Agosto 12th, 2017 Riccardo Fucile
MEDICI SENZA FRONTIERE AVVIA LA RIVOLTA DELLE ONG: “STOP ALLA NOSTRA MISSIONE, C’E’ UN DISEGNO POLITICO PER FAR ANNEGARE I PROFUGHI O RINCHIUDERLI NELLE PRIGIONI LIBICHE”… ANCHE ALTRE ONG STANNO VALUTANDO IL RITIRO DOPO L’ACCORDO CRIMINALE ITALO-LIBICO
Stop alle attività di Medici senza frontiere davanti alla Libia.
Il provvedimento, dice la Ong, è ‘temporaneo’ ed è stato derminato dalla decisione della Libia di istituire una zona Sar, “limitando l’accesso delle Ong in acque internazionali” e a un ‘rischio sicurezza’ segnalato dal Mrcc italiano “dovuto a minacce della guardia costiera libica”.
Ieri le autorità libiche hanno dichiarato pubblicamente di aver istituito arbitrariamente una zona di ricerca e soccorso (Sar) e limitato l’accesso delle navi umanitarie nelle acque internazionali al largo delle coste libiche.
Subito dopo, il Centro di Coordinamento del Soccorso Marittimo (Mrcc) di Roma ha allertato Medici Senza Frontiere (Msf) di un rischio sicurezza legato alle minacce pronunciate pubblicamente dalla Guardia Costiera Libica contro le navi di ricerca e soccorso umanitarie impegnate in acque internazionali.
A seguito di queste ulteriori restrizioni all’assistenza umanitaria indipendente e dell’aumento dei blocchi che costringono i migranti in Libia, Msf ha deciso di sospendere temporaneamente le attività di ricerca e soccorso della propria nave, la Prudence. L’equipe medica di Msf continuerà a supportare le attività di soccorso a bordo della nave Aquarius, di Sos Mèditerranèe, che al momento sta pattugliando le acque internazionali.
“Se queste dichiarazioni verranno confermate e gli ordini attuati, vediamo due gravi conseguenze: ci saranno più morti in mare e più persone intrappolate in Libia” dichiara Loris De Filippi, presidente di Msf. “Se le navi umanitarie vengono spinte fuori dal Mediterraneo, ci saranno meno navi pronte a soccorrere le persone prima che anneghino. Chi non annegherà verrà intercettato e riportato in Libia, che sappiamo essere un luogo di assenza di legalità , detenzione arbitraria e violenza estrema”.
Per De Filippi “i recenti sviluppi rappresentano un altro preoccupante tassello di un ambiente sempre più ostile per le operazioni salvavita di soccorso” e evidenzia come “gli stati europei e le autorità libiche stanno attuando congiuntamente un blocco alla possibilità delle persone di cercare sicurezza. È un attacco inaccettabile alla vita e alla dignità delle persone”.
“Msf rifiuta di essere cooptata in un sistema che mira, a qualunque costo, a impedire alle persone di cercare sicurezza”, ha dichiarato Brice de le Vingne, direttore delle operazioni di Medici senza Frontiere.
“Chiediamo alle autorità europee e italiane di smettere di attuare strategie letali di contenimento che intrappolano le persone in un paese in guerra, senza nessuna considerazione dei loro bisogni di protezione e assistenza. Servono urgentemente delle vie sicure e legali per migranti e rifugiati, per ridurre inutili sofferenze e morti”, ha aggiunto.
Medici senza frontiere è una delle Ong, insieme ai tedeschi di Sea Watch e Jugend Rettet, a non aver sottoscritto il codice di condotta voluto dal Viminale con le regole per il salvataggio in mare dei migranti. L’ultima a firmare, in ordine di tempo, è stata Sos Mèditerranèe, dopo che al testo sono stati aggiunti due emendamenti.
E, dopo Msf, anche Save the Children potrebbe sospendere le attività di soccorso dei migranti davanti alla Libia “in caso di mancata sicurezza o di restrizioni all’assistenza umanitaria”. Lo ha detto il portavoce dell’Organizzazione, che sta operando nel Mediterraneo con la nave Vos Hestia.
La nave, spiega Save the Childre, si trova davanti a Lampedusa a causa delle cattive condizioni del mare ed è in costante contatto con la Guardia Costiera italiana dopo le dichiarazioni alla stampa delle autorità libiche. “Stiamo monitorando le eventuali conseguenze sull’operatività e sulla sicurezza delle attività – dice ancora l’Ong – e, qualora dovessero ravvisarsi condizioni di non sicurezza per il proprio staff e restrizioni all’assistenza umanitaria che rendessero impossibile continuare ad operare con l’obiettivo di salvare vite umane, potremmo sospendere le operazioni di ricerca e soccorso in mare”.
Ora tutto è ben chiaro, il cerchio si è chiuso con l’intesa tra i criminali libici e il governo italiano .
La presa per il culo è finita: ora sappiamo chi sono gli assassini.
(da agenzie)
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Agosto 12th, 2017 Riccardo Fucile
LE FAMIGLIE DEGLI UNDER 35 GUADAGNANO IN MEDIA 26.000 EURO L’ANNO, CONTRO I 35.000 DEI 55-64ENNI… NEGLI ULTIMI 5 ANNI SON AUMENTATI SOLO I POSTI POCO PAGATI… I NEOLAUREATI PRENDONO IL 15% IN MENO DI 10 ANNI FA
Trovarlo, il lavoro, è il primo problema, in un Paese in cui il tasso di occupazione per gli under 30 si
ferma intorno al 33 per cento.
Non a caso le anticipazioni sulla prossima legge di Bilancio parlano di nuovi incentivi alle assunzioni ma solo per i giovani.
Tenerselo è la seconda sfida: lo scorso giugno, secondo l’Istat, i dipendenti a termine (leggi precari) hanno toccato quota 2,69 milioni, il valore più alto da quando sono disponibili le serie storiche.
Ma la vera impresa è viverci, con quel lavoro. Perchè i figli dei baby boomer guadagnano, in media, il 36% in meno dei padri.
Ormai sono loro, e non i pensionati, la fascia a maggior rischio di povertà . E’ una dinamica che non riguarda solo l’Italia, se un rapporto pubblicato l’anno scorso dalla società di consulenza McKinsey arrivava alla conclusione che “il 65-70% dei nuclei familiari dei Paesi avanzati” tra 2005 e 2014 ha visto i propri redditi restare al palo o calare rispetto a quelli delle generazioni precedenti.
La differenza è che oggi, da noi, anche chi ha in tasca una laurea e ha conquistato un contratto deve accontentarsi nei primi anni di lavoro di stipendi da fame. Non è un caso se l’anno scorso si sono trasferiti all’estero oltre 200mila italiani.
E, secondo la Fondazione Bruno Visentini, il divario generazionale in termini di reddito e ricchezza è destinato a raddoppiare entro il 2030.
Se il capofamiglia è under 35 sul conto arriva il 36% in meno
Lo scenario che emerge mettendo insieme gli indicatori Istat sulla condizione economica delle giovani generazioni è chiaro: stanno sempre peggio. Prima della crisi, nel 2007, quasi il 39% dei nuclei con capofamiglia sotto i 35 anni erano classificati nel 40% della popolazione con i redditi più alti.
Ora la percentuale è scesa di sei punti, mentre è aumentata dal 24% a oltre il 29% la percentuale di famiglie di giovani che si piazzano nel 20% degli italiani con gli introiti più bassi.
Le cifre? Stando alle ultime rilevazioni, in media le famiglie degli under 35 vedono arrivare sul conto corrente ogni anno poco più di 26mila euro netti, contro gli oltre 35.400 dei 55-64enni: il 36% in meno.
Nel Nord Ovest, dove il terziario è più forte e trovare un posto un po’ più facile, le cifre medie sono maggiori ma il divario risulta ancora più ampio: 30.400 euro per i nuclei dei giovani, 40.300 per quelli dei loro genitori. Il risultato è che nel 2016 più di una famiglia di giovani ogni 10 è finita sotto la linea di povertà assoluta, vale a dire che non poteva permettersi il minimo necessario per una vita dignitosa.
Tra gli over 64 la percentuale ha invece conosciuto un calo costante, fino ad attestarsi al 3,9%. Se nulla cambierà il divario, secondo la Fondazione Bruno Visentini, non farà che aumentare: il rapporto “Il divario generazionale tra conflitti e solidarietà ” prevede che la forbice si allargherà sempre di più fino a impedire l’emancipazione economica di un’intera generazione dai genitori.
Tra 2011 e 2016 aumentati solo i posti malpagati…
Per cercare di spiegare questa tendenza Eurofound, agenzia europea “per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro”, nel suo ultimo Jobs Monitor ha analizzato i cambiamenti della struttura occupazionale e le disuguaglianze salariali. Trovando che in Italia per l’intero quinquennio 2011-2016 l’occupazione è cresciuta grazie a un aumento dei posti meno pagati, il “primo quintile” (cioè il 20% dei lavori retribuiti con gli stipendi più bassi).
In Germania, al contrario, il 2013 ha segnato uno spartiacque: fino a quell’anno i tedeschi hanno visto crescere soprattutto l’occupazione nel secondo quintile (che significa salari bassi, ma non i più bassi in assoluto), ma nei tre anni successivi sono stati creati 600mila posti a stipendio alto, nel quinto quintile, contro circa 180mila nel primo.
Stessa tendenza in Gran Bretagna. E il grafico sull’Unione europea nel suo complesso mostra che tra 2013 e 2016 il Vecchio continente ha visto crescere le posizioni lavorative classificate nel quarto e quinto quintile più di quelle nelle fasce di stipendio inferiori.
C’è da dire però che la particolarità italiana viene spiegata soprattutto con l’aumento dei lavoratori stranieri: su poco meno di 500mila nuovi posti a basso salario creati tra il 2011 e il secondo trimestre 2016, circa 300mila sono stati occupati da persone di origine extra europea e altri 100mila da immigrati arrivati da altri Stati Ue.
… e i laureati guadagnano meno che all’estero
L’aumento dei lavori umili, quindi, non basta per spiegare perchè i giovani italiani guadagnino sempre meno. L’altro fattore è il calo delle retribuzioni anche per i posti ad alta specializzazione.
In Italia, come evidenziato lo scorso anno in un discusso opuscolo del ministero dello Sviluppo per gli investitori stranieri, “un ingegnere guadagna mediamente in un anno 38.500 euro, mentre in altri Paesi lo stesso profilo ha una retribuzione media di 48.500 euro l’anno”.
Morale: anche le figure che negli anni del boom hanno costituito l’ossatura della classe media oggi sono poco più che “working poor“. Secondo l’ultimo rapporto di Almalaurea, a cinque anni dalla fine dell’università l’84% dei laureati ha un posto, ma lo stipendio mensile medio (netto) di un occupato in ambito letterario si ferma a 1.146 euro, quello dei giuristi è di 1.195, quello degli architetti non arriva a 1.300. I giovani medici ne prendono in media 1.500, i laureati in materie economiche e statistiche poco di più. Le retribuzioni più alte sono quelle di chi ha preso un titolo in ambito scientifico (1.649 euro mensili) e degli ingegneri, che superano i 1.700. Molto meno che all’estero, come vantato dal Mise nella speranza di attirare gruppi stranieri in Italia.
Tra 2007 e 2015 giù del 15% gli stipendi a un anno dalla laurea
Non solo: negli ultimi dieci anni le buste paga dei neolaureati si sono progressivamente alleggerite. Nel 2007, attestano le indagini del consorzio interuniversitario, chi aveva finito di studiare l’anno prima (laurea triennale) prendeva mediamente quasi 1.300 euro.
Oggi la cifra è scesa nei dintorni dei 1.100 euro netti al mese, il 15% in meno. Con la laurea magistrale la cifra sale pochissimo, nell’ordine delle decine di euro. Del resto, come ricordato di recente dal presidente Istat Giorgio Alleva, ben il 35,4% dei laureati ha un primo lavoro atipico, ovvero precario, contro il 21,2% di quanti hanno finito solo la scuola dell’obbligo.
Il risultato è che, fatta 100 la retribuzione di un diplomato, in media un neolaureato italiano guadagna 114: un “premio” inferiore di 23 punti rispetto alla media Ue.
Forse anche per questo le iscrizioni all’università , dopo aver toccato un picco di 337mila nell’anno accademico 2003-2004, sono scese nel 2015-2016 a 271mila.
Solo se si allarga l’analisi alle generazioni precedenti il gap di stipendio diventa corposo: l’Ocse calcola che gli introiti da lavoro di tutti i laureati italiani tra i 25 e i 64 anni sono in media superiori del 42% rispetto a quelli dei lavoratori solo diplomati. Anche in questo caso, comunque, il titolo di studio frutta meno che negli altri Paesi sviluppati. Nell’intera area Ocse il rapporto tra buste paga dei laureati e dei diplomati è di 155 a 100.
Nel 1977 occupati il 37% dei giovani. Oggi solo il 16%
Chi è giovane e un lavoro ce l’ha è comunque privilegiato, visto che nella fascia 15-24 anni il tasso di occupazione è poco sopra il 16% contro una media europea del 34% e il 41% dei Paesi Ocse.
Le cose vanno meglio se si restringe il campo all’età post universitaria (dai 25 ai 34): 60,5% di occupati. Ma il confronto con il passato anche su questo fronte è impietoso: nei primi anni Duemila gli occupati erano stabilmente sopra il 70%. Andando ancora più indietro, a quando i padri dei Millennials si affacciavano sul mondo del lavoro, si trovano numeri da Eldorado.
Nel 1977 i 15-24enni occupati erano il 36,8%, a fronte di un tasso di occupazione generale del 53,8%. E oggi chi resta fuori non necessariamente sta cercando un posto o si sta formando per trovarlo.
Anzi: secondo il rapporto Employment and Social Developments in Europe della Commissione Ue diffuso lo scorso giugno, l’Italia è il Paese europeo con la percentuale più alta di giovani Neet.
Quelli che non lavorano nè studiano nè fanno uno stage. Sono il 19,9% nella fascia 15-24 anni, contro una media dell’11,9%. Superano il 29% se si restringe l’analisi ai 20-24enni. Più che in Bulgaria, in Romania e in Grecia.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Agosto 12th, 2017 Riccardo Fucile
OLTRE 500.000 EVASORI FISCALI BECCATI NEGLI ULTIMI DIECI ANNI… MA LO STATO INCASSA REALMENTE SOLO IL 20,5% DELLE SOMME DOVUTE
Sono 27.500 gli evasori fiscali denunciati nel 2016 grazie all’attività di controllo e di verifica fiscale effettuata dalla Guardia di Finanza.
Il dato viene fornito dalla Cgia di Mestre, secondo il cui Ufficio studi l’azione di contrasto ha consentito di “sottrarre” ai trasgressori 55,7 miliardi di euro di imponibile: un importo più contenuto rispetto a quello registrato nel 2015 (61,1 miliardi), ma comunque in linea con i dati conseguiti dal 2012 in poi.
“L’ottimo risultato raggiunto anche nel 2016”, osserva il coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia, Paolo Zabeo, “è riconducibile alla politica adottata in questi ultimi anni dalla nostra Amministrazione finanziaria che ha intensificato l’azione di contrasto soprattutto nei confronti dei grandi evasori. Finalmente si è capito che il recupero di quote importanti di evasione lo si ottiene attraverso il controllo delle operazioni estero su estero, oppure tramite una minuziosa azione di monitoraggio sulle grandi aziende sempre più inclini a praticare forme molto sofisticate di elusione fiscale”.
Negli ultimi 16 anni, ricorda ancora la Cgia, l’attività degli uomini delle Fiamme gialle contro l’evasione fiscale ha consentito di “portare a galla” oltre 562 miliardi di euro di imponibile evaso e di “scovare” quasi 537.000 evasori.
“Se eseguiamo una media trilussiana”, segnala il segretario dell’organizzazione, Renato Mason, “possiamo affermare che dal 2001 la Guardia di Finanza ha sottratto ogni giorno agli evasori 96,2 milioni di euro di imponibile. Un risultato che la dice lunga sulla bontà del lavoro eseguito in tutti questi ultimi 16 anni”.
L’Ufficio studi della Cgia non manca comunque di rilevare come una cosa sia l’imponibile accertato e un’altra la riscossione effettiva, ovvero quanto viene effettivamente incassato dal fisco dopo i vari livelli di giudizio.
“Secondo i dati più recenti messi a disposizione dalla Corte dei Conti nella Relazione sul rendiconto generale dello Stato 2016”, riferisce Zabeo, “negli ultimi anni l’incidenza della riscossione sull’accertato di competenza è in costante aumento: nel 2016 ha raggiunto il picco massimo del 20,5 per cento. Una quota che in termini assoluti corrisponde ad un incasso di competenza di circa 13,2 miliardi di euro. Importo, quest’ultimo, che non include gli effetti della voluntary disclosure che l’anno scorso ha garantito 4,3 miliardi di gettito”.
Le ultime stime elaborate dall’Istat sul ‘nero’ presente in Italia ci dicono che l’economia sommersa si aggira attorno ai 194,4 miliardi di euro all’anno, pari al 12 per cento del Pil italiano.
Di questi 194,4 miliardi di euro di valore aggiunto generato dall’economia sommersa, il 50,9 per cento e’ ascrivibile a forme di sotto-dichiarazione dei redditi praticate dagli operatori economici (pari a 99 miliardi), il 39,7 per cento al lavoro irregolare (che corrisponde a 77,2 miliardi di euro) e il restante 9,4 per cento (18,2 miliardi di euro) ad altre componenti residuali di evasione, come ad esempio gli affitti in nero.
Nel complesso, che le unità di lavoro irregolari presenti in Italia sono oltre 3,6 milioni. Il 70 per cento circa e’ costituito da persone occupate in prevalenza come dipendenti (pari a quasi 2,6 milioni). Incidenze molto elevate di irregolarità occupazionale si registrano nei servizi alla persone (47,4 per cento), nell’agricoltura (17,5 per cento), nel commercio/ristorazione (16,5 per cento) e nelle costruzioni (15,9 per cento).
(da agenzie)
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Agosto 12th, 2017 Riccardo Fucile
AUTO SU FOLLA, DIVERSI FERITI DURANTE MANIFESTAZIONI
Non si fermano le violenze fra suprematisti bianchi e contro-manifestanti a Charlotteville, in
Virginia.
Il governatore, Terry McAuliffe, ha proclamato lo stato d’emergenza nella città , ma la tensione cresce. Un’auto è piombata intenzionalmente sulla folla degli antirazzisti dopo che la polizia ha disperso la temuta manifestazione dell’estrema destra e si conta un morto e diversi feriti.
Immagini diffuse da testimoni via Twitter mostrano i corpi di alcune persone che volano sul tettuccio delle auto incolonnate. Nei video diffusi via social network dai presenti, inoltre, si vede che l’auto, dopo aver investito manifestanti e tamponato altre auto, parte rapidamente a marcia indietro, in mezzo ai manifestanti.
Il provvedimento del governatore permette di mobilitare la guardia nazionale. La polizia ha intanto proclamato l’allerta per assembramento illegale e ha iniziato lo sgombero dell’Emancipation park dove sono avvenuti gli scontri.
Anche il presidente Donald Trump, dopo la moglie Melania, è intervenuto per condannare le violenze. “Non c’è posto per questo tipo di violenza in America”, ha twittato il capo della Casa Bianca.
Secondo la polizia di Charlottesville, diverse persone sono rimaste ferite, ma le autorità non hanno fornito un bilancio.
Gli scambi di slogan tra i manifestanti, che indossavano bandiere confederate e scudi, e gli oppositori, che accusavano gli organizzatori di avere un’ideologia di estrema destra, sono sfociati rapidamente in colpi e pugni.
Jason Kessler, organizzatore della marcia, ha detto in un comunicato che si tratta di di sostenere “i grandi uomini bianchi che vengono demoliti negli Stati Uniti”. Charlottesville, 300 chilometri a sud ovest di Washington, conta 46mila abitanti ed è la sede della università della Virginia.
La notte scorsa migliaia di suprematisti bianchi, esponenti della alt right, l’estrema destra, sono scesi in piazza per una nuova protesta, dopo quella di inizio mese, contro la rimozione della statua del generale confederato Robert Lee, uno degli eroi dell’America sudista e schiavista.
Fra i gruppi della destra radicale e identitaria americana ci sono il Ku Klux Klan e i neonazisti.
Già ore prima dell’inizio del rally “United The Right” sono scoppiati nuovi scontri tra gruppi di suprematisti bianchi ed estremisti di destra con studenti e dimostranti anti-razzisti che si sono opposti a quella che il sindaco della città ha definito una “vigliacca sfilata dell’intolleranza, dell’odio e del razzismo”.
La situazione è molto tesa a Charlotteville. Come è successo la notte scorsa anche oggi la polizia, in assetto anti-sommossa, è intervenuta anche con il lancio di lacrimogeni. Sono circa mille gli agenti dispiegati e il network televisivo Cnn parla di diversi feriti negli scontri.
All’inizio di luglio una cinquantina di membri del Ku Klux Klan avevano protestato sempre contro la rimozione della statua equestre del generale Lee, sostenitore della schiavitù, che nella guerra civile Usa del 1861-1865 guidò le forze confederate. A decidere per la rimozione è stato il Consiglio comunale.
I membri del Ku Klux Klan, provenienti dalla Carolina del nord, erano armati, indossavano gli abiti tradizionali con un un cappello puntuto e portavano bandiere confederali, esibendo anche slogan anti semiti e gridando ‘potere bianco”. L’episodio si era concluso con 23 arresti.
(da agenzie)
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Agosto 12th, 2017 Riccardo Fucile
L’AIUOLA DI PIAZZA VENEZIA RIDOTTA A UNO STERRATO INGIALLITO
Là dove c’era l’erba verde ora c’è una prateria gialla.
Osservando i giardini e i parchi della Capitale, viene spontaneo parafrasare la celebre canzone di Adriano Celentano.
Tutto ciò che prima era lussureggiante e colorato, ora è spento e rinsecchito. Colpa della siccità certo, delle temperature torride che ormai da giorni aleggiano sulla città , dell’assenza totale di piogge ormai da settimane se non mesi.
Un clima tropicale che non lascia via di scampo alle aiuole e alle tante aree verdi urbane (oltre 40 milioni di metri quadrati quelli capitolini), se non costantemente innaffiate e curate. Un panorama di desolazione che non ti aspetti di trovare però almeno per le zone verdi più famose e frequentate di Roma.
Tipo piazza Venezia. L’angolo della città tra i più immortalati dalle macchine fotografiche dei turisti, quasi in imbarazzo per la quantità dei soggetti da imprimere nei selfie, dalla scalinata del Campidoglio al Vittoriano ai Mercati di Traiano e annessa Colonna.
Eppure nel bel mezzo dello scatto resta quel giallognolo ex-prato, ormai più simile a un deserto. Erba bassa al posto delle decorazioni che in passato hanno reso celebre la piazza, dal Tricolore di fiori all’albero di Natale. Niente verde e sfondo non certo da cartolina.
Ma non se la passano meglio giardini e aiuole sparpagliate nei quartieri, come le ville più note e amate da romani e visitatori. Prati in sofferenza anche sulle sponde del laghetto di Villa Ada, parco urbano secondo solo a Villa Pamphilj al Salario. L’erba cerca refrigerio all’ombra dei pini ma senza acqua la terra vince sul verde, tutto è spento e scuro.
Destino simile all’ottocentesca Villa Paganini sulla Nomentana o a Villa Borghese. Se i sistemi di irrigazione sono carenti o assenti, come nella maggior parte delle zone verdi meno pregiate, non resterà molto da difendere dal caldo africano che in questi giorni avvolge Roma.
I prati sono secchi, le sterpaglie si accumulano persino nelle aiuole spartitraffico delle grandi arterie.
Sulla via del Mare ad esempio, strada di collegamento tra Roma e, appunto, le sue spiagge. L’arteria che porta a Ostia è decorata da piante invadenti che ostacolano la visibilità . Cespugli ormai morenti, come quelli che si segnalano sulla Pontina o su alcuni tratti della Colombo.
Tutti perfetti inneschi per i continui roghi che da giorni devastano la Capitale e il Lazio. Basta una scintilla, una sigaretta gettata senza ritegno dal finestrino per distruggere per sempre i patrimoni arborei più belli della Capitale.
(da “il Corriere della Sera”)
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Agosto 12th, 2017 Riccardo Fucile
L’INVIATO DE “LA STAMPA” E IL SUO DRAMMATICO RACCONTO… SOLO DEI CRIMINALI POSSONO FARE ACCORDI CON LA LIBIA
Che fine fanno quelli che rimandiamo indietro, il popolo dei barconi che le motovedette
libiche «salvano» prima che entrino nel nostro mare: quelli per cui inizia il vero viaggio, che è al di fuori di se stessi?
I migranti che evaporano nel nostro limbo di disattenzione, che non sono per noi più migranti, un figliol prodigo senza la casa in cui ritornare?
A quale destino li consegniamo, noi che abbiamo cessato di dare?
Per questo sono venuto in Libia, a cercare una risposta.
Il mestiere che faccio non è discutere se una politica è efficace o no, è semplicemente raccontare quali sono le conseguenze della politica sugli esseri umani.
Alla fine di tutto, ogni volta, c’è sempre una scelta morale. Poi deciderete, ma dovete sapere qual è il prezzo che fate pagare.
Non potrete dire: ignoravo tutto, credevo, mi avevano detto. Vi racconterò allora dove ho incontrato i migranti salvati. Se non mi credete, è facile verificare.
I centri libici per i clandestini, dunque. È lì che ho sentito l’odore dei poveri.
Sapete: non mi ha più lasciato il puzzo della miseria, si è attaccato ai vestiti, alla pelle, mi ha inseguito dopo che ne sono uscito. Ho gettato via i vestiti che indossavo, ed è rimasto lì, mi è entrato dentro. Mi insegue e mi perseguita.
Cosa è l’odore dei poveri? È un misto di sudore sudiciume immondizia urina secrezioni catarri cibi guasti o di poco pregio vestiti usati e riusati senza lavarli; è il trasudare della paura e di una dolente pazienza di vivere.
Forse il problema è che coloro che decidono il destino dei migranti l’odore dei poveri non lo hanno mai sentito, vengono, parlano con i ministri in belle sale refrigerate.
I centri per l’immigrazione clandestina (che ironia in un Paese, la Libia, che per quaranta anni ha fatto svolgere tutti i lavori duri a milioni di clandestini schiavi) sono sigle e numeri. Sigle e numeri.
Questi uomini e donne e ragazzi sono detenuti, prigionieri. Non possono uscire, non possono comunicare con le famiglie.
Mi hanno chiesto: «Che reato ho commesso? Ho lavorato qui per anni, ho pagato dei libici per traversare il mare». Non ho saputo rispondere.
Tripoli scorre veloce, le cuspidi dei minareti si alternano ai relitti in cemento armato della fallita Manhattan del Colonnello, simboli spenti delle sue follie, che innalzano al cielo niente più che grandi segni grigi. In fondo ai vicoli, prigioniere tra case slabbrate di otto piani, montagne di immondizia che nessuno raccoglie.
L’odore della strada con il suo catrame ribollente. A tratti, isolato, sale dal mare il richiamo di una sirena, lontana, solitaria e come soffocata. File silenziose fino a notte attendono, inutilmente, di poter prelevare piccole somme ai distributori delle banche. Non c’è denaro, se non per alcuni. Una grande macchina ferma.
Il centro è in una strada che i libici chiamano «la ferrovia» perchè qui al tempo degli italiani passava il treno, la villa-palazzo di Balbo è a un passo. L’ho scelto apposta: credo sia una sorta di vetrina, il ministero dell’Interno la usa per mostrare i risultati dell’efficace caccia ai migranti.
Ci portano i giornalisti e i controllori puntigliosi delle organizzazioni umanitarie del Nord Europa, principali donatori. Organizzano anche partite di calcetto tra i detenuti: «Se viene subito si gioca Marocco contro Kenya». In realtà erano migranti della Costa d’Avorio, ma, si sa, son tutti «negri» al di sotto del Sahara.
Dentro sono in 1400 (lo spazio è per 400 persone), gli uomini da una parte le donne dall’altra, si parlano urlando attraverso le sbarre. In nove mesi 3149 rimpatriati a spese delle Nazioni Unite, 244 «a spese loro», 71 hanno ottenuto il diritto di asilo, 6715 sono stati distribuiti in altri centri.
«Abbiamo perso tutto»
La prima cosa che incontri è, gettato in un angolo, il mucchio degli stracci donati per rivestire i migranti. I guardiani frugano, mettono da parte le cose migliori, una camicia, giubbe militari. A fianco un vecchio camion frigorifero, sequestrato.
Dentro hanno trovato dieci migranti morti durante la traversata del deserto, dal Sud.
Poi c’è la gabbia, un cortile coperto da una tettoia metallica, a sinistra si aprono le porte di alcuni stanzoni, le celle. La prima impressione è quella di entrare in una serra umida e afosa, dal pavimento esala, insopportabile, un vapore caldo come il sudore dai pori di un animale. Non ci sono letti o brande, non ci sarebbe posto, solo stuoie sudice, lembi di plastica, pezzi di cartone.
I corpi, la notte quando le porte di ferro sono chiuse da grossi lucchetti, si infilano l’uno accanto all’altro per poter restare sdraiati. Se cerchi di spostarti cammini su quella spazzatura umana.
Centinaia di volti e di corpi seminudi per il calore si volgono verso di me, c’è come uno strano raccoglimento. Stivati l’uno accanto all’altro, stesi o seduti, i migranti: corrosi, stremati, spolpati, distorti, bolsi.
Vedo braccia riverse, gambe abbandonate, non nel modo di chi riposa o dorme ma di chi stramazza a terra in seguito a una bastonatura, esanime. E visi, visi neri e chiari quasi tutti di giovani, su cui sono dipinte tutte le sfumature della estenuazione.
Non sono ancora entrato e già mi chiudono in mezzo, dolcemente, come una mano. Ascolto voci, stordito dal caldo e dall’odore che azzanna, non sono parole, discorsi singoli, è un mormorio che sale dalla terra.
Non sono uomini a parlare, è la disperazione, l’assenza di speranza. «Ci hanno portato via tutto, i poliziotti libici. Denaro, telefonini, vestiti. Non possiamo dire alle nostre famiglie dove siamo, che siamo ancora vivi». I guardiani assicurano che tutto è custodito con cura e sarà restituito al momento dell’espulsione.
Il sogno dell’Europa
Qualcuno avanza, spinto dagli altri che fanno largo, a mostrare le piaghe: c’è un giovane che ha gambe e braccia come scorticate dalla carta vetro: la benzina, la benzina sulla nave. Un altro più maturo mostra la spalla: fuori posto, staccata dal corpo.
A quelli rosi dalla febbre i compagni hanno lasciato gli spazi lungo i muri, perchè possano appoggiare il busto alla parete. «Qui non ci bastonano più ma dove eravamo prima, nella prigione di Mitiga… Ah, lì come sapevano picchiare».
È il problema di sempre: raccontare. È possibile trasmettere la memoria strutturandola?
Il tempo di luoghi come questo è comunicabile in un altro tempo, il nostro? Ci sono occasioni in cui le parole sembrano aver perso peso, sono sacchi vuoti. Rispetto dell’uomo, rispetto dell’uomo! Questa forse è l’unica pietra di paragone.
Un ragazzo marocchino è tra quelli che dovranno essere rimpatriati tra pochi giorni; sembra frantumi, le parole in sillabe con le mascelle. Mi spiega perchè tutti ritorneranno in Libia a riprovare il viaggio, appena avranno raccolto di nuovo un po’ di denaro: «L’Europa dove vivi tu è la felicità , nei nostri Paesi viviamo per mangiare e non per avere un avvenire».
Le nostre spiegazioni sulla migrazione: formule venute a finire qui come le vecchie auto arrugginite che solcano le strade di Tripoli.
Soltanto un ragazzo della Guinea mi ha detto che non riproverà . È fradicio di stanchezza: «Basta, è inutile. Non ho famiglia, nessuno che mi attenda nè in Guinea nè in Europa. Raccontare perchè rinuncio? Vengo da laggiù, sono qua, non ti basta?».
Quando esco dalla prigione ho le tasche piene di bigliettini, pezzi di cartone su cui hanno scritto numeri di telefono delle loro famiglie: «Chiama, chiama, ti prego. Tu che puoi, dì loro che sono qui, che vengano ad aiutarmi, a tirarmi fuori».
Ho provato a comporre alcuni numeri: risposte in lingue che non conosco o silenzi che affondano nel sospetto o nella disperazione.
Con qualche padre o fratello ho parlato: cerco di instaurare con loro uno scambio, un rapporto umano. Mi piacerebbe dire di non perder fiducia, che i figli e i fratelli stanno bene e, alla fine, ce la faranno.
Ma le parole non hanno lo stesso senso per loro e per te, ti chiedi se hanno il minimo senso davanti a questa sofferenza immensa e anonima. Sei tu che perdi fiducia, sei tu che perdi coraggio.
La tragedia delle donne
Mi sposto nella zona riservata alle donne: la situazione sembra migliore ma l’aria è rovente, grava il fiato di un fortore acido. Anche qui non ci sono materassi, solo stracci e stuoie.
Accanto scola in una palude l’acqua che esce dalle latrine. Sono giovani ma parlano della vita come vecchie. Ho capito perchè quando i poliziotti hanno tirato fuori da una borsa alcuni oggetti sequestrati: amuleti, fogli di carta con maledizioni rituali, bottiglie di plastica che contengono sangue mestruale.
La magia nera per legare le migranti prostitute. E un quaderno in cui sono segnate, meticolosamente, le prestazioni di lavoro: 15 marzo dieci clienti, 16 marzo diciannove. E i prezzi: cinquanta centesimi di dinaro. Un euro vale nove dinari.
Dalle finestre il sole disegna uno sbilenco rettangolo di luce sulla parete e illumina le scritte. I muri, i muri della sezione femminile parlano: minacce, invocazioni, amari pentimenti. La Nigeria è viva, vieni in Libia e vedrai, grande Paese grandi migranti. Sono quasi tutte nigeriane, molte incinte: due litigano per un pezzetto di legno che serve come spazzolino da denti, altre due si contendono una caramella.
Un neonato nudo giace abbandonato sul pavimento, le braccia allargate, dorme.
Al centro della stanza una donna è seduta a terra, le gambe aperte come per puntellarsi, le passano accanto, la urtano, lei non si muove.
Prega, sì prega: un canto monotono per ringraziare dio che non l’ha abbandonata.
Il sudiciume del luogo non riesce a coprire il risplendente e duro metallo di quelle parole. Sì, la Parola è davvero senza fine.
Domenico Quirico
(da “La Stampa”)
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Agosto 12th, 2017 Riccardo Fucile
PAOLA FERRARI SI SCAGLIA CONTRO DANIELA SANTANCHE’
Non le manda a dire Paola Ferrari, giornalista e conduttrice televisiva, che dal suo profilo Instagram si scaglia contro Daniela Santanchè, rea di essersi scatenata in balli sfrenati a sole poche ore di distanza dal licenziamento di 14 giornalisti di Visto e Novella 2000, testate di cui la politica e imprenditrice è proprietaria.
Un post durissimo quello della Ferrari che accosta il comportamento della Santanchè a quello di quanti “ridevano la notte del terremoto de L’Aquila pensando ai guadagni della ricostruzione” e definisce “triste e squallido” un atteggiamento del genere.
Una vicenda che ha suscitato molto clamore.
Il comunicato del comitato di redazione delle due riviste pubblicato da Dagospia recitava durissimo: “In questi due anni di gestione Santanchè nulla è stato fatto per portare Visto e Novella a competere sul mercato editoriale: contrariamente a quanto afferma il liquidatore, mai è stata pianificata una campagna promozionale nè pubblicitaria, mai una locandina, mai un passaggio in tv come tutte le testate concorrenti. Non solo: Visibilia Magazine ha mostrato da sempre una totale incapacità nel gestire la diffusione di Visto e Novella 2000, tanto che in edicola le due testate spesso non giungono e quindi vengono destinate direttamente al macero. Stessa sorte per i numeri speciali, di cui non si ha traccia”.
(da “Huffingtonpost”)
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Agosto 12th, 2017 Riccardo Fucile
IL PREPOTENTE CHE VA A SBATTERE: TRAGICO, PAROSSISTICO E PERSINO COMICO
Tragico, parossistico, e persino comico: i nazi tedeschi alla deriva sono finiti in panne, e una
delle navi delle Ong impegnate nell’emergenza sbarchi è stata chiamata a soccorrerli.
Poi quando la figuraccia rischiava di essere planetaria, i nazi del mare hanno rifiutato il soccorso Ong.
Certo è che coloro che sembravano destinati a diventare prede dei temibili pirati del mare, gli spietati predatori pronti a fare “di tutto” (pur di impedire i soccorsi degli immigrati), quelli che in teoria erano destinati a diventare il bersaglio, la lepre che fugge alla spedizione dei muscolosi guardiani dell’Europa, sono finiti a fare volontariato per poter salvare i loro aggressori dichiarati.
Solo nell’Italia di Dante Alighieri, che è l’inventore del contrappasso (la pena rovesciata del girone infernale), solo in questo paese il caso poteva regalare alla storia una vendetta così raffinata.
La nave tedesca Sea Eye – infatti – è stata chiamata dalla guardia costiera di Roma per dare soccorso alla “C-star (la nave anti Ong”) noleggiata dall’organizzazione “Defend Europe” che da alcuni giorni incrociava davanti alle coste libiche con l’obiettivo dichiarato di impedire l’azione di soccorso delle imbarcazioni che raccolgono i migranti partiti dalla Libia.
È uno smacco plateale, ovviamente, ma non solo per i nazi-pirati: anche lo Stato che in questi giorni mostrava i suoi muscoli, infatti, non aveva nei mezzi nella possibilità logistica di intervenire e ha delegato il soccorso della nave nera.
Nulla di male, ovvio, ma è una bella fotografia.
L’unico modo per impedire la deriva della C-star, dunque, era realizzare questo meraviglioso ribaltamento di ruolo: I presunti deboli (ma provvisti di Know-how adeguato) impegnato a soccorrere i presunti forti (ma incapaci di tenere fede ai propri proclami).
E se questa storia ci insegna qualcosa, dunque non è solo il gustoso il giochino del prepotente che va per battere ma finisce battuto, quanto piuttosto il ribaltamento di una narrazione più sottile e più perversa: le ONG che lavorano nel mediterraneo in questi giorni, non sono – come si è cercato di far credere – una banda di sfaccendati sprovveduti in caccia di gloria i di profitto, per spirito di lucro o dabbenaggine.
Sono un personale, serio e qualificato, non una banda di radical chic che si muovono per noia o per effimero spirito di avventura.
Se non ci fossero loro, in queste ore, nel mediterraneo ci sarebbero centinaia di morti in più, abbandonati al mare è senza speranza di salvezza.
Morti neri, perchè di pelle o di bandiera.
Luca Telese
(da “Tiscali news”)
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Agosto 12th, 2017 Riccardo Fucile
I CREDITORI BLOCCANO L’INVIO DEI PEZZI DI RICAMBIO, ANCHE SE IL COMUNE SMENTISCE
Andrea Managò su Fatto Quotidiano racconta che al rientro dalle ferie, a inizio settembre, i romani potrebbero trovare ad accoglierli una sorpresa sgradita: la diminuzione fino a un terzo del numero di autobus Atac in circolazione.
Colpa di una sorta di tempesta perfetta (che l’azienda, contattata dal F atto, smentisce in maniera categorica): a quanto riferiscono fonti interne, però, la notizia che la società dei trasporti sta per ricorrere al concordato preventivo (per spalmare un debito di 1,3 miliardi di euro) ha spaventato i fornitori (che già vantano crediti per 350 milioni),i qualihanno bloccato l’invio dipezzi di ricambio. Diversi depositi in questi giorni si sarebbero trovati già sprovvisti di una serie di componenti necessari alle officine.
Vista la situazione, e in attesa delle decisioni dei nuovi vertici sulla strategia da seguire, all’interno di Atac hanno iniziato a predisporre i piani per prevedere anche uno scenario di emergenza. L’azienda dispone di un parco vetture da 1.500 pezzi, ma attualmente ne circolano poco più di 1.300 complici i tempi lunghi legati alla manutenzione dei mezzi.
Tra le ipotesi tecniche messe in campo c’è una drastica riduzione delle vetture in circolazione fino a un minimo di 900 unità , ovvero quella di fermare un terzo della flotta. Una soluzione drastica e impopolare, che però consentirebbe alla società di ridurre i costi di esercizio e il numero di pezzi di ricambio necessari.
In più, il Comune rischia di dover mettere altri soldi in ATAC:
Problema: comporterebbe anche minori introiti derivanti dal contratto di servizio, che garantisce ad Atac 560 milioni di euro, ma solo con l’attuale numero di chilometri percorsi dai mezzi. Per scongiurare questa opzione, alcuni calcoli aziendali stimano come necessaria una iniezione di liquidità nelle casse di Atac di 15 milioni di euro.
“Non sono a conoscenza di questa eventualità , ma sicuramente una ipotetica diminuzione delle corse è uno scenario che va scongiurato a tutti i costi”, spiega il presidente della commissione capitolina Mobilità , Enrico Stefà no, del M5S. L’azienda, come detto, giudica l’ipotesi “destituita di ogni fondamento”. L’orientamento politico è chiaro, ma — come detto — la tecnica ha le sue ragioni: si vedrà .
(da “NextQuotidiano”)
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