Marzo 12th, 2023 Riccardo Fucile
SI DIMENTICA UN PICCOLO DETTAGLIO: IN QUEL CASO NON C’ERA STATA UNA STRAGE. ERA UN GIORNO NORMALE
l karaoke di Salvini e Meloni ha scatenato un’ondata di indignazione perché è avvenuto all’indomani del consiglio dei ministri farsa a Cutro, dopo la strage dei migranti e mentre il mare ancora non aveva restituito nemmeno tutti i corpi.
Meloni e Salvini non hanno avuto il tempo e soprattutto la voglia di incontrare i sopravvissuti alla strage e i familiari delle vittime. E non hanno avuto nemmeno la dignità politica di invitare il sindaco di Crotone (che ha ospitato la camera ardente delle vittime) che aveva ‘osato’ denunciare l’insensibilità del governo.
E adesso la Lega per replicare alle accuse si è inventata un fotomontaggio per mettere a fianco la festa da ballo a cui partecipò la premier finlandese Sanna Marin al karaoke di Salvini e Meloni.
Peccato che Sanna Marin andò a ballare in un giorno qualsiasi per la Finlandia e per l’Europa.
I due reazionari al governo sono andati a fare il karaoke all’indomani della strage e mentre i soccorritori erano ancora in mare a recuperare i corpi dei dispersi. Avrebbero dovuto dichiarare lutto nazionale.
Hanno scelto il karaoke e il paragone con Sanna Marin è pietoso.
(da Globalist)
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Marzo 12th, 2023 Riccardo Fucile
ELLY SCHLEIN: “UNA VERGOGNA PER L’ITALIA E L’EUROPA”… VERDI: “ORA BASTA, PIANTEDOSI SI DIMETTA, E’ UN’ONTA PER IL NOSTRO PAESE”
«È una vergogna per l’Italia e per l’Europa. Non possiamo più vedere il Mediterraneo ridotto a un grande cimitero a cielo aperto». Lo ha detto la segretaria del Pd, Elly Schlein, riferendosi al nuovo naufragio di un barcone di 47 migranti proveniente dalla Libia denunciato oggi da Alarm Phone e che avrebbe già causato decine di vittime.
«Mi arrivano notizie di un nuovo naufragio, in cui sarebbero morte altre persone, a largo della Libia. Sembra che questa imbarcazione abbia chiesto soccorso ed è stato risposto di contattare la guardia costiera libica. Per questo chiedo un minuto di silenzio», ha detto Schlein rivolgendosi all’assemblea del Pd a Roma.
Ancora più dura la presa di posizione del gruppo a sinistra del Pd, l’Alleanza Verdi e Sinistra. Per Angelo Bonelli, co-portavoce di Europa Verde, il responsabile di questa nuova tragedia siede al Viminale. Il ministro Piantedosi «è un’onta per l’Italia» e deve dimettersi, ha detto Bonelli. «È sconcertante quello che sta accadendo nel Mediterraneo: ci troviamo di fronte ad un altro naufragio con decine di vittime e di annegati – ha scritto il leader dei Verdi in una nota – Si tratta dello stesso gommone che è stato segnalato ieri sera e al quale il governo italiano ha chiesto di tornare indietro e alla guardia costiera libica di intervenire, risultato: altre vite annegate in mare. Il ministro Piantedosi, che coordina queste operazioni, è un’onta per l’Italia e ne chiediamo le dimissioni».
Ieri sera, sabato 11 marzo, le autorità di Roma, ricevuto l’allarme, avevano dato istruzione alle navi mercantili presenti in zona di monitorare la situazione, in attesa della guardia costiera libica.
Tuttavia, spiega Mediterranea Saving Humans, «i mercantili si sono limitati a osservare per 24 ore e nessuna mobilitazione è stata disposta dalle «navi militari operative nell’area».
Ora il timore è che i migranti sopravvissuti siano ricondotti in Libia. «Ricordo che il ministro libico Emad Trabelsi – continua Bonelli – è colui che faceva il trafficante di migranti e che oggi chiede intese con l’Italia a partire dagli incontri con il ministro Piantedosi».
Poi l’appello: «L’inazione dell’Europa è vergognosa chiediamo subito navi europee nel mar Mediterraneo per i soccorsi perché siamo di fronte ad un’imponente crisi umanitaria: basta frasi ipocrite di cordoglio e di circostanza», conclude.
Dello stesso tono la dichiarazione del segretario nazionale di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni, secondo il quale «hanno più sollecitudine per andare alle feste di compleanno di un 50enne piuttosto che ad organizzare un efficace sistema di ricerca e soccorso nel Mare Mediterraneo», si legge nel tweet.
«Una gigantesca onda di vergogna – conclude l’esponente rossoverde – travolgerà il governo italiano e la Ue per i loro ritardi ed omissioni». Parole dure anche da parte della deputata dem, Laura Boldrini: «Una imbarcazione da oltre 24 ore lasciata alla deriva nelle acque libiche. Le persone sono disperate. Se nessuno va a soccorrere, il risultato è scritto: altri morti. Le Ong sono utili a riempire questo vuoto, impedirgli di operare, come fa il governo Meloni, è imperdonabile».
(da agenzie)
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Marzo 12th, 2023 Riccardo Fucile
ALARM PHONE ACCUSA: “L’ITALIA LI HA LASCIATI MORIRE”… LA GUARDIA COSTIERA ITALIANA NON E’ INTERVENUTA E ORA ACCUSA QUELLA LIBICA (CHE PRENDE SOLDI SIA DAI TRAFFICANTI PER CHIUDERE GLI OCCHI SIA DALL’ITALIA PER FAR FINTA DI INTERVENIRE)
Trenta dispersi, dunque morti, e 17 superstiti. E’ la Guardia costiera italiana a fare il bilancio ufficiale del nuovo naufragio nel Mediterraneo dopo il ribaltamento di un gommone con 47 migranti a bordo che da sabato mattina chiedeva aiuto in zona Sar libica, 120 miglia a nord di Bengasi. Secondo la versione dei fatti della Guardia costiera italiana, la barca si sarebbe ribaltata durante il trasbordo dei migranti sul mercantile Frolen ora diretto verso l’Italia.
A darne notizia è stata la ong Alarm Phone che da ieri rilancia l’allarme ricevuto da bordo della nave dei disperati, chiedendo alle autorità italiane di coordinare i soccorsi.
“Siamo scioccati – scrivono su Twitter da Alarm Phone – Decine di persone di questa barca sono annegate. Dalle 2.28 dell’11 marzo le autorità erano informate dell’urgenza e della situazione di pericolo. Le autorità italiane hanno ritardato deliberatamente i soccorsi, lasciandoli morire”.
Secondo le prime informazioni, la barca – che per tutta la notte sarebbe stata monitorata da alcuni mercantili in attesa dell’arrivo dei soccorsi – si sarebbe rovesciata questa mattina all’alba.
Da ieri, l’Imrcc Roma aveva dato istruzioni ai mercantili, assumendo il coordinamento dell’operazione Sar e chiedendo alla guardia costiera libica di intervenire, ma non risulta siano mai state mobilitate le navi militari operative nell’area per le missioni Eunavformed e Irini.
La Guardia costiera accusa Libia e Malta: “L’intervento di soccorso è avvenuto al di fuori dell’area di responsabilità SAR italiana registrando l’inattività degli altri Centri Nazionali di coordinamento e soccorso marittimo interessati per area”.
Ma l’Italia aveva assunto il comando dei soccorsi e non ha inviato nessuno dei mezzi disponibili, demandando l’intervento alla Guardia costiera libica che se ne fotte come sempre ma che noi paghiamo profumatamente per il lavoro sporco.
(da La Repubblica)
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Marzo 12th, 2023 Riccardo Fucile
UN MERO ATTO DI PROPAGANDA PER I GONZI
Mentre il mare restituisce ancora i corpi delle persone annegate nel naufragio del 26 febbraio, il governo Meloni si è riunito a Cutro, per discutere, e approvare, l’ennesimo decreto di questa legislatura.
Tra le diverse misure, il provvedimento prevede anche disposizioni in materia penale, con l’inasprimento della repressione per reati già previsti dal testo unico sull’immigrazione e con l’introduzione di un nuovo delitto
Anche la forma è sostanza: inventarsi reati per decreto è un problema
Il decreto legge firmato da Giorgia Meloni, e dai ministri Piantedosi, Nordio, Tajani, Calderone, Lollobrigida e Musumeci, introduce infatti nel testo unico l’articolo 12-bis, che punisce il reato di “Morte o lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina”. Si tratta di un nuovo delitto punito molto severamente, visto che la fattispecie di base prevede la reclusione tra venti e trent’anni. Presenta però molti problemi, di metodo e di merito.
Fin qui, l’esecutivo sta governando a colpi di decreto legge, cioè di provvedimenti governativi che dovrebbero essere adottati solo in straordinari casi di necessità e urgenza.
La prassi, già di per sé preoccupante, diventa particolarmente problematica quando riguarda l’introduzione di nuovi reati: un decreto è infatti vigente fin da subito, anche se il Parlamento non si è ancora espresso e, in caso di mancata conversione, il provvedimento decade fin dal principio. Restano però irreversibili gli effetti sulla libertà personale che, ad esempio con le misure cautelari, vengono prodotti da un decreto legge.
Dal globo terracqueo ai concetti di dolo e colpa, tra propaganda e reato
Un’altra anomalia del nuovo delitto riguarda la sua applicazione territoriale, sintetizzata dalle dichiarazioni di Giorgia Meloni in conferenza stampa: «Quello che vuole fare questo Governo è andare a cercare gli scafisti lungo tutto il globo terracqueo».
Ma davvero possiamo punire dei reati commessi fuori dal territorio nazionale? Sì e no. La questione è molto più complessa delle promesse di blocchi navali o task-force in acque internazionali, dal momento che, se è vero che un reato commesso da uno straniero all’estero può essere punito in caso di disposizioni speciali, queste disposizioni speciali devono avere se non altro una coerenza e una ragionevolezza che il nuovo delitto non sembra proprio avere.
C’è infatti una questione centrale, sia nella comunicazione di Meloni, sia nel testo del nuovo illecito: il dolo (o la sua assenza) nella condotta.
Di fronte alle accuse di non aver fatto abbastanza, la presidente del Consiglio ha usato un argomento fantoccio, accusando i giornalisti e gli oppositori di attribuire all’esecutivo una volontarietà nella strage.
In realtà, nel nostro sistema penale (e, prima ancora, nella logica delle nostre relazioni sociali) non c’è una dicotomia tra dolo e totale innocenza, ma esiste anche il concetto di colpa, che resta una responsabilità, anche se meno grave rispetto a quella dolosa, dal momento che l’evento dannoso, pur previsto, non era voluto, e deriva da negligenza, imprudenza, imperizia o inosservanza delle regole.
Quel che propagandisticamente viene enfatizzato dalla presidente Meloni per escludere qualunque responsabilità del governo è un concetto che torna anche nel nuovo, arzigogolato, reato.
Il delitto di “morte o lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina” è infatti un illecito punito con un livello di pena tipico dei reati dolosi, ma l’evento in base al quale si verifica il reato deve essere una “conseguenza non voluta” del tentativo di ingresso illegale nel territorio dello Stato.
La contabilità del reato e i rischi di applicazione paradossale
La norma del decreto elenca una serie di ipotesi ragionieristiche che accostano l’entità della “conseguenza non voluta” con il livello di pena prevista. La reclusione da 20 a 30 anni è prevista sia in caso di morte di più persone, sia in caso di morte di una o più persone e di lesioni gravi o gravissime. Se muore una persona sola, la pena è da 15 a 24 anni. Se nessuno muore ma una o più persone subiscono lesioni gravi o gravissime, la pena va da 10 a 20 anni.
Il decreto vieta inoltre l’applicazione di attenuanti prevalenti rispetto alle aggravanti. Nel nostro sistema penale, esistono infatti circostanze in presenza delle quali si ritiene che un reato vada punito più o meno severamente, e queste circostanze, di norma, si compensano tra loro. In questo caso, invece, le attenuanti non possono riequilibrare le aggravanti, che vengono applicate a priori, mentre le diminuzioni si applicano solo dopo (e quindi in quota ridotta).
Basta allora sfogliare il codice penale per notare il paradosso: con l’introduzione di un delitto simile, a uno scafista converrebbe dichiarare di aver voluto uccidere le persone morte o ferite nella traversata. Poniamo il caso più frequente: lo scafista imputato per il nuovo reato altri non è che un migrante come gli altri, costretto dai trafficanti e dallo spirito di sopravvivenza a guidare un natante.
Durante il naufragio muoiono alcune persone: se la loro morte è una “conseguenza non voluta” dell’ingresso illegale, il rischio è una pena tra venti e trent’anni.
Se invece negasse l’intenzione migratoria, dichiarando di aver voluto uccidere le vittime, il minimo della pena sarebbe ventun anni, ma si potrebbero applicare le attenuanti, che sono invece estremamente ridotte per il nuovo delitto.
Il caso delle lesioni personali è ancora più assurdo: dichiarando il dolo, cioè confessando di aver provocato intenzionalmente le lesioni, se queste fossero gravi la pena andrebbe da tre a sette anni, se fossero gravissime da sei a dodici anni.
La pena è invece tra dieci a vent’anni se le lesioni non sono volute ma avvengono durante un tentativo di migrazione: per capirci, le lesioni colpose (cioè le lesioni arrecate senza volontà) sono punite con la reclusione per massimo due anni, cioè un decimo di quanto previsto dal nuovo delitto.
Stratificazioni e sovrapposizioni, il nuovo delitto è solo populismo repressivo
Oltre all’introduzione del reato per decreto, alle sue pretese universalistiche e all’estrema severità della repressione, bisogna notare ancora una volta che l’intervento è più una bandiera propagandistica da piantare che un’effettiva necessità dell’ordinamento.
Come già avvenuto per il decreto anti-rave, infatti, la nuova norma incriminatrice punisce fatti che già erano illegali e punibili: chi “promuove, dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri” o comunque favorisce l’immigrazione clandestina soggiace già alle pene previste dal testo unico sull’immigrazione. Nel caso di ingresso di più di cinque persone o qualora gli stranieri trasportati siano posti in condizioni di pericolo, la reclusione va da 5 a 15 anni (pena ora aumentata dal nuovo decreto da 6 a 16 anni). Si potrà dire che il governo vuole punire situazioni più gravi, in cui dall’ingresso illegale derivino conseguenze di morte o di lesioni, ma per quel caso esistono comunque le regole generali del codice penale, tra cui la specifica norma relativa al caso di “morte o lesioni come conseguenza di altro delitto”.
In base all’art. 586 c.p., infatti, seguendo le regole sul concorso di reati, si aggiunge all’incriminazione per il reato doloso anche la pena per omicidio colposo o lesioni colpose.
L’introduzione di questo nuovo delitto è insomma una stratificazione normativa, una pleonastica complicazione del sistema penale, un atto di propaganda a danno del principio di ragionevolezza, che in uno Stato di diritto dovrebbe essere alla base di ogni azione di governo e di legislazione.
Ridurrà i naufragi? Eliminerà l’immigrazione illegale? Certo che no, perché non basta fare la faccia scura, ed esibirsi nel populismo penale, per cambiare la realtà, specie quando la repressione riguarda bisogni umani.
Se domani, per assurdo, si decidesse che l’acqua è vietata e che bere è reato, smetteremmo di idratarci per paura del carcere? Continueremmo a bere, perché l’acqua serve, è una necessità umana, vitale.
Al più, si creerebbe un sistema clandestino per poter bere di nascosto, senza essere scoperti e puniti, probabilmente facendo guadagnare i più cinici sul soddisfacimento di un bisogno universale.
Per i reati relativi all’immigrazione il ragionamento è lo stesso: l’unico effetto logico possibile per un inasprimento simile sarà l’aumento del prezzo di viaggio e l’intensificarsi dei rischi della traversata.
Ma nessuno che abbia bisogno di muoversi, che sia per guerra o per fame, resta in un lager libico o in un campo profughi somalo solo perché il governo italiano, per far propaganda dopo un naufragio, introduce un’altra norma inutile e illogica.
(da Fanpage)
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Marzo 12th, 2023 Riccardo Fucile
IL DIRETTORE OPERATIVO DI CILD SPIEGA PERCHE’ ANDREBBERO CANCELLATI, ALTRO CHE AUMENTATI
I centri di permanenza per i rimpatri (Cpr) sono nati nel 1998. Allora si chiamavano centri di permanenza temporanea e assistenza, e negli anni hanno cambiato nome più volte: nel 2017, con il governo Gentiloni, da “centri di identificazione ed espulsione” sono diventati gli attuali Cpr. Sono strutture in cui le persone migranti vengono trattenute prima di essere rimpatriate. In teoria gli ‘ospiti’ devono restarci il tempo minimo necessario per l’identificazione e il rimpatrio, ma nella pratica spesso le cose non vanno così.
Il governo Meloni a dicembre ha stanziato, con la legge di bilancio dello scorso dicembre, circa 42 milioni di euro da usare fino al 2025 per ampliare la rete dei Cpr.
Con l’ultimo decreto sull’immigrazione, il governo ha previsto dei contratti semplificati per velocizzare questi lavori. Oggi i Cpr sono dieci in tutta Italia, e possono ospitare fino a 1378 persone.
Andrea Oleandri, direttore operativo della Coalizione italiana libertà e diritti civili (Cild), ha spiegato a Fanpage.it cosa non funziona nel sistema dei centri di rimpatrio.
Partiamo da una frase recente del ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi. Presentando il nuovo decreto del governo, ha detto che il problema dei Cpr è che vengono “vandalizzati” da chi si trova all’interno, e che i Cpr “non sono luoghi piacevoli”, ma per uscirne in pochi giorni “basterebbe collaborare” e farsi identificare.
In realtà, devo dire che sono effettivamente i due problemi principali del sistema Cpr. Poi chiaramente il ministro fa una lettura sua.
In che senso?
La questione è questa: i Cpr sono luoghi dove c’è la privazione totale della libertà, e questa non legata a un reato, ma a uno status soggettivo della persona. Esistono da 25 anni, eppure ancora non hanno uno statuto. A differenza delle carceri, non hanno un ordinamento, un regolamento… non ci sono dei diritti espliciti per cui la persona detenuta sa che può fare una cosa, e non può farne un’altra. È tutto lasciato alla discrezionalità di chi gestisce i centri e di chi ci lavora. Non essendoci regole, le persone detenute praticamente hanno un tempo di vita sospeso. Sono dei corpi messi in un posto, e tenuti in quel posto per un tempo indefinito – c’è un massimo di 90 giorni previsto per legge, ma non sanno se ci staranno un giorno, dieci giorni, tre mesi… E all’interno non fanno niente.
Com’è l’interno di un Cpr? E cosa c’entra con le parole di Piantedosi?
Ci sono le stanze, c’è un cortile in cemento con alte recinzioni… solo spazi detentivi. Non c’è una biblioteca, un campetto da calcio, un luogo di culto, niente. Quindi: sono privati della libertà personale, non sanno cosa li aspetta, non possono fare nulla, e in più sono persone in una situazione delicata dal punto di vista psicologico. Il loro progetto migratorio magari è fallito, e hanno questo peso. È facile che non accettino questa loro condizione e decidano di protestare. Atti di violenza o autolesionismo accadono anche nelle carceri, spesso sono un modo per richiamare l’attenzione. Per questo, come dice il ministro Piantedosi, “vandalizzano” le cose.
E sul fatto che “basta collaborare” per uscirne?
Banalmente: che vantaggio ha la persona a collaborare? Per essere rimandata nel proprio Paese? Infatti il Cpr è un sistema che non funziona, hanno un’efficienza bassissima. L’Italia rimpatria meno della metà delle persone che vengono trattenute.
Cos’è che non funziona di questo modello?
La cosa è: tu trattieni una persona per tre mesi perché speri che se la tratti abbastanza male alla fine lei deciderà di dirti “ok va bene, è vero, sono di quel Paese, rimpatriami perché non ce la faccio più”? È inumano, contro la convenzione europea sui diritti dell’uomo. Si sa da tempo: o il riconoscimento della persona lo fai subito, oppure la puoi tenere anche due anni ma non ce la farai. E non solo perché non scopri di che Paese sono: magari non puoi fare il rimpatrio perché non hai accordi di remissione con i Paesi di provenienza. E queste persone vengono comunque trattenute, spesso per tutto il tempo possibile, senza motivo.
Quindi diventa solo una detenzione ‘punitiva’, senza avere commesso un reato?
Esatto. E non finisce qui. Spesso le persone transitano in carcere, magari per sei mesi o un anno. Quando escono dal carcere, la maggior parte delle volte finiscono in Cpr. Ma se tu non sei riuscito a fare un riconoscimento in un anno di carcere, come pensi che ce la farai con tre mesi in Cpr?
Voi come associazione avete visto diversi centri per il rimpatrio?
Sì, all’interno si vedono cose incredibili. In alcuni Cpr, tra il bagno e la stanza dove le persone dormono non ci sono le porte. Per ragioni di sicurezza non meglio specificate. Quindi chi va in bagno lo fa davanti a tutti gli altri, chi sta nella stanza sente gli odori… è una condizione inumana. Un altro esempio è quello dei telefoni: nessun documento dice che sono vietati all’interno dei centri, ma nella pratica non gli vengono dati, oppure gli vengono rotte le videocamere così non possono mandare foto e video all’esterno.
Ci si può rivolgere a un giudice, in caso di abusi?
Di nuovo, il sistema non ha regole precise. In carcere c’è il magistrato di sorveglianza, nel Cpr bisogna rivolgersi a un giudice di pace. È un giudice che tra le sue competenze non ne ha nessun’altra simile a questa. Magari quando è nata la misura non si voleva creare un sistema giurisdizionale specifico, ma dopo 25 anni è una cosa che serve.
Chi gestisce i Cpr?
I privati. Sono strutture in cui lo Stato trattiene delle persone, e vengono affidate a privati. Il vero business dell’immigrazione sta lì dentro. Ormai i Cpr in Italia sono gestiti perlopiù da multinazionali, che a volte operano in settori che non c’entrano niente con l’accoglienza, ma si buttano sui Cpr perché c’è un guadagno.
Qual è il problema ad affidare la gestione dei Cpr a delle aziende private?
Porta a una massimizzazione del profitto: tagli di servizi, tagli di personale, i medici all’interno sono medici che lavorano per l’ente gestore e non è detto che abbiano la volontà di denunciare certe situazioni… Adesso, con questo ulteriore allargamento del numero di Cpr voluto dal governo, la cosa dovrebbe interrogarci. Abbiamo intenzione di rinchiudere molte più persone in un sistema che non ha garanzie?
Quali sono le multinazionali che gestiscono Cpr in Italia?
Una è la Ors. È una multinazionale svizzera enorme, che gestisce i Cpr di Roma e di Torino, anche se questo è chiuso da qualche giorno (il Cpr di Torino è stato chiuso perché reso inagibile da una serie di rivolte a febbraio, le persone al suo interno sono state trasferite a Trapani, Potenza e Macomer in Sardegna, il contratto con Ors sarà sospeso, ndr). Quello di Torino era gestito fino al 2021 da Engie, una multinazionale francese dell’energia che però ha deciso di buttarsi in questo campo. Nei tre anni 2018-2021, per dieci centri lo Stato ha speso 44 milioni di euro, con gare di appalto al massimo ribasso.
È questo il problema più grave dei centri per il rimpatrio?
Il problema è pensare che i Cpr siano la soluzione al problema. Non lo sono. Sono un sistema costosissimo, inefficace e che viola i diritti delle persone che ci passano.
Quali alternative ci sono?
Noi abbiamo un progetto pilota, c’è in Italia e in alcuni altri Paesi d’Europa. Si tratta di prendere in carico la persona, semplicemente. Molte delle persone che entrano in un Cpr potrebbero fare una richiesta d’asilo, o di permesso di soggiorno. Non lo fanno perché non conoscono le leggi, oppure perché si imbattono nel sistema Cpr e non ne escono più. Noi in tre anni abbiamo preso in carico circa 160 persone con questo progetto, e la maggior parte hanno ottenuto un permesso di soggiorno per motivi umanitari. Serve un accompagnamento su due piani: quello legale e quello psicologico. A volte le persone hanno persino voglia di ritornare nel loro Paese, ma non lo accettano perché per tornare servono delle risorse che non hanno. Economiche, ma anche psicologiche.
Il governo Meloni ha deciso di espandere il sistema dei Cpr, ma anche il centrosinistra negli anni li ha sostenuti, no?
I primi centri sono nati con una legge sull’immigrazione del centrosinistra (governo Prodi, ndr). C’è stata una volontà politica trasversale di gestire l’immigrazione in questo modo. Poi certo, ci sono stati alti e bassi: nel 2011 il limite massimo di permanenza nei centri fu alzato a 18 mesi, mentre nel 2014 fu ridotto a 90 giorni (poi il decreto Sicurezza del 2018 lo ha portato a 180 giorni, e nel 2021 è tornato a 90 giorni, ndr). Ma è un modello diffuso in tutta Europa, e non funziona da nessuna parte. In Italia, comunque, la mancanza un quadro normativo è un problema nazionale che si trascina da anni.
(da Fanpage)
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Marzo 12th, 2023 Riccardo Fucile
MA CI RENDIAMO CONTO CHE QUESTI HANNO FIGLIE E NIPOTI DELL’ETA DELLE RAGAZZINE CHE IMPORTUNANO? E HANNO BISOGNO DI UN MANUALE PER SAPERE COME COMPORTARSI? MA CHE SI UBRIACHINO A CASA LORO, INVECE CHE ROMPERE I COGLIONI AL PROSSIMO
Forse è davvero, finalmente, finita l’epoca dell’approccio stradale. Ora si chiama “molestia”, che poi è quello che è. E i primi a metterlo nero su bianco : sono molestie commenti volgari o a sfondo sessuale, gesti che indicano i genitali o mimano un atto sessuale, battute a sfondo sessuale («Fatti prendere, lo so che ti piace!»), approcci che cercano di avere per forza una reazione positiva («Non mi fai un sorriso, sei frigida?»).
All’indomani dei fatti di Rimini, teatro lo scorso anno del raduno annuale delle Penne nere e di diverse denunce di molestie che coinvolgevano proprio le centinaia di associati presenti, l’Associazione Nazionale Alpini ha avviato un percorso di consapevolezza che si sostanzia in un manuale di comportamento scritto con le attiviste Karen Ricci ed Eva Massari e rivolto ai propri iscritti ma da estendere a tutti gli uomini: con sei punti chiave, il manuale spiega in modo pratico in cosa consiste una molestia verbale, ma anche fisica, partendo proprio dalla cultura che negli ultimi decenni ha reso consuetudine approcci intimidatori e violenti per archiviarli, quando denunciati, come “goliardate” e “scherzi”.
Tutto sta nel consenso, questo è il limite spaziale della molestia. Gli Alpini lo sanno, di certo lo sanno oggi, e lo hanno scritto: «In che relazione sono con questa persona? » è infatti la domanda centrale, quella da porsi quando la certezza delle proprie intenzioni traballa, per evitare di commettere atti molesti. Atti che, per essere chiari, non devono diventare oggetto di negoziazione quando una vittima li denuncia, anche qui il decalogo è chiaro: mai minimizzare ma invece chiedere scusa.
Assistere a episodi di molestie verbali e fisiche senza agire equivale a schierarsi dalla parte del molestatore e nel manuale questo tema ha un punto a sé, con un sottoelenco che illustra le corrette azioni da intraprendere nonostante la consapevolezza che suona anche un po’ come un mea culpa: «Non è facile sfidare un gruppo coeso che ha comportamenti automatici e normalizzati ma è la strada da percorrere per affiancare veramente le donne nella lotta contro le molestie e le violenze».
(da agenzie)
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Marzo 12th, 2023 Riccardo Fucile
L’ANALISI DEI SERVIZI E’ STATA FORZATA PER FINI POLITICI: ECCO I MOTIVI
Una cifra gonfiata che – per come è stata fatta filtrare alla stampa – serva a dare l’idea di un prossimo assalto che è assolutamente improbabile.
Le agenzie riportano che nei campi di detenzione in Libia, ma non solo, ci sono 685 mila migranti irregolari pronti a partire per sbarcare sulle coste italiane. È quanto sottolineerebbero nei rapporti settimanali sull’immigrazione che vengono mandati al governo italiano, gli apparati di sicurezza e gli analisti.
La stessa cifra circolerebbe nei tavoli interministeriali che sono chiamati a occuparsi di questo tema. Per capire la dimensione dell’allarme basta ricordare che in tutto il 2022 gli arrivi erano stati `appena´ 104 mila.
È vero che l’anno scorso, specie nei primi mesi, i flussi erano ancora frenati dalla pandemia.
Ma resta il fatto che solo la cifra sui possibili arrivi dalla Libia è quasi sette volte superiore. La dimensione del fenomeno farebbe inoltre scattare l’allarme trafficanti: «È chiaro che la maggior parte di quelle persone finirebbe per mettere il proprio destino nelle mani delle organizzazioni dei trafficanti e quindi degli scafisti».
Fin qui il report: ma stanno così le cose?
Che in Libia ci siano decine e decine di migliaia di migranti che sperano di andare in Europa (non solo in Italia, come si vorrebbe dar credere) è vero. Che tutte siano sul punto di partire è falso.
Per una serie di motivi. Anzitutto basti pensare che per far arrivare dalla sola Libia 685 mila migranti ci vorrebbe una mega flotta che non esiste. Quanti gommoni? Quanti pescherecci? Quanti barchini?
Anche ipotizzando mille migranti al giorno per 365 giorni l’anno, significherebbe che per fare arrivare 685 mila servirebbero quasi due anni.
Senza contare che non raramente le condizioni meteomarine non consentono le partenze.
In alternativa ne partirebbero 5 mila al giorno considerando solo i giorni di ‘mare buono’? Allora significherebbe che la Cirenaica di Haftar o la Tripolitania in mano ai turchi hanno deciso di dichiarare guerra non tanto all’Italia quanto all’intera Unione Europea. Possibile?
Insomma, considerando che nell’intelligence italiana non ci sono esattamente degli sprovveduti, bisogna capire quanto di questo rapporto sia stato usato come ha fatto il governo con le parole del Papa sui trafficanti, ossia prendere un singolo elemento e utilizzarlo a proprio piacimento dopo averlo estrapolato dal contesto.
Perché, tanto per essere chiari, in Africa ci sono milioni di persone che sognano una vita migliore ma questo non vuol dire – come viene evocato dalla retorica della destra reazionaria e xenofoba – che l’Africa sia sul punto di sbarcare in Europa.
Chissà: siccome alla fine è sempre questione di soldi, non si può escludere che queste letture possano facilitare il lavoro di chi – dall’altra sponda ma avendo interlocutori in questa sponda – voglia alzare il livello mediatico della minaccia per alzare il prezzo delle “non partenze”.
Ovviamente le cose sono complicate, l’immigrazione è anche uno strumento di ricatto che può essere usato per motivi strategici o tattici. Ma far credere che dalla sola Libia ne arrivino 685 mila è solo innalzare il livello della narrazione securista e alzare il prezzo delle Guardia Costiera libica, ossia il volto apparentemente legale degli scafisti che in realtà con gli scafisti è in combutta.
(da Globalist)
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Marzo 12th, 2023 Riccardo Fucile
HA RIMESSO ORDINE NELLE FINANZE VATICANE PRESE D’ASSALTO DAGLI SCIACALLI, HA VOLUTO PENE PIÙ SEVERE CONTRO I PRETI ORCHI E I VESCOVI E I CARDINALI CHE HANNO COPERTO GLI ABUSI… CONTRO DI LUI SOLO I VECCHI ARNESI DI CURIA CHE NON VOLEVANO PERDERE IL POTERE ACCUMULATO NEGLI ANNI
Papa Francesco in occasione del decennale del suo pontificato ha invitato domani tutti i cardinali presenti a Roma per una messa riservata soltanto ai suoi collaboratori, lontano dalle dirette televisive.
Francesco aveva già anticipato nel corso dell’udienza generale che il Vangelo non è un’ideologia e che gli uomini di Chiesa non possono scegliere di stare a destra o sinistra o al centro. Perché altrimenti «tu stai facendo del Vangelo un partito politico, un’ideologia, un club di gente. Ed è molto triste vedere la Chiesa come se fosse un parlamento».
Il riferimento era chiaramente alle divisioni che continuano a minare la credibilità dell’istituzione: la Chiesa è un’altra cosa, ha ripetuto il Papa più volte in questi dieci anni. E, a dirla tutta, non sono stati anni semplici. Le sfide non sono mancate, gli attacchi sono stati praticamente ininterrotti e c’è voluto quasi un decennio per portare a casa la nuova Costituzione Apostolica della Curia Romana che ha di fatto sancito la riforma, il cambiamento tanto auspicato dai cardinali nelle congregazioni generali che nel 2013 hanno preceduto il conclave.
A tal proposito c’è già chi pensa al prossimo Papa, chi si sta organizzando in cordate, sperando nelle dimissioni di Francesco che, in realtà, ha già fatto capire che se non sarà necessario (motivi di salute), non seguirà la strada di Ratzinger, perché «il papato è ad vitam», fino alla morte.
Le resistenze dei vecchi curiali che, dicendo di esser favorevoli al cambiamento, non volevano in realtà perdere il potere accumulato.
È da questo fronte che son partiti i principali siluri contro il Pontefice: critiche, veleni, chiacchiere di corte per screditarlo agli occhi della gente. «Sta distruggendo l’immagine del papato», è stata una delle accuse più dure.
Alcuni attacchi sono arrivati però anche sul piano dottrinale, da uomini di Chiesa più legati alla tradizione, che hanno scritto pubblicamente lettere e proclami, che hanno chiamato a raccolta intellettuali e teologi per colpire Francesco sul tema dei divorziati-risposati, sulla liturgia, sugli abusi.
La lotta alla pedofilia nella Chiesa, iniziata da Benedetto XVI, è stata un’altra delle grandi battaglie di questo decennio: il Papa ha voluto pene più severe contro i preti orchi, provvedimenti contro i vescovi o i cardinali che hanno provato a coprire e insabbiare le vergogne delle proprie diocesi e soprattutto l’istituzione di un organismo che lavora in Vaticano per assistere le vittime e prevenire nuovi casi di abusi su minori o su persone vulnerabili.
L’attenzione agli ultimi e agli scartati, la cura del creato, i migranti, il ruolo della donna nella Chiesa, gli appelli per la dignità nel lavoro sono solo alcuni dei grandi temi che Francesco ha messo al centro della sua agenda, facendosi prossimo alle sofferenze delle persone, non giudicando ma mettendosi in ascolto come padre di una Chiesa «ospedale da campo» come lui stesso l’ha definita all’inizio del pontificato.
E poi la riforma finanziaria: Francesco ha dovuto metter mano anche alla gestione delle casse della Santa Sede, depredate da affaristi senza scrupoli
(da Il Giornale)
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Marzo 12th, 2023 Riccardo Fucile
MANCANO I DECRETI MINISTERIALI PER LA CARTA RISPARMIO SPESA E IL REDDITO ALIMENTARE, MA ANCHE QUELLI PER LE CARTE CULTURA E MERITO… IN TOTALE SONO 504 LE LEGGI NON ANCORA ATTUATE
Il contatore scorre lentamente. Di fatto si è inceppato: segna 6 su 116. Un bel problema per il governo perché i numeri si riferiscono ai provvedimenti attuativi previsti dalla legge di bilancio. E se il contatore non accelera, le norme restano sulla carta. Non prendono la forma degli aiuti destinati alle famiglie e alle imprese.
Come la Carta risparmio spesa, la card per l’acquisto di beni di prima necessità destinata ai redditi bassi, fino a 15 mila euro […]: il decreto ministeriale doveva essere pronto entro il 2 marzo e invece è ancora in lavorazione.
Lo stesso vale per un’altra misura rivendicata da Giorgia Meloni a dicembre, quando la Finanziaria ha preso forma: il Reddito alimentare. I soldi (1,5 milioni quest’anno) sono rimasti nelle casse pubbliche perché ancora non c’è il decreto del dicastero del Lavoro che serve a stabilire i tempi e le modalità di erogazione dei pacchi alimentari, realizzati con l’invenduto della distribuzione, per chi è in povertà assoluta.
Ma intanto il ritardo c’è ed è stato registrato nelle tabelle del monitoraggio condotto dal Servizio per il controllo parlamentare della Camera: all’appello mancano 110 provvedimenti attuativi sui 116 suddivisi tra 86 decreti ministeriali, quindici decreti della presidente del Consiglio e altrettanti provvedimenti direttoriali.
Dei 116 atti previsti, sono sessanta quelli che scadono nel 2023, mentre per gli altri 56 non è stato fissato un termine per l’adozione. Al 20 febbraio ne risultano scaduti già una trentina; in generale il passo è lento, appena sei provvedimenti in quasi due mesi. E nelle ultime settimane il quadro non è cambiato.
Tra l’altro i decreti legati alla manovra sono solo una parte del problema perché i provvedimenti attuativi che ancora non sono stati adottati dall’esecutivo ammontano in tutto a 504, con un fardello pesante ereditato dal recente passato: ben 235 decreti sono stati programmati dal governo Draghi, 68 dal Conte II e, andando ancora indietro, diciannove sono relativi a disposizioni approvate dall’esecutivo gialloverde. Altri 43 si riferiscono addirittura ai governi Letta, Renzi e Gentiloni.
(da La Repubblica)
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