Novembre 19th, 2022 Riccardo Fucile
30.000 MERCENARI TRA I PEGGIORI AVANZI DI GALERA… IN POCHI SOPRAVVIVONO, LA TESTIMONIANZA DEI LORO FAMILIARI
Almeno 40 carcerati russi arruolati nel gruppo Wagner per combattere in Ucraina sono stati “liquidati” dai commilitoni, presumibilmente nel modo brutale in cui è stato ucciso il loro ex compagno d’armi Yevgeny Nuzhin, massacrato a colpi di maglio perché ritenuto un traditore.
A rivelarlo è Olga Romanova, responsabile di Rus’ Sidyashchaya, o “Russia dietro le sbarre”, organizzazione per i diritti umani che aiuta i reclusi e le loro famiglie nel Paese di Vladimir Putin. “Le famiglie hanno ricevuto sms con la notizia che i loro cari sono stati giustiziati e a volte una richiesta di denaro per avere indietro i cadaveri”, racconta Romanova a Fanpage.it.
“Si tratta di esecuzioni sommarie senza alcun tipo di processo, nemmeno informale”. Le accuse? “Diserzione, e tentativo di resa, soprattutto. Ma anche saccheggio, abuso di alcol e droghe o rapporti sessuali ritenuti impropri”.
In ogni campo militare Wagner c’è un container dove vengono portati e torturati i soldati da punire, hanno raccontato alcuni “wagneriti” ai loro parenti e a “Russia dietro le sbarre”. Non è raro che la “lezione” finisca con la morte dei malcapitati.
Tutti liberi, cannibali compresi
L’organizzazione di Olga Romanova stima che siano oltre 30mila — pari a un terzo degli effettivi dell’esercito italiano — i detenuti arruolati nell’esercito privato che fa capo a Yevgeny Prigozhin, il businessman noto come “il cuoco di Putin” per la sua amicizia con il presidente russo e per i suoi affari nel settore del catering e della ristorazione.
Tra i reclutati, “assassini, stupratori e maniaci” — spiega Romanova. “C’è anche un uomo condannato per cannibalismo, prelevato da una colonia penale della regione di Saratov”.
A tutti è stato promesso il condono della pena, se sopravviveranno sei mesi al fronte. Cosa piuttosto difficile, visto che vengono utilizzati come carne da cannone per frenare le controffensive ucraine.
Ma se avranno fortuna, qualsiasi siano stati i loro crimini dovrebbero tornare a vivere nella società come normali cittadini. Compreso il cannibale. Intanto gli si prospetta “una paga mensile di oltre 100mila rubli”, ci conferma la moglie di uno di loro.
Significa circa 1.600 euro, più del doppio del salario medio russo. In caso di morte in azione, la famiglia in teoria riceve l’equivalente di 80mila euro. Non sempre succede. Di molti caduti semplicemente non si sa più niente.
“Di sicuro chi viene informato con un sms che il marito, il fratello o il figlio è stato “liquidato” perché ha tentato di arrendersi non può aspettarsi nulla”. È come dire: non ti lamentare e non cercarlo. Oppure paga e ti ridò il corpo. Ma non sono solo i “traditori” veri o presunti a sparire.
Niente di nuovo sulla sorte di Ilya Fomin
Vilena Fomina da due mesi e mezzo non ha notizie del marito Ilya, 32 anni come lei, arruolato da Prigozhin in persona il 1° settembre scorso nella prigione IK-6 di Melekhovo — la stessa dove è detenuto l’oppositore di Putin Alexey Navalny.
Ilya scontava una condanna a 19 anni per omicidio. Finito in galera giovanissimo per aver ucciso insieme al padre — che ha avuto l’ergastolo — sei persone in una rissa tra ubriachi, doveva passarci ancora più di un lustro.
Melekhovo è un carcere di massima sicurezza. È noto come “la prigione delle torture”. “Mi ha detto che si arruolava con Wagner perché è un patriota, ma so che lo ha fatto soltanto per uscire da quel posto: lo ha fatto per l’amnistia. Nemmeno per i soldi”, dice Vilena al telefono dalla sua casa di Murom, nella regione di Vladimir.
Si sente nel sottofondo la voce di una bimba piccola, concepita in uno degli incontri matrimoniali concessi dall’amministrazione carceraria. “Il fatto è che non c’è alcuna garanzia di amnistia, non abbiamo nessun documento in merito. Ho paura che anche se mio marito vivrà lo accuseranno di evasione o di qualche altro reato e dovrà tornare dentro”.
Una settimana dopo l’arruolamento ha telefonato. Da Luhansk. Zona di guerra. “Mi ha detto che andava tutto bene, di stare tranquilla. Ma ho sentito che non era da solo, qualcuno ascoltava. Era l’8 settembre. Da allora, nessuna chiamata, niente di niente”.
Vilena non sa più a chi rivolgersi. L’amministrazione carceraria dice che Ilya è stato semplicemente “trasferito”. Con Wagner è impossibile parlare. I loro soldi non li ha mai visti.
Nessuno le comunica niente. “Vorrei solo che Ilya tornasse, anche senza un braccio o senza una gamba. Anche se dovesse stare ancora in prigione. Abbiamo aspettato tanto. Gli mancavano solo cinque anni”. Difficile che sia ancora vivo.
Uno che di galere se ne intende
Le pessime condizioni carcerarie della Russia sono probabilmente il motivo principale per cui Ilya e tanti altri come lui sono diventati mercenari della Wagner.
“Il 70% dei detenuti subisce violenze e abusi”, dice Romanova. “L’umiliazione è ovunque, manca l’assistenza medica e in alcuni casi il riscaldamento, per non parlare delle condizioni sanitarie”. Tubercolosi e Hiv imperversano.
Le stesse pareti del carcere sono un ricettacolo di insetti, sporcizia e agenti patogeni: sono rivestite di un cemento poroso che sembra lava solidificata. Lo chiamano shuba (“pelliccia”), nel gergo della galera. È abrasivo, a spuntoni irregolari. Ed è “impossibile da sanificare”, sottolinea Olga Romanova.
Ma oltre a tutto questo, a convincere i detenuti ad arruolarsi è l’efficacia della campagna lanciata da Prigozhin. Che di galeotti se ne intende.
Se non altro perché, prima di metter su una catena di vendita di hot dog, poi un casinò e poi un ristorante a San Pietroburgo, prima di incontrare Putin, farselo amico e diventare improvvisamente miliardario fornendo catering alle scuole e le caserme del più grande Paese del mondo, Prigozhin si è fatto nove anni dietro le sbarre. Per rapina violenta, frode e induzione alla prostituzione minorile. Sa come parlare ai carcerati. “Venga con noi solo chi è convinto, chi vuole combattere perché gli piace e ha bisogno di farlo”, tuona nel video di un suo sermone nel cortile di una colonia penale.
“Chi accetta non potrà poi fare marcia indietro, ma non tornerà mai in galera”. Il fondatore della Wagner arriva su un elicottero con le stelle rosse per insegna, indossa una divisa tattica tintinnante di medaglie e non ha remore a dire che sta reclutando soldati nella sua armata personale perché il ministero della Difesa e l’esercito regolare non sono in grado di condurre la guerra.
Ora, l’uccisione a martellate di Yevgeny Nizhin, commentata da Prigozhin con le parole “un cane merita di morire come un cane”, le rivelazioni dell’Ong di Olga Romanova e le testimonianze dei familiari dei soldati di Wagner aprono un nuovo squarcio sull’orrore — già visto in Siria e altrove — della brigata della morte impegnata nelle guerre di Putin.
Le aspirazioni di Prigozhin
Il Consiglio della federazione, il Senato russo, sta preparando una legge che consentirà anche alle forze armate regolari di arruolare soldati tra i carcerati.
“Shoigu (il ministro della Difesa, ndr) è arrivato tardi, Prigozhin sta già reclutando tutti i reclutabili”, nota Romanova. In questi giorni è volato a far man bassa nelle colonie penali della Siberia orientale. La sua campagna non si ferma.
“È in corso una vera e propria gara fra Prigozhin e Shoigu, per far vedere al presidente chi è più bravo a portare combattenti in Ucraina”. Per ora vince il “cuoco di Putin”. Di parecchie lunghezze.
La mobilitazione parziale di Shoigu è stata all’insegna della disorganizzazione e degli errori. In Ucraina le aree presidiate da Wagner sono quelle dove i combattimenti vanno meglio, per i russi.
Prigozhin, attore un tempo considerato marginale nella politica russa, è diventato sempre più loquace nelle sue critiche al ministro e alla condotta della guerra. Non solo.
Ha chiesto “repressioni di tipo staliniano” nei confronti di chi nella élite non è sufficientemente in favore del conflitto. Ha attaccato il potente governatore di San Pietroburgo
Sta alimentando una spaccatura nell’establishment tra i guerrafondai intransigenti e chi vorrebbe che la situazione tornasse il prima possibile alla normalità.
La sua attività è diventata spasmodica e sempre più plateale. È impegnato a creare milizie nelle regioni russe confinanti con l’Ucraina.
Dopo che per anni ha negato ogni legame con Wagner — che tra l’altro non dovrebbe esistere perche in Russia i gruppi militari privati sono proibiti per legge —, ha dichiarato di esserne il fondatore e ha inaugurato un “Centro Wagner” in un grattacielo pietroburghese.
Si vanta pubblicamente dell’attività della sua galassia di siti internet che “hanno interferito, interferiscono e interferiranno” — parole sue — con le elezioni americane e con la politica degli Stati “ostili” alla Russia.
Molti osservatori, a Mosca e in Occidente, ritengono che potrebbe in futuro riuscire a competere per il potere. Non finché c’è Putin, ma dopo. Un ex galeotto con un esercito privato di assassini come prospettiva per il Paese che diede i natali al pacifista Lev Tolstoy, maestro del Mahatma Gandhi. La Russia si merita di meglio.
(da Fanpage)
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Novembre 19th, 2022 Riccardo Fucile
LO SPIN DOCTOR DI REAGAN: “PER VINCERE LE ELEZIONI SERVE AVERE UN NEMICO; CHI MEGLIO DEI MIGRANTI?”
Per Viktor Orban era semplicemente Finkie. Stratega geniale, con
decenni di esperienza alle spalle. E tanti amici in comune.
L’ambiente repubblicano più estremista, prima di tutto, quella destra dura e pura neoliberista, cresciuta con il mito del cowboy Ronald Reagan. E poi l’inossidabile Benjamin Netanyahu, protagonista del partito Likud, la parte più reazionaria della politica di Tel Aviv, che tanto piace ai nazionalisti Usa ed europei.
Finkie, ovvero Arthur J. Finkelstein, lo specialista in elezioni, sondaggi e messaggi politici che prendono le viscere dell’elettore, morto nel 2017 dopo una brillante carriera di spin doctor.
Fin dall’epoca di Nixon aveva capito che il trucco per vincere le elezioni era, alla fine, uno solo: la paura. Demonizzare l’avversario e, soprattutto, polarizzare l’elettorato. Radicalizzare lo scontro su temi sensibili e divisivi. Un vero mago nello spargere veleno.
Finkie sbarca in Ungheria nel 2008 con il curriculum di stratega per i repubblicani più estremisti Barry Goldwater, Richard Nixon e Ronald Reagan.
Quel «Rendiamo di nuovo grande l’America», il Make America Great Again, in sigla “Maga”, ovvero l’acronimo della fazione trumpiana, era nato con lui già nel 1980, proprio durante la campagna del cowboy hollywoodiano diventato presidente degli Stati Uniti e simbolo della destra mondiale.
Negli anni Novanta, insieme al suo allievo George Birnbaum, aveva creato l’ascesa di un allora semi sconosciuto dirigente di azienda israeliano, Benjamin Netanyahu, portandolo a vincere contro Shimon Peres. Nel 2003 Finkelstein e Birnbaum – come si legge nel sito web archiviato nel 2010 della loro società di consulenza – puntano sull’Europa orientale: Romania, Bulgaria, Kossovo e Serbia.
Nel 2008 arrivano a Budapest, dove iniziano a lavorare per Viktor Orban. Le elezioni del 2010 sono un vero trionfo per l’autocrate di Budapest, ma la battaglia per la conquista piena del potere non era finita. Finkie sapeva perfettamente cosa mancava, un nemico. Anzi, il nemico. Chi meglio di George Soros?
L’ultima risata
Come ha ricostruito minuziosamente un’inchiesta di Buzzfeed, Finkelstein e Birnbaum dal 2003 hanno iniziato a contribuire al successo elettorale della destra nell’Europa orientale, affrontando sul campo un “avversario” presente dagli anni Novanta nell’ex blocco sovietico: la democrazia liberale promossa dalla Open Society di Soros.
A Budapest il finanziere aveva realizzato la migliore università del Paese, la stessa dove peraltro aveva studiato Orban. Soros era nel frattempo divenuto il nemico numero uno di Vladimir Putin, che temeva l’ondata delle rivoluzioni arancioni, autentico spauracchio per il sistema illiberale della Russia contemporanea.
L’esordio della campagna contro Soros – il nemico costruito abilmente dai consulenti Usa – avviene nel 2013, su un tema ben preciso, le organizzazioni non governative. Molte Ong in Ungheria erano finanziate dalla Open Society e per Orban rappresentavano il vero avversario da abbattere, dopo il crollo elettorale dell’opposizione socialista.
Incarnavano la visione democratica e liberale della politica, la tutela dei diritti umani, della libertà di stampa, la difesa dei diritti civili, delle famiglie non tradizionali, della sessualità liberata. E, non ultimo, la tutela dei migranti.
Come trasformare tutto questo nel male assoluto? Mettendo davanti all’opinione pubblica il volto e la storia di George Soros. Un finanziere che nel 1992 guadagnò un miliardo di dollari speculando sulla crisi valutaria, attaccato per anni dalla sinistra, odiato dalla destra. Ebreo ungherese, in grado, dunque, di stimolare anche il mai archiviato antisemitismo dei Paesi dell’Europa orientale. Perfetto come nemico.
L’escalation della campagna anti-democrazia liberale in Ungheria sarà devastante. La Central European University della Open Society – fondata da Soros nel 1991 – nel 2018 è costretta ad annunciare il trasferimento delle principali attività a Vienna, mentre il governo Orban elabora una durissima legislazione contro le Ong, arrivando ad organizzare un referendum con lo slogan «Stop Soros».
Budapest era ricoperta dai manifesti con il volto del fondatore dell’Open Society e la frase «Non lasciare che George Soros faccia l’ultima risata!». L’accelerazione era iniziata nel 2015, con la crisi migratoria lungo la rotta balcanica. I confini ungheresi vengono coperti dal filo spinato, mentre la retorica contro la società civile pronta ad aiutare chi fugge dalla guerra in Siria diventa sempre più aggressiva.
Nel referendum del 2017 il governo Orban, nella sua propaganda, affermava che era necessario fermare «piano Soros» per evitare che «milioni di africani invadessero l’Europa». La tattica della paura dei consulenti arrivati dagli Usa funzionava.
Dichiarazione di guerra
Il 20 ottobre 2012 a Poiters, in Francia, un gruppo giovanile fino ad allora sconosciuto sale sul tetto di una moschea in costruzione, occupando il cantiere. Il luogo e la data sono simbolici: il 10 ottobre del 732, Carlo Martello aveva fermato nella città della Nuova Aquitania l’avanzata delle truppe del califfato Omayyad. Un simbolo, dunque. «Oggi la scelta è la stessa di allora», scrivono sul comunicato stampa diffuso dopo l’azione, richiamando la battaglia di Carlo Martello. «Vivere liberi o morire».
Poi aggiungono: «Non vogliamo più immigrazione extra-europea, né la costruzione di moschee sul suolo francese». Il gruppo si chiama Generation Identitaire, costola giovanile del Bloc Identitaire, nato nel 2002. «Voi siete SOS Razzismo, la “diversità”, il ricongiungimento famigliare, la libertà sessuale e i sacchi di riso di Bernard Kouchner (fondatore di Medici senza frontiere, ndr). Noi siamo il 25% di disoccupazione, il debito sociale, l’esplosione della società multiculturale, il razzismo anti-bianco, le famiglie disgregate, ed un giovane soldato francese che muore in Afghanistan», recitava il manifesto video dell’organizzazione diffuso nei giorni dell’azione a Poitiers.
La conclusione era tagliente: «Non vi sbagliate: questo testo non è un semplice manifesto, è una dichiarazione di guerra». Di nuovo i diritti – come la diversità, l’accoglienza, la libertà sessuale – diventano il nemico, questa volta nel cuore dell’Europa occidentale. Il riferimento a Kouchner, tra i fondatori dell’organizzazione umanitaria francese più nota, non era assolutamente casuale.
Cinque anni dopo, nel 2017, la sigla diviene nota in tutta Europa grazie ad un’azione lanciata nel Mediterraneo centrale: una nave inviata a bloccare i salvataggi dei naufraghi da parte delle organizzazioni umanitarie. Nel mirino finiscono le Ong impegnate nella flotta della società civile, che aveva iniziato a salvare chi fuggiva dalla Libia naufragando davanti alle nostre coste, dopo la chiusura, da parte del Governo Renzi, dell’operazione Mare Nostrum. Era appena un pezzo di una strategia molto più ampia.
Il nome di Soros appare in una ventina di tweet di Giorgia Meloni, dal 2018 in poi, associato direttamente con il «pericolo invasione» e le teorie del complotto: è il «finanziere che sostiene e finanzia in tutto il mondo l’immigrazione di massa e il disegno di sostituzione etnica», «impone col denaro l’immigrazione di massa e la distruzione degli Stati nazionali per fare dell’Europa il suo parco giochi», «fa gli interessi della grande speculazione, per questo usa anche le vite umane di chi muore in mare», sono alcune delle frasi pubblicate negli ultimi quattro anni dall’attuale presidente del Consiglio.
Tanto livore ha ancora una volta un obiettivo ben chiaro: fermare le organizzazioni non governative usando la retorica contro il fondatore di Open Society. Fratelli d’Italia, la Lega e, per un breve periodo, il Movimento 5 Stelle, tra il 2016 e il 2018 hanno inondato social, giornali e pubblicazioni di think tank con questa retorica, facendo da contraltare istituzionale alla guerra navale (un’operazione tra il cialtronesco e lo sgangherato richiamo all’azione di Fiume di D’Annunzio) di Generazione Identitaria. Due piani che si sono incrociati più e più volte, per alla fine incontrarsi.
Oggi il leader della sezione italiana dell’organizzazione identitaria francese – che nel frattempo è stata sciolta dal ministro dell’Interno di Parigi per istigazione al razzismo e per aver organizzato milizie private – Lorenzo Fiato, salito anche lui a bordo della nave anti Ong, milita nella Lega di Matteo Salvini, apparendo in tantissime foto di iniziative dei giovani padani.
Uno dei leader francesi, Damien Rieu, è oggi vicino all’area guidata da Éric Zemmmour, il candidato dell’estrema destra alla presidenza della Repubblica lo scorso anno. I fascisti di mare hanno messo la giacca e la cravatta, ma la retorica è sempre la stessa.
L’inchiesta di Trapani
È il 2015, l’anno della chiusura della missione navale Mare Nostrum, partita dopo il naufragio di Lampedusa schierando nel Mediterraneo centrale le unità navali italiane per salvare le migliaia di naufraghi partiti su barchini precari dalle coste libiche.
A Berlino un gruppo di ragazzi ventenni guarda le immagini delle tragedie in mare. Nessuno interviene più a sud di Lampedusa, le acque tra la Libia e l’Italia tornano a diventare un immenso cimitero. «Se non interviene l’Europa lo facciamo noi», ragionano i ragazzi tedeschi. Creano una Ong, Jugend Rettet, “la gioventù che salva”. Raccolgono i soldi e dopo pochi mesi, nel 2016, partono con una nave, la Iuventa.
Non sono i soli. Medici Senza Frontiere (nemico giurato degli identitari francesi), il Moas (Migrant Offshore Aid Station), il colosso Save the Children: la flotta umanitaria si va componendo. In quegli stessi mesi al Viminale alcuni funzionari preparano una nota: «Le Ong sono diventate una piattaforma in attesa dei gommoni provenienti dalla Libia (…) Tale modalità di pattugliamento potrebbe costituire un indice rivelatore di un preventivo accordo tra le organizzazioni criminali e l’equipaggio delle imbarcazioni». Dietro lo slancio dei ventenni tedeschi c’è ben altro, scrivono.
Ottobre 2016, Trapani. Due ex poliziotti si presentano alla Squadra mobile. Fanno parte di una società di security, la Imi, che opera a bordo della nave di Save the Children. Si sono presentati per denunciare una banale lite a bordo, ma approfittano per dire altro. Indicano una nave “sospetta”, la Iuventa, raccontano di un prete eritreo troppo amico di quei naufraghi partiti dalla Libia.
Pochi giorni prima avevano messo nero su bianco in alcune e-mail quella che per loro era una trama oscura. I destinatari diverranno noti mesi dopo: l’Aise (ossia l’Agenzia dei Servizi segreti), Alessandro Di Battista (che non ha mai risposto a quella comunicazione) e Matteo Salvini (che invece riceverà a braccia aperte una ex poliziotta assoldata dalla Imi, pronta a fornire video e documenti contro le Ong per la campagna elettorale della Lega).
La Procura di Trapani decide di dare corda a quella denuncia: apre un fascicolo, manda un agente undercover a bordo della nave di Save the Children. Alla fine, dopo quattro anni di indagini e migliaia di ore di intercettazioni, la “gioventù che salva” finisce indagata. I ragazzi di Berlino rischiano pene pesantissime.
L’udienza preliminare oggi stenta a decollare, tra errori procedurali, mancate traduzioni degli atti ed un senso generale di inconsistenza delle accuse.
Le azioni di salvataggio che finiranno nelle informative di polizia come prove di una presunta connivenza con i trafficanti libici sono nel frattempo state smontate pezzo dopo pezzo dall’inchiesta del gruppo Forensic Architecture dell’Università di Londra.
Al di là dell’esito giudiziario che avrà il processo, le accuse nate da un gruppo di agenti privati sono diventate ulteriore benzina sul fuoco dell’attacco alle Ong e alla difesa dei diritti dei migranti.
La Iuventa, è bene ricordare, era anche uno dei principali obiettivi della missione navale di Generazione Identitaria, definita dal ministero dell’Interno francese come una delle «diverse azioni intraprese che dimostrano la volontà di agire come milizia privata», tentando di impedire «i salvataggi delle imbarcazioni dei migranti». Accuse riprese da un esposto presentato nei mesi scorsi alla magistratura francese contro l’equipaggio della nave dell’estrema destra, con l’accusa di associazione criminale e tentato sequestro di persona.
Destra di lotta al governo
Dal 2016 diversi piani si sono incrociati. Chi salva le vite dei migranti viene indicato come una sorta di traditore, finanziato da oscuri poteri finanziari, strumento di chi vorrebbe una «sostituzione etnica», l’eterno complotto sempre presente nella cosmogonia post fascista. La retorica anti-Ong della destra – divenuta, dopo anni di “lotta”, di governo – che ha preso ispirazione dalla campagna di Orban anti-Soros come simbolo della difesa dei diritti, in fondo nasconde altro.
La necessità del nemico, insegnano Finkelstein e Birnbaum, è la chiave del successo elettorale per il modello illiberale. Non solo per conquistare il potere, ma soprattutto per mantenerlo, come insegna l’Ungheria, dove la guerra contro le organizzazioni non governative e la difesa dei diritti ha raggiunto il culmine con il referendum del 2017, anni dopo la prima elezione di Orban. Una strategia che va di pari passo con la costruzione della paura. Chi meglio del migrante?
Da anni influencer della destra radicale – come la militante di Casapound Francesca Totolo – amplificano quotidianamente tutti gli episodi di cronaca nera che vedono coinvolti immigrati, con una particolare predilezione per le persone provenienti dall’Africa. Una strategia comunicativa ripresa anche da Matteo Salvini e da tanti esponenti di Fratelli d’Italia. E, alla fine, appare chiaro il vero obiettivo: non tanto – o non solo – bloccare la migrazione.
Chi salva in mare, chi difende i diritti, chi si oppone allo Stato illiberale è il vero nemico. La prova è, ancora una volta, nel Mediterraneo centrale: allontanare le Ong è la vera ossessione del nuovo governo.
(da Fanpage)
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Novembre 19th, 2022 Riccardo Fucile
IL PRESIDENTE DELLA REGIONE RACCOGLIE IL 25,9% DEI CONSENSI, LA SCHLEIN IL 21,4%, DE LUCA IL 5,9%
Faremo “un Congresso costituente aperto il più possibile alla società e a chiunque voglia contribuire alla rigenerazione” del Partito Democratico. Ci confrontiamo “per capire cos’è che non ha funzionato e cambiare. Non so se è sufficiente. So solo che non è tardi, che c’è la possibilità di rendere più solida l’alternativa al governo e alla destra a partire proprio dal Pd”. Agli intellettuali “non chiediamo sconti né misura” ma “suggeriamo di confrontarci nel rispetto reciproco e nell’interesse della sinistra italiana e dell’Italia. Interesse che so essere comune e sincero”. Lo scrive in una lettera a La Stampa il segretario del Pd Enrico Letta, nel giorno in cui si tiene l’Assemblea Nazionale che deciderà l’iter. Letta ribadisce l’importanza del ruolo dell’opposizione, che “cerchiamo di assolvere ogni giorno in Parlamento e nel Paese”. Per esempio sulla misura anti-rave agire era il “dovere di una forza politica che rappresenta oltre cinque milioni di italiani lontani, culturalmente e antropologicamente quasi, da questa destra. È il compito dell’opposizione a cui forse tutti quanti dobbiamo riabituarci”.
Enrico Letta apre l’Assemblea Nazionale: È il discorso dell’orgoglio. “Oggi vorrei fosse il giorno dell’orgoglio Pd. So le difficoltà che ci sono, ma questo è il giorno dell’orgoglio. La scelta politica di fare un Congresso costituente l’abbiamo già fatta. Applichiamo una decisione politica assunta alcune settimane fa, ora dobbiamo fare le modifiche statutarie. Questo atto è il più importante, quello che rende possibile il Congresso costituente”. Letta difende i candidati alle Regionali in Lazio (Alessio D’Amato) e Lombardia (Pierfrancesco Majorino), “candidature ambiziose, sono l’unica alternativa alla destra e possono vincere”, mentre “altri che sono all’opposizione sembrano interessati a fare l’alternativa a noi, più che alla destra. Per me orgoglio Pd significa respingere questa offensiva continua nei nostri confronti, pur stando all’opposizione con noi”. E ancora: “Siamo un partito che crede che si posa essere una comunità, un partito che decide colettivamente, non un partito personale. Per questo dico orgoglio Pd”. Enrico Letta rivolge un appello a contrastare le tentazioni scissioniste: “Tutti si devono sentire protagonisti. Non bisogna dare ascolto alle voci di chi dice che se vince uno questo non è più il suo partito e la stessa cosa se vince un altro. Dobbiamo fare un congresso in cui tutti sono protagonisti e che ci consente di allargare”.
Poi la proposta: “Oggi dobbiamo rendere possibile statutariamente il processo costituente” già deciso “politicamente”, un processo “che consentirà un allargamento, con delle regole più semplici e con tempi certi”. La proposta della data delle primarie “è il 19 febbraio”. Però, “ci sono le elezioni regionali, saranno fissate presumibilmente a febbraio, la data non è stata ancora identificata. Nella proposta abbiamo previsto una flessibilità necessaria per gestire le cose al meglio perchè non sappiamo la data del voto regionale”.
L’ordine del giorno contro le correnti. “Oggi in questa assemblea presentiamo un ordine del giorno per sciogliere le correnti” annuncia Lia Quartapelle intervenendo all’assemblea del Pd. “Questo non basta ma è un inizio parlarne. Siamo stati criticati per questo e una delle critiche è arrivata da Dario Franceschini. Ma Dario, noi non siamo contrari al sistema di correnti ma a questo sistema di correnti. In tutti i partiti ci sono posizioni diverse, ma non un sistema di potere per far partecipare solo alcuni e che sta facendo male al partito”, ha aggiunto. L’odg, ha spiegato la presidente dem Valentina Cuppi, verrà votato al termine della riunione.
Sulle colonne della Stampa, Alessandra Ghisleri fornisce i primi dati delle rilevazioni sulle primarie dem. “Emerge un buon 34,3% di elettorato Pd ancora indeciso ad andare a votare e quale candidato scegliere”. Stefano Bonaccini, governatore dell’Emilia Romagna, è davanti con il 25,9%, seguito a breve distanza dalla sua vice Elly Schlein (21,4).
Più distanti Vincenzo De Luca (5,9%), Francesco Boccia (4,5%), Paola De Micheli (3,3%, Dario Nardella (2,5%), Peppe Provenzano (1,5%) e Matteo Ricci (0,6%).
Ghisleri segna anche che per il 47,3% l’esito è scontato, vincerà Bonaccini, e “questo rischia di vanificare gli sforzi del partito” sul coinvolgimento dell’elettorato alle primarie. S
(da agenzie)
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Novembre 19th, 2022 Riccardo Fucile
LA LEADER DELL’OPPOSIZIONE: “I NOSTRI SOLDATI SONO CONTRARI ALLA GUERRA, DISERTEREBBERO”
La Bielorussia è pronta a entrare in guerra contro l’Ucraina. Per
aiutare Vladimir Putin con una nuova invasione da nord. O forse lungo il confine con la Polonia. Con l’obiettivo di tagliare l’afflusso delle armi occidentali.
Se ne parla durante gli scambi di informazione tra la Nato e Kiev. E lo sostengono, scrive oggi il Corriere della Sera, anche alcuni canali Telegram.
Mentre Repubblica racconta che il Quartier Generale dell’Alleanza di Bruxelles ha iniziato a monitorare il paese “satellite” del Cremlino guidato da Aleksandr Lukashenko. Molte truppe sono da tempo dislocate nel paese.
L’esercito di Minsk potrebbe irrobustire i contingenti di Putin. Mentre si rincorrono le voci su una “mobilitazione segreta“. Centoventimila soldati entrerebbero nel territorio ucraino dopo l’inverno. Ovvero a febbraio. Proprio mentre sarà passato un anno dall’inizio dell’Operazione Speciale dello Zar. Ma c’è chi non crede a questa prospettiva.
La leader dell’opposizione democratica bielorussa in esilio, Svetlana Tikhanovskaya, dice oggi in un’intervista al Corriere della Sera che Lukashenko aveva appoggiato Putin perché credeva in una guerra lampo. «Sappiamo che Lukashenko deve semplicemente obbedire al Cremlino ma sappiamo anche che non può mandare truppe bielorusse in Ucraina senza rischiare il suo stesso potere», aggiunge.
E questo perché «persino la sua nomenklatura non accetta un peggioramento delle condizioni economiche e poi i nostri soldati sono contro la guerra. Scapperebbero, diserterebbero. Nessuno vuole fare da mercenario per Putin».
Tikhanovskaya aggiunge che «per le nostre fonti ci sono 8 mila soldati russi in Bielorussia. Le nostre Forze Armate contano oggi 50 mila militari, in gran parte coscritti male armati. Ragazzi che hanno toccato le armi una volta sola durante la leva perché i proiettili costano. Diverso il caso di qualche migliaio di Omon, la polizia interna, oppure di sicari al servizio di Lukashenko. Lì qualcuno si troverebbe, ma è troppo poco. Ci vorrebbe una coscrizione dopo Natale».
Secondo la leader dell’opposizione nel paese «ci sono state manifestazioni contro la guerra e più di mille persone sono state arrestate. Ci sono stati i volontari che hanno aiutato i rifugiati ucraini. Mille bielorussi sono nel Kalinouski Regiment inquadrati nell’esercito ucraino e almeno 15 di loro sono stati uccisi. Infine, ci sono partigiani che segnalano all’intelligence di Kiev i movimenti dell’artiglieria russa e che hanno sabotato le ferrovie per rallentare i rifornimenti dell’avanzata verso Kiev. I bielorussi vogliono aiutare, ma siamo anche spaventati del peggio».
(da agenzie)
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Novembre 19th, 2022 Riccardo Fucile
ORA IL GOVERNO DOVRA’ VOTARE
Non si placano le polemiche sul quasi certo nuovo incarico dell’ex ministro degli Esteri Luigi Di Maio, che salvo eclatanti sorprese diventerà inviato Ue nel Golfo Persico.
Al centro del dibattito, dopo la sua idoneità, questa volta, è il maxi-stipendio che Di Maio percepirà: 12 mila euro al mese, sottoposti alla tassazione agevolata dell’Unione. A questi si somma il rimborso spese, comprese quelle per lo staff, riporta il Tempo.
L’ex pentastellato godrà anche dello status di diplomatico, con passaporto e immunità. Lauto compenso per un ruolo delicato. Di Maio lavorerà nella gestione degli approvvigionamenti di gas e petrolio che provengono dalla regione, oltre ad interessarsi – ad esempio – dei rapporti con l’Iran in tumulto.
La concorrenza sbaragliata
Per il ruolo, Di Maio ha superato la concorrenza di altri tre candidati: il cipriota Markos Kyprianou (ex ministro degli Esteri, specializzato in diritto internazionale a Cambridge e in diritto societario ad Harvard), lo slovacco Jan Kubis (ex inviato Onu in Libia ed ex rappresentante del segretario generale delle Nazioni Unite in Afghanistan prima e in Libia poi) e il greco Dimitris Avramopoulos (ex ministro ed ex commissario europeo).
Pare che ad assicurargli il ruolo sia stato il rapporto che Di Maio, nel suo periodo alla Farnesina, è riuscito ad instaurare con Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell. Sarà lui ad avere l’ultima parola dopo l’indicazione del panel tecnico.
Chi ha fatto il nome di Di Maio?
La potenziale nomina di Di Maio ha scatenato la polemica interna al centrodestra, che chiede che il governo Meloni non sostenga l’ex ministro poiché non avrebbe «i requisiti» per il ruolo, denuncia il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri.
L’idea che si fa strada nella maggioranza, avanzata dal vicepremier Antonio Tajani, è che sia stato l’ex premier Mario Draghi ad indicare Di Maio. Tuttavia, fonti a lui vicine smentiscono. Quando annunciò l’istituzione e la gara per la carica, il 22 settembre scorso, Borrell avrebbe semplicemente chiesto a Draghi se si trovasse bene con il suo ministro degli Esteri. Domanda alla quale l’allora capo del governo avrebbe risposto affermativamente, senza aggiungere altro.
La Stampa intanto scrive che sulla nomina dovranno votare i governi a maggioranza qualificata. Cosa farà il governo Meloni?
(da agenzie)
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Novembre 19th, 2022 Riccardo Fucile
ANDRANNO TUTTI A PRANZO E CENA A CASA DI MELONI E SALVINI?
Secondo l’Anpa sono 600 mila i percettori idonei a lavorare da
subito. 378 mila per l’lnps.
«Stop, stop, stop! Dobbiamo eliminare un sussidio immorale per tutti quelli che sono in condizioni di lavorare». Lo ha annunciato eloquente la premier davanti a ministri e capigruppo a vertice di maggioranza di ieri. È in arrivo la stretta del governo Meloni sul Reddito di Cittadinanza. La premier, fino a pochi mesi fa auspicava un’abolizione totale, ma nelle ultime settimane si era ipotizzato un intervento più contenuto.
Alla fine, pare che il nuovo esecutivo, con la nuova manovra, toglierà al sussidio tra uno e due miliardi di euro, da riutilizzare nel taglio al cuneo fiscale o per finanziare quota 103.
Il piano è semplice: niente RdC agli «occupabili», ovvero tutti coloro che sono tecnicamente in grado di lavorare. Si tratta di 600 mila persone, che fra sei mesi, quando entrerà in vigore la nuova legge di Bilancio, smetteranno di percepire il sussidio, che invece rimarrebbe per i disabili e le famiglie numerose, riporta la Repubblica.
Al taglio, ha spiegato Meloni, si aggiungerà un accurato monitoraggio per evitare che il Reddito non arrivi a chi non ne ha diritto. La premier, nella sala verde di Palazzo Chigi, ha posto l’attenzione soprattutto su chi continua a percepire il sussidio pur non risiedendo più in Italia, oltre che su chi – a margine – lavora in nero. In questo senso saranno i comuni a ricevere maggiore libertà di controllo.
Quella della premier non è l’unica ipotesi sul tavolo. Al vaglio rimane anche la proposta del sottosegretario al Lavoro Carlo Durigon, spiega La Stampa. Secondo le regole attuali, dopo 18 mesi di percezione del Reddito, arriva una pausa di un mese durante la quale le condizioni del percettore vengono valutate.
Se sono rimaste invariate rispetto all’inizio, il sussidio riprende a essere erogato il mese successivo. E così si può continuare virtualmente all’infinito, ogni anno e mezzo. Durigon propone di aumentare il periodo di sospensione da uno a sei mesi, e di inserirvi all’interno un corso di formazione per aiutare il disoccupato a inserirsi nel mondo del lavoro. L’idea del sottosegretario, condivisa dalla Lega, è di mantenere l’assegno invariato per i primi 18 mesi, e poi di ridurlo dopo ciascuna sospensione.
I costi e i numeri degli «occupabili»
Il RdC costa intorno a 9 miliardi di euro all’anno. Al momento le persone che in qualche modo ne beneficiano sono 2,4 milioni. Di queste, 430 mila vivono al Nord, 328 mila al Centro, e 1,7 milioni nel Sud e nelle isole. I nuclei con minori sono 328 mila e l’importo medio erogato è di 550 euro. Dei 600 mila che «occupabili», almeno 480 mila, secondo l’Anpal, non firmano un contratto da almeno tre anni e non vanno oltre la terza media. Secondo l’Inps, invece, gli occupabili immediatamente sono meno: 372 mila.
Piccolo dettaglio: se il lavoro non c’e’ come faranno a vivere queste 600.000 persone?
(da agenzie)
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Novembre 19th, 2022 Riccardo Fucile
“UN POSTO PER LUI SI TROVERA’ CON UN PROGRAMMA SU RAI 1”
La promessa era arrivata dal sottosegretario Vittorio Sgarbi, che aveva garantito a Morgan in un’intervista a Repubblica, ma pure in un colloquio diretto col ministro Sangiuliano, il ruolo di consigliere speciale per la Musica al Ministero della Cultura.
Poi ieri la notizia della mancata nomina e la “virata” sulla direttrice d’orchestra Beatrice Venezi, notoriamente molto vicina alle posizioni della Premier Giorgia Meloni. “Ho pianto per la sconfitta, provo un’umiliazione”, queste le prime parole di Morgan a Venezi.
Nello specifico, l’ex giudice di X-Factor ha scritto alla direttrice d’orchestra: “Ciao Beatrice, voglio abbracciarti per congratularmi e piangere una sconfitta, la tristezza mi ha stretto il cuore da che ho appreso la notizia della tua nomina e ho provato umiliazione. Dopo non più di un’ora mi è tornata la lucida e umana coscienza – ha aggiunto il cantante – che tu meriti quel che hai ricevuto e che sei una grande risorsa musicale, la certezza che tu hai slancio energia finezza e maestria, doti tue che la musica oggi merita di ricevere. Ho sentito sempre la tua stima nei miei confronti e voglio dirti che sono a disposizione, anzi non vedo l’ora di poter realizzare imprese al tuo fianco, con la tua direzione e collaborazione, io ci sono. Ti auguro buon lavoro. Morgan”.
Il cantante ha fatto quindi molto presto a metabolizzare la notizia e a proporre a Venezi di collaborare. E non è mancato l’intervento di Vittorio Sgarbi a tranquillizzarlo dopo il fattaccio: secondo il critico d’arte “è naturale che Morgan ci sia rimasto male”, ma un posto per lui ci sarebbe, “magari un programma su Rai 1”.
“Ha fatto bene a dire di voler collaborare con Venezi. Avrei potuto assumerlo io come consigliere di sottosegreteria, ma non voglio pagare qualcuno per consigli di cui non ho bisogno. Lui è uno operativo, qualcosa si troverà”. Magari con gli agganci giusti.
(da NextQuotidiano)
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Novembre 19th, 2022 Riccardo Fucile
“VINCERO’ CON IL METODO EXPO”
“Il centrodestra mi ha proposto diversi incarichi, tutti molto
importanti. C’è stata un’ipotesi come ministro del governo Meloni, ma non si è concretizzata. E anche incarichi in aziende partecipate importantissime”: Letizia Moratti è già in piena campagna elettorale, candidata del Terzo polo in Lombardia, è ospite di Lilli Gruber a Otto e mezzo, su La7. E qui racconta come è arrivata a candidarsi contro il governatore Attilio Fontana, di cui è stata vicepresidente fino a poche settimane fa, e di come adesso dovrà vedersela anche con Pierfrancesco Majorino, candidato di quel Pd che l’ex assessora sta corteggiando apertamente. “Dal centrodestra mi hanno offerto diverse cariche, ma non mi interessano: io preferisco gli incarichi. Ho scelto con coraggio di essere al servizio della mia regione, come feci quando da tecnica mi hanno chiamato per gestire il piano vaccini. Per questo ho scelto di lasciare una poltrona, di non accettare altri incarichi e mettermi a disposizione di miei cittadini”, ha spiegato Moratti.
Che in questi giorni sta cercando apertamente di smarcarsi dall’etichetta di assessora del centrodestra: “Ho preso le distanze dai primi provvedimenti del governo Meloni. E ho preso le distanze da quella politica che, anche in Regione Lombardia, sta ammiccando ai No Vax, in una regione che è stata profondamente colpita dal Covid. Mortificando il personale medico. La Sanità lombarda era messa molto male già prima del Covid, io ho contribuito a risanarla. Cito un esempio, le liste per gli interventi ai malati oncologici”, ha detto, ricordando i motivi che ha messo alla base delle sue dimissioni.
Alla domanda “Perché mi devono votare alle elezioni per la presidenza della Lombardia?”, Letizia Moratti ha risposto “seguirò lo stesso metodo che mi ha portato a vincere Expo, valorizzando il territorio attraverso la sfida del digitale, delle infrastrutture, del rilancio delle medie e piccole imprese: so che parto in svantaggio, ma non corro per arrivare seconda. Vincerò”, ha detto. “Non penso che gli elettori in questo momento guardino le etichette, noi lombardi siamo molto concreti – ha sottolineato l’esponente politico -. Io penso di avere visione, esperienza e competenza. Desidero misurarmi sui contenuti e non ho paura di misurarmi con nessuno. Con la frantumazione e il 37% astensione, mi pare chiaro che ci siano mondi che non si riconoscono più nelle attuali proposte politiche. Parto svantaggiata, lo so, ma se ci si misura sui temi io penso di poter vincere”
Dice, Moratti, che oggi ha chiamato “sia Majorino che Fontana e ho chiesto loro di fare una campagna leale, perché l’interesse dei nostri cittadini è che ci si misuri sui contenuti e non sugli schieramenti. Entrambi hanno condiviso. Sicuramente in questo momento c’è un grande fermento in politica, con una destra-destra e una sinistra-sinistra. Mi aspetto delle sorprese: lo scenario politico deve far riflettere sulla necessità di riempire il vuoto politico che si sta creando nel centro. Io mi definisco liberale e popolare. Se mi devo riconoscere in un’etichetta, mi riferisco alla Dottrina sociale della Chiesa. Ma queste sono gabbie e gli elettori vogliono poter fare riferimento a persone competenti e di esperienza”.
(da agenzie)
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Novembre 19th, 2022 Riccardo Fucile
UNA SQUADRA ATTRAVERSA IL FIUME DNIPRO MA DALL’ALTRA SPONDA VIENE SCAMBIATA PER UCRAINA DAI COMMILITONI, CHE APRONO IL FUOCO NONOSTANTE LE URLA “SIAMO AMICI” …MA I MILITARI DI PUTIN SONO MESSI COSÌ MALE DA NON AVERE IN DOTAZIONE NEANCHE DELLE RADIO PER COMUNICARE FRA LORO?
Una scena ripresa da una telecamera go-pro. Una squadra di incursori russi sta lasciando una località nella zona di Kherson a bordo di un motoscafo in pieno giorno. Appena salpano cominciano a venire colpiti dalle raffiche di una postazione russa nascosta dall’altra parte del fiume.
I proiettili cadono sull’imbarcazione, mentre i soldati urlano invano ‘amici, amici’. Poi si gettano sul fondo del battello, tentando di attraversare il fiume.
I colpi però non si fermano. Il video dovrebbe essere stato ripreso nelle fasi finali della ritirata oltre il Dnepr: probabilmente gli incursori formavano la retroguardia.
Ma i loro commilitoni non erano stati informati della loro presenza e li hanno scambiati per ucraini che volevano varcare il fiume.
Il filmato mostra come i reparti russi non dispongano di apparecchi radio portatili che permettano di comunicare e coordinare i movimenti: un difetto che ha provocato numerosi episodi di ‘fuoco amico’.
(da La Repubblica)
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