 (Roma-Teramo) e la A25 (Torano-Chieti-Pescara).
E così non solo ha perso l’occasione di realizzare nuove opere infrastrutturali, ma anche di portare a casa corposi aumenti tariffari e un allungamento di 45 anni delle sue concessioni che andranno in scadenza nel 2030.
Del resto il piano era meritevole di attenzione visto che prevedeva di realizzare varianti autostradali al posto di opere di messa in sicurezza di una rete viaria che necessita interventi dopo il terremoto dell’Aquila.
Nel dettaglio, il progetto includeva la modifica dei due tratti in concessione per circa 30 chilometri e la realizzazione di 55 gallerie con un investimento che, secondo quanto riferisce il ministero, avrebbe potuto raggiungere i 6,9 miliardi.
L’operazione avrebbe anche avuto un discreto impatto occupazionale creando circa 20mila posti di lavoro. Ma avrebbe anche comportato dieci anni di lavori sulle strade che “uniscono nel cuore dell’Italia — il versante tirrenico a quello adriatico e sono immerse in un paesaggio distintivo e straordinario”, come ha evidenziato un’interrogazione al Mit del parlamentare Pd Ermete Realacci, tra i primi oppositori di Toto.
Per non parlare del fatto che avrebbe interessato sei parchi naturali e anche il massiccio del Gran Sasso.
Il progetto della Strada dei Parchi, la controllata della famiglia Toto che gestisce le concessioni, è sembrato eccessivo agli esperti del Mit che hanno richiesto invece un semplice “adeguamento sismico con la messa in sicurezza dei viadotti sul tracciato autostradale esistente” per un programma di spesa che non dovrebbe superare gli 1,2 miliardi di euro.
Ben poca cosa rispetto ai quasi sette miliardi di investimenti cui puntava Strada dei Parchi e che sarebbero finiti col pesare sulle casse dei contribuenti anche per effetto degli aumenti delle tariffe autostradali.
Certo gli incrementi non sono scongiurati, anche perchè la partita non sarà definitivamente conclusa finchè il Mit non approverà il piano di lavori per la messa in sicurezza delle due autostrade che Strada dei Parchi gestisce dal lontano 2001.
Toto del resto non è uno che molla e il business autostradale è certamente uno dei più redditizi per la sua famiglia che ha anche interessi nelle costruzioni di grandi opere, nelle rinnovabili, nei trasporti su rotaie e nel leasing aeronautico per un fatturato complessivo che sfiora i 250 milioni.
Per non parlare del fatto che le strade sono un vecchio amore di famiglia: la nascita dell’impero industriale di Toto risale infatti ad una piccola impresa fondata dal padre per rispondere alla richiesta di lavori in subappalto nella realizzazione delle autostrade.
Per Carlo, ultimo di tre figli, è un business interessante che cresce negli anni.
Il sogno del self made man di Chieti, classe 1944, viene però infranto da Tangentopoli: il nome di Toto finisce nelle carte di un processo per corruzione e tangenti assieme ad alcuni esponenti abruzzesi della Democrazia cristiana.
Per chiudere la partita nel 1995, l’imprenditore di Chieti patteggia undici mesi.
Un piccolo intoppo che tuttavia non blocca gli affari di Toto che, pochi mesi dopo, allarga il campo d’azione della sua Aliadriatica, una piccola società di Pescara specializzata in servizi di aerotaxi.
Inizia così l’avventura nei cieli italiani che porta alla creazione di AirOne, capace di contendere all’Alitalia la redditizia rotta Roma-Milano.
Ma i costi di gestione della compagnia aerea non sono certo quelli di una piccola impresa edile: Toto non fa bene i suoi conti e così AirOne rischia il collasso.
Per evitare il peggio entra in gioco Banca Intesa che, per salvare i crediti vantati con AirOne, orchestra, con l’ex amministratore delegato Corrado Passera, la cessione della compagnia all’Alitalia.
Con un salato conto per le tasche dei contribuenti. Gli stessi che vorrebbero poter viaggiare su autostrade sicure senza dover subire continui aumenti tariffari per gli investimenti dei concessionari.
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Ottobre 10th, 2016 Riccardo Fucile
UN DUELLO RIPETITIVO CHE HA DELUSO LE ATTESE, CON POCHI SPRAZZI DI POLITICA VERA
Un duello segnato dalla ripetitività , banalizzato nelle parole, e che ha completamente mancato le attese della vigilia.
Non ha segnato la fine di Trump, ferito dal “pussygate”, e dall’abbandono di parte della èlite Repubblicana. E Hillary ha certamente vinto ma senza riuscire appunto ad affondare una volta e per sempre l’avversario inchiodandolo al ruolo di odiatore delle donne.
Ha pesato forse su di lei il timore della spada di Damocle delle donne di Bill, che Trump aveva già sfoderato.
Abbiamo risentito così quasi nella stessa forma lo scambio di accuse sulle donne – quelle (numerose) insultate da Trump, e quelle (numerose) che Bill si è portato a letto. Abbiamo riascoltato il tiro incrociato di Hillary sull’evasione fiscale di Donald e di Donald sulle email cancellate di Hillary.
Abbiamo approfittato per farci un caffè mentre i due condivano le solite frasi con la solita retorica: Hillary che dice che i bambini americani hanno paura di Trump, e Trump che dice che lei ha preso i soldi delle corporation mentre lui invece ha pagato la campagna con i soldi suoi.
Di politica politica si possono ricordare solo un paio di vere prese di posizioni: la divisione sulla Russia (via Siria) è netta. E il tema è centrale nella definizione della presidenza americana.
Netta anche la divisione sulla Corte costituzionale – dove è vacante il posto di Antonin Scalia, grande conservatore – con Hillary critica di una Corte da lei considerata troppo lontana dai cittadini , e Trump impegnato invece a difendere l’eredità di Scalia.
Hillary ha certo vinto di nuovo, ma è apparsa stavolta così sicura da risultare spesso inutilmente presuntuosa.
E Trump ha fatto meglio della prima volta – sempre debole sui programmi e troppo aggressivo nel confronto (“Andrai in galera” ha urlato ad Hillary) ma convinto, ora che molti del partito lo abbandonano, a battersi fino in fondo.
Il clima generale della serata è però sintetizzato dalla frase che più abbiamo ascoltato da parte di entrambi: “Ho fatto un errore e me ne prendo tutta la responsabilità , ma…”. Prova del baco che si è inserito nella campagna elettorale americana, e la avvelena, e la mala coscienza che entrambi hanno di se stessi.
L’unica sorpresa arriva nel finale, e salva in parte questo dibattito (nonchè mesi) denso di avvilenti scambi di insulti.
La sorpresa arriva con la domanda di un cittadino abbastanza anziano e abbastanza sicuro di sè da rompere il clima della serata: “Riuscite a nominare almeno una cosa che apprezzate l’uno dell’altro?”
Clinton sorride, perde un po’ di tensione dalle spalle, e afferra l’occasione: “I suoi figli. Rispetto i suoi figli, e quello che sono dice molto di Donald”.
A Trump la risposta piace “Non so se era un complimento, ma lo prendo come tale, sono orgoglioso dei miei figli”. E afferra anche lui l’occasione: “Qualunque cosa si pensa di lei, dirò questo ‘She doesn’t quit, she doesn’t give up’ (Non lascia mai, non si arrende mai). È un buon tratto di carattere, che rispetto…”
E forse senza volerlo, o forse volendo, Trump conclude così il secondo dibattito con una alta nota “femminista” – la forza delle proprie intenzioni e del proprio impegno è di certo un forte orgoglio di tutte le donne di oggi, per non dire di Hillary.
Uno scambio breve, una pausa probabilmente solo temporanea nello scontro fra i due, e tuttavia una pausa, che ha confermato per altro l’efficacia combinata di un paio delle più consolidate formule della democrazia americana: il formato della democrazia diretta – le domande dei cittadini – e una conduzione giornalistica senza compiacenze
L’involucro in cui questo dibattito si è svolto è riuscito in effetti a tenere insieme, e riportare spesso con i piedi per terra, un confronto che prometteva di essere esplosivo, ed invece è stato piuttosto banale.
Lucia Annunziata
(da “Huffingtonpost”)
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Ottobre 10th, 2016 Riccardo Fucile
SECONDO I SONDAGGISTI DI FIVETHIRTYEIGHT LA CLINTON HA L’81,5% DI POSSIBILITA’ DI VITTORIA… MANCA UN SOLO DIBATTITO PRIMA DELL’8 NOVEMBRE
Un dibattito che inizia senza stretta di mano: nessuno dei due candidati ha voluto nascondere l’enorme distanza che li separa.
Un dibattito che si è avvicinato a tratti ad essere “incivile”, come lo hanno definito alcuni quotidiani americani, per le continue e pesanti accuse che sono volate da un lato all’altro del palco.
Il dibattito è avvenuto secondo la forma del town hall, in cui sono i cittadini comuni, oltre ai conduttori, a porre le domande ai candidati.
Da un punto di vista del contenuto politico, le novità sono state ben poche, mentre sono stati gli attacchi personali a dominare la scena per quasi tutto l’arco della serata.
Dopo essersi scusato per gli agghiaccianti commenti sulle donne pubblicati nei giorni scorsi dal Washington Post, qualificandoli come ‘chiacchiere da spogliatoio’, Trump ha avuto come obiettivo numero uno il rafforzamento del consenso tra i propri elettori.
Come farlo? Forse, tornando il Donald Trump di una volta, senza freni e all’attacco, a partire dallo scandalo delle mail che riguarda la Clinton: “Se fossi io al governo del paese, assegnerei un procuratore speciale ad indagare su di te, e tu saresti in carcere”. Una frase senza precedenti nella storia degli Stati Uniti, che probabilmente tende ad allontanare un elettorato moderato, ma che invece dà sfogo alla frustrazione dei tanti Trump supporters.
L’imprenditore newyorkese, scaricato nei giorni scorsi da importanti membri della leadership repubblicana, non si ferma qui, ridando voce alle accuse di molestie sessuale contro Bill Clinton, sostenendo che le tasse negli Stati Uniti sono le più alte al mondo e confermando di non aver pagato tasse federali per vent’anni (utilizzando un particolare sistema fiscale).
Donald Trump ha così deciso di rivolgersi allo zoccolo duro del sue elettorato, anti-establishment e rancoroso nei confronti dei Clinton e di Obama, anzichè puntare alla conquista di nuovi elettori: non dimentichiamoci che negli Stati Uniti è permesso il voto anticipato e, in alcuni stati, gli americani hanno già iniziato a recarsi alle urne. Nel 2012 il 31.6% degli elettori ha preferito votare prima dell’election day, e si prevede che quest’anno la percentuale salirà ancora.
Dall’altro lato, la prestazione della Clinton è stata inferiore a quella del primo dibattito, ma senza alcun errore di un certo peso: lo stretto necessario che l’ex Segretario di Stato era chiamata a fare per rimanere saldamente in testa.
Secondo un sondaggio di CNN proposto subito dopo il dibattito, i telespettatori hanno preferito la Clinton per il 57% e Trump per il 34%, anche se il 63% ritiene che Trump abbia migliorato la propria performance rispetto al primo dibattito.
Una situazione che, se da un lato rappresenta per Trump un contenimento dei danni, in qualche modo può rappresentare una doppia vittoria per la Clinton.
L’opzione di un Trump fuori dai giochi, dopo la buona prestazione di questa sera, è da scartare completamente.
Secondo FiveThirtyEight, un celebre sito americano di sondaggi, la Clinton ha oggi l’81,5% di probabilità di vincere le elezioni.
A 29 giorni dall’8 novembre, con un solo dibattito rimanente in programma, sembra che il risultato possa essere ribaltato solo grazie a un gigantesco colpo di scena.
Senza un asso nella manica, la corsa di the Donald alla Casa Bianca si profila davvero sulla via del tramonto.
Luca Tarell
(da “Huffingtonpost”)
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