Agosto 23rd, 2017 Riccardo Fucile
E’ IN PRIMA LINEA CON L’ESERCITO CURDO, SIMPATIE DI SINISTRA… MA COME MAI I LEONI DA TASTIERA DI SEDICENTE DESTRA COMBATTONO L’ISIS SOLO SUL WEB E NON SI ARRUOLANO MAI PER IL FRONTE?
Le mani allacciano bene gli scarponi. Tirano la zip della divisa, in primo piano. Mettono i proiettili nel taschino.
Cambio di inquadratura, ed ecco i simboli del guerriero: le bombe a mano, un polsino rosso, le mostrine di Ypg — l’esercito di liberazione curdo — disposti su una kefiah marrone.
Poi una sequenza da film: ogni accessorio va al suo posto, le mostrine sul velcro dell’uniforme alle spalle, le granate nei tasconi, la kefiah al collo.
Lo scatto metallico del carrello del fucile per armarlo, e via: è pronto per sparare all’Isis.
Dalla vita universitaria patavina alla guerra in Siria: una rivoluzione per Claudio Locatelli, trentenne bergamasco trapiantato a Padova, ex studente di Psicologia al Bo, che lo scorso febbraio è andato in Siria per combattere il califfato, arruolato assieme alle milizie di liberazione del Rojava, nel battaglione internazionale di Ypg.
Martedì nel video che ha pubblicato su Facebook, dopo la vestizione, spiega le sue ragioni, mitra in spalla.
«I volti dei popoli attaccati da Isis non mi hanno lasciato indifferente — dice Locatelli, con un crescendo di musica epica in sottofondo —. Sono qui per fare corretta informazione, per dare solidarietà alle vittime e per combattere l’Isis».
Il tono è convinto, come ci si aspetta da uno studente classificatosi primo su 200 nelle simulazioni di attività diplomatica organizzate dall’Onu a New York, nel 2013. Attraverso la chat di Facebook, Locatelli appare sicuro: «Non sono fatto per restare a guardare – scrive -. L’oppressione di Isis e ciò che rappresenta è qualcosa che va combattuto».
Nel video chiude con un proclama. «Siamo come gli inglesi con i nazisti — spiega il giovane -: se dovessi morire in battaglia non piangete, ho vissuto al servizio del prossimo».
Poi si vedono marce di miliziani in colonna, esplorazioni e appostamenti. Lontanissimo dalla vita padovana, dove si divideva tra il volontariato, il giornalismo e l’attivismo politico: è stato rappresentante degli studenti e da gennaio 2016 gestisce la pagina social «Solidarity Action» che nella descrizione viene definita «Piattaforma Internazionale d’intervento pratico, giornalistico, volontario e formativo».
Nessuna traccia di recapito telefonico e indirizzo, nè di iscrizione all’albo del Comune di Padova. Tra 2008 e 2009 aveva partecipato ai dibattiti contro la Riforma Gelmini del movimento «L’Onda», ma anche agli incontri del gruppo «Possiamo».
Ora c’è la pagina Facebook – «Claudio Locatelli — Il giornalista combattente» – da cui pubblica post sponsorizzati in cui racconta quello che vive, gli spostamenti dell’esercito, le vittorie, con immagini e video di paesaggi desertici ed edifici fumanti, e mappe sul conflitto siriano.
Appare anche in un servizio della Cnn con alle spalle un carro armato in fiamme.
A volte Locatelli ha collaborato con l’agenzia Nena- News, ma di norma documenta tutto su Facebook, dai preparativi, alle motivazioni, alle azioni.
Una presenza costante sui social che stride con la difficoltà di reperire informazioni personali su di lui: tutti lo conoscono solo superficialmente, dagli ambienti dei centri sociali, come il padovano Pedro, ai referenti dei movimenti studenteschi.
Si era avvicinato in vari eventi, dimostrandosi molto attivo, per poi sparire.
Gli amici, che ricevono notizie tramite Facebook, non ne vogliono parlare: «Lo conosco dal primo giorno in cui è arrivato a Padova, ma non voglio dire nulla su di lui», taglia corto un amico che su Facebook si chiama Marco Krash, e condividendo il video ha scritto: «Stai attento amico mio, pregherò per te affinchè non ti succeda nulla».
A molti era noto per aver gestito il locale padovano «La Fata Verde», chiuso lo scorso dicembre, e alcuni di loro oggi lo sostengono sui social: «Una persona straordinaria — sottolinea uno di loro — ma so poco di lui».
Non tutti condividono la sua scelta. «Ma non eri giornalista, perchè ora ti sei messo a sparare?», commenta qualcuno. C’è anche chi lo sostiene: «Bravo tu hai le palle ti ammiro». La maggior parte dei post però, recitano «Stai attento», scritti da persone preoccupate per lui.
(da “il Corriere del Veneto”)
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Agosto 23rd, 2017 Riccardo Fucile
LA BUROCRAZIA HA PADRI E MADRI: LA SELVA DI ORDINANZE E IL DEDALO DELLE RESPONSABILITA’
“Casette entro sette mesi”. Il 3 settembre 2016, una decina di giorni dopo il sisma del 24 agosto, il commissario straordinario per la ricostruzione, Vasco Errani, dava il via alla girandola di annunci.
E poco dopo ecco l’allora premier Matteo Renzi: “Tutto tornerà come prima, bisogna fare in fretta e bene”.
L’11 dicembre Paolo Gentiloni diventa presidente del Consiglio e il 14 agosto, otto mesi dopo la sua nomina, in visita ad Arquata del Tronto ammette: “Si può migliorare e se si può fare di più lo si deve fare”.
La macchina del post sisma, messa in moto con tanta forza e con annunci carichi di enfasi sull’onda dell’emozione, si è inceppata nei meandri della burocrazia e in una divisione poco chiara delle competenze.
I soldi sono stati stanziati, l’impegno economico c’è, ma ciò che è mancato è l’attuazione pratica di tutti i propositi, quindi la traduzione effettiva degli impegni presi.
A riprova che il sistema Italia si blocca sempre al momento delle realizzazioni. Resta impigliato in una rete di poteri che si bloccano a vicenda, di competenze che si confondono le une con le altre, di litigi tra istituzioni e amministrazioni e le norme lievitano su se stesse fino ad annullarsi o a scatenare diatribe procedurali che sembrano infinite. È l’Italia del barocco.
Il risultato di tutto ciò sono le macerie ancora in strada a urlare il dolore delle persone, la maggior parte delle quali, circa l’85%, priva della casetta provvisoria che gli era stata promessa
Senza un tetto. Troppi gli annunci disattesi alla luce di un disastro che è stato immane. Quattro le regioni colpite (Lazio, Abruzzo, Marche e Umbria), 131 comuni coinvolti: è il cratere più vasto nella storia del nostro Paese.
Un anno dopo il terremoto con epicentro ad Amatrice, che ha causato la morte di 299 persone, e dieci mesi dopo il sisma che ha colpito Norcia, la ricostruzione promessa dal governo Renzi prima (in carica fino al 5 dicembre) e da quello Gentiloni dopo, non è iniziata, il 90% delle macerie è ancora in strada e le case provvisorie assegnate (Sae — Soluzioni abitative in emergenza) sono meno del 15% di quelle necessarie.
Nel rapporto che la Protezione Civile ha inviato alla Commissione Ue, la stima dei danni causati dal terremoto nel Centro Italia è pari a 23,5 miliardi di euro.
Errani lascia, futuro incerto.
Questo è lo stato dell’arte, mentre sta cambiando l’assetto della struttura che avrebbe dovuto guidare la macchina. Alla vigilia del primo anniversario del terremoto di Amatrice e poche ore prima del sisma di Ischia, Errani annuncia di lasciare l’incarico smentendo la rottura con il governo: “Non è vero che abbandono il lavoro a metà , è scaduto il mandato”.
Ci sarebbero dossier e una decina di progetti pronti, viene spiegato. Si parla di progetti, di concreto ben poco.
Le competenze di Errani dovrebbero passare a Palazzo Chigi, che a questo punto ha deciso di seguire in modo diretto la vicenda che è ancora un’emergenza. In questa fase di transizione, sindaci e governatori litigano, rinfacciandosi colpe e responsabilità , con i primi che vogliono togliere le competenze alle Regioni dopo un anno di lentezza.
Ancora nella fase uno.
È infatti siamo ancora nella fase uno, cioè quella dell’emergenza gestita dalla Protezione Civile e dai governatori delle regioni.
Il perimetro dentro cui si muove è il primo decreto terremoto (legge 189) approvato il 17 ottobre dal Consiglio dei ministri guidato da Matteo Renzi. Da allora è stato modificato tre volte: dal governo Gentiloni, dalla legge di bilancio, che ha stanziato 4,5 miliardi per la ricostruzione, e dalla cosiddetta “manovrina”, che ha aggiunto fondi per un miliardo ogni anno per i prossimi tre.
L’altra cornice è l’ordinanza n.394 firmata dall’ex capo della Protezione civile, Fabrizio Curcio, per la realizzazione delle strutture abitative d’emergenza, cioè le casette.
In questa ordinanza le quattro Regioni vengono indicate come soggetti attuatori. Infine c’è il capitolo ricostruzione: Errani ha emesso 35 ordinanze, molte delle quali sono servite però a modificare le precedenti. E così si è ancora nella fase preliminare, i ritardi si sono accumulati mese dopo mese con la complicità dell’intera filiera decisionale e amministrativa.
Soluzioni abitative in emergenza.
Il 3 settembre scorso Vasco Errani diceva: “Casette entro 7 mesi, sono la priorità “. Tre mesi dopo, a dicembre, il presidente della regione Lazio Nicola Zingaretti garantiva che “riusciremo a rispettare i tempi di consegna delle strutture abitative, nel frattempo va avanti il percorso di avvio della ricostruzione”.
Ma oggi le case che ad aprile, stando agli annunci, avrebbero dovuto ripopolare gli Appennini sono pochissime. Il 7 luglio scorso il premier Gentiloni in visita ad Accumoli per inaugurare due dei 71 alloggi destinati alle famiglie diceva: “Siamo qui insieme per verificare l’avanzamento dei lavori. Si sta lavorando molto qui, come sempre e più in fretta possibile”.
Ma i dati parlano chiaro. La Protezione civile, attraverso comunicati stampa, rende noto lo stato dell’arte. L’ultimo bollettino è del 4 agosto e si legge: “Proseguono i lavori per la realizzazione delle Sae. A oggi, secondo i dati forniti dalle regioni, sono complessivamente 3.827 le abitazioni d’emergenza ordinate per i 51 comuni che ne hanno fatto richiesta. Sono stati completati i lavori in 30 aree, e sono state consegnate ai sindaci 534 casette, di cui 101 a Norcia, 302 ad Amatrice, 104 ad Accumoli, 26 ad Arquata ed una a Calcara di Torricella (TE). Altre 151 aree ritenute idonee sono state consegnate ai consorzi incaricati della progettazione delle opere di urbanizzazione per la successiva installazione delle Sae, e in 92 di queste sono in corso i lavori”.
Il labirinto per le casette.
Facendo un rapido calcolo, nel complesso, sono state consegnate meno del 15% delle casette richieste. Ad Amatrice la percentuale sale a 50 ma il sindaco Sergio Pirozzi immaginava che dodici mesi dopo il sisma sarebbe stato tutto diverso: “Credevo che oggi tutte le case sarebbero state consegnate e che almeno il 50% delle macerie non c’era più”.
La colpa? “In tempo di pace un ritardo di due mesi ci può stare ma in tempo di guerra è un problema”.
Secondo molti primi cittadini dei comuni colpiti dal terremoto il governo ha sbagliato dall’inizio. Ad Arquata del Tronto a giugno, dopo molte proteste, sono arrivate 26 casette su 200 richieste.
Il sindaco Aleandro Petrucci: “Se a settembre non ci saranno le abitazioni rischio di trovarmi in una situazione paradossale, avere una scuola donata dai privati ma nessuno che potrà tornare. In quel caso farò molto di più che dimettermi o andare a protestare con una tenda”.
Sempre Petrucci spiega che “molto dipende dalla burocrazia”. Anche secondo Renzi è colpa della burocrazia: “Le norme sono state fatte, i soldi ci sono e il governo Gentiloni ha fatto ancora di più di quanto fatto da noi. Ma la burocrazia diventa spesso un problema”.
Per tutti la responsabilità è di questa cosa chiamata appunto “burocrazia”. Ma chi ha messo per iscritto l’iter da seguire?
L’ordinanza n.394 del settembre 2016, firmata dal capo del Dipartimento della Protezione civile Fabrizio Curcio, che si è dimesso l’8 agosto scorso, traccia le linee guida. Le Regioni vengono nominate soggetti attuatori che insieme ai Comuni devono individuare le aree e fare una ricognizione dei fabbisogni del proprio territorio.
Ci sono ben dieci passaggi da eseguire prima di aprire il cantiere, ci sono diversi enti coinvolti e tempi lunghissimi perchè oltre alle casette servono le opere di urbanizzazione: allacci di fogne, luce e gas e tutto quanto necessario per accogliere le abitazioni.
L’esempio Marche.
Nelle Marche, per esempio, funziona così. Prima i Comuni indicano le aree. Poi la Regione, in base alla segnalazione ricevuta, fa le sue verifiche. La Dicomac (Direzione comando e controllo), con i suoi tecnici, le valuta e dà il parere di idoneità , inidoneità o idoneità con prescrizioni.
Se tutto va bene, i tecnici tornano sulle aree indicate con le ditte che forniranno le casette e che devono anche fare il progetto di massima sull’urbanizzazione, chiamato layout, entro 5 giorni.
Intanto, il sindaco procede con l’occupazione d’urgenza, per poi passare all’esproprio delle aree individuate; l’ordinanza sull’esproprio poi sarà formalizzata dalla Regione. Il progetto arriva quindi al sindaco che, se tutto è a norma, lo approva e lo firma con il dirigente regionale.
A questo punto entro venti giorni la ditta privata farà anche il progetto esecutivo per i lavori, che deve essere validato: ci vogliono ulteriori sopralluoghi, e il tempo concesso è un mese.
Sempre se tutto è a posto, viene mandato il progetto alla Regione, che fa un decreto e a sua volta lo spedisce manda all’Erap (Ente regionale abitazione pubblica): qui infatti ci sarà la gara per appaltare i lavori di urbanizzazione (con tempi vari, ma solo per l’apertura delle buste con le offerte delle ditte sono previste due settimane). Fatta l’aggiudicazione provvisoria, progetto e documenti tornano all’Erap, dove viene fatta l’aggiudicazione definitiva dell’appalto. A questo punto, l’impresa edile deve elaborare il piano di sicurezza, completato il quale finalmente possono iniziare i lavori.
Clamoroso ritardo.
Con una procedura del genere non stupisce che i lavori siano clamorosamente indietro, anche perchè non sempre tutto è filato liscio e soprattutto nella fase iniziale non c’erano i tecnici, cioè non c’era il personale che potesse occuparsi di tutto questo. E infatti, nel novembre scorso, una modifica al decreto terremoto ha previsto l’assunzione di 350 persone a tempo determinato per smaltire la mole di lavoro. Intanto però sulle casette tutte le promesse sono state disattese.
“Entro Natale daremo le prime venti ad Amatrice”, dichiarò il 23 settembre l’allora premier Renzi. Le famiglie amatriciane le hanno avute a marzo.
Mentre nelle Marche si è ancora più indietro. “Per le abitazioni siamo in braccio a Cristo — dice Pirozzi – il percorso è ancora lungo e servirebbero procedure da guerra in tempo di guerra” invece ci sono “più soggetti che si occupano delle abitazioni mentre dovrebbe essercene solo uno”.
Stalle e bestiame.
Stanchi di aspettare, un allevatore terremotato su tre ha deciso di ricostruirsi da solo la stalla per salvare mucche e pecore lasciate all’aperto a causa dei ritardi nell’arrivo delle strutture provvisorie annunciate.
Sono i dati che emergono da un’analisi della Coldiretti nelle Marche diffusa in occasione dell’inaugurazione della prima stalla “fai da te” nell’azienda di Vincenzo Massi, allevatore terremotato di Offida.
La struttura è stata realizzata in venti giorni grazie all’ordinanza “azzera burocrazia” fortemente voluta dalla Coldiretti dopo i ritardi accumulati nelle consegne dei moduli stalla provvisori che spesso hanno evidenziato problemi.
Nell’area dell’intero cratere l’inverno — dice la Coldiretti – è finito con solo 33 stalle in grado di ospitare gli animali sulle 1400 necessarie e si è dovuto cercare una strada alternativa per salvare gli allevamenti dopo una strage di diecimila animali nelle quattro regioni con 3mila aziende agricole e stalle colpite.
Gli annunci sulla ricostruzione.
Un mese dopo il terremoto è stato l’allora premier Matteo Renzi a stabilire la prima agenda del post sisma.
“Il nostro obiettivo — diceva il 23 settembre in conferenza stampa – per le prime e le seconde case e per gli esercizi commerciali, è riportare tutto a prima del terremoto. La ricostruzione non sarà un fatto strettamente amministrativo. Valorizzeremo le comunità “.
Nei fatti si è ancora nella fase burocratica della ricostruzione. Il 7 aprile scorso il commissario straordinario per la ricostruzione, Vasco Errani, ha emesso un’ordinanza per regolamentare l’accesso ai fondi destinati al “miglioramento sismico o alla ricostruzione degli edifici ad uso prevalentemente abitativo gravemente danneggiati o distrutti”.
Stando a quanto si legge alla fine del 2019 o al massimo a metà 2020 tutte le abitazioni e gli esercizi commerciali dovrebbero essere ricostruiti lì dove si trovavano. Ma fino a quando le macerie saranno in strada non è possibile fare alcuna verifica e quindi avviare l’iter.
“Non vedo problemi di ritardi. Bisogna contestualizzare e allora pur in presenza di fattori critici come 4 terremoti in momenti diversi — diceva Errani nel giugno scorso – bisogna riconoscere che è stato fatto un lavoro molto importante anche nell’emergenza”. Nella pratica funziona così: entro venti giorni dal ricevimento della domanda l’Ufficio speciale deve fare le dovute verifiche. Quindi, nel caso in cui la pratica sia regolare, l’Ufficio speciale, nei successivi sessanta giorni, verifica la conformità dell’intervento alla normativa urbanistica, richiede l’effettuazione dell’eventuale controllo a campione sul progetto strutturale, acquisisce il parere della conferenza regionale […], propone al Comune il rilascio del titolo edilizio, verifica l’ammissibilità al finanziamento dell’intervento, indica il contributo ammissibile e provvede a richiedere contestualmente il Codice Unico di Progetto (CUP) e il codice CIG dandone comunicazione al Vice Commissario mediante procedura informatica.
Il Vice Commissario, entro dieci giorni dal ricevimento della comunicazione, emette il provvedimento di concessione del contributo o di rigetto della domanda. I lavori di ripristino con miglioramento sismico o di ricostruzione devono essere ultimati entro 24 mesi dalla data di concessione del contributo.
A richiesta dei proprietari interessati, gli Uffici speciali possono autorizzare, per giustificati motivi e sentito il Comune competente, la proroga del termine per non più di sei mesi.
Per l’erogazione dei contributi, sono previsti 4 step, in base allo stato di avanzamento dei lavori, i primi due del 20% e gli altri due del 30%.
Emerge dunque che la procedura richiede tempo, sono necessarie tutte le verifiche del caso e il bollino dell’Autorità anticorruzione.
Ma una volta chiusa la procedura, tutto si ferma a causa dell’enorme problema rappresentato dalle macerie non ancora rimosse. Di conseguenza non è possibile procedere alla perimetrazione. Ragione per cui la macchina del dopo terremoto è in forte ritardo.
Macerie in strada.
A togliere le macerie è dovuto arrivare l’esercito. Gli abitanti delle zone terremotate hanno anche bloccato la via Salaria portando macigni in segno di protesta.
“Ho fatto la guerra all’assessore Buschini della regione Lazio, si vede che lui non è mai entrato nella zona rossa del dolore”, dice il sindaco Pirozzi. Adesso si attende l’aggiudicazione di una gara d’appalto da 10 milioni di euro.
Dopo uno stallo durato ben oltre le previsioni, solo nel luglio scorso questo bando ha ottenuto il parere favorevole dell’Anac. Il 7 luglio è stata invece aggiudicata una gara per 400mila euro: e i nuovi lavori sono partiti da metà mese.
“Ma si tratta ancora di misure tampone, che non bastano certo a segnare un cambio di marcia”, criticava Petrucci. Così un emendamento inserito nel decreto legge per il Mezzogiorno ha stanziato altri 100 milioni.
“È la dimostrazione, quantomeno, che anche a Roma hanno forse capito che è il caso di darsi una mossa”, ha commentato Pirozzi.
A passo di lumaca nell’ultimo mese si è arrivata alla rimozione del 10% del totale.
Si è ancora molto distanti dai 2,3 milioni di tonnellate di macerie da portare via. Per citare solo qualche dato, ad Amatrice c’è un milione e centro mila tonnellate di macerie, ad Accumuli 400mila e ad Arquata 500mila.
“Ma noi amministratori locali — va ripetendo il sindaco Stefano Petrucci — possiamo fare ben poco sulla questione delle macerie. Che è di stretta competenza della Regione”.
A complicare la situazione, poi, ci si è messo anche l’accumulo di leggi. “All’inizio — spiega il sindaco di Accumoli Petrucci — alle amministrazioni competeva solo la rimozione delle macerie sulle strade e nelle piazze. Le nuove norme hanno stabilito invece che anche i privati potessero, tramite una apposita procedura, delegare al pubblico lo sgombero di detriti e calcinacci dalle proprie abitazioni. E questo ha creato confusione: ci ha costretti a rallentare tutto e fare nuove stime, nuovi piani”. Visti i ritardi e la lentezza a rimuovere e trasportare le macerie sono arrivate le Forze Armate. Il 10 agosto è stata infatti costituita un’apposita Task Group del genio dell’Esercito, in concorso con il Dipartimento della Protezione Civile.
Attività commerciali.
Nel primo decreto terremoto sono stati stanziati 35 milioni di euro per il sostegno alle imprese. Per il ripristino ed il riavvio delle attività economiche sono stati concessi a micro, piccole e medie imprese finanziamenti agevolati a tasso zero a copertura del cento per cento degli investimenti fino a 30.000 euro.
Le attività commerciali rimaste in ginocchio, dopo il terremoto del 24 agosto scorso, secondo una stima della Confcommercio, sono 120.
Ad Amatrice il 5 agosto scorso è stato riaperto il supermercato Simply, simbolo del sisma e ora della ripartenza. Si trova nell’Area Food della zona Commerciale “Triangolo”, dove ci sono altre 27 attività commerciali, i cui lavori stanno per essere ultimati.
È in fase di allestimento anche un’altra zona chiamata Cotral che ospita 43 esercizi. La Regione Lazio ha finora assicurato, per quanto riguarda Amatrice, complessivamente fondi per circa 11 milioni di euro, dei quali poco oltre 4,3 milioni di euro per l’Area “Triangolo” (circa 3 milioni per la realizzazione della struttura e 1,3 in contributi per la ripartenza delle attività ). Anche qui però si sono sommati ritardi su ritardi.
Il riavvio delle attività commerciali era fissato ad aprile, doveva essere “la Pasqua della rinascita”, secondo gli annunci e le speranze del sindaco Pirozzi.
Tasse.
La promessa di zero tasse e zero contributi per due anni per i terremotati si è risolta in “una presa in giro?”, chiedeva prima di ferragosto il sindaco Pirozzi pronto alle barricate.
E poi il primo cittadino di Arquata Aleandro Petrucci: “Prima le macerie, che non si è mosso un sasso per mesi. Poi le casette, che non arrivavano mai. Adesso la no-tax area, che se la rimangiano. Ma che pensano che stiamo a gioca’? Qui la gente non ce la fa più”.
Il premier Gentiloni in visita ad Arquata del Tronto ha assicurato di no. “Sarei pazzo se dicessi che non ci sono difficoltà . Ma abbiamo un buon impianto sulle zone franche urbane, c’è un sistema finanziario che non è mai stato così importante dal punto di vista finanziario”.
Nessuna mancata promessa, garantisce: “Siamo sempre stati aperti alle obiezioni e a valutare osservazioni, non abbiamo mai fatto nulla di diverso da quanto contenuto nella legge. Se si può fare di più noi siamo disposti a parlare con il sindaco di Amatrice. L’impegno del governo è spingere il più possibile. Se ci sono cose da aggiustare le aggiusteremo”.
Un vertice tra il commissario Errani e i tecnici del Mise ha modificato il provvedimento che invece spalmava lo sgravio fiscale su tre anni, accogliendo così le richieste dei sindaci che in fondo erano contenute nel primo decreto terremoto.
I passi in avanti e indietro, il balletto di cifre, le norme scritte, poi modificate e dopo cambiate di nuovo hanno caratterizzato questo anno del post terremoto, la cui macchina della ricostruzione non è mai partita inceppata da ritardi, burocrazia e da chi avrebbe dovuto fare e non ha fatto.
(da “Huffingtonpost”)
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Agosto 23rd, 2017 Riccardo Fucile
MEGLIO CHE NON ESCANO DAL PAESE DEI VACCARI E DELLE COSCHE PADANE, CHE SE CAPISCONO COM’E’ IL MONDO OLTRE I CONFINI DELL’EGOISMO, I LORO CATTIVI MAESTRI FINISCONO AFFOGATI NEL PO
C’è qualcosa di più ridicolo della campagna anti-Erasmus dei sovranisti e no euro ? Da qualche anno il filosofo Diego Fusaro è diventato l’ideologo del movimento rossobruno che in nome di Marx e delle radici cristiane d’Europa difende il nostro continente dall’assalto del mondialismo, del capitale e dell’euro.
La costante opera di distruzione delle sovrastrutture operata da Fusaro lo ha portato, qualche giorno fa, a spiegare la vera natura dell’Erasmus.
Il programma di scambio tra studenti e università europee quest’anno festeggia trent’anni di vita. Ma per Fusaro c’è poco da festeggiare.
All’indomani dell’attentato di Barcellona il filosofo torinese si rende conto che l’Erasmus altro non è che una nuova naia che ha l’obiettivo di “rieducare i giovani al globalismo post-nazionale”.
Grazie all’Erasmus i giovani “abbandonano ogni radicamento nazionale e ogni residua identità culturale e si consegnano senza coscienza infelice all’erranza planetaria, all’espatrio permanente, al moto diasporico globalizzato e alla centrifugazione postmoderna delle identità ”.
Chiaramente si tratta della prova che dimostra come le èlite vogliano usare lo strumento per inculcare nelle menti dei giovani europei l’idea perversa di Europa unita.
Il tutto per consentire ai “pedagoghi del mondialismo” di poter “imporre ai giovani femminilizzati la nuova postura cosmopolita no border”.
Insomma: quando c’era la naia i ragazzi italiani diventavano in un anno maschi italici mentre ora, per colpa dell’Erasmus vengono femminilizzati.
Un delirio da TSO urgente.
Fusaro ripropone quindi la contrapposizione tra lavoratori, rudi, temprati dalla vita e dalla fatica agli inconsistenti e incoscienti studenti dell’Erasmus.
Da una parte i soldati e i lavoratori, dall’altra le cicale e i frocetti che se la spassano all’estero tra le braccia di qualche loro compagno di bagordi.
Manca solo il richiamo alla battaglia delle Termopili vista attraverso gli occhi di Frank Miller ed il quadro è completo.
Di nuovo torna la contrapposizione tra gli eroi che andavano a fare la naia e questi “millennials” che hanno ucciso anche il servizio militare.
E sarebbe interessante sapere se Fusaro l’ha fatto il servizio militare e che cosa ne sappia della leva, ma calcolando che la leva obbligatoria è stata abolita proprio mentre lui era all’università la risposta non può essere che negativa.
La leghista Cristina Cappellini, assessore alla Cultura di Regione Lombardia (già ideatrice dell’inutile centralino anti-gender) plaude a Diego Fusaro spiegando che non tutta la cultura è buona e serve in chiave anti terrorismo, anzi.
L’Erasmus, spiega la Cappellini, “è l’antitesi del senso di radicamento in una terra, in un popolo, in una coscienza comune”.
Il che se lo si guarda dalla prospettiva della Val Padana probabilmente è vero ma forse l’assessora non si è resa conto della nascita di una comunità ben più vasta: la Comunità Europea.
Comunità che non è solo di banche e banchieri ma anche di popoli che condividono una coscienza e una cultura comuni.
La Cappellini ci spiega invece che «il pensiero dominante punta a formare generazioni di giovani senza patria, senza radici, dall’identità (anche sessuale) fluida (del resto a cosa servono le politiche gender?) e privi di valori antropologici».
A breve: “chi va in Erasmus è responsabile del genocidio culturale in atto in Italia”.
E il piano Kalergi è servito.
Meglio che i giovani restino in mezzo a quattro vaccari dei monti della Padagna, magari senza andare a scuola : che se diventano istruiti c’è il rischio che gli venga l’idea di prendere a calci in culo qualche cazzaro sovranista.
(da “Next Quotidiano”)
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Agosto 23rd, 2017 Riccardo Fucile
LISTE D’ATTESA INFINITE, CALO DELLE RISORSE PUBBLICHE, RETTE NELLE STRUTTURE FINO A 4.000 EURO AL MESE… IL 70% DEGLI ANZIANI HA UN REDDITO INFERIORE A 14.700 EURO NETTI L’ANNO
Il paradosso è servito. Il Paese più vecchio d’Europa rischia di dimenticarsi dei propri anziani.
In Italia il 21,4 per cento della popolazione ha più di 65 anni. La media europea è del 18,5.
L’invecchiamento, del resto, non si ferma: nel 2050, secondo le stime Istat, gli over 65enni arriveranno a quasi 22 milioni, praticamente una persona ogni tre.
Eppure, denuncia l’ultimo rapporto dell’Irccs Inrca (l’Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico per anziani), tra i grandi Paesi europei il nostro è l’unico a non aver riorganizzato in maniera organica il suo sistema di continuità assistenziale.
Con il risultato che il «peso» delle cure ricade in gran parte sulle famiglie.
Oggi in Italia sono almeno un milione le persone che dedicano parte dei loro giorni (e, spesso, ore di notti insonni) ad assistere parenti non più autosufficienti.
Circa 561 mila famiglie, registra il Censis, hanno dovuto erodere i propri risparmi, vendere l’abitazione di proprietà o contrarre debiti per farlo.
Dietro percentuali e statistiche, ci sono nomi e cognomi: storie di rassegnazione, amarezza e profonda solitudine.
Le due strade
Senza scomodare la Costituzione, una legge per il diritto alla salute c’è già . È la numero 833 del 1978.
«Dovrebbe garantire le cure, qualsiasi sia la malattia e senza limiti di durata. Il problema è che spesso, specie quando si parla di anziani, non è così», spiega Maria Grazia Breda, presidente della Fondazione promozione sociale, nata nel 2003 per tutelare i diritti delle persone non autosufficienti.
Nel «modello» italiano ci sono due strade: la prima, più battuta, è la «domiciliarità » che secondo le stime dell’Auser, (l’Associazione per invecchiamento attivo) riguarda 2,5 milioni di anziani.
La seconda è quella della «residenzialità », ossia l’insieme di strutture (pubbliche o private) in cui, secondo gli ultimi dati del 2013, sono ospitati 278 mila anziani autosufficienti e non.
Tra debiti e rassegnazione
In entrambi i casi, chiunque si trovi nella condizione di assistere un anziano non autosufficiente, sperimenta sulla propria pelle la carenza cronica di risorse pubbliche.
Nel 2017 il Fondo per le politiche sociali ha perso 211 sui 311,58 milioni stanziati nell’ottobre 2016 mentre quello per le non autosufficienze è stato ridimensionato a 450 milioni (contro i 500 previsti).
Fondi che ora il governo ha annunciato di voler ripristinare con gli introiti della “Wb tax”.
Inoltre, la fotografia scattata sulle dichiarazioni dei redditi 2016 evidenzia che oltre il 70% degli anziani ha un reddito complessivo inferiore a 14.600 euro netti.
Una badante in regola ha un costo medio di circa 15 mila euro l’anno. Per molti, è un lusso.
Le lista d’attesa infinite
Ma la situazione è ancora più grigia per chi sceglie la residenzialità .
Le strutture private chiedono circa 3-4000 euro al mese. E per quelle pubbliche (in cui la quota a carico dell’assistito è di circa la metà ) prima ancora del pagamento delle retta il problema è l’accesso stesso alla prestazione.
I posti letto disponibili in 5 anni hanno subito una sforbiciata del 23,6%. E le liste d’attesa si ingrossano.
«I tempi per accedere a una struttura – spiega ancora Maria Grazia Breda – spesso si protraggono per anni e chi è dentro rischia di restarci poco. Il quadro è desolante. Ogni giorno siamo sommersi dalle telefonate di persone che chiedono aiuto per opporsi alle dimissioni forzate dei propri cari».
(da “La Stampa”)
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Agosto 23rd, 2017 Riccardo Fucile
LA GOCCIA CHE HA FATTO TRABOCCARE IL VASO E’ “LA CAMPAGNA DI DENIGRAZIONE CONTRO LE ONG IMPEGNATE A SALVARE VITE UMANE”
Gad Lerner annuncia il suo addio al Pd e lo fa con un post sul sito Nigrizia.it.
Il giornalista, tra i fondatori del partito ed ex membro del Comitato promotore 14 ottobre e della Commissione per l’Etica dell’Assemblea costituente nazionale, ha messo nero su bianco le motivazioni che lo hanno portato a lasciare il partito del segretario Matteo Renzi denunciando “un vero e proprio disarmo culturale sui diritti umani”.
“Per me — ha scritto il conduttore televisivo — la goccia che ha fatto traboccare il vaso è la campagna di denigrazione mossa contro le ong impegnate nei salvataggi in mare. Culminata in accuse di complicità con gli scafisti e tradotta nella pretesa governativa di sottometterle a vincoli non contemplati dal diritto internazionale nè dai codici di navigazione“.
A Lerner non è piaciuta neanche “l’impressionante subalternità psicologica alle dicerie sparse dalla destra”, con riferimento alla Lega Nord e alle prese di posizione di Matteo Salvini sui migranti.
“Ho ben presente — spiega Lerner — l’importanza dell’unità dentro un partito grande e plurale. So anche che nel Pd continuano a essere numerosi coloro che hanno a cuore gli ideali oggi deturpati. Ma io che avevo visto male la scissione, nè ho considerato motivi sufficienti per un divorzio le riforme istituzionali e il Jobs act, ora, per rispetto alla mia gerarchia di valori, mi vedo costretto a malincuore a separarmi dal partito in cui ho militato dalla sua nascita. L’involuzione della politica del Pd sui diritti umani e di cittadinanza costituisce per me un ostacolo non più sormontabile”.
La notizia dell’uscita dal Partito Democratico era nell’aria.
Lerner aveva accettato di condurre la manifestazione “Insieme” del 1 luglio scorso a Roma per sostenere la nascita di un nuovo movimento di centrosinistra unito attorno alla figura dell’ex sindaco di Milano, Giuliano Pisapia.
“E’ venuto il momento di formulare anch’io un mio bilancio di fine legislatura su una materia, quella dei diritti umani, dei diritti di cittadinanza, dei rapporti presenti e futuri fra le due sponde del Mediterraneo e di un contrasto efficace al terrorismo, che considero di importanza cruciale. Non solo in quanto ebreo, ex apolide, figlio fortunato di più migrazioni. Ma proprio come cittadino italiano che, dieci anni fa, è stato fra i promotori di un Partito democratico i cui valori fondativi vedo oggi deturpati per convenienza”.
Il giornalista mette “in fila l’operato degli ultimi tre anni che lo spingono a lasciare il Pd: “la revoca dell’operazione Mare Nostrum con la motivazione che costava troppo e con limitazione del raggio d’azione della nostra Marina Militare. La mancata abrogazione del reato di immigrazione clandestina, per ragioni di opportunità . La soppressione, solo per i richiedenti asilo, del diritto a ricorrere in appello contro un giudizio sfavorevole. La promessa non mantenuta sullo ius soli temperato. E, infine, la promulgazione di questa inedita oscena fattispecie che è il ‘reato umanitario’ mirato contro le organizzazioni non governative”.
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Agosto 23rd, 2017 Riccardo Fucile
PAUROSA GAFFE PER LE MISSIVE INVIATE “PER ERRORE” A UN CENTINAIO DI PERSONE: ARRIVANO LE SCUSE
Il ministero dell’Interno britannico ha inviato “per errore” a un centinaio di cittadini Ue una lettera che ordinava loro di lasciare il Paese pena l’arresto.
Poi l’Home Office si è scusato, spiegando di aver aperto un’indagine per capire come sia potuto succedere.
La vicenda è stata resa pubblica da un’accademica finlandese che ha pubblicato la missiva sui social network chiedendo chiarimenti sulla minaccia di “deportazione“.
Le lettere sostenevano che l’amministrazione aveva deciso di “allontanare” il destinatario, definito “passibile di incarcerazione”, “in accordo con la sezione 10 dell’Immigration and asylum act del 1999”. E aggiungevano che se non avesse lasciato il Paese entro un mese l’Home Office avrebbe dato “direttive per l’allontanamento”.
La docente, Eva Johanna Holmberg, sposata con un cittadino britannico e residente nel Regno Unito da cinque anni, è stata chiamata da un funzionario dell’Home Office che si è “scusato profusamente” ma, nota il Guardian, “non ha confermato che il governo coprirà le spese legali da lei sostenute, circa 3.800 sterline”.
Il tutto accade mentre sono in corso i negoziati tra il governo May e la Commissione Ue sulla Brexit.
E i cittadini degli altri Paesi Ue residenti in Gran Bretagna sono tra i temi al centro delle discussioni.
La scorsa settimana il governo May ha fatto sapere di aver proposto che ai turisti che visiteranno il Paese dal resto d’Europa non sia richiesto il visto, mentre quanti vogliono lavorare, studiare o trasferirsi nel Paese dovranno richiedere un permesso.
Per chi è già residente, era invece stato garantito, non cambierà nulla.
Ma molti cittadini Ue hanno inviato al ministero domande di conferma del proprio status.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Agosto 23rd, 2017 Riccardo Fucile
SOLO COINVOLGENDO LA COMUNITA’ MUSULMANA SI PUO’ SCONFIGGERE IL TERRORISMO JIHADISTA
L’altra sera, le cronache dei tg che raccontavano della città spagnola di Ripoll e dei suoi abitanti jihadisti hanno dedicato pochi secondi alle immagini che sto per descrivere, ed è stata una grossa occasione mancata.
Nello schermo si vedevano alcuni bimbi (definiti «musulmani» dalla voce fuori campo) che reggevano, ciascuno, un piccolo cartello con la scritta in catalano, uguale per tutti, «No in mio nome».
Lo slogan riprendeva la protesta di alcune recenti manifestazioni politiche negli Usa e in Europa («Not in my name»), e suona come il rifiuto a essere coinvolti in un episodio che invece pretende di esprimere una posizione comune. In questo caso, è il rifiuto della strage terroristica delle Ramblas.
Perchè occasione mancata? Perchè è proprio dalla rottura della «unanimità musulmana» che può nascere la sconfitta reale del terrorismo jihadista.
E non aver saputo valorizzare in termini mediatici – cioè di forte impatto comunicativo – la manifestazione di quei bambini musulmani contribuisce a far tardare l’apertura di quella breccia che, sola, può consentire il progressivo smantellamento della identificazione del jihadismo con l’intero mondo musulmano. Identificazione che sta alla base del progetto terroristico («Noi agiamo in nome di Allah») e che, specularmente, viene vista come realtà comprovata da quanti si lasciano travolgere dall’orrore degli attentati e dalla predicazione dell’odio: a Barcellona, già oggi appaiono sui muri scritte come «Morireis todos», morirete tutti.
I fedeli dell’islam sono circa un miliardo e mezzo: il 90 per cento segue la dottrina sunnita, il 10 quella sciita.
Il terrorismo jihadista – che ha avuto la sua più larga diffusione dalla ricaduta della guerra in Siria e Iraq – trova le proprie radici nella lotta in corso tra musulmani sunniti (e si va dall’Arabia Saudita al Daesh di al-Baghdadi) e musulmani sciiti (si va dall’Iran khomeinista alla Damasco di Bashar al-Assad), una lotta che si combatte tra vari terreni ma ha per posta l’egemonia della Umma, il mondo musulmano, in termini di potere geopolitico prima ancora che religioso.
Il terrorismo punta a polarizzare il confronto, proponendosi come braccio armato di una lotta politico/religiosa che impone una scelta di campo – Noi tutti, dietro la bandiera nera – in opposizione ai “crociati” di un Occidente, unico, senza distinzione, colonizzatore, pervertito, decadente, proiettato a conservare sempre il proprio controllo della Storia.
Ma come l’Occidente è una identificazione che ignora le mille diversificazioni che accompagnano nella realtà di storie e culture distinte la vita delle nostre società , allo stesso modo l’Islam è ben altro che le formazioni politico/militari jihadiste.
Ho viaggiato per 40 anni nelle terre dell’islam e dei suoi popoli musulmani, egiziani e tunisini, persiani e turchi, algerini e sauditi, e pachistani e afghani e marocchini e tajiki; e penso di poter affermare credibilmente che i milioni di fedeli di Allah che vivono nella geografia del Grande Medio Oriente (dall’Atlantico all’Oceano Indiano, dall’Africa all’Asia) aspirano a una vita che – non diversamente da noi – possa garantirgli crescita economica, sviluppo sociale, un benessere di relativa tranquillità .
La religione accompagna la loro vita d’ogni giorno, certamente, e in misura diversa di partecipazione, ma poi c’è comunque la vita da vivere.
Ed è così anche per la stragrande maggioranza dei musulmani che vivono in Europa.
Per non pochi di quest’ultimi, tuttavia, quelle aspirazioni a un qualche benessere vengono mortificate da una difficile integrazione nelle nostre società , e da condizioni di vita e di lavoro che li pongono nella periferia oscura della nostra comune quotidianità .
Ed è qui, dunque, che si prepara il brodo di coltura da cui il jihadismo tenta di catturare proselitismo e consenso.
L’islam diventa allora l’aggregazione identitaria di questi soggetti in crisi, offre un ideale capace di riscattare le miserie d’una vita tormentata e perdente, e pretende di renderli tutti uguali – marocchini e afghani, sauditi ed egiziani – uguali nella loro partecipazione a una fede comune, che va al di là delle identità individuali, delle condizioni sociali, della nazionalità , perfino della comunità familiare.
Questo scenario – in “Occidente”come nelle terre del “Grande Medio Oriente” – propone un messaggio simile a quello del terrorismo politico degli anni Settanta, quando l’appartenenza di classe doveva rappresentare un progetto identitario capace di frantumare le sovrastrutture culturali e sociali e offrire, dunque, appoggio e consenso al “braccio armato” (quale che fosse il suo nome) che stava preparando la rivoluzione mondiale.
Quel terrorismo è stato battuto dal rifiuto di riconoscersi in questo progetto di polarizzazione estrema, e a sinistra soprattutto – là dove la rivoluzione doveva trovare le sue forze più sensibili al progetto – il ripudio della “polarizzazione armata” ha smontato il piano di allineamento e di consenso.
“No en el meu nome”, dicevano l’altra sera i cartelli che i bimbi musulmani mostravano alla telecamera. Non in mio nome! I cartelli erano portati da bimbi e non da adulti, e dietro c’erano le mamme e non i papà .
La “rottura” non è un percorso facile, il giudizio dei compaesani e dei vicini di casa è una remora che frena, o comunque ritarda, ogni manifestazione pubblica.
Ma i cartelli bianchi e quelle parole scritte c’erano tutti, e andavano valorizzati.
Aprire la breccia è un atto fondamentale. Nell’attesa che, alla (purtroppo inevitabile) prossima manifestazione di cordoglio per un attentato terroristico, accanto alle autorità dell’”Occidente” si mostrino alle telecamere anche gruppi compatti di imam e di fedeli musulmani, uguali anch’essi e simili anch’essi ai “crociati”, intanto ogni episodio che rompe il dovere obbligato della solidarietà di fede va segnalato, valorizzato, sostenuto.
Guido Rossa, il sindacalista ammazzato dalle BR, è diventato ii simbolo della rottura d’una programmatica unanimità di classe.
Non si chiede un Guido Rossa musulmano, nè un martire o un eroe; si chiede soltanto l’avvio del distacco dal mondo del conformismo e della paura di mostrarsi “diversi”. Sono piccoli passi,e ancor più difficili in un mondo religioso/identitario dove non ci sono gerarchie chiamate a dettare una “linea” nella prassi della dottrina.
L’islam non ha papi nè cardinali nè vescovi o sacerdoti.
La responsabilità è individuale, e dunque più difficile da assumere.
Diamogli una mano.
(da “La Stampa”)
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Agosto 23rd, 2017 Riccardo Fucile
MA LE AUTORITA’ SPAGNOLE NON RISPOSERO… LA COMUNITA’ ISLAMICA ALLERTO’ ANCHE LE FORZE DELL’ORDINE IBERICHE
Le autorità belghe avevano chiesto informazioni su Abdelbaki Es Satty, l’imam di Ripoll e mente della cellula jihadista responsabile dell’attentato di Barcellona e intenzionata a far esplodere la Sagrada Familia.
Ma dalla Spagna, sostengono, non erano arrivate risposte soddisfacenti e l’allarme era stato sostanzialmente ignorato.
L’allerta della moschea
I fatti risalirebbero al marzo 2016, quando Es Satty arriva a Vilvoorde, la patria dei foreign fighters. A ricostruire quei giorni è il sindaco della città , Hans Bonte, all’agenzia Efe. La segnalazione parte dal responsabile della moschea di Diegem: “E’ apparso all’improvviso e ha detto che voleva essere l’imam, perchè in Spagna non c’era futuro”.
Il suo comportamento insospettisce la comunità musulmana, che allerta le forze dell’ordine. Anche perchè quando i responsabili del centro di culto chiedono il suo certificato penale, Es Satty — in carcere a Castellon per oltre 2 anni — scompare nel nulla.
Risposte spagnole non soddisfacenti
“La polizia e gli agenti dell’anti-radicalizzazione hanno cercato tutte le informazioni che potevano e hanno contattato i servizi di intelligence“, ha spiegato il sindaco.
Ma le risposte spagnole non sono state soddisfacenti.
La ricostruzione è stata smentita dal ministro dell’Interno spagnolo Juan Ignacio Zoido che ha precisato che le forze di polizia che dipendono dal suo ministero non hanno mai ricevuto comunicazioni dal Belgio, secondo quanto riferisce El Pais.
Se c’è stata quindi una responsabilità nell’aver sottovalutato l’operato di Es Satty, il ministro sembra così scaricarla sulle autorità catalane con le quali continuano gli attriti per la conduzione delle indagini.
Tuttavia, racconta Bronte, “anche se non vi era alcuna prova, la comunità musulmana della zona ha deciso di espellerlo dalla moschea”.
Non un caso, a Vilvoorde. Perchè il “metodo Bronte”, lodato anche dall’ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama, va avanti da qualche anno e consiste nel coinvolgere la comunità nella prevenzione.
“La lotta al terrorismo — dice il sindaco — funziona solo se si lavora all’interno della comunità stessa. Se tutti si fidano dell’altro”.
“Perchè poteva viaggiare liberamente?”
Restano numerosi interrogativi su come in Belgio avessero subito ‘annusato’ la natura radicale di Es Satty, mentre in Spagna nessuno aveva idea di chi fosse e cosa facesse l’imam di Ripoll, nonostante i legami con membri coinvolti nelle inchieste sugli attentati di Nassiriya e Atocha.
“Come poteva una persona con problemi in Spagna viaggiare liberamente all’interno dell’Unione europea? Questo è’ un grande tema di discussione in Ue, dove le informazioni dell’intelligence dovrebbero essere maggiormente condivise”, ha detto Bronte.
Le motivazioni della mancata espulsione
In Spagna, intanto, è polemica anche dopo la diffusione delle motivazioni con le quali il giudice Pablo de la Rubia, capo della Corte per i contenziosi amministrativi di Castellon, nel marzo 2015 decise di accogliere il ricorso di Es Satty contro la sua espulsione decisa dalla prefettura.
Secondo i documenti citati da El Mundo, infatti, il tribunale non decretò l’allontanamento dell’imam perchè non costituiva “una minaccia reale” e aveva dimostrato i suoi “sforzi di integrazione nella società spagnola”.
I traffici di droga nei quali era stato coinvolto e per i quali era stato imprigionato, spiegava il giudice, erano “un atto criminale lontano nel tempo” che era stato ‘smacchiato’ dalle “evidenti radici del suo lavoro in Spagna”.
Pochi mesi dopo, Es Satty avrebbe iniziato a radicalizzare i giovani amici di Ripoll, fino a convincere il gruppo al martirio.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Agosto 23rd, 2017 Riccardo Fucile
MAZZILLO REO DI AVER CRITICATO LA RAGGI… ARRIVA LEMMETTI DALLA GIUNTA NOGARIN DI LIVORNO
Bye Bye Andrea Mazzillo. Si fa sempe più concreta la sostituzione dell’attuale assessore al Bilancio capitolino con il suo omologo di Livorno, Gianni Lemmetti. Mazzillo è entrato in rotta di collisione con la sindaca a luglio, per le sue dichiarazioni critiche nei suoi confronti rilasciate a Repubblica.
Lemmetti ha già rassegnato le proprie dimissioni dall’incarico nel comune toscano: la decisione è stata ufficializzata dal presidente del consiglio comunale livornese Daniele Esposito con una comunicazione indirizzata ai capigruppo. “Non ne so nulla”, commenta Mazzillo.
Gianni Lemmetti, assessore al Bilancio e alle partecipate del Comune di Livorno, saluta la giunta del sindaco Filippo Nogarin (M5s) per andare ad assumere la stessa delega al Comune di Roma.
Lo scrive l’agenzia di stampa ANSA sostenendo che le voci circolavano da qualche tempo, ma stamani c’è stata l’ufficialità data da una comunicazione del presidente del consiglio comunale di Livorno Daniele Esposito, indirizzata ai capigruppo, in cui si annunciava che l’assessore Lemmetti si era dimesso dall’incarico.
Gianni Lemmetti era uno degli assessori di maggior spessore della giunta di Filippo Nogarin. È lui che a Livorno ha gestito la delicata questione di Aamps, la partecipata al 100% del Comune che si occupa di igiene ambientale e raccolta di rifiuti, gravata da una pesante situazione finanziaria.
Fu proprio Lemmetti, infatti, a caldeggiare l’idea di portare l’azienda sulla strada del concordato preventivo in continuità . Nogarin perde dunque uno dei pezzi più importanti.
A Roma Lemmetti ritroverà Luca Lanzalone, l’avvocato genovese che da aprile scorso è alla presidenza della multiutility romana Acea, e che a Livorno è conosciuto per aver lavorato a fianco dell’amministrazione proprio sul concordato preventivo di Aamps
Secondo Il Tirreno, “la sindaca Raggi ha contattato l’assessore della giunta Nogarin. Poi lo stesso Lemmetti lo ha comunicato alla Giunta e, accompagnato dal sindaco, ha dato la notizia ai capigruppo consiliari”.
“Martedì 1 agosto — ricostruisce Il Tirreno — l’assessore e il sindaco Filippo Nogarin sono scesi a Roma e nel pomeriggio dell’indomani hanno convocato a Palazzo Civico la maggioranza. Non è un segreto che dietro alcune delle scelte più rilevanti della sindaca Raggi ci sia la mano dell’avvocato genovese Luca Lanzalone (come la nomina dei vertici dell’azienda di rifiuti e le trattative con la Roma sul nuovo stadio). E Lanzalone conosce bene Lemmetti con cui ha lavorato fianco a fianco relativa al concordato di Aamps”. Ma a Roma si cerca anche un nuovo assessore alle partecipate dopo l’addio annunciato di Colomban. Probabilmente Lemmetti assumerà entrambe le deleghe.
Intanto il Messaggero scrive che Virginia Raggi ha ritirato le deleghe ad Andrea Mazzillo, che quindi saluta il Campidoglio dopo essersi azzardato a criticare le nomine della Giunta targate Colomban. Di Lemmetti si ricorda che si presentava come “nato a Pietrasanta, residente per anni a Lido.
Dopo un po’ di tempo all’estero (Est Europa, Marocco, Lucca) e varie vicissitudini, sono tornato a Viareggio, in Darsena. Di lavori ne svolgo molti, da dottore commercialista, consulente di organizzazione aziendale, titolare di negozio etc. Le mie competenze, se ci sono, verranno fuori poco alla volta” sul forum dei 5 Stelle in Versilia nel 2014.
L’ufficialità , a quanto si apprende, sarebbe già dovuta arrivare per l’ora di pranzo, ma la scelta del sindaco di Roma viene data ormai per certa. I pentastellati attendono la comunicazione ufficiale di Virginia Raggi con un post su Facebook. Solo dopo, sempre sui social, il sindaco di Livorno, Filippo Nogarin, commenterà la notizia e darà conto dell’assessore che sostituirà Lemmetti nell’amministrazione labronica
Lemmetti cassiere in discoteca
C’è anche un episodio curioso nel suo curriculum: nel 2012 venne assolto dall’accusa di aver intascato 1500 euro dalle casse della discoteca dove lavorava. L’uomo era accusato stato dal titolare del Seven Apples. In aula è emerso che la proprietà della discoteca di Marina di Pietrasanta aveva anche ingaggiato un investigatore privato per controllare Lemmetti.
In alcune occasioni al cassiere erano state anche consegnate banconote segnate che a fine serata non erano state restituite. Le immagini riprese da una telecamera installata dal detective non sono riuscite a dimostrare che Lemmetti — che ha sempre detto di aver operato in maniera corretta — avesse intascato i soldi.
Un altro punto a favore del cassiere è arrivato quando si è dimostrato che i soldi incassati venivano utilizzati per pagare il personale: le banconote segnate potevano così essere finite in tasca ai dipendenti del locale. Alla fine il giudice Gerardo Boragine, in mancanza di prove, ha assolto l’imputato.
“In realtà fu una causa di lavoro. A quei tempi lavoravo in discoteca per mantenermi agli studi. Mi hanno accusato ingiustamente e io mi sono battuto in ogni modo per dimostrare la mia innocenza che il giudice ha riconosciuto”, spiegò lui successivamente, anche se i tempi — visto che i fatti si riferiscono al 2006 e la laurea è datata 2001 — non tornavano per niente secondo il quotidiano.
Nel 2013 Lemmetti si era proposto a V2.Zero, un movimento di Viareggio e Torre del Lago che aveva promosso una raccolta di curriculum per esprimere candidature a sindaco e assessore del comune versiliese.
Lemmetti è stato anche indagato a Livorno per l’AAMPS.
(da “NextQuotidiano”)
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