Marzo 26th, 2023 Riccardo Fucile
“SPARI ALL’OCEAN VIKING? DOVEVANO DIRLO ALLA LIBIA”, CIOE’ AI CRIMINALI CHE HANNO SPARATO, NOTI TRAFFICANTI CHE L’ITALIA FINANZIA?
Dura nota della Guardia Costiera contro le Ong, accusate di essere un ostacolo alle operazioni di soccorso in mare anziché un aiuto.
Il dubbio è che sia una nota del ministero veicolata attraverso i vertici militari. Troppo esilarante, altrimenti.
Colpa innanzitutto delle «continue chiamate dei mezzi aerei ong», spiega in una nota la Guardia costiera che lamenta di come le segnalazioni abbiano «sovraccaricato i sistemi di comunicazione dello Stato».
In pratica se un servizio ambulanze riceve troppe telefonate per soggetti feriti è colpa di chi telefona e rompe così i coglioni ai soccorritori.
Ma nei sistemi di comunicazione non basterebbe avere un call center adeguato o si rischia di trovare occupato? Misteri della fede.
A proposito poi dell’episodio denunciato dalla nave Ocean Viking della ong Sos Mediterannee, che ieri 25 marzo è stata minacciata da una motovedetta libica con spari in aria all’avvicinarsi della nave, la Guardia costiera italiana ha accusato la ong anche in quel caso di aver sovraccaricato il «Centro di coordinamento italiano in momenti particolarmente intensi di soccorsi in atto».
Insomma , se ti sparano addosso mentre cerchi di salvare vite, che cazzo telefoni al centro di ccordinamento italiano?
Secondo la Guardia Costiera, l’equipaggio della nave avrebbe dovuto segnalare l’episodio «al Paese di bandiera» della motovedetta 656, ovvero alla Libia. In pratica telefonare ai criminali che ti sparano addosso, ottima idea. Se ti rapinano per strada che cazzo chiani il 112, fatti dare il telefono dal rapinatore e chiamalo, magari si tranquillizza.
(da agenzie)
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Marzo 26th, 2023 Riccardo Fucile
NELLA BATTAGLIA SULLE AUTO VERDI IL GOVERNO MELONI È USCITO SCONFITTO E ISOLATO… L’AMBASCIATORE STEFANINI: “IL PUNTO È COME LA PARTITA È STATA GIOCATA. NOI CON LE REGOLE DELLA POLITICA INTERNA ITALIANA, CHE IMPONE DI FARE LA VOCE GROSSA, BERLINO CON LE REGOLE DEL GIOCO UE, CHE SI FA CREANDO ALLEANZE E NEGOZIANDO DIETRO LE QUINTE. PARLARE POCO E INCASSARE MOLTO
È bastato un tweet a far passare dal semi positivo all’insufficiente il bilancio del Consiglio Ue per l’Italia. Ieri mattina, Frans Timmermans, vice presidente della Commissione Ue, annunciava semplicemente «abbiamo raggiunto un accordo col governo tedesco sul futuro uso dei carburanti sintetici sulle autovetture».
Bene per l’industria automobilistica tedesca che potrà continuare a produrre e a vendere automobili con motore a combustione – purché ad alimentazione sintetica – oltre il 2035. Male per quella italiana che non ha ottenuto l’eccezione per i biocarburanti.
La questione delle eccezioni al bando del 2035 per i carburanti non fossili va tenuta separata dalla valutazione dei risultati del Consiglio europeo in quanto non era all’ordine del giorno. Non ci deve essere dubbio sulla capacità della presidente del Consiglio di difendere gli interessi italiani. Lo fa efficacemente e vibratamente. Non le si può rimproverare di essere per ora a mani vuote sui biocarburanti, importanti per noi quanto i carburanti sintetici per la Germania, per mancanza d’impegno.
La differenza non sta neanche nel maggior peso specifico della Germania rispetto alla Italia. Sta soprattutto nel come la partita è stata giocata. Noi con le regole della politica interna italiana, che impone di fare la voce grossa e tenere la massima visibilità; Berlino con le regole del gioco Ue, che si fa creando alleanze e negoziando dietro le quinte. Parlare poco e incassare molto. Questo vale per tutto: migranti, Pnnr, Mes ecc.
L’errore storico di molti leader italiani è stato di credere che battere i pugni sul tavolo porti dividendi in casa. In realtà, risultati che si ottengono a Bruxelles – e lo stesso vale in ogni foro multilaterale – sono spesso inversamente proporzionali ai pugni battuti. Meloni è purtroppo in buona compagnia di predecessori che fecero l’errore – e perseverarono. Per sua fortuna ha il tempo di correggere la rotta.
(da La Stampa)
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Marzo 26th, 2023 Riccardo Fucile
NON TUTTI GLI OBIETTIVI FISSATI DA BRUXELLES SONO STATI RAGGIUNTI, DUE MACRO PROBLEMI: LA “MESSA A TERRA” DEGLI IMPEGNI PRESI DAI COMUNI E IL CAPITOLO RE-POWER EU… MELONI E SALVINI HANNO CONCORDATO DI TENERE BASSO IL LIVELLO DELLO SCONTRO
È difficile che l’Italia incassi la terza rata del Pnrr nei tempi stabiliti. Ne sono coscienti a Bruxelles e ora anche a Palazzo Chigi. Ma non sono questi 19 miliardi da erogare la vera preoccupazione della Commissione.
Anche nel governo italiano l’allarme è sempre più alto: il Pnrr è stato l’oggetto di una telefonata tra Giorgia Meloni e Matteo Salvini, avvenuta ieri, nella quale premier e vicepremier hanno concordato di tenere basso il livello dello scontro, nella speranza di ottenere qualcosa dall’Europa. E, come sull’immigrazione, il messaggio sul quale puntare è: questo non è un problema solo italiano.
Negli uffici tecnici della capitale belga il ritardo per questa singola scadenza non genera scandalo, né particolare allarme, rimandare di qualche settimana degli obiettivi così importanti può rientrare nel campo delle cose fisiologiche, anche se spostando la data più in là si rischia poi ti avvicinarsi troppo all’altra scadenza, quella di fine giugno, ovvero la quarta rata dal valore di 16 miliardi di euro.
L’Italia sta accumulando carte, ma non riesce a dimostrare altrettanta brillantezza nel passare dall’aspetto progettuale a quello concreto. Nell’analizzare i progetti presentati negli ultimi giorni del 2022, i tecnici comunitari hanno trovato alcune anomalie, in particolare sulle nuove norme delle concessioni portuali, ma non solo.L’appello del presidente della Repubblica Sergio Mattarella che, citando Alcide De Gasperi, ha chiesto agli italiani di «mettersi alla stanga», nasce anche da questo clima. Il Quirinale si informa costantemente di questa partita, considerata decisiva per le sorti del Paese.
La questione è tutta in mano a Raffaele Fitto, ministro degli Affari europei, che nelle sue frequenti missioni a Bruxelles, l’ultima giovedì scorso, chiede ai suoi interlocutori di applicare la massima flessibilità, alla luce delle condizioni oggettive cambiate (aumento dei prezzi delle materie prime, dell’energia, le conseguenze della guerra in Ucraina). Il via libera, però, ancora non arriva.
Al di là dei singoli progetti, che sono sotto osservazione, la Commissione ha individuato due macro problemi: il primo è la cosiddetta “messa a terra” degli impegni presi dai Comuni e in secondo luogo il capitolo Re-power Eu, dove i piani italiani che coinvolgono, tra gli altri, Eni ed Enel, vengono giudicati ancora piuttosto indicativi.
Il governo manda segnali: martedì in Consiglio dei ministri verrà approvato il Codice appalti, mentre a breve verrà istituito il tavolo per la mappatura in vista delle gare delle concessioni balneari, due questioni sulle quali l’Ue ha uno sguardo molto attento. Ma nell’esecutivo Meloni il malumore è forte, perché si ritiene che oggi vengano al pettine nodi generati dal governo precedente.
Nella Lega, in particolare, non sono piaciute affatto le esternazioni di Gentiloni che nei giorni scorsi aveva, di fatto, invitato l’Italia a concentrarsi sul Pnrr e non sul Ponte sullo Stretto o sulla Flat tax. Meloni però ha chiesto cautela agli alleati, la premier spera di ottenere qualche risultato nel negoziato con l’Europa e quindi bisogna evitare di accendere fronti. Così vanno lette le dichiarazioni stranamente prudenti di Salvini sui biocarburanti, dove pur criticando, non si attacca frontalmente il commissario europeo Frans Timmermans.
(da La Stampa)
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Marzo 26th, 2023 Riccardo Fucile
“IL SINDACATO IN ITALIA HA ABDICATO AL PROPRIO COMPITO”
I sindacati hanno deciso una mobilitazione unitaria, ma qui non si scende in piazza come a Parigi. Professore Domenico De Masi, sociologo del Lavoro, c’è vita ancora nel sindacato?
“Se si guarda all’Europa e soprattutto alla Francia c’è da dire che c’è vita e anche forte. A Parigi si stanno imboccando delle corsie di lotta completamente inedite. È in atto in questo momento una mobilitazione generale che per la prima volta si ricollega alle parole d’ordine del ‘68. Quello che si chiede, oltre alle pensioni, riguarda la qualità complessiva della vita. La Francia ancora una volta si rivela la punta della freccia nel campo della lotta per i diritti. Forse anche questo fa da buon esempio per il sindacato italiano che ha attraversato un periodo di quiescenza perfino eccessivo”.
Lo sciopero generale nazionale unitario di Cgil, Cisl e Uil manca da più di 10 anni. Oggi potrebbero ritrovare le ragioni per scendere tutti e tre in piazza
“I sindacati degli ultimi decenni hanno via via abdicato al loro compito anche perché man mano i lavoratori si sono staccati dal sindacato. Ma diciamo che c’è stato un circolo vizioso. I lavoratori si staccavano dal sindacato e il sindacato via via era più debole e meno lottava e questo comportava il distacco sempre più forte dei lavoratori. Il sindacato ha perso sempre più forza ma ne ha perso anche per le sue incoerenze. Ha capito troppo tardi i cambiamenti profondissimi che si andavano a verificare nel mondo del lavoro. Si pensi all’atteggiamento nei confronti dello smart working. Per capire il sindacato bisogna prima di tutto capire cosa succede al suo interno. Il sindacato riguarda l’organizzazione del lavoro ma i sindacati a loro volta sono un lavoro organizzato. Se uno va nelle sedi della Cgil e della Cisl trova pochissimi che fanno telelavoro, trova un’organizzazione del lavoro antiquata e molto autoritarismo. Allora come può un sindacato lottare per migliorare il lavoro altrui se al suo interno il proprio lavoro è organizzato in modo ottocentesco? È una contraddizione in termini. Ma a proposito di sciopero unitario mi faccia dire una cosa”
Prego.
“Bisogna capire cosa questo significhi. Unitario per certi versi è positivo per atri può essere negativo. È la Cgil che si appiattisce sulle posizioni riformiste e blande della Cisl, che fu totalmente dalla parte di Renzi sul Jobs act, o la Cisl che finalmente si accompagna a posizioni più radicali che dovrebbero essere della Cgil?”
La lezione francese dunque darà la sveglia al nostro sindacato?
“C’è un fatto reale. Per la prima volta dal dopoguerra in Italia ci sono tre partiti di destra al potere. La presenza di un governo di destra costringe la sinistra, nelle sue varie articolazioni, a prendere atto che la condotta che si deve tenere quando si sta all’opposizione è completamente diversa da quella che si deve tenere quando si è al potere. La sinistra e quindi anche i sindacati si erano abituati ad avere un rapporto con il governo del Paese di complicità. Con la destra al potere tutto questo si rompe. Io credo che l’atto della Cgil di invitare Giorgia Meloni faccia parte ancora dell’armamentario tradizionale di un sindacato che cerca più la complicità che la lotta. Non si capisce perché la Cgil abbia invitato la Meloni. Cosa si aspettava da quella visita di cui si può vantare la Meloni di esserci andata e non la Cgil di averla invitata. Quello voglio sperare sia stato l’ultimo atto di complicità col governo e che il sindacato capisca che il governo attuale è un governo di destra. Che nel suo dna è sempre schierato dalla parte dei datori di lavoro e non dei lavoratori”.
C’è un’uguale crisi identitaria anche nei sindacati di altri Paesi?
“Certamente. L’Europa aveva una tradizione sindacale completamente diversa da quella americana. Il sindacato Usa è stato sempre riformista, ha sempre ricercato vantaggi locali piuttosto che pensare alla condizione dei lavoratori in tutto il resto del mondo. Nel caso europeo c’era un sindacato che poteva restare agguerrito, veniva fuori da una tradizione di difesa dei diritti dei lavoratori che ha conservato per 30 anni dopo la guerra, conseguendo in tutti i Paesi europei vittorie continue. In Italia dagli anni ‘50 in poi abbiamo avuto la riforma agraria, la Cassa del Mezzogiorno, la riforma del diritto di famiglia, quella sanitaria, e poi lo Statuto dei lavoratori. A partire dagli anni ‘80 si è invertito il rapporto. Alla lotta di classe dei poveri contro i ricchi è subentrata la lotta dei ricchi contro i poveri. La ricchezza è stata divisa in modo iniquo, man mano i salari hanno preso la fetta minore e i profitti degli imprenditori la fetta maggiore. E in Italia la situazione è emblematica essendo l’unico Paese europeo che in 30 anni ha visto diminuire i salari. Questo è uno scacco dei lavoratori che significa anche scacco per tutta la sinistra e per tutti i sindacati”.
Quale potrà essere il futuro dei sindacati in Italia?
“Devono prendere atto che c’è un governo ostile, che è dalla parte dei padroni e non dei lavoratori. Se nell’elettorato della Meloni c’è una forte presenza di lavoratori è perché non sono stati educati dalla sinistra, e si ritrovano in uno stato confusionale in cui sperano di avere dei vantaggi dai nemici dei lavoratori”.
La Fondazione Di Vittorio ha rivelato che il 47% dei giovani under 34 non si iscrive al sindacato perché non sa cosa fa.
“Il sindacato ha abdicato completamente alla sua funzione pedagogica e non solo i sindacati ma anche i partiti di sinistra. Se avessero portato avanti tale funzione pedagogica non ci sarebbe la confusione per cui il proletariato si ritrova a votare a destra”.
Perché i nostri sindacati sono stati così complici coi governi?§
“Perché è mancato un rapporto serio con gli intellettuali e sono mancati intellettuali di sinistra che facessero da guida a sindacati e partiti. La scissione dei sindacati e dei partiti dal mondo intellettuale è gravissima. D’altra parte il mondo intellettuale non ha portato avanti un’analisi seria della situazione vista da sinistra. E questo ha comportato una grande confusione ideologica, la presenza assurda di punti di vista neoliberisti perfino nel Pd, nella Cgil, per non parlare della Cisl. La Uil con questo segretario invece si sta smarcando con posizioni più genuine e radicali”.
(da agenzie)
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Marzo 26th, 2023 Riccardo Fucile
I VERI ERRORI DI MACRON SONO ALTRI: TROPPI FAVORI ALLE GRANDI IMPRESE E SMANTELLAMENTO DEL WELFARE
Migliaia di persone in piazza, centinaia di fermi per violenze e vandalismi, la città bloccata da scioperi in tutti i settori, le strade sommerse dai rifiuti. È questa l’immagine attuale della capitale francese, teatro del braccio di ferro tra il governo di Macron e i milioni di cittadini che si oppongono alla sua riforma delle pensioni, ormai legge senza il consenso del Parlamento (nel pieno rispetto della Costituzione).
Piazza della Concordia, davanti al Parlamento francese, è gremita. «Macron prendi la tua pensione, non la nostra», si legge sul cartello agitato da un manifestante. A qualche metro di distanza, una raffigurazione di Macron viene gettata tra le fiamme che divampano in mezzo alla piazza. Da qualche giorno, scene del genere sono la norma a Parigi. Le strade e le piazze della capitale francese sono infatti infiammate da numerose manifestazioni spontanee, culmine di settimane di proteste contro l’innalzamento dell’età pensionabile.
Tensione alle stelle
In particolare, la tensione è ai massimi storici da quando, lo scorso giovedì 16 marzo, il governo francese ha esercitato uno speciale potere costituzionale per far passare il disegno di legge senza il voto del Parlamento, usando il cosiddetto articolo 49.3. Questa mossa ha effettivamente spianato la strada all’approvazione definitiva della riforma, che dovrebbe avvenire proprio in questi giorni. L’utilizzo del controverso articolo 49.3 è però stato percepito dai francesi come un voltafaccia ai cittadini e alle istituzioni democratiche – i sondaggi mostrano infatti che la stragrande maggioranza dei francesi è contraria alla riforma – e ha inasprito la rabbia dei manifestanti. Incendi e atti vandalici per le strade, scontri violenti tra i manifestanti e la polizia e arresti sono ormai all’ordine del giorno.
Tra le misure più controverse della riforma, diventata legge, figurano infatti l’innalzamento dell’età pensionabile da 62 a 64 anni, e l’aumento da 41 a 43 anni di contribuzione necessari per ottenere una pensione completa.
Le manifestazioni spontanee degli ultimi giorni si aggiungono alle otto giornate di mobilitazione generale che, dallo scorso 19 gennaio, hanno visto migliaia di francesi scendere in piazza contro la riforma.
Alle proteste di piazza si accompagnano da settimane scioperi in quasi tutti i comparti lavorativi, soprattutto nei trasporti pubblici, nel settore energetico, nella scuola e nella sanità. Tra i settori in sciopero, quello dei netturbini, colpiti in modo particolare dalla riforma. Questa infatti implicherebbe la perdita del loro statuto speciale, e li obbligherebbe a lavorare due anni in più per la pensione completa
Alle radici della protesta
L’insoddisfazione dei cittadini francesi va però ben oltre la sola riforma. «Non è solo questione delle pensioni», racconta François a TPI, «ma un problema di fondo del modello economico e sociale verso cui la nostra società si sta muovendo; per questo, da settimane, siamo in così tanti in strada». Lo studente, che ha partecipato a tutte le proteste, critica le politiche neo-liberali del governo e lo sgretolamento del sistema di welfare francese.
Anche Valérie, 53 anni, è scesa in piazza per esprimere la sua disapprovazione non solo nei confronti della riforma, ma anche di un orientamento politico – quello di Macron – che avvantaggia le grandi imprese e i dirigenti piuttosto che i lavoratori. «Invece di obbligare la gente a lavorare due anni in più, si dovrebbe finanziare la spesa pubblica aumentando le tasse ai più ricchi e alle grandi aziende: Macron invece preferisce de-tassare i grandi patrimoni e i super-profitti», ci dice Valérie, riferendosi all’abolizione dell’imposta sui grandi patrimoni da parte del presidente francese nel 2018, e ai vari sgravi fiscali concessi alle aziende in nome della competitività.
«Il governo non agisce nell’interesse della popolazione generale, ma nell’interesse dei più ricchi», le fa eco un altro manifestante, dichiarandosi stanco di sentirsi dire dal governo che non ci sono soldi per i servizi pubblici, e di vedere lentamente distrutto il sistema di welfare, mentre i profitti delle aziende continuano a crescere. «I soldi ci sono, ma il governo non vuole andare a cercarli» conclude, «perché dà priorità alla massimizzazione dei profitti delle aziende».
Secondo l’analisi del sindacato francese Solidaires-Finances publiques, le riforme fiscali realizzate durante i primi 5 anni di governo di Macron hanno effettivamente favorito i più ricchi, sottraendo oltre 60 miliardi di euro all’anno dalle casse dello Stato a discapito dei servizi pubblici, del welfare, e in generale delle prestazioni a favore dei meno abbienti. Il risultato è che le disuguaglianze in Francia stanno aumentando, come dimostra l’ultimo rapporto biennale dell’Osservatorio sulle Disuguaglianze.
Questo è confermato dal fatto che nel 2022 – mentre i tassi di povertà e la precarietà economica sono aumentati a causa dell’inflazione – le 40 principali aziende francesi hanno percepito la cifra record di 80 miliardi di euro in dividendi. Tra di loro, il colosso petrolifero Total ha realizzato un attivo record di 20,5 miliardi di euro: il profitto più alto mai conseguito da un’azienda francese.
«Chi deve pagare per la crisi? Quelli che hanno sofferto, le classi medio-basse che adesso sono a rischio povertà a causa dell’inflazione, o quelli che si sono arricchiti grazie alla crisi, speculando sui prezzi dell’energia?», si chiede dunque François. «Per questo le classi medio-basse sono arrabbiate e stanno scendendo in strada», conclude François «e non smetteranno, a prescindere dall’approvazione della riforma pensionistica».
Ma il governo è sordo
Ma è la sensazione che il governo non ascolti le loro preoccupazioni, e che rimanga impassibile davanti al malcontento del Paese, che rende i manifestanti sempre più furiosi.
Ormai sembra chiaro che l’insoddisfazione crescente contro il governo sia destinata a sopravvivere alla questione delle pensioni. Da parte sua, se anche riuscirà a far passare la riforma, Macron non potrà comunque ignorare una mobilitazione su così larga scala né rimanere sordo alle preoccupazioni di una cittadinanza sempre più precaria e insoddisfatta.
(da La Stampa)
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Marzo 26th, 2023 Riccardo Fucile
BOCCIATA LA MISURA PER FACILITARE L’ASSORBIMENTO DELLE DETRAZIONI A CHI HA POCA CAPIENZA IRPEF
Lo stop è arrivato dalla Ragioneria generale dello Stato: la misura è troppo onerosa. Per questo il governo ha deciso di cestinare l’ipotesi di allungare, da 4 a 10 anni, il periodo per recuperare la detrazione del Superbonus.
Un’opzione che era stata pensata per venire incontro ai contribuenti con redditi bassi, che non hanno ceduto il credito: visto l’importo dei lavori, in molti non hanno la capienza fiscale necessaria per cogliere le detrazioni; possibilità che invece ci sarebbe se il recupero del rimborso sull’Irpef avvenisse in dieci anni, invece che in quattro.
La fruizione in dieci anni, in questo caso in compensazione delle imposte, resta invece ammessa per le banche e le imprese che hanno acquistato i crediti.
Nel pacchetto delle riformulazioni degli emendamenti al decreto Superbonus, all’esame della commissione Finanze della Camera, è prevista infatti una nuova formulazione della possibilità di spalmare, in dieci rate annuali, i crediti che derivano dalle comunicazioni di cessione o di sconto in fattura inviate all’Agenzia delle Entrate.
La misura era stata introdotta dal governo a novembre, con il decreto Aiuti quater; l’emendamento introduce due novità. La prima: potranno essere fruiti i crediti legati alle comunicazioni trasmesse alle Entrate entro il 31 marzo di quest’anno (il vecchio termine era fissato al 31 ottobre dell’anno scorso). La seconda: i crediti in questione non faranno riferimento solo ai lavori che beneficiano dell’agevolazione al 110% e del sismabonus, ma anche a quelli per l’eliminazione delle barriere architettoniche e di ristrutturazione edilizia.
Salvi i crediti del 2022
Se il “contratto di cessione” alle Entrate “non è stato concluso” entro il 31 marzo, il titolare di un credito potrà effettuare la comunicazione all’Agenzia attraverso lo strumento della remissione in bonis: tempi più lunghi (fino al 30 novembre) e pagamento di una sanzione di 250 euro. Nell’emendamento si legge che la cessione può essere eseguita a favore di banche e assicurazioni.
Il ripristino della cessione per le case popolari, onlus e Terzo settore
Un’altra modifica introduce un paletto al riavvio della cessione del credito e dello sconto in fattura per Iacp (case popolari), onlus e Terzo settore. Le due opzioni saranno possibili solo se questi soggetti risultano già costituti alla data di entrata in vigore del decreto.
(da La Repubblica)
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Marzo 26th, 2023 Riccardo Fucile
IMPROVVISAMENTE, SI È DIMEZZATO IL NUMERO DEGLI OPERATORI CHE LAMENTAVANO ERNIE, SCIATALGIE, LESIONI MUSCOLARI O PATOLOGIE PIÙ GRAVI
Parte il ricambio generazionale in Ama degli operatori della raccolta dei rifiuti su strada, che hanno in media 55 anni. L’azienda ha firmato un accordo con i sindacati per favorire il turn over con la pensione anticipata e sostituire gli operatori che da anni non possono scendere in strada a causa di malattie invalidanti: i guariti tornano a lavorare, gli inidonei andranno in pensione o in ufficio con alte mansioni part time.
I risultati si iniziano a vedere: in meno di due mesi si è dimezzato il numero degli operatori che non potevano scendere in strada a pulire i cassonetti a causa di malattie invalidanti: oggi sono 123 ma fino al 20 gennaio erano 255 gli operatori che rimanevano in ufficio, spesso lasciati senza impiego, perché soffrivano di malattie come ernie, sciatalgie, lesioni muscolari o patologie invalidanti più gravi.
La nuova policy del presidente di Ama Daniele Pace inizia il 20 gennaio quando l’azienda convoca i sindacati e nel corso di una riunione a tratti tesa e nervosa annuncia che avrebbe avviato i controlli su tutti i 255 operatori inidonei totali, di cui 138 a tempo determinato: nel giro di venti giorni almeno 50 guariscono e tornano a lavorare a pieno regime per strada. A inizio marzo partono le prime visite mediche: sono 44 quelle portate a termine fino a oggi e altri 70 operatori guariscono e tornano a disposizione.
Al momento sono rimasti 123 gli addetti che non possono pulire le strade, guidare i camion o svolgere le attività più pesanti della raccolta dei rifiuti a causa di malattie invalidanti.
Al momento Ama conta 7.364 dipendenti di cui 900 amministrativi. Il nerbo dell’azienda sono però i 6.400 operatori, di cui 4.400 sono addetti alla pulizia di cassonetti e bidoncini su strada e il resto sono autisti e manutentori di mezzi e impianti aziendali.
Ma tra i 6.400 addetti ci sono almeno 1.700 inidonei parziali: a causa di ernie, sciatalgie e dolori muscolari o alle articolazioni non possono svolgere le mansioni più pesanti della raccolta né guidare camion o Tir, ma sono impiegati nelle isole ecologiche o allo spazzamento leggero sui marciapiedi. È a loro che Ama punta con il nuovo accordo che prevede il prepensionamento fino a 670 dipendenti che hanno 62 anni grazie all’incentivo di una indennità per non più di 5 anni, pagata al 75% dall’Inps e per il resto dall’azienda.
(da La Repubblica)
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Marzo 26th, 2023 Riccardo Fucile
A SUD DEL SAHARA LA MODERNITA’ HA LA FORMA DEL KALASHNIKOV, VIOLENZA E SOPRAFFAZIONE… UN CONTINENTE IN FUGA… UN ARTICOLO DI DOMENICO QUIRICO
I subsahariani. Li definiamo così. Comodo. È una parola grande, talmente spaziosa che dentro ci puoi ficcare tutto: le savane monotone e le bianche nevi del Kilimangiaro, zebre ed elefanti, il club Méd a Malindi e la bidonville di immondizie ovunque, l’eroe Nelson Mandela e i perfidi Boko Haram, la carestia e il grattacielo, il tamburo e l’afro beat. E i migranti. Tanti migranti.
Qualcuno adesso perfino li conta, li mette in fila e va ai summit impugnando la cifra per chiedere protestare giustificare. Dicono: novecentomila son lì già pronti a partire dal continente nero come lo si liquidava una volta, quando il colonialismo si travestiva appena appena di esotismo, sono pronti a scavalcare navigare affondare sbarcare. Che si fa? Le statistiche sono un invenzione meravigliosa: perché funzionano da sole, si auto confermano. Novecentomila! E perché non cinquecentomila o un milione? Dove sono andati a intervistarli, i pronti partire, quelli dell’Intelligence, dove li hanno visti in fila dallo scafista di terra e di mare, a chi hanno raccontato: eccomi?
Le piste africane della migrazione. Ti prende lo scoramento quando ti accorgi che ricalcano quelle dell’Ottocento quando i mercanti di uomini non si chiamavano scafisti ma schiavisti. Si erano divisi i compiti. Gli arabi si occupavano della “merce” dell’Est. La loro miniera era il Sudan dove compravano “permessi di caccia” dal governo egiziano, a parole antischiavista ma che sulla Tratta aveva montato un ignobile sistema industriale. E poi via via che le riserve si esaurivano le piste si addentravano sempre più verso l’interno.
A Ovest era mercato nostro, europeo: l’immenso bacino del Niger e gli scafisti francesi inglesi portoghesi aspettavano con i barconi che le colonne di “mano d’opera” per le piantagioni americane le portassero i loro soci africani, re e capi tribù.
Un continente intero è in cammino, da anni verrebbe da dire da sempre, e noi pensiamo di contarli. Proprio così. In questa epopea smisurata e tragica, conseguenza della Storia e della miseria, noi abbiamo raccontato proprio storie di insetti in movimento. Il fatto, la migrazione, lo mescoliamo sempre alle emozioni e ai pregiudizi. Cerchiamo di dare un inizio e una fine a qualcosa che ne è privo. A qualcosa che ogni giorno produce Storia del terzo millennio a ritmi inauditi. Noi cerchiamo di ridurlo a teatro con il sipario che sale e poi cala a nostro comodo o utile. O procediamo alla consueta traduzione monetaria dell’universo: quanto ci costeranno, di quanto possiamo rifarci di questa sciagura tirando fuori qualcosa perfino da questi subsahariani, facendoli diventare Pil.
Ci dividiamo tra coloro che con il loro spirito di bigotti non si rassegnano a constatare che nessun periodo nuovo è mai stato definito dalle sue frontiere e bottegai di un umanesimo a basso costo che aggiungono al «siamo con voi» il consueto diabolico ma.
Li ho seguiti per dieci anni i subsahariani e poi a un certo punto ho acquistato forse anche io la imperturbabilità che ho incontrato solo nei combattenti e appunto nei migranti.
Prendete la carta geografica per favore. Cercate con il dito macchie enormi come il Congo la repubblica centrafricana la Nigeria il Sudan il Corno d’Africa e calcolate quanti chilometri e quanto tempo hanno percorso quei subsahariani per diventare densa presenza reale, quanto sono invecchiati contro il muro dei venti contrari per trasformarsi in incubo problema vittima del mare. E in un dossier con dei numeri.
I migranti africani li ho incontrati ben prima che Lampedusa diventasse una parte della storia del ventunesimo secolo e non un luogo di villeggiatura. Li ho ho visti fitti nei cassoni di camion che sudavano polvere, in equilibrio mirabile sui tetti di sgangherati bus della savana sotto il sole ardente, insaccati con le loro toghe rappezzate in jeep scalcagnate.
Perché la povera gente si adatta a tutti i vani come l’acqua e i disperati li puoi schiacciare senza rimorsi come se fossero sacchi o fascine. Sì, c’erano quelli che fuggivano dalle guerre ma quelli andavano a piedi, in file sterminate tenendosi lungo i bordi delle piste di terra rossa come il sangue, perché il fuggiasco sa che deve rendersi quasi invisibile, non essere di impiccio. Ma la maggior parte di loro, be’! erano già “migranti economici”, costretti a emigrare dalla fame dopo essersi dibattuti ogni anno nell’artiglio della miseria. Le genti dell’acacia e del cespuglio e delle periferie di uno squallore disperante. Le loro strade allora andavano verso Sud o verso Ovest, Ghana, Costa d’Avorio, la geografia del caffè, del cacao dove la raccolta offriva ogni anno occasioni di lavoro. Come ora li incontri nelle nostre vigne, o chini nei campi di pomodori e tra gli ulivi. E poi c’erano quelli che scendevano verso l’Africa delle miniere. Perché africani meno poveri non scendevano più sottoterra o sparivano nella foresta a raccoglier con le mani, immersi nel fango, controllati da uomini armati, tesori di cui non intuivano nemmeno il valore. Erano africani a cui la mancanza di lavoro aveva levato la carne. Che avrebbero avuto già diritto ad una pietà piena e profonda. Ma non muovevano nel loro migrare verso di noi. Gente abituata a una vita rassegnata, gli abitanti di luoghi che non erano nessun luogo, gli ostaggi degli aiuti umanitari e della nostra pelosa carità.
Poi tutto è cambiato. La globalizzazione ha investito anche l’Africa ed è stato anche sfruttamento, disastri ambientali, violenza, corruzione. Ma l’orizzonte di quegli eterni migranti si è allargato, ha scavalcato le rotte dei Paesi vicini o di quello spicchio di continente su cui fino ad allora avevano, eterni viandanti, camminato. Quale fu la scintilla non sarà mai possibile scoprirlo. Forse la telefonata di un parente fortunato che viveva già in Europa, o qualche secondo di immagini, barche piene di uomini che scendevano sui moli di un Paese ricco, intraviste in qualche sudicio caffè di una capitale africana.
Ecco. Fu l’Africa che si rimette in marcia. Questa volta verso Nord, questa volta verso un mare. Prima sono partiti quelli delle terre del kalashnikov, dove infuriano guerre senza fine che una volta si combattevano con lance e machete, ma dove ora è arrivata la modernità, la modernità di imbracciare un mitra spietato. Dicono che in Africa ci siano almeno settanta milioni esemplari di questa diabolica invenzione dell’ingegnere sovietico che rende guerrieri anche i bambini. Ci sono settanta milioni di uomini che lo possiedono e non partiranno mai, perché la possibilità di uccidere è potere e sopravvivenza. E poi ci sono gli altri, molti di più, i non uomini, gli indifesi, le cose, le vittime. Coloro che vivono in un senso innato, perenne di pericolo, quello che noi, in questa parte del mondo, non conosciamo più perchè ci siamo levato di dosso questo vizio della angoscia. Quelli si sono messi in marcia verso di noi. Il loro viaggio parte dal Sudan, dalla Somalia, il Corno d’Africa della prigione a cielo aperto della Eritrea, della Somalia degli Shabaab, del Tigrai ribelle, e poi la Nigeria, il Centrafrica il Congo e i Paesi che il Niger difende dal deserto ma non dai nuovi califfati. Le piste sono quelle antichissime transahariane. Tutto quello che hanno sono numeri di telefono di uomini che li attendono lungo il percorso verso Nord, a loro devono pagare ogni tappa. La nuova Tratta: non sono più legati con la “canga”, l’orribile gogna di legno, ma l’avidità e la ferocia degli appaltatori è la stessa.
E poi mescolata all’Africa delle guerre c’è quella della povertà, della fame. Già la fame. A noi danno emozioni solo le carestie, per quelle periodicamente ci mobilitiamo, un poco. Ma le carestie sono una eccezione, fiammate brutali di morte legate a eventi spesso temporanei. Quello che muove gli africani è perenne, la miseria quotidiana, la povertà che è ricerca di un pasto tutti i giorni. Le loro pietose epopee non sono conseguenze del riscaldamento climatico. Sono fitte di nomi: presidenti, caudillos, colonnelli golpisti, alleanze geopolitiche e traffici economici con l’Occidente delle democrazie, dei diritti e del benessere. Li ascoltate e dite: davvero questo e nient’altro è il loro mondo? Non è nient’altro che questo la vita? Attenti: sono molti di più che novecentomila.
Domenico Quirico
(da La Stampa)
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Marzo 26th, 2023 Riccardo Fucile
COME NO, PRIMA LEGGONO I SONDAGGI DI PAGNONCELLI E POI DECIDONO PER DOVE IMBARCARSI… E MAI POSSIBILE CHE UN MINISTRO DEGLI INTERNI INTERVENGA ALLA “SCUOLA DI FORMAZIONE” DI UN PARTITO (LA LEGA)?
Matteo Piantedosi, intervenendo alla scuola politica della Lega, a Milano si è improvvisato sociologo e in cerca di alibi per i propri fallimenti ha dato colpa all’opinione pubblica
Piantedosi ogni volta che parla dice o una mostruosità o una baggianata. Ha cominciato definendo i migranti non fatti sbarcare ‘carichi residuali’, ha colpevolizzato i genitori che si sono imbarcati con i figli come poco responsabili, ha criticato chi fugge dalla guerra dicendo che uno che ama il proprio paese resta e non scappa e infine ha detto che sarebbe andato lui a prendere i migranti
Ieri il burocrate di Stato improvvisato sociologo ne ha sparata un’altra delle sue, pur di cercare un alibi alle efficienze del governo reazionario: “L’Italia è una piattaforma logistica nel Mediterraneo che anche e soprattutto per chi vuole andare oltre si presta come trampolino di lancio più gestibile. Inoltre probabilmente i migranti percepiscono quel fattore attrattivo di opinione pubblica che annovera una consistente fetta di proposizione e accettazione di questo fenomeno, mentre in Paesi più piccoli io ho registrato una assoluta intransigenza ”
(da Globalist)
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