Marzo 29th, 2023 Riccardo Fucile
VITALY VERTASH, 16 ANNI, RACCONTA COME SONO STATI RAPITI CON LA PROMESSA DI UNA VACANZA LONTANO DALLE BOMBE… POI L’INFERNO: “PICCHIAVANO CHI NON CANTAVA CON UN TUBO DI GOMMA DURA E ALLORA HO CAPITO CHE ERAVAMO TUTTI PRIGIONIERI”
«Ho cominciato ad avere paura quando, la sera del 21 ottobre 2022, mi hanno detto che non potevo più avere opinioni mie, dovevo smettere di pensare e invece unirmi al loro coro delle canzoni nazionaliste russe.
Poi ho visto che picchiavano chi non cantava con un tubo di gomma dura e allora ho capito che non eravamo più ospiti in vacanza: ormai si era diventati tutti prigionieri».
Ha solo 16 anni Vitaly Vertash, però racconta la sua versione di «1984» riadattata al conflitto russo-ucraino contemporaneo con lucidità ponderata, attento ai minimi dettagli.
Non è stato facile parlargli: Vitaly è uno delle migliaia di bambini e ragazzi minorenni provenienti dalle zone ucraine occupate dai soldati russi che il regime di Vladimir Putin ha cercato di rapire dalle famiglie originarie per fare loro il lavaggio del cervello, farli adottare da famiglie o istituzioni russe e trasformarli in propri cittadini a tutti gli effetti.
«Inizialmente furono i collaborazionisti ucraini locali con le autorità russe a convincerci che poteva essere una buona idea acconsentire di mandare i nostri figli a trascorrere due settimane di vacanze in una località balneare della Crimea.
Nel caso di Vitaly fu la rettrice del suo liceo, Tamara Miroshnichenko, a proporci il progetto. Vitaly sarebbe partito con 36 compagni di scuola a bordo di un bus pagato dallo Stato russo. Però, già il giorno dopo mi pentii, chiesi che potesse rientrare a casa, ma era ormai troppo tardi», ricorda Inessa.
Il racconto va inserito nel contesto di quei giorni. Era il 7 ottobre 2022, il loro villaggio di Berislav, vicino al nucleo urbano di Kherson sulla sponda occidentale del Dnipro, era stato occupato dai russi sin dal 25 febbraio.
Intanto, però, l’esercito ucraino premeva per riprenderlo (ci sarebbe riuscito l’11 novembre), i combattimenti si stavano avvicinando di giorno in giorno: i genitori erano ben contenti di mandare i figli più giovani lontani dal pericolo delle bombe.
Il filo della memoria lo riprende Vitaly: «Si mangiava vario e abbondante, il mare era pulito, potevamo giocare sulla spiaggia e ci portavano a fare lunghe gite sulle colline boscose. Trovammo altri 400 bambini arrivati da varie parti dell’Ucraina occupata. Ma la situazione mutò drasticamente al quindicesimo giorno . Fummo portati a Drusba, un luogo molto brutto, sembra un campo di prigionia, ci dissero che avremmo dovuto pulire le spiagge per guadagnarci il pane, non c’erano letti o lenzuola pulite, il cibo era pessimo, mangiavamo solo a cena una brodaglia nera che qualcuno chiamava minestra. Non potevamo uscire senza permesso, a tutti gli effetti eravamo prigionieri» .
Il ragazzo non ci sta, si ribella, assieme a Tania, una diciassettenne inquieta come lui, scappano dal campo, ma la polizia li trova: vengono portati indietro.
Continua la storia: «Fu allora che apparve il nostro aguzzino: Astrakav, il capo del campo. Prima cercando di blandirci con le buone, poi con le minacce e violenze, ci disse che in verità noi eravamo russi a tutti gli effetti, dovevamo accettare la realtà, non c’erano alternative. Per quasi sei mesi, ogni sera, ci è stata imposta l’ora di dottrina, la “razgovor o vashnom ».
(da il Corriere della Sera)
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Marzo 29th, 2023 Riccardo Fucile
LA SUA SOCIETÀ SI OCCUPA DI GRANDI EVENTI E LAVORA CON APPALTI PUBBLICI… IL PADRE DICE DI GUADAGNARE “SOLO” 173MILA DOLLARI PER IL SUO INCARICO, MA FA UNA VITA ULTRA-LUSSO, TRA MEGA APPARTAMENTI A PARIGI E OROLOGI CHE COSTANO UNA MEZZA MILIONATA: DA DOVE ARRIVA TUTTA QUESTA RICCHEZZA?
Povera Elizaveta. Quando, il 24 febbraio del 2022, Vladimir Vladimirovich Putin invase l’Ucraina, la figlia del portavoce di Putin Dmitry Peskov, Elizaveta Peskova, capì che tutto sarebbe cambiato. In peggio, disse. Fece un post anti-guerra su Instagram (poi cancellato). Non bastò.
Nell’aprile 2022 anche la ventiquattrenne fu inserita nell’elenco delle sanzioni – blocco degli asset e divieto di viaggio in Europa e America – e il padre disse che quella era la conferma dell’ostilità russofobica dell’Occidente. Elizaveta definì «ingiuste» le misure restrittive imposte nei suoi confronti perché «non ho nulla a che fare con l’invasione russa dell’Ucraina. Sono arrabbiata perché voglio viaggiare e amo culture diverse», disse. Povera Elizaveta, cresciuta tra il jet set di Parigi, Biarritz, la Costa Azzurra, l’Italia.
Tuttavia il 2022 non ha portato solo dolori .Secondo i bilanci del 2022 della sua società “Centrum Moscow”, nell’anno della guerra, Peskova ha visto crescere le sue entrate di 70 volte. La società si occupa di allestire grandi eventi, scenografie, e lavora in effetti quasi esclusivamente con appalti pubblici: il comune di Mosca (retto dall’amico di Putin Sobyanin), il Ministero dell’Industria e del Commercio, anche i servizi russi.
Elizaveta ha guadagnato nel 2022 un somma ragguardevole, addirittura enorme per gli standard del pil pro capite russo: 137 milioni di rubli (equivalenti a un milione 650mila euro circa). Nel 2021, senza guerra, aveva guadagnato solo 1,9 milioni di rubli (22mila euro, lo stipendio di un dipendente pubblico intermedio, nei paesi europei).
La sua società nel 2022 ha segnato per la prima volta un profitto: 24 milioni di rubli (circa 290mila euro). Negli anni precedenti i risultati erano intorno allo zero, o poco sopra, benché la società forse stata creata nel 2004. Era una scatola. Poi Elisaveta è cresciuta e la scatola è stata messa in mano a lei. Peskova possiede il 30% della società, un altro 70% appartiene a tale Evgeny Litvinov, che è anche amministratore delegato. Uno sconosciuto.
La guerra conviene. Almeno se si è figli di Peskov.
Peskov, che da circa dieci anni guadagna come portavoce di Putin una cifra intorno ai 173mila dollari (nel 2020), fu poi fotografato con un orologio da 600mila dollari e, rivelò la Fondazione Navalny, fece una luna di miele con yacht che costava 430mila dollari a settimana, veleggiando per la Sardegna. Anche Elizaveta ama l’Italia. Un po’ meno stare in Russia. Dichiarò lei stessa a una tv russa di sentirsi «meglio nell’ambiente europeo».
Ha frequentato l’Ecole des Roches, a Parigi (che in un anno costa un quarto dello stipendio annuale del padre). Ha fatto uno stage a Louis Vuitton e un altro al Parlamento europeo. Secondo il team Navalny, la madre (che è la seconda moglie di Peskov) e Elizaveta nel 2016 hanno comprato un comodo appartamento di 180 metri quadrati (2 milioni di dollari) tra la Tour Eifffel e l’Arc de Triomphe. Bisogna pur avere un tetto, mentre piovono bombe.
(da agenzie)
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Marzo 29th, 2023 Riccardo Fucile
“IL DOMANI” SCODELLA LE SUE FOTO MENTRE FA IL SALUTO ROMANO IN FAVOR DI TELECAMERA… SI VEDE GIAU PARLARE A UN INCONTRO SOTTO UN POSTER DEL SS ITALIANE: POSSIBILE CHE NESSUNO DI FRATELLI D’ITALIA SI SIA ACCORTO? … L’INTERESSATO “NON RICORDA”
Saluti romani, inni al Duce e fascisterie assortite della classe dirigente di Fratelli d’Italia sono da sempre cruccio di Giorgia Meloni.
La leader del partito, quando nel 2012 fondò FdI scindendolo dal Popolo della libertà a trazione berlusconiana, lo intese infatti come un partito di destra-destra, certamente sovranista, una sintesi di “Dio, patria e famiglia” che potesse essere casa comune di tutto l’universo ex missino, nostalgici compresi.
La classe dirigente su cui può contare Meloni, tranne qualche eccezione, resta simile a quella delle origini. Sia a Roma, dove qualche giorno fa l’ad della spa pubblica 3-I (Claudio Anastasio, nominato da Palazzo Chigi) si è dovuto dimettere per aver citato, facendolo proprio, il discorso di Mussolini sul delitto Matteotti.
Sia a Trieste, dove – scopre ora Domani – Fratelli d’Italia ha candidato Marzio Giau alle elezioni regionali del Friuli Venezia-Giulia, che si terranno domenica prossima e che vedranno la sfida tra il favorito Massimiliano Fedriga della Lega e Massimo Moretuzzo appoggiato dal centrosinistra.
Giau è uno storico militante del partito, ed è uomo forte di FdI della provincia di Udine. Ma ha quello che, per gli appassionati della nostra Costituzione, resta ancora un difetto: una nostalgia del nazifascismo. Così almeno sembrano raccontare alcune fotografie dell’architetto classe 1962
Nella prima Giau è immortalato con due persone mentre fa il saluto romano davanti all’obiettivo. Un’altra immagine lo ritrae con microfono in mano davanti alla bandiera del Friuli, sotto di lui un militante sorride con maglietta nera, scritta “Boia chi molla”, littorio e profilo del Duce.
La terza foto, probabilmente, è la peggiore. L’archi-fascista bivacca in uno stand addobbato con poster delle Waffen SS e immagini dei soldati hitleriani dell’AfrikaKorps (inviati dalla Germania in Libia nel 1941 per aiutare le forze italiane di Mussolini che combattevano contro gli inglesi).
Tra disegni di aerei e carri armati della seconda guerra mondiale, spunta poi un manifesto propagandistico della Repubblica di Salò con le parole “Onore, fedeltà, coraggio”, in cui un soldato invita ad «arruolarsi nella Legione SS Italiana».
Il Friuli-Venezia Giulia, dove domenica si svolgeranno le regionali a cui Giau parteciperà con buone chance di essere eletto, conosce benissimo le azioni atroci delle SS italiane e tedesche. Non solo per la Risiera di San Sabba di Trieste, unico campo di sterminio nazista realizzato su territorio italiano. Ma anche per la crudeltà delle SS di stanza nella città di Palmanova.
Possibile che nessuno in Fratelli d’Italia avesse visto le imbarazzanti fotografie del candidato regionale? Possibile che il coordinatore regionale Walter Rizzetto (ex grillino passato a destra nel 2016) che di Giau è il principale sponsor, non sapesse nulla delle nostalgie dell’architetto, già prosindaco di Rivignano e consigliere provinciale a Udine?
E che nulla sapesse Luca Ciriani, ministro per i rapporti con il Parlamento di Meloni che, da friuliano doc, ha fatto le liste di FdI insieme a Rizzetto? Difficile crederci. Anche perché di immagini di Giau «mostrate a Donzelli e Meloni per escluderlo dalla lista» scrivevano già alcuni blog locali a fine febbraio.
Abbiamo contattato l’aspirante consigliere regionale per chiedere di spiegarci il contesto delle fotografie che lo ritraggono, e se davvero Meloni le avesse viste. «Mi scusi il ritardo. Giornata full, impegni di lavoro. Non capisco di che foto si parli», dice. Alla domanda se le foto esistono oppure no, il candidato aggiunge: «Io non ricordo. Dovrebbe chiedere al blogger o a chi è stato citato. Buonasera».
((da EditorialeDomani)
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Marzo 29th, 2023 Riccardo Fucile
NEL 2018, CON UNA SERIE DI POST E VIDEO, AVEVA ACCUSATO GLI ORGANIZZATORI DELLA MOSTRA IN PROGRAMMA ALLA “SANTERIA” DI MILANO, DI “DIFFONDERE LA PEDOPORNOGRAFIA” (EVENTO POI ANNULLATO PER LE POLEMICHE E LE MINACCE)… PER L’EUROPARLAMENTARE DI FDI, CARLO FIDANZA, ANCHE LUI INDAGATO, GLI ATTI PASSANO ALLA CONSULTA
Per giorni erano arrivate telefonate e messaggi social. “Siete dei pedofili di m…”, “dovete morire”, “dovete bruciare”, “vi uccideremo tutti”, e in alcuni casi chi telefonava restava anonimo, ma fino a un certo punto: “Noi di Forza Nuova sappiamo dove siete”, “non scherzate con i bambini, perché noi di CasaPound vi ammazziamo”.
Minacce che avevano spaventato a tal punto i dipendenti della Santeria Toscana, locale per concerti e mostre di Milano, che il gestore aveva dovuto assumere un servizio di sicurezza privata per due settimane e aveva messo in ferie i dipendenti più spaventati.
La mostra in questione, siamo nel dicembre del 2018, si chiamava “Porno per bambini”, l’autore era il musicista e illustratore Eduardo Stein Dechtiar. E la storia di questa mostra annullata per una campagna diffamatoria e di minacce è uno di quei casi di scuola in cui politica, social e estremismo si legano. E fanno danni.
Massimiliano Bastoni, storico nome della Lega milanese che era in Consiglio regionale e che poi è passato con il Comitato Nord bossiano, è stato condannato per diffamazione aggravata a 5mila euro di multa (e 10mila euro di risarcimento di danni in solido con un’altra imputata) per aver sostenuto pubblicamente sui social – alimentando quella che virtualmente è una shitstorm – una falsità, e cioè che quella mostra fosse un inno alla pedopornografia, per di più ospitata in uno stabile di proprietà del Comune di Milano.
Un altro degli indagati, l’europarlamentare Carlo Fidanza di Fratelli d’Italia – il cui nome è finito nell’inchiesta sulla Lobby nera – è uscito dal processo perché la Camera, di cui all’epoca Fidanza era membro, aveva negato l’autorizzazione a procedere. Ma il giudice Mattia Fiorentini della VII sezione penale del tribunale di Milano ha sollevato su questo un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato e quindi si vedrà davanti alla Consulta.
Non è da poco, il ruolo di Fidanza: perché quando il gestore del locale lo contatta per chiedere di rimuovere da Facebook un video in cui lo stesso Fidanza, davanti alla Santeria accusava gli organizzatori della mostra di “legittimare la pedopornografia”, di essere dei “pazzi” che volevano “violare l’innocenza dei bambini” sia la moglie del deputato che il suo assistente gli rispondevano che non avrebbero tolto il video, “in quanto aveva generato moltissime visualizzazioni”.
E quindi, cos’era la mostra “Porno per bambini”? Una mostra di disegni in chiave erotica che “non riproducevano alcun bambino impegnato a compiere atti sessuali, né l’evento era dedicato a un pubblico di minori.
Semplicemente l’artista traduceva in linguaggio giocoso immagini dal contenuto astrattamente erotizzante, rappresentandole non come avrebbe fatto un adulto, ma come avrebbe potuto fare un bambino se avesse avuto la possibilità di disegnarle”.
L’autore, dopo questa vicenda, ha deciso di cambiare nome d’arte, proprio per le centinaia di messaggi di morte ricevuti dopo che Roberto Fiore, di Forza Nuova, aveva pubblicamente svelato il suo vero nome.
(da La Repubblica)
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Marzo 29th, 2023 Riccardo Fucile
I SONDAGGI MOSTRANO UN PAESE ATTENTO A RISPARMIARE OGNI CENTESIMO: UNA PERSONA SU DUE CONTROLLA IN MODO MANIACALE I PREZZI DELLA SPESA QUOTIDIANA, UNA SU TRE, PER RISPARMIARE, RINUNCIA A UNO SFIZIO NON ESSENZIALE E OTTO SU DIECI DANNO UN GIUDIZIO NEGATIVO SULLA SITUAZIONE ECONOMICA
Alessandra Ghisleri, direttrice di Euromedia Research, rilancia i dati del Centro Studi LegaCoop che mettono in guardia da questo scenario oscuro. Sei intervistati su 10 considerano possibili delle forme di protesta e insofferenza verso persone benestanti, che rischiano di apparire privilegiate.
D’altra parte, negli scenari di crisi c’è chi è più in difficoltà degli altri. I residenti del Sud Italia, i minori e gli immigrati. Duro accettare che 1,4 milioni di bambini siano in una condizione di “povertà assoluta” nel Paese, come peraltro il 32,4% tra gli stranieri residenti.
Al convegno “La filiera dei beni di consumo nell’era dell’incertezza”, Ghisleri spiega anche che le famiglie italiane si sono fatte formiche. Prima di spendere per la tavola, mettono in campo una strategia di risparmio quasi maniacale.
Adesso una persona su due rinuncia ad acquisti di getto e si ripromette una attenta “pianificazione” della spesa alimentare. Non solo. Una persona su tre è disponibile a girare — di negozio in negozio — pur di trovare l’offerta più vantaggiosa. Una persona su tre sacrifica lo “sfizio”, il prodotto inutile. D’altra parte, l’inflazione ha la forza di un incendio. Divampa, forte. Poi arretra lentamente anche quando le cause dell’innesco si attenuano.
Otto italiani su 10 danno un giudizio “molto negativo” sulla situazione economica.
(da La Repubblica)
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Marzo 29th, 2023 Riccardo Fucile
SOLO NEI PRIMI TRE MESI DEL 2023 CI SONO STATE 130 SPARATORIE DI MASSA
Le armi da fuoco sono la principale causa di morte per bambini e adolescenti negli Stati Uniti negli ultimi tre anni, da quando hanno superato gli incidenti stradali nel 2020.
Solo nel 2021 le armi da fuoco hanno rappresentato quasi il 19% delle morti infantili (età 1-18), secondo il database Wonder dei Centers for Disease Control and Prevention e quasi 3.600 bambini sono morti in incidenti legati alle armi quell’anno, pari a 5 decessi ogni 100mila minori negli Usa.
In nessun altro paese al mondo le armi da fuoco sono tra le prime quattro cause di mortalità tra i bambini, secondo un’analisi di KFF. Lo riporta la CNN all’indomani dell’ennesima sparatoria in cui sono rimaste uccise sei persone, tra cui tre bambini di 9 anni, verificatasi in una scuola elementare privata di Nashville, in Tennessee.
Finora nel 2023 ci sono state 130 sparatorie di massa, il numero più alto registrato a questo punto in qualsiasi anno almeno dal 2013, secondo i dati aggiornati al 9 marzo scorso dal Gun Violence Archive, gruppo di ricerca senza scopo di lucro che tiene traccia della violenza armata utilizzando rapporti di polizia, copertura giornalistica e altre fonti pubbliche.
Più di 348mila studenti sono stati vittime di “violenza armata” a scuola dal massacro della Columbine High School nel 1999. Tra gennaio 2022 e gennaio 2023, ci sono state più di 600 sparatorie di massa.
Ad essere aumentato è anche il numero di americani che possiede un’arma da fuoco. Le vendite di armi negli Stati Uniti hanno raggiunto la cifra record di 23 milioni di dollari nel 2020 – un aumento del 65% rispetto al 2019 – e sono rimaste elevate nel 2021. Josh Horwitz, condirettore del Johns Hopkins Center for Gun Violence Solutions, ha affermato che questa tendenza è legata “all’idea che le armi ci tengono al sicuro, soprattutto in tempi incerti”.
Anche le armi usate da Audrey Hale nel suo attacco alla Covenant School di Nashville, di cui era una ex allieva, erano da lei state comprate legalmente. 28 anni, una laurea in grafica e transgender, secondo quanto affermato sui social network, Hale è entrata nell’istituto e ha ucciso 6 persone, prima di essere neutralizzata dalla polizia. E tutto è successo in 14 minuti, per motivi che sono ancora in corso di accertamento.
La polizia ha affermato che l’attacco era stato pianificato in anticipo, scoprendo che Hale aveva mappe dettagliate della scuola e scritti relativi alla sparatoria. Un’amica d’infanzia dell’omicida ha anche rivelato che Hale le aveva inviato messaggi inquietanti poco prima del massacro: “Sentirai parlare di me al telegiornale, un giorno tutto avrà senso”, le ha scritto su Instagram.
(da Fanpage)
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Marzo 29th, 2023 Riccardo Fucile
A OLTRE UN ANNO E MEZZO DALL’INVIO DELLA PRIMA RATA L’ITALIA HA SPESO APPENA IL DIECI PER CENTO DI QUANTO A DISPOSIZIONE…CON IL PASSARE DELLE SETTIMANE LE DIFFICOLTÀ SUL RISPETTO DI IMPEGNI E SCADENZE SONO SEMPRE PIÙ EVIDENTI
Piano nazionale di ripresa e resilienza. Con il passare delle settimane le difficoltà dell’Italia sul rispetto di impegni e scadenze sono sempre più evidenti. Dopo aver preso un mese, poi due, ora la Commissione europea non esclude nemmeno «un mese ulteriore» per valutare quanto fatto fin qui e sbloccare il pagamento della rata da venti miliardi del secondo semestre del 2022. Ma allo stesso tempo preme affinché il governo presenti entro un mese tutte le modifiche del Piano che ritiene necessarie.
Bruxelles ha preso di mira il finanziamento per la costruzione di due nuovi stadi, a Firenze e Venezia. A entrambi mancherebbero due requisiti essenziali per le opere finanziabili dal Pnrr: la finalità sociale e (nel caso di Venezia) la collocazione in aree urbane. [Dietro quella battuta si celano due messaggi per Meloni che possono essere sintetizzati così: massima disponibilità a trovare soluzioni, ma ci sono limiti oltre i quali la Commissione non può spingersi.
Che l’Italia avrebbe faticato a reggere la complicata architettura del Pnrr, a Roma e Bruxelles ne erano tutti certi dalla notte in cui Giuseppe Conte, in piena pandemia, negoziò duecento miliardi di euro fra prestiti e risorse a fondo perduto. Che sarebbe stata durissima lo sapeva sin dall’inizio Meloni e con lei Raffaele Fitto Ora però la preoccupazione ha superato il livello di guardia I nodi stanno venendo al pettine tutti insieme. Da un lato c’è il modo un po’ raffazzonato con cui il governo Meloni ha completato i 55 impegni dello scorso semestre. Fin qui, si tratta di problemi minori.
Ciò che preoccupa la Commissione è l’orizzonte. I numeri della Corte dei Conti sui fondi spesi fin qui sono deprimenti: a oltre un anno e mezzo dall’invio della prima rata l’Italia ha speso appena il dieci per cento di quanto a disposizione. Numeri che confermano la difficoltà tutta italiana nel riuscire a spendere i soldi che l’Europa ci concede generosamente da molti anni. Ma proprio per questo, fin dai primi passi del governo Meloni il commissario italiano aveva messo in guardia dalla tentazione di cambiare troppo.
È andata diversamente, e ora c’è da gestire molte cose insieme: Meloni e Fitto, pur fra lo scetticismo del ministro del Tesoro Giancarlo Giorgetti, hanno deciso una modifica di tutta la struttura di gestione del Piano, accentrando i poteri a Palazzo Chigi. Allo stesso tempo, nel tentativo di salvare i fondi salvabili, Fitto ha iniziato a negoziare con Bruxelles una modifica delle opere da finanziare. L’idea è quella di spostare alcuni progetti fin qui della lista del Pnrr (che scade nel 2026) nei capitoli dei fondi ordinari di coesione, ai quali l’Italia può attingere fino al 2029.
La nuova governance del Piano è troppo accentrata per progetti destinati alle Regioni del Sud, dal cui parere non si può prescindere. La Commissione ha fatto sapere al governo di attendere una proposta di modifica entro la fine di aprile, insieme a quella relativa ad un altro pezzo del piano, ovvero la distribuzione di alcune risorse aggiuntive per progetti sulle energie rinnovabili.
(da agenzie)
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Marzo 29th, 2023 Riccardo Fucile
MORANA MILIJANOVIC DI LOUISE MICHEL, LUISA ALBERA DI OCEAN VIKING, GIORGIA LINARDI DI SEA WATCH
Hanno storie e percorsi diversi alle spalle, sulle navi ci stanno da più o meno tempo, ma nella guerra che il governo ha dichiarato alle Ong, si sono trovate tutte nella stessa trincea.
In mezzo, il Mediterraneo, con centinaia di gusci di ferro, carrette del mare, gommoni, barchini, veri e propri canotti pieni di gente che su quelle imbarcazioni instabili si gioca la vita, per non essere obbligati a rischiarla ogni giorno nella Libia dove la detenzione arbitraria è uno dei principali business, o nella Tunisia economicamente a gambe all’aria di Kais Saied, dove i migranti subsahariani vengono cacciati casa per casa.
Loro si chiamano Morana Milijanovic di Louise Michel, Luisa Albera di Ocean Viking di Sos Méditerranée, Giorgia Linardi di Sea Watch/Sea Bird, e per la Guardia Costiera – fino a non troppi anni fa, per tutti, partner affidabile della flotta civile nei soccorsi nel Mediterraneo, adesso “gendarme” delle attività di salvataggio – rispondono tutte di una medesima accusa: disturbano.
Motivo? Troppe operazioni di soccorso per la Louise Michel, per questo bloccata da un fermo amministrativo di venti giorni, troppe comunicazioni da SeaBird, l’aereo Ong di Seawatch che ha denunciato l’aggressione dei libici alla Ocean Viking. Declinata in modi diversi l’accusa è per tutti la medesima: essere nel Mediterraneo. Testimoni di quanto accade. Sostanzialmente: delle impiccione.
“Mentre nel 2015, a fronte delle difficoltà di garantire il salvataggio di tutte le persone da soccorrere in mare, da una parte la Guardia costiera aveva da una parte chiesto una missione di soccorso europea e dall’altra aveva accolto a braccia aperte la flotta civile, oggi si limita a insultare le Ong definendole un intralcio. È un paradosso che fa riflettere”, dice Giorgia Linardi.
Sulle navi civili che fanno soccorso nel Mediterraneo Linardi c’è fin dall’inizio. “Nei primi anni”, ricorda, ” i casi in cui la Guardia Costiera stessa indicava la presenza di target alle Ong e forniva loro le coordinate piuttosto che il contrario erano addirittura molti di più”.
Lei ha vissuto quella stagione, così come quelle successive, incluso quello – dice – che è stato una sorta di punto di non ritorno: il trattato del 2017 con la Libia, con l’istituzione della Sar di Tripoli, cioè la porzione di acque internazionali in cui la Libia ha responsabilità nelle operazioni di ricerca e soccorso, “che viene interpretata”, spiega Linardi, “come area di giurisdizione piena della Libia, ma in realtà è area di responsabilità dove anche altri Stati possono e devono intervenire per assicurarsi che le persone vengano soccorse e non si compia il reato di respingimento”.
Tecnicamente, significa riportare indietro contro la propria volontà le persone che fuggono da un determinato Paese: per i Paesi sottoscrittori della Convenzione di Ginevra, come l’Italia, è un reato.
Dunque di fatto, ogni volta che la Guardia costiera libica – o meglio una delle tante – interviene per riportare indietro chi fugge, si assiste ad un respingimento. Paradosso ulteriore, l’Italia stessa non considera la Libia un Paese sicuro e del resto – conferma l’ultima ispezione in Libia della commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite – nel Paese sono stati commessi “crimini contro l’umanità contro libici e migranti” a partire dal 2016. Eppure, l’ultima donazione di cinque motovedette fatta dall’Italia risale a non più tardi di qualche mese fa.
Cosa significhi nel concreto, Luisa Albera, capomissione di Ocean Viking lo ha sperimentato sulla propria pelle. Il 25 marzo, mentre la nave umanitaria si apprestava a soccorrere un’imbarcazione in pericolo, è stata aggredita dai libici, persino con colpi di arma da fuoco. “Attorno alle 10.30, mentre ci dirigevamo verso un gommone stracarico, con diverse persone a cavalcioni dei tubolari, è arrivata a tutta velocità una motovedetta della Guardia costiera libica, facendo una serie di manovre pericolose vicinissimo alla nostra nave, senza mai rispondere alle nostre chiamare. I libici hanno poi estratto fucili automatici di grosso calibro, minacciandoci e sparando più volte in aria”.
Non è ufficiale di primo pelo Luisa Albera. Un tempo consulente informatica, per anni è stata su Sea Shepherd, da quasi quattro invece è su Ocean Viking come coordinatrice delle missioni di ricerca e soccorso. Di guai e problemi in mare, ne ha visti e affrontati. Ma nel video che su Ocean Viking è stato registrato in quei momenti, mentre, attaccata alla radio cerca di comunicare con i libici, appare realmente preoccupata.
“Quando sono arrivati, abbiamo contattato più volte la motovedetta libica 656 via radio sul VHF 16 (il canale delle emergenze, ndr), in inglese e in arabo, senza ottenere alcuna risposta. Abbiamo chiesto quali fossero le loro intenzioni, nessuna reazione. Solo dopo aver sparato più volte contro di noi, ci hanno chiamati usando esattamente lo stesso canale su cui avevamo tentato inutilmente di contattarli, dichiarando che eravamo in ‘acque libiche’ pur essendo in acque internazionali”.
Sono momenti complicati. Perché si sa che in mare ci sono persone in pericolo, che farebbero di tutto, anche lanciarsi in acqua pur di sfuggire alla Guardia costiera libica, ma c’è anche la sicurezza dell’equipaggio delle Ong da salvaguardare. E quelle raffiche da fucili di grosso calibro erano per tutti un pericolo concreto. Nei video diffusi gli spari si sentono distintamente, in quello registrato dall’alto da Seabird si vedono persino i proiettili che colpiscono l’acqua.
“La guardia costiera libica ha messo a rischio l’incolumità della squadra e quella dei naufraghi”, tuona anche a mente fredda Albera. “Dovrebbe essere condotta un’indagine internazionale ed europea sul comportamento della guardia costiera libica perché non si tratta di un caso isolato e sono finanziati, equipaggiati e addestrati dagli Stati membri europei”. Anche qualche mese fa, i soccorritori della Ocean Viking hanno avuto problemi con i libici. “A gennaio, hanno interferito con un’operazione di salvataggio impedendo a una delle nostre lance di salvataggio di tornare alla nave madre”.
“Sulle ambulanze non si spara”
Ma al posto dell’apertura di un’inchiesta, dalla Guardia costiera italiana è arrivata una tirata d’orecchie. Alle comunicazioni di SeaBird, che immediatamente ha informato dell’incidente, si sono limitati a rispondere: “Grazie per la segnalazione”. E con un comunicato ufficiale a Ocean Viking hanno riproverato di non aver informato il Paese di bandiera. Nel merito dell’aggressione, neanche una parola.
“Il Paese di bandiera è sempre in copia nel rapporto sugli incidenti marittimi che vengono inviati alle autorità competenti, come prevede il diritto internazionale. E noi abbiamo informato tutti i centri di coordinamento e soccorso, Tripoli, Malta e Italia”, dice secca la Albera. L’amarezza però non riesce a nasconderla. “Nessun soccorritore al mondo dovrebbe preoccuparsi di minacce con armi da fuoco mentre salva vite in mare”, sottolinea. Ci si sente più soli? “Non si tratta di solitudine ma di sicurezza. Siamo in una situazione in cui i soccorritori sono minacciati da colpi di pistola e accusati. Non è accettabile che le risorse finanziate e addestrate dagli Stati membri dell’Unione europea abbiano un simile comportamento. Le ambulanze non possono essere un bersaglio”
E le navi umanitarie – lo si spiega da tempo – di fatto sono ambulanze del mare. Soccorrono le vittime di incidenti che in molti casi nessuno vedrebbe. Nell’immensità del Mediterraneo, è facile – lo mostrano i continui naufragi di cui si ha notizia e quelli di cui si finisce per sapere solo quando un corpo riappare fra le onde – che un barchino sparisca insieme alle vite umane che ci sono sopra.
Morana Milijanovic e il team di cui fa parte ne hanno soccorsi quattro, ma tre, su cui viaggiavano più di cento persone che a terra non sarebbero probabilmente mai arrivate, per la Guardia costiera, erano di troppo. E durante il quarto salvataggio, denuncia Milijanovic, “sono rimasti a guardare mentre il nostro team soccorreva la gente in acqua, solo dopo trentasette minuti hanno risposto ai nostri mayday. Chiedevamo un’evacuazione medica urgente per un bambino privo di sensi nonostante i tentativi di rianimarlo e per un ragazzo gravemente ferito”.
Bionda, esile, Morana oggi è la faccia pubblica della nave che ha iniziato le proprie attività grazie ad una donazione del misterioso artista Banksy. A bordo ci sono dodici persone, tutti soccorritori professionisti che arrivano da mezza Europa, Norvegia, Croazia, Spagna, Germania.
“Il nostro obiettivo è coniugare il soccorso in mare con i valori del femminismo, dell’antifascismo e dell’antirazzismo”, dichiarano pubblicamente. Perché? “Per noi è importante che siano chiari i nostri valori. Quello che accade nel Mediterraneo non accade nel vuoto. Fascismo, machismo, razzismo hanno degli effetti molti concreti sulla vita delle persone che sono costrette a fuggire e non trovano altra strada che sia quella pericolosissima della traversata in mare perché non esistono canali sicuri”.
(da La Repubblica)
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Marzo 29th, 2023 Riccardo Fucile
“CONTRATTO SCADUTO DA ANNI E STIPENDI MEDI DI 5 EURO L’ORA”
Ormai sembra una guerra al ribasso. Una battaglia tra sindacati e aziende ingaggiata sulla pelle dei lavoratori. E, a riservare più di una sorpresa negativa, è il mondo delle Rsa: ausiliari, operatori sociosanitari, infermieri. Tutte persone che si prendono cura quotidianamente degli anziani spesso per paghe bassissime. «C’è un importante gruppo internazionale che deliberatamente ha scelto di applicare per i propri lavoratori un contatto scaduto nel 2009. Tredici anni fa, senza adeguamenti salariali», è la denuncia arrivata a La Stampa. Nei giorni scorsi Cgil, Cisl e Uil si sono scagliati contro l’Anaste – Associazione nazionale strutture territoriali e per la Terza età – colpevole di aver firmato un contratto che hanno definito «pirata» con sindacati «non rappresentativi». Ora è il presidente dell’Anaste, Sebastiano Capurso, a sollevare questa «irregolarità». Nel mirino, il gruppo Kos, un colosso internazionale del settore che nel 2022 ha registrato ricavi per oltre 683 milioni di euro. Kos, che fa parte di Cir group, conta 159 strutture in totale di cui 108 Italia (13 in Piemonte, dove è esploso il caso). Ci lavorano oltre 13.300 persone, 8.600 in Italia (di cui 7.100 dipendenti) e oltre 900 in Piemonte. Ma il contratto utilizzato è, appunto, fermo al 2009 nonostante nel frattempo ci siano stati più rinnovi. «Il gruppo usa l’ultimo contratto che Anaste ha firmato con i sindacati confederali, quello valido dal 2006 al 2009, appunto. Da allora ci sono stati vari rinnovi che abbiamo firmato con altri sindacati e che hanno condizioni migliori ma loro non si sono mai adeguati. È un problema anche per noi, tanto che queste strutture non fanno più parte dell’Anaste. In questi casi – spiega Capurso – credo possa esserci un indebito arricchimento sulla base di un contratto scaduto»
A raccontare quanto si guadagna in queste Rsa è Giorgia Della Peruta, 22 anni, da un triennio oss nella residenza Anni Azzurri di Santena, in provincia di Torino. «Il mio stipendio mensile arriva a 1100 euro netti per un totale di 38 ore settimanali quando va bene», dice. «Spesso però ci chiedono di fare delle ore in più, ma ci vengono pagate solo quando ne hanno voglia. Ci sono alcuni colleghi che non fanno nemmeno la pausa pranzo, altrimenti non riuscirebbero a fare tutto il lavoro». Praticamente per chi ha un livello medio, 5 euro l’ora. Per i livelli bassi non si raggiungono nemmeno i 1000 euro.
Il gruppo Kos conferma la circostanza e prova a spiegare le sue ragioni: «è applicato il contratto collettivo nazionale di lavoro per il settore socio assistenziale Anaste sottoscritto da Cgil, Cisl e Uil: l’azienda, recependo la richiesta sindacale, non ha inteso applicare successive versioni del contratto non sottoscritte dalle organizzazioni dei lavoratori rappresentative. Il settore socio assistenziale in cui il gruppo Kos opera registra comunemente un ritmo dilatato nella frequenza dei rinnovi dei numerosi contratti applicabili, con punte fino ai 15 anni di attesa, strettamente dipendenti dall’altrettanto lento ritmo di revisione delle tariffe corrisposte dal Ssn per i servizi prestati». Colpa delle Regioni, quindi, che non aumentano le rette versate per i servizi in convenzione. Poi il gruppo sottolinea la volontà di cambiare la situazione: «Appena preso atto della richiesta di Cgil, Cisl e Uil di non applicare la nuova versione del Ccnl firmata da altre sigle sindacali e della sopravvenuta impossibilità di addivenire al rinnovo del contratto Anaste applicato dal gruppo, l’azienda ha provveduto a comunicare la propria intenzione di intraprendere un autonomo programma di adeguamento contrattuale». Non specifica, però, di quanto sarà l’aumento e da quando partirà.
I contratti della Sanità privata sono una vera giungla. Al Cnel ne sono registrati 60 diversi, di cui appena otto sono i più rappresentativi e ancora meno quelli firmati dai sindacati confederali. Facile, in questo contesto, scegliere quello più conveniente. «Questo è un caso vergognoso – commenta il presidente del Cnel, Tiziano Treu – vuol dire che le retribuzioni non sono state adeguate. Sono salari bassi e sotto il livello del decoro». Ma è praticamente impossibile intervenire con i controlli. «Cosa possono fare i lavoratori? Rivolgersi alla magistratura. Possono fare causa perché questi contratti non sono adeguati».
(da la Stampa)
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