Marzo 3rd, 2023 Riccardo Fucile
VUOI VEDERE CHE ALLA FINE L’ECATOMBE DI CUTRO SI DIMOSTRERÀ ESSERE UNA TRAGEDIA “BUROCRATICA”: UN MIX TRA RIMPALLO DI RESPONSABILITÀ, LEGGEREZZA NEL VALUTARE LO SCENARIO E SUPERFICIALITÀ?
«Al momento in mare non abbiamo nulla». Alle 3.48 della notte tra sabato e domenica scorsi, la Guardia Costiera di Reggio Calabria rispondeva alla sala operativa della Guardia di Finanza che chiedeva testualmente: «Voi non avete nulla nel caso in cui dovessero esserci situazioni critiche?». Le motovedette 300 che avrebbero potuto facilmente raggiungere il barcone sono rimaste agli attracchi «a Taranto, Reggio, Vibo e Crotone».
Il dato rileva eccome sulla ricostruzione della tragedia di Steccato di Cutro se si considera che la segnalazione di Frontex inviata alle 22.25 a 26 indirizzi tra cui l’Mccr, il Centro nazionale di soccorso marittimo della Guardia costiera, era lineare. Segnalava una «imbarcazione sospetta di trasportare migranti a circa 40 miglia a Sud/Est di Isola Capo Rizzuto (KR)».
La qualifica come «senza segnalatori». Parla di navigazione regolare: «Non si vedono persone in mare». Ma dice anche che «a bordo c’è un telefono cellulare turco» (compatibile con la nota “rotta turca”) il che avrebbe dovuto dirla lunga sulla presenza di scafisti. Aggiunge che c’è «una sola persona fuori coperta» ma che la fotografia termica rileva che il ventre dell’imbarcazione è caldo: «Possibili altri passeggeri sotto coperta» si legge agli atti. E poi il meteo era in peggioramento.
Per il portavoce della guardia Costiera Cosimo Nicastro «è stata una tragedia non prevedibile»
Eppure un documento che regola i soccorsi in mare redatto nel 2020 dalla Capitaneria di porto-Guardia Costiera, c’è. Esiste.
Recita che le missioni di salvataggio devono partire a ogni minima segnalazione: «Quando si presume che sussista una reale situazione di pericolo per le persone, si deve adottare un criterio non restrittivo, nel senso che una notizia con un minimo di attendibilità deve essere considerata veritiera a tutti gli effetti. Alla ricezione della segnalazione l’U.C.G. deve intervenire immediatamente».
È ragionevole ipotizzare che nulla di tutto questo è stato considerato quando l’Imrcc di Roma, centro nazionale di coordinamento del soccorso marittimo, informato già dalle 22.25 di un’imbarcazione chiaramente ad altissimo rischio di trasporto migranti e con mare forza 4, ha deciso di non aprire una Sar, cioè una missione di soccorso.
Col passare delle ore i fatti si fanno sempre più chiari e un report dei brogliacci delle comunicazioni intervenute tra Finanza e Guardia Costiera sono «già a disposizione dell’autorità giudiziaria competente» si apprende da fonti della Finanza.
Specificano che quando le due motovedette – la V5006 da Crotone e la “Barbarese” da Taranto – partite alle 2.20 per attendere che l’imbarcazione entrasse nelle 24 (12+12) miglia nautiche per azionare un intervento di polizia marittima, decidono di rientrare alle 3.30. «Il mare è Forza 7 non forza 4» raccontano fonti interne ai militari. Informano la loro sala operativa. Le onde le hanno spinte verso la costa, rimettono i motori al massimo e puntano le onde per tornare in porto
La risposta della Guardia Costiera è che non hanno alcun mezzo in mare in quel momento. Pur di fronte a quella che per la Finanza è una richiesta «di intervento di loro unità navali per raggiungere il target» perviene da Reggio «riscontro negativo».
E suonano come un movente politico le parole di fonti della Guardia Costiera sentite da La Stampa, ma con garanzia di anonimato: «Un tempo noi eravamo gli eroi. Poi i tempi sono cambiati. È cambiato il nostro assetto. E ora ci muoviamo solo quando ci sono tutti i crismi di una operazione Sar».
Al momento attuale è pagante un’operazione di polizia che faccia arrestare qualche scafista e non un’azione umanitaria. La segnalazione giunta da Frontex non parlava di imbarcazione in «distress» (pericolo, ndr): nessuno era sul ponte e la barca sembrava tenere bene il mare. Ciò ha fermato la Guardia Costiera e fatto scattare la Guardia di Finanza rientrata al porto dopo un’ora di navigazione molto problematica. È un fatto acclarato che neanche a quel punto è scattata una operazione di salvataggio della Guardia Costiera.
Forse sarebbe stato troppo tardi. Di certo c’è che al distaccamento di Crotone dell’autorità marittima non è mai arrivato alcun segnale.
Tutto è passato sulla loro testa. Del naufragio hanno saputo solo quando i cadaveri sono arrivati in spiaggia
(da La Stampa)
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Marzo 3rd, 2023 Riccardo Fucile
I MILITARI UCRAINI NE FANNO SALTARE IN ARIA 150 AL MESE MA IN RUSSIA C’È SOLO UNA VECCHIA FABBRICA DI TANK CHE RIESCE A PRODURNE SOLO 20 OGNI TRENTA GIORNI
Durante la seconda guerra mondiale, le forze armate tedesche hanno distrutto i carri armati sovietici a un ritmo fenomenale. Ma anche se l’Armata Rossa perse 80.000 carri armati, la potenza industriale dell’Unione Sovietica le permise di terminare la guerra con più carri armati di quanti ne avesse all’inizio del conflitto.
Oggi i carri armati sono molto più sofisticati e costosi e vengono quindi impiegati in numero molto inferiore. Tuttavia, nella guerra con l’Ucraina la Russia, come l’Unione Sovietica, ha perso un numero enorme di carri armati. L’Ucraina sostiene di averne distrutti più di 3.250.
Oryx, un blog di intelligence open-source, ha documentato 1.700 perdite. L’Istituto internazionale per gli studi strategici, un think tank, sostiene che circa la metà della dotazione russa di t-72 di prima della guerra, che contava circa 2.000 esemplari e costituiva il grosso della sua forza di carri armati, è stata distrutta.
I carri armati della Russia non sono riusciti a darle un vantaggio in Ucraina e le sue forze faranno fatica a portare avanti un’altra grande offensiva senza un sufficiente supporto corazzato. Nelle ultime settimane l’Ucraina si è assicurata carri armati dai suoi alleati occidentali, che probabilmente utilizzerà in una controffensiva di primavera. La Russia dovrà rafforzare la propria flotta se spera di mantenere il territorio conquistato. Riuscirà a sostituire i carri armati persi questa volta?
Negli anni ’40 le fabbriche sovietiche potevano produrre più di 1.000 carri armati al mese. Agli impianti che producevano trattori e motori ferroviari fu detto di costruire carri armati. Oggi è più difficile aumentare la produzione. L’elettronica dei carri armati moderni – per la visione notturna, il puntamento delle armi e una serie di altre funzioni – è molto sofisticata. Ciò rende la produzione più lenta e significa che molte fabbriche progettate per altri tipi di produzione non possono facilmente produrre carri armati.
In Russia è rimasta solo una fabbrica di carri armati: UralVagonZavod, un enorme complesso costruito negli anni Trenta. Ma la cattiva gestione finanziaria e gli enormi debiti hanno rallentato la modernizzazione. Gli operai scherzano dicendo che assemblano i carri armati a mano. Novaya Gazeta, un quotidiano russo liberale, riferisce che l’impianto ne produce appena 20 al mese. Un funzionario occidentale ha dichiarato a The Economist che, in totale, la domanda di carri armati da parte delle forze armate russe supera di dieci volte la produzione.
Nel tentativo di soddisfare la domanda, la Russia ha aumentato il ritmo di ripristino dei vecchi carri armati, di cui ha migliaia in deposito. In Ucraina i moderni carri armati russi, come i t-90, combattono ora accanto a un gran numero di t-72b3, costruiti decenni fa ma aggiornati con cannoni, corazze reattive (che riducono la possibilità che un colpo penetri nel veicolo) e comunicazioni digitali.
Anche con questi miglioramenti, i carri armati più vecchi sono inferiori ai nuovi modelli e hanno meno probabilità di sopravvivere a un colpo delle forze ucraine, ma sono ancora utili. Secondo i media russi, UralVagonZavod ricostruisce circa otto carri armati al mese e altri tre impianti di riparazione di veicoli blindati ne riparano circa 17 ciascuno. Altri due impianti di dimensioni simili dovrebbero entrare in funzione nei prossimi mesi.
Ciò significa che, sebbene la Russia sia in grado di costruire solo 20 nuovi carri armati al mese, potrebbe presto essere in grado di recuperarne circa 90 al mese dai suoi depositi. Ma questo non basterebbe a compensare le 150 unità che si stima perdano ogni mese, secondo l’analisi di Oryx. Inoltre, la produzione potrebbe essere ostacolata dalla carenza di componenti.
I semiconduttori, i chip per computer che controllano i moderni carri armati, sono particolarmente scarsi. La Commissione europea sostiene che la Russia stia utilizzando nell’hardware militare chip provenienti da lavastoviglie e frigoriferi importati. Alcuni carri armati recentemente ristrutturati in Ucraina contengono un guazzabuglio di hardware di modelli diversi e mancano di attrezzature ad alta tecnologia, come i sensori di velocità del vento, che consentono di sparare con precisione.
La Russia non è sola in questi problemi. Anche l’Ucraina e i suoi alleati non hanno la capacità di produrre carri armati in tempi rapidi. L’unica fabbrica di carri armati dell’Ucraina, vicino a Kharkiv, è stata distrutta all’inizio della guerra. L’America, che ha promesso di inviare 31 carri armati M1A2 Abrams all’Ucraina, ha una sola fabbrica, con una capacità di produrre 15 carri armati al mese.
La produzione in altre parti dell’Occidente è altrettanto lenta, il che ha portato a una corsa alla ricerca di vecchi carri armati da donare. Ma in generale, le forze che attaccano usano più carri armati dei difensori. Con l’avanzare del conflitto, è probabile che la Russia veda la sua flotta ridursi costantemente sia in termini di quantità che di qualità. Questa volta, la produzione potrebbe non salvarla.
(da The Economist)
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Marzo 3rd, 2023 Riccardo Fucile
LA ZONA ROSSA NELLA VAL SERIANA, CHE AVREBBE SALVATO PIÙ DI QUATTROMILA VITE, NON ARRIVÒ MAI PERCHÉ L’ALLORA PREMIER GIUSEPPE CONTE FINÌ SOTTO LE PRESSIONI DEL MONDO IMPRENDITORIALE
La decisione «necessaria», che nella Bergamasca avrebbe salvato più di quattromila vite, non arrivò mai. Non la presero i sindaci di Alzano e Nembro, i comuni più colpiti della val Seriana. Non la prese il governatore di Regione Lombardia, Attilio Fontana. Non la prese l’allora premier Giuseppe Conte
Sotto le pressioni innanzitutto del mondo imprenditoriale – non si può scordare la campagna #Bergamoisrunning di Confindustria – nessuno si assunse la responsabilità di una scelta tanto impopolare quanto indispensabile. Anche perché, per usare le parole di Conte, «la zona rossa ha un costo sociale, politico ed economico molto elevato».
Ma i sindaci di Alzano e Nembro, che pure avrebbero potuto decidere, in quei giorni difficili non avevano a disposizione dati e proiezioni che annunciavano già «lo scenario più catastrofico».
Per questo non compaiono tra i 19 indagati a vario titolo per epidemia e omicidio colposi, rifiuto di atti d’ufficio e falso nella maxi inchiesta appena conclusa dalla procura di Bergamo. Conte e Fontana, invece, per i magistrati avevano tutti gli elementi per comprendere le dimensioni della bomba che stava esplodendo a Bergamo. E con loro anche i membri del Comitato tecnico scientifico, a partire dal professore Silvio Brusaferro.
Di certo – ha ricostruito la Gdf – lo sapevano a partire dal 26 febbraio del 2020 quando, per la prima volta durante una delle riunioni del Cts, si prese atto del fatto che i «casi positivi di coronavirus in Italia provengono da aree della Lombardia diverse dalla zona rossa» del Lodigiano, istituita a 48 ore dalla scoperta del «paziente 1».
In quegli stessi giorni, il 27 e il 28 febbraio, pur consapevole che nella val Seriana l’indicatore «R0» avesse ormai raggiunto valore pari a 2 e che gli ospedali fossero in ginocchio, Fontana inviò due mail a Conte per chiedere «il sostanziale mantenimento delle misure di contenimento già vigenti in Regione Lombardia». Cagionando così, con Conte e gli esperti del Cts, «il contagio» e «il decesso» di 4.148 persone.
Nel frattempo, a Roma, l’istituzione della zona rossa non fu presa in considerazione neanche il 29 febbraio (con 615 casi) né il primo marzo (con 984 casi). Solo il 2 marzo se ne iniziò a parlare nel corso di una riunione riservata con Conte, di cui non è mai stato redatto il verbale. Interrogato a palazzo Chigi dai pm, l’ex premier dirà di averlo saputo il 5, tre giorni più tardi.
In ogni caso, non darà mai il via libera all’istituzione della zona rossa nella Bergamasca, nonostante i 300 uomini dell’esercito già inviati in val Seriana dal ministero. Né il 3 marzo, quando il parere positivo arrivò anche da Regione Lombardia. E neanche il 5 marzo, quando il ministro della Salute, Roberto Speranza, in partenza per Bruxelles, firmò una delibera mai controfirmata dal premier.
(da La Stampa)
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Marzo 3rd, 2023 Riccardo Fucile
“OCCHIO ALL’AVVENTO DELLA SCHLEIN”
Il tema della comunicazione torna al centro della politica, della sua rappresentazione e delle sue tragedie cognitive.
Dal primo faccia a faccia Nixon-Kennedy, anticipato dalle campagne di Jacques Seguela e da quella permanente di Ronald Reagan, passando per il “Yes We Can” di Barack Obama fino alla parte più torbida legata a Donald Trump e Cambridge Analytics, di strada ne abbiamo fatta tanta. Tutto questo però pare non essere diventato patrimonio della comunità politica che non sembra riuscire a distinguere tra giornalisti e comunicatori, la stessa differenza che c’è tra un geometra e un architetto. I primi dovrebbero raccontare gli eventi attenendosi ad un codice deontologico, i comunicatori per loro natura, dovrebbero invece far accadere le cose, impregnati come dovrebbero essere di sociologia, psicologia, semiologia, ecc.
Tutto questo bagaglio sembra venuto meno, dimenticato nell’ansia della prestazione, dell’apparire e della fretta del dire. Una forma degradante che passando attraverso la “mediocrazia” ci consegna alla schiavitù dei like e dei palinsesti paludati che trasformano i militanti in fans e gli elettori in follower.
Siamo insomma incapaci di distingue tra comunicazione, formazione, propaganda, pubblicità e alla fine tutto diventa una corsa a chi la spara più grossa, solo così si spiegano le gaffe dei vari esponenti del governo Meloni e solo così possiamo spiegare come il ministro dell’Agricoltura all’indomani di una strage di aventi diritto d’asilo, dichiara che apriremo le porte a 500mila migranti, per essere poi garbatamente corretto nella cifra di 87mila e la superficialità del ministro degli Interni che sembra non rispondere a un senso di umanità ma a chi lo ha messo lì, non gli elettori ma Matteo Salvini.
Se pensate che queste dichiarazioni, solo per citare le ultime, possano essere cause di logoramento di Giorgia Meloni, vi sbagliate perché appartengono a un rumore di fondo, al cattivo gusto a cui gli italiani sono abituati da un po’, non ci fanno più caso, lo hanno messo nel conto, ecco perché nel sondaggio ProgerIndex per PiazzaPulita possiamo osservare una dicotomia tra il giudizio sul governo che perde 3 punti, mentre quello del presidente del Consiglio è stabile.
Un segnale però arriva con precisione, dopo la vittoria alle Regionali, Fratelli D’Italia è calato nei sondaggi di quasi un punto e benché si trovi ancora abbondamene sopra il risultato delle politiche, il trend sembra essersi invertito e la luna di miele volgere al termine.
Ciò che ha prodotto questo risultato è più di ogni altro fatto le posizioni non chiare sul SuperBonus perché al contrario del fastidioso rumore che fa la comunità della destra al governo, il bonus attraversa la vita delle persone e quindi è capace di invertire un trend.
Quindi le prossime settimane vanno osservate con attenzione per capire il destino della Meloni e del suo governo anche in virtù dell’arrivo sulla scena politica di Elly Schlein che ha già prodotto interessanti movimenti nei sondaggi.
Ritorna in campo un tifo tipicamente italiano, Guelfi e Ghibellini, interventisti e pacifisti, Coppi e Bartali, sono i derby italiani capaci di appassionare il Paese, fatto questo estremamente positivo.
Due donne che stanno lavorando su valori e processi identitari e sono due figure che sembrano staccarsi dalle comunità mediocri a cui appartengono, speriamo.
Luigi Crespi
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Marzo 3rd, 2023 Riccardo Fucile
GRADIMENTO MINISTRI: CROLLANO PIANTEDOSI E VALDITARA
Oltre due terzi degli italiani si dichiarano favorevoli all’introduzione di un salario minimo legale. È quanto risulta da un sondaggio sui temi del dibattito pubblico realizzato dall’istituto Noto e pubblicato da Repubblica: su cento intervistati, ben 71 approvano l’idea di istituire una soglia sotto la quale la retribuzione oraria lorda non possa scendere.
Solo il 14% si dice contrario, mentre il 15% non ha un’opinione in merito. Paradossalmente, la quota più alta di sostenitori del salario minimo – il 79% – si registra tra gli elettori di Azione e Italia viva, partiti i cui leader si sono sempre dichiarati scettici sull’imposizione della soglia per legge (ma favorevoli ad affidarla alla contrattazione collettiva).
Ma il consenso è trasversale: è favorevole il 77% degli elettori della Lega, il 74% di quelli del Pd, il 72% di quelli del Movimento 5 stelle, il 63% di quelli di Fratelli d’Italia e il 61% di Forza Italia.
Il sondaggio di Noto mostra anche un calo nel gradimento di alcuni ministri finiti al centro delle polemiche negli ultimi giorni.
Il capo del Viminale Matteo Piantedosi, attaccato per le sue discutibili parole sul naufragio di Cutro, perde quattro punti e scende al 40% di giudizi positivi, pur restando il quarto nella classifica dell’apprezzamento. Il 56% degli intervistati, infatti, indica la “carenza nei soccorsi” come uno dei motivi che hanno causato il disastro, mentre solo il 30% parla di “tragedia inevitabile”.
Meno 4% anche per il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara, assai criticato per lo scontro ideologicocon la preside del liceo Leonardo da Vinci di Firenze: per lui l’apprezzamento è al 25%, penultimo in classifica. Il 44% degli italiani, secondo il sondaggio, si sentono “più vicini alla preside che ha scritto la lettera sul rischio fascismo”, il 27% a Valditara, il 28% non indica una posizione.
(da agenzie)
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Marzo 3rd, 2023 Riccardo Fucile
IL SOCIOLOGO VICINO A GRILLO E’ DIRETTORE DELLA SCUOLA DI FORMAZIONE DEI CINQUESTELLE
Dopo il caso Belve, un nuovo intervento in tv scuote il mondo dei Cinque Stelle. Stavolta il protagonista è Domenico De Masi, sociologo amico di Beppe Grillo e da anni considerato vicino al Movimento. «Alle primarie del Partito Democratico sono andato a votare Schlein», ha ammesso il sociologo ad Agorà, su Rai Tre.
L’intervento di De Masi ha subito dato il la a una ridda di voci e commenti nel Movimento.
C’è chi si domanda: «Ma non è il direttore della scuola di formazione del Movimento?». C’è chi osserva: «Così ha preso definitivamente le distanze da noi» e parla di «primi effetti della novità Schlein».
«Un’altra uscita intempestiva», commenta uno stellato. Il riferimento è a quanto avvenuto lo scorso giugno, quando alcune dichiarazioni di De Masi in relazione a un presunto scambio di messaggio tra Beppe Grillo e l’allora premier Mario Draghi su Giuseppe Conte provocò forti fibrillazioni nell’esecutivo.
(da agenzie)
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Marzo 3rd, 2023 Riccardo Fucile
LA PREMIER FA SALTARE L’ENNESIMO INCONTRO CON LA STAMPA PER EVITARE DI TRASCINARE NELLE MISSIONI ALL’ESTERO LE QUESTIONI ITALIANE
Fra gli stucchi e gli ori dell’Emirates Palace, albergo a sette stelle che ospita Giorgia Meloni e il suo staff, la premier non c’è. Non si fa vedere, almeno. È una figura impalpabile, nel lungo pomeriggio di Abu Dhabi. I giornalisti che la aspettano per un punto stampa annunciato (con timidezza, bisogna dire) ma mai realizzato restano delusi. Si devono accontentare di un cordiale saluto della sua assistente, Patrizia Scurti.
Esattamente come il giorno prima, a Nuova Delhi: Meloni, aveva fatto filtrare lo staff, forse parla dopo l’incontro con il primo ministro indiano Modi. Forse sì, forse no. Responso finale: no. E ora siamo al percorso netto: Roma-India-Emirati Arabi, 8.226 chilometri in silenzio.
Un record, per la premier, ben lieta di far conoscere solo con note ufficiali e dichiarazioni senza contraddittorio la sua voglia d’Oriente, una strategia geopolitica che prevede la forte ripresa dei rapporti con Paesi ricchi o in grande espansione economica.
Ma non una parola, né la possibilità di una domanda sui grandi temi che stanno agitando la scena interna: in primis le polemiche sul ritardato soccorso dei naufraghi, la responsabilità della Guardia costiera sulla strage di migranti al largo della Calabria, le dichiarazioni incaute del suo ministro Piantedosi.
È dovuto andare Mattarella a Cutro, per esprimere il cordoglio dello Stato: lei è volata via, per una missione muta.
Vana, nel frattempo, è stata anche la speranza di apprendere l’opinione della premier sul richiamo dell’Onu sul caso Cospito. Eppure l’agenda di Meloni di oggi, dopo l’incontro a ora di pranzo con l’ambasciatore italiano Lorenzo Fanara e con il ministro dell’Industria emiratino Sultan Al Jaber, non prevedeva alcun impegno ufficiale.
Solo tempo libero, per la presidente del Consiglio, da dedicare alla figlia Ginevra nella città delle dune e dei grattacieli. Domani è un altro giorno, chissà. E il rebus è: la premier si concederà ai cronisti prima del ritorno in Italia? Difficile capirlo, visto che nessuno ha mai diramato un programma ufficiale della visita.
(da La Repubblica)
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Marzo 3rd, 2023 Riccardo Fucile
INCONTRATO PIANTEDOSI, SENTITE LE SUE RAGIONI, PRENDERÀ UNA DECISIONE, POI DOVRÀ POI CHIARIRE IL PERCHE’ DELLA SUA MANCATA VISITA SUL LUOGO DELLA STRAGE
Che farà Giorgia? Domani notte il premier tornerà a casa dalla sua missione in India e negli Emirati Arabi e si troverà sulla scrivania di palazzo Chigi la patata bollentissima della questione Piantedosi: salvarlo o abbandonarlo al suo destino di prefetto?
Finora, in assenza della Meloni, è intervenuto a favore del ministro dell’Interno solo il vice premier e ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini, il cui ruolo nel naufragio di Cutro è al centro di dure polemiche dal momento che la Guardia Costiera dipende dal suo dicastero.
La Meloni si è limitata ad esprimere solidarietà alle 68 vittime del naufragio ma si è ben guardata di fare qualsiasi dichiarazione sull’operato del ministero dell’Interno con i giornalisti al seguito del suo viaggio in India ed Emirati. Solo una volta tornata a casa, incontrato Piantedosi, viste le carte ed ascoltato il suo staff, Giorgia prenderà una decisione.
Da parte sua Piantedosi si è preso subito tutte le responsabilità del caso e ora aspetta che Giorgia lo “copra” politicamente e, come ha fatto con la questione Donzelli-Delmastro, si pronunci in difesa del suo ministro dell’Interno: non ci sono le condizioni per le dimissioni. Punto. Diversamente, Piantedosi dovrà annunciare l’addio al governo.
La Meloni che atterrerà sabato notte a Roma dovrà poi sciogliere un altro madornale incidente: la sua mancata visita sul luogo della strage. La strage di Cutro è avvenuta nella notte tra sabato e domenica. Il premier è decollato per l’India mercoledì’ 1 marzo alle 21. Di tempo e di mezzi ne aveva per volare a Crotone.
Cosa è successo? E’ evidente che avrà ricevuto notizie, diciamo, ‘’imprecise’’ dal ministero dell’Interno sulla gravità del naufragio sulla costa calabrese. E anche su questa questione Piantedosi sarà chiamato a rispondere.
(da Dagoreport)
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Marzo 3rd, 2023 Riccardo Fucile
IL PRESIDENTE DELL’EMILIA-ROMAGNA HA RIBADITO L’INTENZIONE DI “DARE UNA MANO”
Si è svolto oggi, nella sede bolognese del Partito democratico, un incontro durato circa un’ora e mezza tra Elly Schlein e Stefano Bonaccini.
A margine del quale la neo-letta segretaria del partito ha assicurato che lei e il candidato sconfitto alle primarie «si sono trovati sulla necessità di garantire la massima unitarietà in questa fase nuova del Pd».
I due avrebbero inoltre «avviato un confronto che proseguirà nei prossimi giorni per lavorare assieme per il rilancio del Pd e per le sfide che ci aspettano». Per quanto riguarda i ruoli, aggiunge Schlein, «ne parleremo nei prossimi giorni». Non sembra chiudere all’ipotesi di Bonaccini presidente del Pd: «Forme e modi li vedremo assieme, intanto per noi era importante trovarci su questo spirito unitario per avviare questa nuova fase del partito», spiega.
Dal canto suo, il presidente della Regione Emilia-Romagna ha dichiarato: «Ho voluto ribadire a Elly Schlein quello che ha sempre detto durante il congresso, e cioè che se fosse toccato a lei avrei trovato il modo di dare una mano. Le forme e modi le vedremo come ha detto lei nei prossimi giorni, valuteremo insieme la cosa più utile che si possa disporre, anche dal punto di vista operativo».
«A me – conclude – quello che interessava oggi, e per cui sono molto soddisfatto, è che vogliamo provare davvero a dare unità a questo Pd, che ha sofferto nel recente e lontano passato e vorremmo evitare nuove fratture. Penso che le magliette che abbiamo indossato durante il congresso vadano tolte e adesso abbiamo un’unica maglietta: quella del Partito Democratico».
(da agenzie)
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