Marzo 20th, 2023 Riccardo Fucile
QUANDO LA FLESSIBILITA’ DIVENTA UNA TRAPPOLA: IL 21% DEI CONTRATTI DI LAVORO E’ PRECARIO… AUMENTANO I PROFITTI DELLE IMPRESE SULLA PELLE DEI LAVORATORI, ORA IL GOVERNO VUOLE ULTERIORMENTE AUMENTARE LO SFRUTTAMENTO
Sono almeno 25 anni che l’Italia punta sui contratti di lavoro flessibili. Nel 1997 Tiziano Treu, ministro nel primo governo Prodi, introduce l’omonimo pacchetto che insieme alla successiva legge Biagi (2003) regolamenta i primi «lavori atipici».
Da allora diverse riforme tra cui il Jobs Act di Renzi rendono le regole sempre più agili. Adesso tocca al governo Meloni, che oltre a ridisegnare il sistema dei voucher, è pronto a incentivare ulteriormente i contratti a termine. Non c’è dubbio che in un mercato molto variegato i contratti debbano permettere una certa flessibilità, ma di quanto si sta allungando questo elastico?
Il ritorno dei voucher
I voucher sono buoni a ore con cui si paga il lavoro occasionale: il 75% va in tasca al lavoratore, il resto copre contributi e assicurazioni contro gli infortuni). Ideati nel 2003 dalla riforma Biagi (art.70) per pagare i «lavoretti» di solito svolti in nero, come babysitter, colf, insegnanti privati, raccoglitori d’uva, ed utilizzabili dai «soggetti a rischio di esclusione sociale» (disoccupati, casalinghe, studenti, pensionati e disabili).
Dal 2008 la possibilità di pagare con i voucher viene estesa ad altre figure professionali e nel 2012 con la riforma Fornero si allarga a tutti i settori produttivi e a ogni tipo di lavoratore. La richiesta di voucher si impenna: se nel 2008 ne sono emessi poco più di mezzo milione, nel 2015 diventano 134 milioni.
Si impenna anche l’abuso, soprattutto nell’edilizia, nel turismo e nel commercio: molte imprese coprono qualche ora con i voucher, e il resto pagato in nero. In pratica con questa modalità evitano di assumere lavoratori utilizzati a tempo pieno spacciandoli come occasionali.
Le irregolarità assumono dimensioni tali che nel 2017 il governo Gentiloni decide di abolirli e con il successivo decreto n.50 del 2017 fissa limiti stringenti (libretto famiglia e PrestO).
La finanziaria 2023 ne allarga invece l’uso alle imprese che hanno fino a 10 dipendenti a tempo indeterminato (escluse quelle agricole ed edilizie). L’importo orario minimo netto è di 9 euro all’ora, quello giornaliero di 36 euro. La somma che ogni azienda può spendere in voucher è di 10 mila euro all’anno, con l’obbligo di comunicare preventivamente all’Inps l’utilizzo di lavoratori occasionali.
Il governo Meloni dichiara che l’estensione della misura servirà a ridurre il sommerso, ma la norma, come si è già visto, è facilmente aggirabile e allontana i lavoratori da contratti stabili. Anche perché le sanzioni per chi viola la legge non sono severe: da un minimo di 500 euro ad un massimo di 2.500.
Contratti a termine
In Italia negli ultimi anni il contratto di lavoro più diffuso è stato quello a tempo determinato. Nel 2021 ne sono stati attivati 7,7 milioni (il 69% del totale) che sono diventati 8,5 milioni nel 2022. Nel terzo trimestre dell’anno scorso oltre il 31% dei contratti a termine sottoscritti aveva una durata massima di un mese e il 46,5% non superava i 90 giorni.
Il decreto Dignità del 2018 prevede che dopo un anno di contratto a termine scatti l’assunzione, se invece l’imprenditore intende prolungarlo, il tempo massimo concesso è di 12 mesi, ma deve indicare una causale e pagare uno 0,5% di contribuzione in più.
Ora la ministra del Lavoro Marina Calderone in una recente audizione al Senato ha sottolineato come «una rigida tipizzazione legale delle causali possa rappresentare un limite per il sistema imprenditoriale e lavorativo del Paese». Tradotto: questi vincoli devono sparire. Eppure siamo uno dei Paesi dell’Eurozona con più contratti a termine (16,4%), e molto sopra la media Ocse (11,8%).
Occupati, precari e part-time indesiderati
A gennaio gli occupati hanno superato i 23,3 milioni mentre i disoccupati sono 2 milioni. Numeri mai raggiunti negli ultimi 15 anni. Tuttavia fra gli occupati, a crescere sono soprattutto i contratti precari che hanno raggiunto quota 3 milioni (erano 2,3 milioni nel 2008).
Allo stesso tempo sono diminuite le ore lavorate pro-capite: venti in meno a trimestre rispetto al 2008, che vuol dire in media anche una paga più bassa. Poi ci sono i contratti part-time indesiderati.
Sempre nel 2008 coloro che hanno dovuto accettarli pur preferendo un lavoro a tempo pieno erano 1,3 milioni, nel 2022 sono saliti a 2,7 milioni. L’Italia ha il record del part-time involontario nella Ue: circa l’11,3% del totale dei lavoratori vorrebbe lavorare full time, ma deve accontentarsi di mezza giornata. La media Ocse è del 3,4%.
La trappola della precarietà
Se consideriamo tutte le forme contrattuali atipiche (tempo determinato, collaborazioni, part-time, etc) – spiega l’ultimo studio Censis – queste coinvolgono circa il 21,3% del totale degli occupati, ovvero circa 5 milioni di lavoratori.
Un dato che incide sulla crescita complessiva dei contratti di lavoro degli ultimi 12 anni: più 24%. Ma attenzione, dentro ci sono tutte quelle forme che non prevedono un impiego fisso, e che sono aumentati del 33%. Nello stesso arco di tempo gli impieghi standard sono invece cresciuti solo del 4,8%. Alla fine – spiega il rapporto 2022 dell’Inapp (Istituto nazionale per le politiche pubbliche) – il lavoro atipico non è più quello strumento intermedio che serve poi ad ottenerne uno stabile, ma è diventato «una trappola» che ti mantiene precario a vita.
Prendendo come riferimento tre trienni (2008-2010, 2016-2018 e 2018-2021) la ricerca dimostra che in linea di massima, solo il 35-40% dei lavoratori alla fine riesce a ottenere un contratto a tempo indeterminato. Se ci focalizziamo sull’ultimo periodo (2018-2021), il 30% resta inchiodato all’impiego precario, mentre i lavoratori che cercano una nuova occupazione dopo aver perso il lavoro sono aumentati del 18%. Una crescita certamente in parte imputabile alla pandemia. Ma c’è un altro dato preoccupante: il 17% è stato completamente espulso dal mercato.
Salari bassi, lavoro povero e boom di dimissioni
L’unico Paese europeo dove gli stipendi sono diminuiti negli ultimi 30 anni (1990-2020) è l’Italia (-2,9%). Il vero crollo però si è verificato nel decennio 2010-2020 quando il salario medio è calato dell’8,3%. E questo perché gli stipendi non sono legati alla produttività, che pur essendo più bassa rispetto al resto d’Europa, è comunque cresciuta del 21,9%.
Le statistiche evidenziano la differenza tra chi ha un lavoro stabile e chi ne ha uno precario. In media un lavoratore a tempo indeterminato nel 2021 ha ricevuto un salario che supera i 26 mila euro all’anno, contro i 9.634 euro di un lavoratore a tempo determinato e i 6.425 di uno stagionale
Tra 2010 e 2020 circa l’11,3% dei lavoratori italiani ha avuto una retribuzione sotto i 14.460 euro lordi, mentre l’8,7% del totale vive con uno stipendio che non raggiunge i 10 mila euro l’anno.
«Oggi c’è già tanta flessibilità che produce lavoro povero – spiega Franco Scarpelli, professore di Diritto del lavoro all’Università Bicocca di Milano – perché molte imprese ricorrono a contratti a termine cambiando continuamente i dipendenti di fascia medio bassa alla scadenza dei contratti».
Salari bassi sono spesso la causa numero uno del boom di dimissioni dell’ultimo triennio. La ricerca della «Fondazione Studi Consulenti del Lavoro» sui primi 9 mesi del 2021 mostra questo: chi si dimette è giovane e con un lavoro a bassa qualificazione. Il 52,9 % ha un contratto a termine e il 37,9% un contratto part-time.
La decisione spagnola
La Spagna è il Paese europeo che da anni ha il più alto tasso di disoccupazione giovanile. Per uscirne, a inizio 2022, ha introdotto una riforma del lavoro che va nella direzione opposta a quella italiana: forte riduzione dei contrattia termine e limitazione a tutte le forme di esternalizzazione del lavoro.
La legge, varata in accordo con sindacati e imprese, ridà centralità ai contratti standard, e per ridurre la precarietà utilizza oltre 2,3 miliardi dei fondi del Next Generation Eu. Risultato: 2,5 milioni di nuovi posti di lavoro a tempo indeterminato, crollo del tasso di precarietà di 12 punti (dal 26,1% al 14%) con enorme crescita di posti fissi per donne e under 30.
A febbraio 2023 il governo di Pedro Sánchez, per contrastare l’inflazione, ha alzato anche il salario minimo di 93,3 euro al mese per 14 mensilità. È il caso di evidenziare che per rilanciare l’economia non è necessario comprimere i salari e le garanzie dei lavoratori: nel 2022 l’economia spagnola è cresciuta del 5,5%.
(Milena Gabanelli e Francesco Tortora – corriere.it)
argomento: Politica | Commenta »
Marzo 20th, 2023 Riccardo Fucile
L’ITALIA POTEVA SALVARE I 30 MIGRANTI ANNEGATI MA NON L’HA FATTO: LA RICOSTRUZIONE DEL MANCATO SOCCORSO
Un’accusa diretta, corredata da video e audio a supporto di una ricostruzione che non lascerebbe spazio a equivoci: nel naufragio avvenuto lo scorso 12 marzo al largo delle coste libiche, le 30 persone che hanno perso la vita potevano essere salvate.
A dirlo è Sea Watch Italia. L’organizzazione, dopo aver pubblicato le immagini girate dal suo velivolo di ricognizione Seabird e le registrazioni delle chiamate con i Centri di coordinamento dei soccorsi libico e italiano, ha voluto chiarire due aspetti della vicenda all’Adnkronos.
Il primo: «Quando si parla di zona Sar libica non ci si riferisce alle acque territoriali libiche ma a un’area di responsabilità libica. Dal momento che la cosiddetta Guardia costiera libica non era in grado di soccorrere il barchino, secondo la Convenzione di Amburgo, gli italiani o i maltesi potevano andare e salvare la vita delle persone a bordo».
Il secondo: «A Roma sapevano benissimo cosa stesse succedendo». Insomma, il ritardo nei soccorsi, ha affermato Sea Watch, ha fatto sì che delle 47 persone a bordo della barca salpata dalla Libia si salvassero solo in 17. Poi, sempre all’agenzia stampa, l’ong ricapitola per punti quanto avvenuto in quelle ore:
Sabato 11 marzo, ore 01.28 – Alarm Phone informa le autorità sulla situazione della barca in pericolo. Seabird avvista l’imbarcazione e lancia la chiamata d’emergenza. Poco dopo il mercantile Basils risponde e si dirige verso la scena.
Ore 10.31 – Seabird richiama via radio il mercantile Basils che risponde di essere stato istruito da MRCC Rome nel seguire le istruzioni della cosiddetta Guardia costiera libica. Quest’ultima ha ordinato di raggiungere il caso e poi richiamarli.
Ore 11.10 – L’equipaggio di terra di Sea Watch chiama quindi il Joint Rescue Coordination Center di Tripoli che risponde di essere a conoscenza del caso e di aver contattato Benghazi, che però non ha motovedette e non può soccorrere.
Ore 16.06 – L’equipaggio di terra di Sea Watch chiama il centro di coordinamento italiano per comunicare che il centro Libico non è in grado di inviare una motovedetta per soccorrere. Quando viene chiesto chi può coordinare i soccorsi, visto che la Libia non è in grado, l’ufficiale in Italia riaggancia il telefono.
Domenica 12 marzo – Dopo una notte in balia delle onde il barchino viene soccorso da un mercantile. Le onde sono troppo alte e la barca si ribalta. Solo 17 persone vengono tratte in salvo. Le altre 30 sono annegate.
(da agenzie)
argomento: Politica | Commenta »
Marzo 20th, 2023 Riccardo Fucile
LA RONZULLI È STATA FATTA FUORI DAL TAVOLO DELLE NOMINE DELLE PARTECIPATE, E ANCHE DALLA LISTA DEGLI INVITATI DEL PARTY DI COMPLEANNO DI SALVINI
«Vedrete, qui cambierà tutto e a breve salteranno anche delle poltrone di peso nel partito». Un senatore che conta in casa Forza Italia, ma che ultimamente era stato messo un po’ da parte, non ha dubbi. Nei giorni scorsi è stato convocato ad Arcore da Silvio Berlusconi attraverso la consorte Marta Fascina.
E ha ricevuto indicazioni chiare sul nuovo corso, con una linea che dia meno grattacapi alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni e che metta in secondo piano chi in questi mesi ha invece più volte creato tensioni.
Giorgia Meloni avrebbe convinto i figli del capo famiglia, Pier Silvio e Marina, ad abbandonare la linea forzista critica nei confronti del governo tenuta fino a oggi. Qualche segnale del cambio di vento c’era stato.
Ad esempio il comunicato di sostegno dato da Berlusconi alla deputata di FdI Augusta Montaruli, condannata in via definitiva per le spese pazze di quando era consigliera regionale in Piemonte.
Il vicepresidente della Camera Giorgio Mulè aveva fatto una dichiarazione critica su Montaruli qualche ora prima. Sconfessato dal capo, il deputato da allora si è chiuso nel silenzio più assoluto.
Poi c’è stato il caso della formazione della giunta in Lombardia, con la capogruppo alla Camera Licia Ronzulli accusata di non aver difeso abbastanza il partito che alla fine ha ottenuto solo due assessorati.
Ma la stessa Ronzulli non aveva dato molto peso a certe tensioni e ha continuato, e continua, a frequentare Arcore sempre accolta da grandi sorrisi anche da Fascina, che lei stessa ha introdotto al grande leader dopo la separazione da Francesca Pascale.
Ma la consorte del capo si è guardata bene, poi, dall’invitare Ronzulli al compleanno a sorpresa organizzato in un agriturismo della Brianza al neo cinquantenne Matteo Salvini alla presenza anche di Meloni.
Così dalle avvisaglie, e scortesie, si è passati a segnali molto chiari del cambio di passo: in primis la scelta di inviare al tavolo di maggioranza sulle nomine l’eterno Gianni Letta e il ministro degli Esteri Antonio Tajani. Due governativi di ferro.
Oggi in casa azzurra sono date in grande ascesa le quote di Tajani, considerato molto vicino all’area meloniana e anche di alcuni trentenni-quarantenni rampanti legati alla Fascina.
Sabato Berlusconi è andato a Bergamo per partecipare a un pranzo organizzato dai deputati Alessandro Sorte e Stefano Benigni. Questi ultimi considerati, insieme al deputato campano Tullio Ferrante, esponenti della «nuova corrente Fascina».
Ma il tema vero è che Berlusconi si è convinto a smorzare i toni contro il governo: i maligni dicono anche come conseguenza di decisioni prese a Palazzo Chigi, come il ritiro della costituzione di parte civile in diversi processi nei quali è (o era) coinvolto.
Nel frattempo chi nei mesi scorsi ha avuto scontri forti con i volti più vicini alla Ronzulli adesso torna a farsi rivedere in Transatlantico: come il deputato Paolo Barelli, molto legato a Tajani, scavalcato da Cattaneo nel ruolo di capogruppo. Ecco, Cattaneo sarebbe il primo a rischiare di venire azzoppato dal nuovo corso.
(da “la Repubblica”)
argomento: Politica | Commenta »
Marzo 20th, 2023 Riccardo Fucile
LA SCENA CENSURATA DALLA TASS, MA RIPRESA DA RIA NOVOSTI E IZVESTIJA SVELANO LA FARSA DI PUTIN, IL CRIMINALE CHE TORNA SUL LUOGO DEL DELITTO
La visita a sorpresa di Vladimir Putin nel territorio ucraino di Mariupol, occupato dall’esercito di Mosca a seguito dell’invasione in larga scala avviata lo scorso 24 febbraio 2022, rivela un episodio curioso.
Durante il colloquio con quelli che vengono presentati come residenti locali, una voce femminile da lontano mette in allarme gli uomini che accompagnano il Presidente russo: «È tutto finto! È una messinscena!». Nessuno dei presenti riesce a individuare il punto da dove sia partito l’urlo con la denuncia, mostrandosi preoccupati per l’accaduto che tuttavia viene ignorato dal leader del Cremlino.
Non si tratta di un montaggio ad opera della propaganda ucraina, lo dimostrano le clip dei media russi come Ria Novosti e Izvestija (IZ.ru) condivise attraverso i loro canali Telegram ufficiali.
Tass, al contrario, taglia del tutto la scena omettendola al suo pubblico. Una curiosità riguardo ai video diffusi dai tre media russi riguarda i metadati.
Ria Novosti, che come gli altri pubblica la clip originale e non compressa da Telegram, tende a cancellare tutti i dati che permettano di ricostruire le origini dei filmati. Il file “Путин.mp4” (“Putin.mp4”) risulta quasi completamente “pulito”:
Izvestija (IZ.ru) e Tass, questa volta, indicano il 19 marzo 2023 come data di creazione della clip. Risulta plausibile che abbiano ricevuto i filmati nel corso della mattinata, ma non fornisce con certezza il giorno esatto in cui Putin ha fatto visita a Mariupol.
(da Open)
argomento: Politica | Commenta »
Marzo 20th, 2023 Riccardo Fucile
VISTO CHE LE BANCHE SVOLGONO UN RUOLO TROPPO DELICATO NELLE ECONOMIE PER LASCIARLE FALLIRE, SI IMPIEGA DENARO PUBBLICO, CIOÉ DI TUTTI I CONTRIBUENTI, PER SORREGGERLE
Finora, mezzo mondo pensava che i soldi stessero più al sicuro in Svizzera che altrove. Non è così. Proprio dove l’attività bancaria è più specializzata si possono creare rischi più elevati. […] La Svizzera aveva fino a ieri due banche già troppo grandi, ciascuna con attivi superiori al prodotto lordo nazionale. Una delle due, il Crédit Suisse, è entrata in crisi perché perdeva denaro, e si sospetta che l’arroganza delle grandi dimensioni non l’abbia aiutata a risolvere i problemi interni. Ora l’altra banca, l’Ubs, per salvarla la assorbirà, formando un gigante di proporzioni mostruose.
La Svizzera che finora sembrava un fortilizio dell’economia di mercato si spinge addirittura a cambiare le leggi per impedire ciò che il mercato produrrebbe, ossia il fallimento del Crédit Suisse. Ovunque si constata che le banche svolgono un ruolo troppo delicato nelle economie per lasciarle fallire; cosicché alle strette si impiega denaro pubblico, denaro di tutti i contribuenti, per sorreggerle.
In più, le innovazioni finanziarie da loro vantate più che a migliorare i servizi offerti a imprese e cittadini spesso mirano a eludere i controlli delle istituzioni pubbliche di vigilanza. Mentre saranno tutelati i depositi (non è su quelli che piange Sharon Stone), gli azionisti delle banche mal gestite sopporteranno gravi perdite. Questa è la sanzione minima in una economia di mercato; l’interrogativo è se basterà a dissuadere altri banchieri dagli azzardi. I più severi requisiti di capitale imposti dopo il 2008 riducono i costi dei salvataggi, non hanno però garantito la stabilità.
(da “la Stampa”)
argomento: Politica | Commenta »
Marzo 20th, 2023 Riccardo Fucile
LA LETTERA DI ALIDAD SHIRI… LO STRAZIO E LA RABBIA
Fanpage riceve e pubblica una lunga lettera di Alidad Shiri, cugino di un naufrago di Cutro. Lui che diciassette anni fa fece lo stesso viaggio – oggi vive e lavora a Bolzano, dove fa l’educatore e il giornalista – appena saputo della strage è corso in Calabria. Dopo giorni di riflessione ha voluto raccontare quelle ore drammatiche per decine di persone e di famiglie.
Domenica, 26 febbraio, i telegiornali hanno incominciato a dare le prime notizie del naufragio a Steccato di Cutro, in Provincia di Crotone. Si rimane colpiti, ma se la notizia non ti tocca direttamente, si tende a generalizzare come rassegnati a queste disgrazie. Nei giorni successivi si riscontra che sta aumentando spaventosamente il numero dei morti. Il presidente della Repubblica Mattarella si reca subito sul posto per rendere omaggio in silenzio alle salme delle vittime di cui ormai la sala PalaMilone è piena, e su invito di associazioni che sono sul posto (Sabir, Mem-Med) si intrattiene con i famigliari delle vittime, giunti da diversi paesi.
Vedo sui gruppi Whatsapp degli afghani che aumentano le richieste di aiuto sia da parte di famigliari lontani che cercano informazioni, sia da parte di vicini che hanno difficoltà con la lingua per contattare le autorità. Ricevo tante chiamate di persone che non conosco giovedì pomeriggio, ma come al solito, se non conosco non rispondo.
Anche mia cugina, che è arrivata in Italia dopo la presa del potere dei talebani in Afghanistan, mi chiama tre volte. Dato che sono occupato nel lavoro, non posso rispondere neanche a lei. Mi aveva lasciato un messaggio vocale che mi avvisava della presenza sulla nave di nostro cugino.
Venerdì mattina, mentre esco dall’ambulatorio del medico di base, vedo che lei mi ha chiamato di nuovo. Provo a richiamarla e sento che piangendo. Mi conferma la triste notizie: su quella nave si trovava anche nostro cugino, che io non avevo mai visto perché ha solo 17 anni. Pur non conoscendolo, non riesco a trattenere le lacrime. Conosco quel tipo di viaggio che ho intrapreso, bambino, proprio 17 anni fa, e che mi ha portato dalla Turchia alla Grecia. Conosco quelle paure, quel silenzio di notte in cui anche se non c’è niente intorno, si teme quasi di essere notati, quel mal di mare che ti fa vomitare, quel tanfo che deriva dall’essere in così tanti stretti dentro lo scafo senza poter prendere una boccata d’aria. Ci unisce la speranza di arrivare in un posto dove potere vivere, avere diritto di parlare, di ascoltare la musica, di studiare, di lavorare, di poterti radere la barba senza che qualcuno te ne controlli i centimetri, di vestirti come vuoi, anche di pregare, ma senza costrizioni da parte della polizia morale del regime, senza che qualcuno ti frusti e ti arresti perché non frequenti la moschea.
Avviso subito i responsabili del mio lavoro che dovrò assentarmi qualche giorno per partire immediatamente per Crotone. Vedo che in treno occorrono un sacco di ore. Noto contemporaneamente sulla rete degli afghani che cercano urgentemente interpreti che si rechino sul posto. Alcune persone danno la disponibilità da Roma, allora chiedo di unirmi a loro. Così parto da Bolzano con il primo treno per Roma. Mentre sono in viaggio cerco contatti per un alloggio a Crotone. Un professore, Antonio di origine calabrese, mi mette in contatto con suo amico, l’avvocato Vincenzo, che mi trova subito un B&B.
Insieme agli amici afghani – Khan, Assad, Dawood e Fatema – che mi aspettano a Roma, ci troviamo a casa di Jan che mette a disposizione un gruppo di lavoro in cui inserirci, per partire noi cinque di notte in macchina. Dopo Cosenza troviamo anche la neve, qualcuno non la vedeva da tanto, ci fermiamo per toccarla. Khan, che guida, procede piano piano perché non abbiamo le catene anche se le gomme sono invernali. Arriviamo a Crotone alle 8. Dopo una breve pausa per la colazione, Vincenzo ci chiama per dirci che il proprietario della casa ci aspetta per lasciare le valigie e consegnarci le chiavi.
Cerchiamo di capire dove si trova la sala PalaMilone dove hanno portato le salme. Arriviamo lì davanti: tantissimi giornalisti fuori dal cancello, foto di alcune vittime appese alla ringhiera con sotto fiori che lasciano abitanti del posto e famigliari. I due poliziotti che controllano la porta ci fanno entrare. La porta della sala è ancora chiusa, non sono ancora arrivati la Polizia scientifica e il medico legale. Vedo una piccola tenda con dentro alcune sedie e su un tavolino delle bevande appena appoggiate da una volontaria della Croce Rossa. Cerco Manuelita, responsabile dell’Associazione Sabir, che avevo già sentito per telefono, a cui avevo mandato la foto di mio cugino.
Vedo aprirsi la porta per l’arrivo del medico legale, ma per entrare nell’ufficio della Polizia scientifica occorre avere un numero che viene dato dalla Croce Rossa. Prendo subito il primo numero, ancora prima di entrare nell’ufficio vedo il medico e gli mostro la foto di mio cugino. Lui mi dice che c’è il corpo di uno che gli assomiglia. Entriamo in ufficio e chiedo a Dawood e Fatema di accompagnarmi. Ci sediamo, consegno il mio cellullare con la foto, lui cerca nel pc la persona che gli assomiglia e mi chiede se voglio guardare le foto, però mi avvisa che sono pesanti. Rimango per qualche secondo senza parole, penso dentro di me se sono pronto a vedere qualcosa di terribile che non avevo mai visto.
Mi risveglio con la domanda del medico: “Allora?”. Trovo coraggio e mentre Dawood da una parte e Fatema dall’altra mi sostengono, rispondo di sì. Lui gira lo schermo verso di me, vedo la parte superiore del corpo di un ragazzo ferito nel viso, con gli occhi aperti. Guardo la mia foto, riguardo l’immagine e vedo che gli assomiglia molto. Però, dico, non l’ho mai visto di persona. Provo a chiamare sua sorella, ma non risponde. Dico al medico che devo aspettare il riconoscimento da parte sua, lui mi dice che non c’è problema, che abbiamo tempo.
Dieci minuti dopo mi chiama lei. Accendo la videochiamata. Guardando la foto si mette subito a piangere, mi dice che al 98% sembra lui, ma rimane un minimo spazio di dubbio. Mi chiede di andare a parlare con qualcuno che era con lui in viaggio. Mi informo e vedo che un ragazzo di 16 anni in viaggio con lui è ricoverato all’ospedale di Crotone, a pochi passi dalla sala dove mi trovo. Scopro che per parlare con lui devo avere l’autorizzazione del suo tutor che è un avvocato. In quel momento di disperazione cerco di chiedere a tutti se hanno notizie, mostrando la foto di mio cugino.
Poco dopo vedo un autobus della Protezione civile che fa scendere dei sopravvissuti che entrano nella sala per omaggiare i famigliari persi. Parlo con un ragazzo, scopro così che appartiene a una famiglia numerosa: ventuno persone che erano sulla nave, di cui solo cinque sono sopravvissuti, dieci morti e sei dispersi. Lui mi dice che non è al centro di accoglienza con loro, ma l’aveva visto sulla nave. Mi fa vedere una foto di quel ragazzo di 16 anni ricoverato in ospedale e io subito la mostro ad un operatore dell’associazione Sabir, Ramzi. Lui conosce l’avvocato, il tutor del ragazzo, e parlerà con lui.
Io rimango dalla Scientifica a dare una mano a una famiglia arrivata dall’Olanda per il riconoscimento di tre loro nipoti. La sala risuona di pianti ogni volta che avviene un riconoscimento. Verso le 15 chiedo a Federica della Croce Rossa se, nel caso in cui mi arrivi l’autorizzazione, può accompagnarmi in ospedale a parlare con quel ragazzo. Esco, vedo Ramzi e gli chiedo se può mettermi in contatto con quell’avvocato. Lui lo chiama subito al cellulare, mi presento all’avvocato che dice subito di sì, perché anche il ragazzo, Ali, ricoverato, cerca il suo amico.
Mi accompagna Federica in Pediatria, parlo con il ragazzo ma veniamo subito interrotti dalla dottoressa, che ci sgrida. Esce un momento con Federica a chiamare i suoi responsabili, mentre io ne approfitto per descrivere velocemente al ragazzo la foto che mi aveva fatto vedere la Scientifica. Lui mi risponde che non è mio cugino, così esco dalla stanza. Federica mi dice che la dottoressa ci fa storie perché avremmo dovuto chiedere tanti permessi. Alla Procura, all’Azienda Sanitaria. Non basta la sola autorizzazione del tutor. Usciamo, Federica torna in sala PalaMilone, mentre io vedo i miei amici al parcheggio e con loro andiamo davanti alla Prefettura alla manifestazione dei famigliari con la presenza di tanti abitanti della zona, associazioni locali e giornalisti.
Prendo anch’io la parola e faccio un appello, se qualcuno ha visto un ragazzo dai connotati di mio cugino. Subito dopo la manifestazione andiamo a Cutro, che è a 40 minuti di macchina da Crotone. Percorriamo una strada piena di buche. A un certo punto perdiamo l’orientamento per arrivare sul posto della tragedia.
Ci fermiamo un momento vicino a una casa da dove esce una donna che ci spiega che il marito sta per arrivare e ci accompagnerà sul posto. Si sente un po’ in colpa, ci dice, perché non lontano dalla spiaggia una nave arrivava nella tempesta e nessuno l’ha soccorsa. Veniamo preceduti dalla loro macchina e arriviamo su quella spiaggia dove si è verificata questa immane tragedia. È già quasi buio, però vediamo la Guardia costiera, i Vigili del fuoco, i Carabinieri e la Guardia di finanza che continuano le ricerche. Rimaniamo a osservare il posto, il mare è ancora mosso, io parlo con i due carabinieri e li ringrazio per il loro impegno. Presto diventa buio e rientriamo a Crotone.
Abbiamo fame perché non abbiamo mangiato per tutto il giorno, andiamo subito in una locanda. Ci rechiamo nella casa che ci ospita verso le 23. Ci mettiamo subito a letto perché siamo stanchi morti, ma non riesco a dormire. Mi torna ancora in mente l’immagine di quel ragazzo che assomiglia tanto a mio cugino, con gli occhi aperti da non sembrare morto.
Riesco ad addormentarmi solo dalle 3 fino alle 6, quando mi sveglio all’improvviso. Di nuovo ci ritroviamo alle 9 davanti a quella sala. Alle 9.30 sono nell’ufficio della Scientifica. Entra il padre della famiglia che avevo aiutato il giorno prima nel riconoscimento dei famigliari, mostrando una foto: assomiglia a quel ragazzo che pensavo fosse mio cugino. Era invece di un ragazzo di 21 anni, veniva da Herat al confine con l’Iran, dove per vent’anni sono stati anche i militari italiani a combattere i talebani. Chiamiamo i famigliari in videochiamata, mostriamo le foto, si mettono a piangere, lo riconoscono anche dal tatuaggio.
Subito dopo arriva un’altra famiglia di Badghis, una città del Nord Afghanistan. Sono scesi dalla Germania per riconoscere la figlia e il genero che avrebbero dovuto raggiungerli. Di nuovo scene di pianto e disperazione. Così giorno dopo giorno sono immerso in un mare di dolore. La notte non riesco a dormire, le occhiaie sono sempre più visibili perché corro qua e là dove mi richiedono un servizio, senza riuscire a mangiare un panino fra i generi di conforto che distribuisce la Croce Rossa.
Martedì entra in ufficio una donna, di nome Zahra, proveniente con il marito dalla Finlandia, che cerca il fratello di 23 anni che era sulla nave. Ci fa vedere la sua foto, la guardiamo ma non troviamo un’immagine corrispondente. Vorrebbe vedere le foto dei sopravvissuti che si trovano al centro e quelli in ospedale. Poi vorrebbe anche vedere le foto di persone morte, già riconosciute, perché magari, dice, tra loro c’è suo fratello. Si arrabbia di fronte al diniego. Esce sbattendo la porta, la seguo per calmarla e vedo che si dirige verso la sala dove ci sono le salme. C’è un clima pesante: una donna piange sdraiata davanti alla bara del figlio, un ragazzo piange e ripete il nome della sorella che ha perso, si sente in colpa per non essere riuscito a salvarla. Un filo più in là una mamma e un papà davanti ad alcune bare fanno risuonare dal loro cellullare alcuni versetti del Corano e pregano.
Zahra vorrebbe andare sul posto del naufragio, ma non ha la macchina e noi, io e Assad, che abbiamo noleggiato un’auto, ci offriamo di accompagnarla. Arriviamo sul posto e lei cerca disperatamente di trovare qualcosa che le parli del fratello. Non troviamo niente. Alle 18 torniamo indietro.
Mercoledì mattina sono nell’albergo messo a disposizione dei famigliari, dove poi arrivano anche i superstiti. Trovo un messaggio di Simona, giornalista della Rai, che mi chiede se c’è una donna disponibile a raccontare per 40 secondi qualcosa della tragedia vissuta. Intorno a me vedo però che ci sono poche donne, quelle che si sono salvate sono solo cinque afghane e una somala. Ecco la tragedia nella tragedia: sono morte moltissime donne e bambini perché non sapevano nuotare. Convinco la signora di Herat, che fa parte dell’unica famiglia che si è salvata interamente, a dire qualcosa. Lei racconta della sua partenza, che era una donna istruita e quindi perseguitata. Parla della disperazione di quella notte, con la tempesta, i pianti, le urla dei bambini, degli adulti che lottavano per non morire.
Con Assad torniamo verso la sala PalaMilone, ma notiamo davanti al posto un assembramento: i famigliari delle vittime sono agitati perché hanno sentito la notizia che tutte le salme saranno portate a Bologna per la sepoltura nel cimitero islamico. Vediamo due auto funebri che stanno uscendo. Le blocchiamo mettendoci fisicamente davanti. Il funzionario della Prefettura ci dice che sono salme di cui non sono stati ancora trovati i famigliari, ma continuiamo a bloccare l’uscita. Tanti giornalisti trasmettono dal vivo la nostra protesta. Ci sediamo per terra, quando mi raggiunge la voce di un’amica. È l’avvocata Francesca, accompagnata dall’avvocato Vincenzo, insieme ad altri due colleghi di Torino. Mi propone di andare con loro in Prefettura per capire quello che sta succedendo.
Appena entrati, un giovane funzionario ci dice che la Prefetta è impegnata in un incontro, non può riceverci. Lui dice che è una decisione del governo quella di trasferire tutte le salme a Bologna, ma non ci ascolta quando gli ricordiamo le promesse del Presidente Mattarella di fare arrivare in Afghanistan i corpi, per chi lo desidera. Torniamo alla manifestazione e cinque minuti dopo un cronista mi si avvicina facendomi vedere un comunicato del governo in cui dice che ascolterà la volontà dei famigliari. Subito dopo mi cercano un dirigente della Digos e uno della Scientifica per invitarmi ad andare con loro in Prefettura dato che la Prefetta vuole parlarmi. Rispondo seccamente di no, perché prima non ero stato ricevuto. Se vuole comunicarmi qualcosa, può venire lei davanti a tutti i giornalisti e i famigliari.
Un’ora dopo vengo di nuovo chiamato davanti alla sala dove i giornalisti non hanno accesso. Vedo che mi si avvicinano la Prefetta, il Questore e il Sindaco. La Prefetta si leva la mascherina per parlarmi e mi dice che il governo italiano non ha contatti con i talebani e non tratta con loro. Rispondo prontamente che questo è anche comprensibile, ma sono passati ormai dodici giorni e potevano essere avviati contatti con le Nazioni Unite che potevano mediare. La discussione va avanti fino alle 18, chiamando anche il presidente della Comunità musulmana di Italia, Yasin. Poi chiedo: se le famiglie trovano un’agenzia che può portare le salme a Kabul, il governo è disposto a pagare?
Veniamo raggiunti da due dirigenti del ministero dell’Interno che cercano di velocizzare le trattative, perché hanno più potere rispetto alle autorità locali. Accettano di pagare le spese, quindi cerchiamo di contattare agenzie tedesche che hanno più esperienza al riguardo. Rimaniamo fino alle 21 in sala. Alcuni famigliari accettano di seppellire i loro cari a Bologna, perché tanti di loro per motivi di lavoro non possono fermarsi altri giorni. Però prima di uscire dalla sala chiedo al sindaco di promettere che le salme non siano portate via di notte, dove i parenti non vogliono. Lui ci garantisce che non accadrà. Non ho più forze, perché sono stato in piedi tutto il giorno, senza mangiare, nella tensione delle trattative. Nemmeno il mio amico – con cui in macchina ci dirigiamo verso l’albergo – ha più forze, però ci confortano alcuni famigliari che si intrattengono ancora qualche minuto con noi, dimostrandoci riconoscenza e dicendo: Dio dà la forza non a tutti, ma a qualcuno, e voi due siete tra quelli.
Quel giorno mentre ero sulla strada, prima della trattativa, tanti cittadini del posto si sono avvicinati a noi, alcuni piangendo, comunicandoci tutta la loro solidarietà e vicinanza, arrabbiati per come ci trattavano le istituzioni. Arriviamo in albergo sfiniti, senza avere mangiato, ci basta un boccone e ci ritiriamo nelle rispettive stanze. Ma non è ancora finita, perché continui messaggi della Prefettura mi chiedono il numero dei famigliari che accettano la sepoltura a Bologna. Il giorno dopo siamo di nuovo alle prese con riconoscimenti: è straziante vedere ancora le immagini di bambini, donne, uomini con gli occhi spalancati, la bocca aperta e i capelli ritti, alcuni nudi perché la forza delle onde li ha privati di tutto.
Seguono i contatti con le agenzie che sono già arrivate sul posto, ma tutto è fermo perché l’ufficio del Comune di Cutro, che deve dare il permesso di uscita delle salme, è chiuso per l’arrivo del Consiglio dei ministri. Rimane tutto in sospeso, noi con il sindaco nella sala di tanto dolore, con le lacrime dei famigliari.
La maggior parte delle vittime, di cui ho visto i documenti, erano funzionari e parenti del personale di due ministeri, Interno e Difesa, che hanno sempre combattuto i talebani. Rischiavano continuamente la vita rimanendo in Afghanistan. Pensavano che il viaggio fosse un rischio minore, anche per le loro famiglie, rispetto al rimanere in quel posto, che era una condanna a morte prima o poi.
Avevano grandi sogni, alcuni volevano diventare astronauti e avevano addirittura contattato la Nasa. Tanti volevano diventare avvocati, giornalisti, magistrati, ingegneri. Cercavano libertà, donne e uomini, un futuro diverso per i loro bambini che noi in Occidente diamo per scontato.
Mi si è riaperta una grande ferita. Anche io ho sofferto tanto, sono dovuto fuggire da solo ancora ragazzino, perché non avevo altre possibilità per salvarmi la vita. Ho visto cambiare tanti governi in Italia, di centro, sinistra e destra. Promesse su promesse, ma ancora nessuna soluzione. E muoiono ancora tante persone innocenti, perché non si trovano vie legali con cui possano arrivare senza correre rischi così gravi. Anche il corridoio umanitario recente per 1.200 afghani non è stata una soluzione reale, perché tanti non avevano il passaporto necessario come prevedeva il protocollo. A volte penso che se una tragedia non ti tocca direttamente, difficilmente la capisci e spendi energie e risorse per prevenirla.
(da Fanpage)
argomento: Politica | Commenta »
Marzo 20th, 2023 Riccardo Fucile
LA FINANZA: “MIGRANTI A BORDO MA NON USCIAMO DALLE ACQUE TERRITORIALI”… LA CAPITANERIA, VENTI MINUTI PRIMA DEL NAUFRAGIO: “A NOI NON RISULTA. NON INTERVENIAMO”
Non c’è mai stato alcun dubbio che quella barca fotografata dall’aereo di Frontex la sera di sabato 25 febbraio nascondesse sottocoperta dei migranti.
Tre settimane dopo il naufragio di Cutro, altri documenti aiutano a ricomporre la verità, inserendo nuovi tasselli nel puzzle che la Procura di Crotone sta ricomponendo e nel quale sempre di più emerge la sottovalutazione di un evento trattato come caso di polizia invece che di soccorso.
Con la Guardia di finanza che «pendola» in attesa che la barca entri in acque italiane e la Guardia costiera che non interviene «in assenza di una richiesta di soccorso e senza la certezza che a bordo vi siano migranti». Ma le nuove carte raccontano altro.
Il giornale delle operazioni
Un appunto, nel giornale delle operazioni di quella notte della Guardia di finanza, scritto a penna dall’ufficiale di turno alle 23.20, un’ora dopo l’avvistamento del caicco in arrivo dalla rotta turca da parte dell’aereo di Frontex rivela quello che era chiaro sin dall’inizio. «Si comunica avvistamento Eagle 1 di natante con migranti», scrive l’ufficiale dopo aver ricevuto da Roma la nota di Frontex, affidando al giornale delle operazioni quella che è la logica ed evidente interpretazione (ma fin qui negata da tutti) di perché quella imbarcazione segnalata da Frontex sia sospetta. E cioè perché trasporta migranti: non lo dice chiaramente il dispaccio di Frontex che segnala una sola persona sul ponte e dà conto di una rilevazione termica consistente sottobordo, ma lo dice la logica e l‘esperienza dell’ufficiale di turno quella sera alla sala operativa della Guardia di finanza. Che dispone l’uscita della motovedetta V5006 prima e del pattugliatore Barbarisi poi. Ma, attenzione, perchè poi quella notazione a penna «natante con migranti» registrata alle 23.20 del sabato ( dunque quando il caicco è ancora in navigazione) sparisce poi dalla annotazione di polizia giudiziaria che la sezione operativa navale di Crotone della Guardia di finanza redige il giorno dopo, la domenica 26, quando la tragedia si è ormai compiuta. Da quel momento in poi il caicco diventa per tutti solo una barca «sospetta», non si sa per cosa.
La motovedetta in attesa
Nel fascicolo dell’inchiesta c’è anche la relazione della sala operativa del reparto aeronavale di Vibo Valentia che offre risposte precise alle domande: chi, quando e perchè ha deciso l’intervento dei mezzi della Guardia di finanza in una operazione di law enforcement.
Alle 23.20 di sabato 25, quando il comando generale della Guardia di Finanza trasmette in Calabria il dispaccio di Frontex, la sala operativa «dispone che la vedetta 5006 effettui pendolamenti in zona Capo Colonne in attesa che il target entri nelle acque nazionali. Pertanto la V5006 procede per ritorno in Crotone per effettuare il rifornimento e ritornare in zona». In altre parole: per effettuare l’operazione antiimmigrazione la Finanza aspetta che il caicco, segnalato da Frontex a 40 miglia a sud di Crotone, dunque in acque internazionali, entri nelle nostre acque territoriali. E nel frattempo va a fare gasolio. Non senza però accertarsi di cosa stia facendo la Guardia costiera. Che – qui la conferma – alle 23.20 è informata di tutto. Si legge ancora nella relazione della Finanza: «Contattata Capitaneria di porto di Reggio Calabria, riferisce di essere a conoscenza del natante. Attualmente non hanno predisposto alcuna imbarcazione, in caso di necessità faranno uscire unità di Crotone».
La Guardia costiera non esce
Ma la “necessità” non scatta nemmeno quattro ore dopo quando i mezzi della Guardia di finanza comunicano che stanno rientrando in porto per le condizioni meteo. Il mare – si apprende ancora dalla relazione della Finanza – è forza 4, di operazioni con onde più alte in passato se ne sono fatte tante. E però sia la motovedetta V 5006 che il pattugliatore Barbarisi rinunciano ad effettuare la loro operazione di polizia. Logica vorrebbe che se le condizioni meteomarine sono proibitive per mezzi così performanti qualsiasi altra barca dovrebbe essere considerata a rischio, soprattutto se sospettata di trasportare migranti. E dunque, non a caso, la sala operativa del gruppo aeronavale richiama la Guardia costiera. Sono le 3.20 di domenica 26 febbraio, venti, trenta minuti prima di quando il caicco ( ormai arrivato indisturbato a poche miglia dalla costa) si infrange contro una secca a Steccato di Cutro dopo una brusca manovra degli scafisti. Ma torniamo ai registri della Guardia di finanza: «La Capitaneria di porto di Reggio Calabria, alla richiesta se avevano unità pronte a muovere, comunicava che non avendo ricevuto richiesta di soccorso e non avendo certezza della presenza di migranti a bordo e che l’imbarcazione sta navigando regolarmente, non hanno predisposto uscita di unità navale».
Il ritardo dei soccorsi a terra
Il “caso” dunque sembra chiuso. tanto chiuso che quando, 35 minuti dopo i carabinieri lanciano l’allarme del naufragio, nè Guardia di finanza nè Guardia costiera sono pronti a scattare: sulla spiaggia di Steccato le pattuglie arrivano alle 5.35, un’ora e mezza dopo. La prima motovedetta della Guardia costiera, la Cp 321 arriva solo alle 6.50 e recupera le prime tre persone tra cui un bimbo: morto di freddo.
(da La Repubblica)
argomento: Politica | Commenta »
Marzo 20th, 2023 Riccardo Fucile
LA GUARDIA DI FINANZA SAPEVA CHE SUL BARCONE C’ERANO MIGRANTI IN DIFFICOLTA’… LA SEGNALAZIOME LA SERA DEL SABATO MA QUELL’APPUNTO SPARI’ E NESSUN ALLERTA FU DIRAMATO ALLA GUARDIA COSTIERA CHE RIMASE FERMA
Sono poche parole, ma chiare e pesanti. C’è un appunto, vergato a mano nella tarda serata di sabato 25 febbraio da un ufficiale di turno della Guardia di Finanza, che pare smontare molte delle ricostruzioni ufficiali delle autorità fatte su quanto (non) accaduto nella notte di quel maledetto weekend, quando un barcone caricò di migranti si schiantò contro una secca a poche centinaia di metri dalla spiaggia di Cutro dopo una navigazione da incubo con mare forza 4.
Le autorità italiane, è stata la versione più volte ribadita, anche in Parlamento dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, erano state allertate sì da Frontex – l’agenzia Ue per il controllo delle frontiere esterne – della presenza di un’imbarcazione in difficoltà tra le onde, ma non sapevano che essa trasportasse migranti.
Per questo la questione fu trattata un’operazione di law enforcement, e non di ricerca e soccorso: per questo, in altre parole, non fu fatto uscire alcun mezzo per prestare soccorso ai naufraghi.
Ma un documento pubblicato oggi da Repubblica mette in serio dubbio questa narrazione. «Si comunica avvistamento Eagle 1 di natante con migranti», scriveva a penna sul giornale delle operazioni alle 23.20 del sabato sera l’ufficiale di turno della Guardia di Finanza, dando seguito alla segnalazione arrivata da Frontex.
Che certo, non aveva indicato esplicitamente la presenza di migranti a bordo, ma informazioni sufficienti – per uomini esperti come quelli del corpo italiano – a decifrare la situazione: in particolare, la rilevazione termica consistente sottobordo.
E l’ufficiale di turno, infatti, aveva perfettamente capito e segnalato quale fosse la tipologia di emergenza, e dunque di intervento necessario. Tanto da disporre l’uscita della motovedetta V5006 prima e del pattugliatore Barbarisi poi.
Il mistero dell’appunto scomparso
Perché dunque a quella segnalazione non fece seguito un intervento SAR, che sarebbe dovuto essere a quel punto delegato alla Guardia Costiera? Non è chiaro chi e in quale momento intervenga, ma è un fatto – rivela Repubblica – che quell’appunto, il giorno dopo, risulta sparito.
Non ve n’è traccia nell’annotazione di polizia giudiziaria che la sezione operativa navale di Crotone della Gdf redige domenica 26 febbraio, a tragedia ormai consumata. Quell’appunto pare dimenticato appena dopo essere stato scritto.
Alle 23.20 del sabato sera, il comando generale della Guardia di Finanza dispone infatti «che la vedetta 5006 effettui pendolamenti in zona Capo Colonne in attesa che il target entri nelle acque nazionali». L’indicazione, insomma, è che la nave della Gdf faccia “melina” in attesa che il caicco, che si trova in acque internazionali, entri in quelle territoriali. Nel frattempo, può andare a fare benzina a Crotone. E la Guardia Costiera? Negli stessi minuti è informata di tutto.
«Contattata Capitaneria di Porto di Reggio Calabria, riferisce di essere a conoscenza del natante». Ma, non essendo stato attivato alcun protocollo SAR, «attualmente non hanno predisposto alcuna imbarcazione, in caso di necessità faranno uscire unità di Crotone». Tutto tace, insomma.
Tutti sanno, a grandi linee, qual è la situazione, ma nessuno interviene, in attesa del più o meno prossimo ingresso dell’imbarcazione in acque italiane. E il mare intanto, come le autorità ben sanno monitorandone costantemente i moti, sale d’impeto sino a raggiungere forza 4. Quattro ore dopo, a notte fonda, i mezzi della Gdf sono infatti costretti a rientrare in porto: proibitive, per quei mezzi, le condizioni del mare.
Ma ugualmente – sono le 3.20 di domenica – nessuno si muove per verificare le condizioni di quel natante alla deriva.
«La Capitaneria di porto di Reggio Calabria, alla richiesta se avevano unità pronte a muovere, comunicava che non avendo ricevuto richiesta di soccorso e non avendo certezza della presenza di migranti a bordo, e che l’imbarcazione sta navigando regolarmente, non hanno predisposto uscita di unità navale».
L’aridità della burocrazia ha vinto sullo slancio umanitario: non più di mezz’ora dopo, a seguito di una brusca manovra degli scafisti tra le onde altissime, il caicco s’infrange contro una secca a poche centinaia di metri dalla spiaggia di Steccato di Cutro. I morti accertati sono ad oggi 86.
(da Open)
argomento: Politica | Commenta »
Marzo 20th, 2023 Riccardo Fucile
IL GOVERNO MELONI SPINGE PER FAR AVERE A TUNISI UN PRESTITO DI 1,9 MILIARDI DI DOLLARI DAL FONDO MONETARIO INTERNAZIONALE: SENZA QUEI SOLDI IL PAESE NORDAFRICANO HA TRA I SEI E I NOVE MESI DI AUTONOMIA PRIMA DI FINIRE IN BANCAROTTA E NEL CAOS
Il nodo sono i soldi. Da un lato il prestito di 1,9 miliardi di dollari destinato a sostenere la Tunisia e sospeso dal Fondo monetario internazionale. Dall’altro i fondi Ue, anche quelli bloccati, dopo la svolta autoritaria del presidente tunisino Kais Saied, tra l’altro vicino alla Russia e alla Cina.
Con un Paese sull’orlo della bancarotta e un’ondata di migranti che rischia di arrivare sulle nostre coste: le partenze aumentate del 164% in un anno e l’intelligence ha già lanciato l’allarme sulle prospettive future.
La questione tunisina, una polveriera che rischia di esplodere da un momento all’altro, è in cima all’agenda del governo. [Sarà questo dunque il cuore della missione della premier al Consiglio europeo di giovedì: un’occasione per convincere gli Stati membri ad accelerare il sostegno finanziario al Paese nordafricano in dissesto.
La stessa missione vede al lavoro il vicepremier e ministro degli Affari esteri Antonio Tajani, che ha in programma tra oggi e domani un colloquio telefonico con Antony Blinken, il segretario di Stato dell’amministrazione Biden, per sciogliere il nodo dei fondi del Fmi. Senza quei soldi, spiegano i nostri diplomatici a Tunisi, il Paese di Saied ha tra i sei e i nove mesi di autonomia prima di finire in bancarotta. Tra le opzioni al vaglio una “partnership operativa”, ovvero una nuova missione navale, per il contrasto ai trafficanti sulle coste tunisine ma anche il lancio di una “talent partnership” per aprire entro l’estate nuovi corridoi di immigrazione legale in Europa per chi voglia e possa lavorare.
E rivendicherà il lavoro della diplomazia italiana per sostenere il mercato del lavoro tunisino. C’è già una prima lista di richieste delle aziende italiane in Tunisia e la disponibilità a inaugurare corsi di formazione professionale per 200 operatori tessili, 100 meccanici, altri 150 tra alberghiero, automotive e calzaturiero, mentre saranno reclutati 300 infermieri per lavorare in Italia.
Sul piano finanziario, i negoziati per salvare la Tunisia vanno a rilento. [Saied non dà garanzie sull’impegno dei fondi. Per Tunisi, che non è riuscita neanche ad approvare una legge finanziaria, rispettare le severe clausole del Fmi è un’impresa improbabile. Tra il 2017 e il 2020, la Tunisia avrebbe dovuto ricevere da Bruxelles circa 91 milioni di euro nell’ambito dell’Eu Trust Fund.
Tra le attività finanziate ci sono proprio la lotta ai trafficanti, la gestione dei confini e il rimpatrio forzato di migranti dall’Europa. Mentre l’ultimo memorandum d’intesa tra Italia e Tunisia prevede uno stanziamento di 200 milioni di euro tra il 2021-2023, di cui 11 milioni per la cooperazione sulla migrazione. Numeri che adesso, se non si sblocca l’impasse tra una sponda e l’altra dell’Atlantico, rischiano di rimanere lettera morta.
(da agenzie)
argomento: Politica | Commenta »