Marzo 20th, 2023 Riccardo Fucile
IL TREND VEDE IL PD ORMAI OLTRE IL 20% IN TUTTI I SONDAGGI
Il sondaggio realizzato dall’Istituto Ixè riserva diverse sorprese, con i partiti di Giorgia Meloni e Giuseppe Conte che sarebbero in difficoltà rispetto a quello di Elly Schlein, che invece è dato in grande ascesa. Nell’arco di un mese sono diverse le variazioni significative, a partire da quella che riguarda Fratelli d’Italia: pur rimanendo di gran lunga la prima forza politica, è scesa al 28,6% (-2,5).
Il Pd è invece risalito dopo mesi al 20,1%, con un incremento di 3,2 punti: una chiara conferma che negli ultimi 30 giorni l’effetto-Schlein si è sentito eccome. In difficoltà, invece, il Movimento 5 Stelle, con Conte che è passato in secondo piano dopo l’entrata in scena della nuova segretaria del Pd.
Quest’ultima ha immediatamente riposizionato il partito più a sinistra che al centro, andando a recuperare consensi proprio nello spazio politico dei grillini. Il M5s è quindi sceso al 16,2% (-1) ma è comunque l’unica forza in doppia cifra oltre a Fdi e Pd.
Lievi i movimenti degli altri partiti che oscillano tra + e – lo zerovirgola.
Cala la fiducia, rispetto all’ultima rilevazione, nel governo e nella sua leader Giorgia Meloni, mentre la figura più apprezzata rimane l’ex presidente Mario Draghi. È quanto emerge dall’ultima rilevazione di Ixé. Diminuisce la fiducia in generale nelle personalità politiche tranne nei casi della nuova segretaria del Pd Elly Schlein che aumenta di 22 punti (arrivando al 34%)
(da agenzie)
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Marzo 20th, 2023 Riccardo Fucile
UNO STATO IN DEFAULT, UNA RIVOLUZIONE TRADITA
La “nuova Libia” si chiama Tunisia. Uno Stato in default. Una rivoluzione tradita. Un Paese giovane che non offre futuro ai suoi giovani. Globalist lo ha documentato in più articoli. Denunciando la miopia di una Europa, e dell’Italia, la cui politica ha un punto fermo, una vera, sciagurata ossessione: l’esternalizzazione delle frontiere. E la ricerca sulla sponda sud del Mediterraneo, di “gendarmi” da armare e finanziare perché facciano il lavoro sporco – i respingimenti – al posto nostro.
La “nuova Libia”
Di grande interesse sono le analisi di due giornalisti che del Mediterraneo sanno molto.
Annota Dario Prestigiacomo su EuropaToday: “Anche grazie ai finanziamenti di Ue e Italia, le partenze dalle sue coste sono state per lo più bloccate. Ma adesso, il “tappo” della Tunisia potrebbe saltare, inasprendo la pressione migratoria nel Mediterraneo in direzione dell’Europa. Non è certo solo questo aspetto a preoccupare Bruxelles, ma di sicuro è tra i fattori principali che hanno spinto finalmente Bruxelles ad affrontare il dossier tunisino e a inserirlo nell’agenda della riunione dei ministri degli Esteri in corso oggi nella capitale europea. Il Paese nordafricano si trova da tempo in una grave situazione di crisi economica e instabilità politica, e per molti analisti potrebbe essere una “nuova Libia”, non solo per quel che riguarda le rotte migratorie.
Il sogno tradito
Dopo la rivoluzione dei Gelsomini, che nel 2011 portò alla caduta del regime dei Ben Ali, la Tunisia era considerata a Bruxelles come il Paese della cosiddetta primavera araba che più sembrava avviato verso un percorso di crescita democratica. Dopo dodici anni, il rischio che si avvii verso un nuovo regime autoritario è sempre più concreto. L’uomo forte di oggi, il presidente Kais Saied, a livello elettorale è debole: al recente referendum per confermare la nuova Costituzione – che toglie poteri ai partiti e restringe gli spazi di dissenso – si sono presentati alle urne solo tre tunisini su dieci, stando alle cifre fornite dal governo. Ma l’affluenza effettiva sarebbe meno della metà di quella dichiarata, secondo le opposizioni, che hanno chiesto a Saied di dimettersi.
La crisi economica
Alle tensioni politiche si sono presto aggiunte quelle sociali. In Tunisia scarseggiano da mesi beni di prima necessità come il petrolio, lo zucchero, il latte e il burro. I carichi di grano e altri alimenti sono stati spesso rispediti indietro per mancanza di risorse. Il tasso di inflazione viaggia ormai sulla doppia cifra e la disoccupazione giovanile è in sensibile crescita. Per risolvere queste difficoltà economiche, il governo di Tunisi sta negoziando un prestito col Fondo monetario internazionale. Ma perché l’Fmi eroghi i suoi fondi, occorre che Saied si impegni in una serie di riforme, cosa su cui né il presidente, né l’opposizione hanno finora dato segnali incoraggianti. Al contrario, in seguito a una recente stretta sulle autorità locali da parte di Saied, anche la linea di credito attivata dalla Banca mondiale è stata interrotta.
Il piano lacrime e sangue
L’Italia spinge perché Tunisi accetti le condizioni dell’Fmi e ottenga il prestito. Sulla stessa linea dovrebbe essere l’Unione europea. Di contro, l’opposizione lamenta che il possibile compromesso tra Saied e l’Fmi potrebbe trasformarsi in un’ulteriore colpo per i diritti sociale e dei lavoratori. Il sindacato Ugtt, che inizialmente aveva assecondato l’ascesa di Saied, hanno accusato i funzionari governativi di aver rinnegato un accordo di aumento salariale per i lavoratori del settore pubblico proprio per arrivare a un’intesa con l’Fmi. Tra le altre politiche di austerity sul tavolo dei negoziati per il prestito, ha riportato al-Jazeera, ci sono anche la completa eliminazione dei sussidi per cibo e carburante, il taglio della spesa per la sanità pubblica, l’istruzione e la protezione sociale e la privatizzazione delle principali aziende pubbliche. Un piano lacrime e sangue che ha spinto la popolazione a scendere in piazza, con tanto di repressione autoritaria da parte di Saied.
I migranti
Il peggio, però, è arrivato sul fronte dei migranti. Tutto il mondo è Paese, e così capita che anche in un Paese africano i migranti (africani) diventino un buon capro espiatorio. Il 21 febbraio il presidente Saied si è infatti lanciato in un discorso xenofobo in cui ha parlato di “orde di migranti irregolari provenienti dall’Africa subsahariana” arrivati in Tunisia, portando “la violenza, i crimini e i comportamenti inaccettabili che ne sono derivati”. Il capo di Stato l’ha definita una situazione “innaturale”, parte di un disegno criminale per “cambiare la composizione demografica” e fare della Tunisia “un altro Stato africano che non appartiene più al mondo arabo e islamico”, dato che tali migranti sono spesso di religione cristiana. Parole che hanno innescato un’ondata di violenze contro i migranti subsahariani e spinto diversi Paesi dell’Africa occidentale a organizzare voli di rimpatrio per i cittadini timorosi. Molti dei circa 21 mila migranti dell’Africa subsahariana che vivono in Tunisia si sono ritrovati senza lavoro e senza casa.
I fondi Ue
La Tunisia, in tutto questo, ha beneficiato per anni (e continua a beneficiare) di lauti finanziamenti per la gestione dei flussi: riceve infatti decine di milioni di euro dall’Unione europea e dall’Italia per programmi di cooperazione sulla migrazione. L’ultimo memorandum d’intesa tra Roma e Tunisi prevede uno stanziamento di 200 milioni di euro per il periodo 2021-2023, di cui 11 milioni per la cooperazione sulla migrazione.
Di fatto questi aiuti si traducono in finanziamenti per le operazioni della guardia costiera tunisina. L’accordo di cooperazione ha due facce: da un lato, ha ridotto al minimo le partenze dalle coste tunisine sui barconi, anche se non sono mancate le tragedie (di recente, alcune ong hanno accusato la guardia costiera tunisina di speronare le imbarcazioni dei migranti). Dall’altro, l’attivismo via mare non ha fatto il pari con i controlli lungo i confini terrestri: e così, i flussi si sono spostati dalla Tunisia verso la Liba, e da qui verso l’Europa. Non a caso, nel 2022, la quota di richiedenti asilo che si dichiaravano tunisini all’arrivo in Italia è stata la più alta della storia recente. Anche per via delle pressioni italiane, l’Ue aveva promesso di definire un nuovo piano di finanziamenti per la Tunisia, e il Paese è stato anche inserito in progetti importanti sul fronte energetico e digitale. Ma questi piani potrebbero venire congelati se Saied dovesse continuare a seguire una strada autoritaria”.
Così muore una speranza
Lo racconta Paolo Lambruschi inviato di Avvenire a Tunisi: “Persino migranti subsahariani che una volta erano accolti stanno abbandonando la Tunisia mentre l’Italia prova a salvarla. Perché il tracollo del Paese maghrebino vicinissimo alle nostre coste va assolutamente scongiurato. Anzitutto perché in questo momento ha superato la Libia per numero di partenze dei migranti. Secondo, perché per Roma il Paese nordafricano è diventato economicamente e politicamente strategico.
Tunisi – dopo le manifestazioni delle scorse settimane organizzate dai sindacati e dai partiti di opposizione contro gli arresti ordinati dal presidente autocrate Saïed di giornalisti, sindacalisti e oppositori – resta una città quasi europea. Relativamente tranquilla, con i turisti nella Medina, il solito traffico caotico e alle prese con i preparativi per il Ramadan che inizia il 22 marzo.
La tensione cova invece sotto la cenere nei quartieri periferici della capitale e dei principali centri urbani, dove non si arriva a fine mese né si trovano generi alimentari di base nei supermercati come caffè, farina e latte. I migranti subsahariani vivono nascosti dopo pogrom e aggressioni degli ultimi giorni di febbraio. E fuggono. Come riporta l’agenzia Nova, che ha avuto accesso ai dati del Viminale, sono almeno 12mila le persone partite dalle coste tunisine dal primo gennaio al 13 marzo, più di 170 sbarchi al giorno, con un aumento del 788% rispetto ai 1.360 arrivi dello stesso periodo del 2022. La Libia è stata superata. E da queste parti i mercenari russi della Wagner non c’entrano, non si sono mai visti.
Stando alla relazione dei Servizi italiani sul 2022, per ora nemmeno grandi organizzazioni criminali di trafficanti. Sono perlopiù i pescatori dei villaggi costieri – impoveriti come tutto il resto del Paese, dal Covid che ha bloccato il turismo di massa e dalla guerra in Ucraina che ha portato l’inflazione oltre il 10%- che guadagnano in media 450 dinari mensili (150 euro) e che per sopravvivere si accordano con i profittatori.
Trainano dalle spiagge di Sfax, detta la Milano tunisina, e da alcuni centri minori del golfo di Gabes distanti un centinaio di miglia da Lampedusa, piccoli navigli di acciaio oppure trasportano sui pescherecci i migranti subsahariani che hanno riempito all’inverosimile il centro di accoglienza dell’isola nelle ultime settimane. Solo un quinto erano tunisini, i quali al momento resistono anche se un aggravamento della crisi economica e sociale potrebbe indurre soprattutto i giovani a partire.
Con viaggi ad alto rischio per i poveri. Secondo il Forum tunisino per i diritti economici e sociali, nel 2022 almeno 600 persone sono morte nella traversata con barche improvvisate. La guardia costiera di Tunisi ha dato conto, pochi giorni fa, di aver soccorso in 25 operazioni 1.008 persone, di cui 954 di vari Paesi sub-sahariani.
Determinante il clima xenofobo creato dal Presidente della repubblica Kais Saïed, un panarabista conservatore, in un discorso pronunciato il 21 febbraio. Saïed si è scagliato contro le «orde illegali di migranti dall’Africa subsahariana», parte di un disegno criminale per «cambiare la composizione demografica» e fare della Tunisia «un altro Stato africano che non appartiene più al mondo arabo e islamico». […]. Cosa sta mettendo la Tunisia in ginocchio? Dopo la rivoluzione dei gelsomini del 2011 le promesse di cambiamento non sono state mantenute, anzi. La corruzione metastatica e l’incapacità dei politici hanno aggravato la crisi. Saïed, docente di diritto costituzionale indipendente dai partiti, è stato eletto a palazzo di Cartagine nell’ottobre 2019 con un programma di riforme anticasta e anticorruzione, in nome della democrazia diretta.
In tre anni e mezzo di iperpresidenzialismo ha liquidato il vecchio governo, i partiti, parlamento e magistratura, mandando in soffitta la costituzione del 2014 con un referendum poco partecipato e inducendo elezioni parlamentari boicottate dall’opposizione cui ha partecipato solo l’11% della popolazione. Che stando ai sondaggi, gli attribuirebbe, però, ancora il 40% di consensi soprattutto nelle fasce più basse.
Lo appoggia l’esercito, mentre il mondo economico e produttivo lo starebbe abbandonando, come hanno fatto i sindacati. Una settimana fa Saïed ha sciolto anche i consigli municipali, ultima roccaforte del decentramento amministrativo, dominati dal partito islamista moderato Ennahda, suo principale rivale, promettendo anche qui lotta alla corruzione e nomine di sua scelta.
Dietro a questa involuzione autocratica c’è la questione più drammatica, trovare i soldi per evitare il fallimento del superindebitato Stato tunisino. Il Fondo monetario internazionale sta trattando per concedere un prestito di quasi due miliardi di dollari, ma chiede riforme economiche sanguinose come l’abolizione dei sussidi generalizzati a benzina e pane e la chiusura di molte aziende pubbliche. Se Saïed dovesse cedere, la Tunisia scenderebbe in piazza, garantiscono gli osservatori, per cacciarlo. Nemmeno i generosi prestiti dei Paesi arabi servirebbero a evitare il default che inquieta Italia ed Ue non solo per ragioni di sicurezza e migratorie. Il futuro del Paese è dunque in bilico.
Il dossier tunisino riguarda l’Italia per l’approvvigionamento energetico e gli interessi economici e commerciali. Il gasdotto Transmed, conosciuto anche come “Enrico Mattei”, porta in Italia il prezioso gas algerino passando proprio per la Tunisia. A questo si aggiunge Elmed, il progetto strategico d’interconnessione sottomarina elettrica tra Italia e Tunisia – per il quale Bruxelles ha recentemente approvato un finanziamento di 300 milioni di euro, altri 600 di investimenti se li divideranno Terna e la compagnia statale tunisina – che collegherà Capo Bon con la Sicilia.
Il progetto dovrebbe essere completato entro il 2028 e sarà il primo collegamento di elettricità da fonti rinnovabili dall’Africa, trasformando l’Italia in un “hub energetico” per l’Europa. Inoltre l’Italia è divenuta quest’anno primo partner commerciale della Tunisia, sorpassando per la prima volta la Francia. Ci lavorano 900 imprese italiane mentre conta 217mila persone la diaspora tunisina in Italia, che l’Oim sta contattando per progetti di investimento nelle regioni d’origine con la cooperazione italiana, qui molto presente da 30 anni, per creare occupazione e prevenire le partenze. E l’Italia sta facendo molto a ogni livello per una terra con la quale ha legami antichi.
Intanto, i naufragi sono in aumento. A Zarzis, una volta “perla del Mediterraneo”, il cimitero dei migranti ignoti annegati guarda idealmente la porta di Lampedusa e continua a riempirsi”.
Non solo gelsomini
Alla luce della crisi politica e istituzionale che scuote la Tunisia, acquista una valenza “profetica” quanto ebbe a dire a Globalist . Houcine Abassi, già Segretario generale dell’Ugtt (Union générale tunisienne du travail) Premio Nobel per la Pace nel 2015 come membro del Quartetto per il dialogo: Quello compiuto in questi dieci anni non è stato un percorso lineare, la transizione democratica è ancora in atto e non potrà dirsi conclusa se non affronta la grande questione che resta irrisolta ed anzi tende ad aggravarsi”. E quella “grande questione si chiama malessere sociale. Le conquiste democratiche, avviate dopo la fuga dell’ex presidente Zine El Abidine Ben Ali, il 14 gennaio 2011, non sono state accompagnate da una crescita economica in cui tutti speravano. Secondo l’ex ministro dell’Economia, Houcine Dimassi, “tutti i numeri indicano un netto peggioramento della situazione economica rispetto al 2010-2011”, quando Tunisi registrava un aumento del Pil tra il 4 e il 5 per cento. Una crisi economica drammatica, che non risparmia i beni primari: tutto è caro, la carne rossa costa 25 dinari al chilo, in tavola arriva se va bene una volta al mese. Senza contare che bisogna pagare l’affitto, le bollette, l’assistenza sanitaria, che non è più gratuita per nessuno, neanche per chi ne avrebbe diritto. Un dramma per un Paese, , che ha la disoccupazione al 30% e ben poche speranze di mobilità sociale.
La Tunisia in crisi racconta una verità universale: senza giustizia sociale pace e stabilità sono una illusione. Una tragica illusione.
(da Globalist)
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Marzo 20th, 2023 Riccardo Fucile
A NESSUN POLITICO INTERESSA PRENDERE SUL SERIO IL CAMBIAMENTO CLIMATICO E LA NECESSITA’ DI TAGLIARE LE EMISSIONI… MEGLIO PRENDERSELA CON GLI ECOLOGISTI CATTIVI E FREGARSENE DELL’UMANITA’ IN PERICOLO
Facciamo una scommessa: che dell’ultimo rapporto Onu sul clima, cui hanno lavorato per otto anni centinaia di climatologi di tutto il mondo e che è stato presentato oggi nelle sue conclusioni finali, si parlerà molto meno di quanto non si sia parlato di quattro schizzi di vernice lavabile su Palazzo Vecchio. E non perché il clima non tira, perché alla gente non interessa sapere, o perché siamo tutti stupidi. No, tutto questo accadrà perché la stragrande maggioranza dei politici non ha interessa a parlarne, se non per negare l’evidenza o per condirla di supercazzole e di distinguo.
Non ne hanno interesse perché il rapporto Onu sul clima, in sostanza, dice una cosa sola: che tutti i Paesi devono azzerare le loro emissioni entro un decennio, al più tardi entro il 2040. Solo così, solo spegnendo il rubinetto delle emissioni, un rubinetto che mentre scriviamo continua a immettere in atmosfera 37 miliardi di tonnellate di CO2 ogni anno, possiamo sperare di non raggiungere un aumento medio della temperatura pari a 1,5 gradi, la soglia che gli scienziati hanno decretato essere una sorta di punto di non ritorno. E solo con scelte drastiche che prevedano, tra le altre cose, il totale abbandono dei combustibili fossili, possiamo pensare di poterci anche solo avvicinare a questo obiettivo.
Non hanno interesse a parlarne, soprattutto, perché la politica è responsabile dello stato delle cose. Uno stato delle cose che racconta che a discapito di ogni proclama, di ogni trattato firmato, di ogni impegno solennemente preso, di ogni programma elettorale, la situazione continua a peggiorare ogni anno che passa. L’ultimo anno, per dire, è stato l’anno più caldo degli ultimi 125mila anni, e negli ultimi due milioni di anni non c’è mai stato un livello così alto di CO2 in atmosfera. Se non chiudiamo il rubinetto delle emissioni, spiega il rapporto Onu, i prossimi anni batteranno tutti i record precedenti, e gli 1,5 gradi di aumento saranno raggiunti già nel giro dei prossimi dieci, quindici anni. Alla lettera: “Il budget allocato per aprire nuove infrastrutture fossili non è in alcun modo compatibile con l’obiettivo di evitare un aumento delle temperature di 1,5 gradi”. Più chiaro di così si muore.
Di tutto questo non si parla perché le soluzioni dovrebbero essere ancora più radicali di quel che si prospetta oggi, e che già scandalizza gran parte dell’emiciclo parlamentare italiano: altro che stop alla vendita delle auto a benzina e diesel dal 2035, ad esempio, dovrebbe esserne vietata la circolazione a partire da domani. Altro che cappotti termici e pannelli solari sulle abitazioni dal 2030, i lavori di messa a regime di tutto il patrimonio abitativo europeo, dovrebbero essere già partiti da anni. Altro che “noi non contiamo niente, il problema è la Cina”, per rallentare ogni processo: al contrario andrebbe chiuso il mercato dei beni e dei servizi europei – il più grande del mondo – a tutti i Paesi che non si uniformano a questi dettami, e invece non si vede nemmeno l’ombra di una banale carbon tax. E no, non ci sono scorciatoie: perché tutte le idee di rimuovere e catturare il diossido di carbonio dall’atmosfera sono – per citare gli autori del rapporto – “ solo enormi distrazioni”.
Non sentirete parlare di tutto questo, ma solo di invasioni di migranti, pericoli anarchici, rave, imbrattatori di muri, perché chi decide non ha né voglia né coraggio di chiedere il cambiamento dello status quo. E mentre porta il Titanic a schiantarsi contro il peggiori iceberg possibile, prova a distrarci in tutti i modi possibili, chiedendoci di prendercela contro gli ecologisti cattivi che attentano al nostro benessere e alle nostre opere d’arte. E ci sostiene a irriderli e a inveire contro di loro, contro i “gretini” – chissà perché tutti piuttosto giovani e preoccupati del mondo in cui abiteranno -, contro chiunque gli sbatta in faccia la realtà, in una sorta di rito collettivo di dissociazione dalla medesima.
Non ne sentirete parlare, perché dovrebbero ammettere di averci riempito di balle per decenni. E perché dopo, molto prosaicamente, dovrebbero renderne conto.
(da Fanpage)
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Marzo 20th, 2023 Riccardo Fucile
UN’ONDATA DI PROTESTE ACCENDE LE PIAZZE IN TUTTO IL GLOBO ED È SOPRATTUTTO NEI PAESI A REDDITO MEDIO-ALTO CHE È ESPLOSA LA RABBIA, PER IL FALLIMENTO DELLE RIFORME FINANZIARIE O PER I TAGLI AI “DIRITTI ACQUISITI” CHE COLPISCONO LA FASCIA PIÙ LARGA DELLA POPOLAZIONE
Un mondo intero che protesta. Ma non è il mondo che protesta, sono tanti gruppi che manifestano nei singoli paesi per i motivi più disparati o anche disperati, dal fallimento della rappresentanza politica alla corruzione, dalle ingiustizie economiche ai provvedimenti che colpiscono i cosiddetti diritti acquisiti, specie in Europa; dalla difesa dei diritti civili dei nativi o delle minoranze fino alla reazione alle misure “green” per le quali si è manifestato finora e che ora mordono economicamente certe categorie o popolazioni, gli agricoltori olandesi come i pastori Sámi in Norvegia.
Il think tank di Washington “Carnegie Endowment for International Peace” traccia le rivolte in tutto il globo e ne conta 400, dal 2017, anti-governative, in più di 132 Paesi. Quasi una su quattro è durata più di tre mesi e in 135 casi a muovere le masse sono state le motivazioni economiche.
A guardare la mappa interattiva spicca l’Europa, per la sua vocazione democratica, e balzano in evidenza le situazioni dell’Asia centrale e poi quelle dell’America Latina. Una ricerca recente ha messo in evidenza che le proteste colpiscono per lo più nazioni con reddito medio o alto e coinvolgono principalmente la classe media.
Partiamo dall’Europa con la più tipica delle rivolte, quella contro la riforma delle pensioni in Francia per l’aumento da 62 a 64 anni dell’età pensionabile e la cancellazione del regime speciale per certe categorie di lavoratori. A ferro e fuoco le vie parigine.
In Portogallo, la miscela esplosiva è l’incremento dei prezzi unito alla stagnazione degli stipendi. La protesta è partita lo scorso gennaio, punta di diamante i maestri di scuola. Da novembre, in Spagna il bersaglio dei manifestanti a Madrid è il presunto smantellamento del servizio sanitario pubblico da parte del governo regionale. Altro tema da social welfare non più sostenibile.
Nel Regno Unito, la presentazione della legge di bilancio ha trascinato una coda di scioperi cui hanno aderito a centinaia di migliaia, dagli insegnanti e docenti universitari ai giovani medici e agli autisti della metropolitana,
Gli effetti devastanti della Brexit si uniscono agli scontri ideologici di sempre. In Grecia, alle vecchie dimostrazioni indette dai sindacati contro la riforma del lavoro e delle pensioni si sono aggiunte quelle, di massa, che invocano giustizia e sicurezza dopo l’incidente ferroviario di Tebi, il 28 febbraio, che ha provocato 57 morti.
In Olanda, sono gli agricoltori a manifestare contro l’annunciato piano del governo per ridurre le emissioni di ossidi di azoto e ammoniaca, entrambi bioprodotti dei processi agricoli. In Ungheria tornano protagonisti gli insegnanti, dopo che alcuni sono stati licenziati per aver chiesto stipendi più alti. In Norvegia insorgono i pastori Sámi contro il “colonialismo verde”: la diffusione delle pale eoliche che intercettano il vento disturba gli allevatori di renne per i quali è proprio il vento a guidare le mandrie nelle rotte migratorie.
Allo spazio delle democrazie “europee” va ascritto Israele, attraversato da ondate mai viste di protesta, anche da parte di militari e agenti del Mossad, contro la riforma della Giustizia con la quale Netanyahu vorrebbe ridurre i poteri della Corte Suprema rispetto a quelli del Parlamento.
Spostandoci in America Latina, ci imbattiamo nelle centomila persone che hanno protestato a Città del Messico contro la riforma elettorale del presidente, Andrés Manuel Lopez Obrador, che vuol tagliare il personale dell’Istituto nazionale elettorale. Un modo, secondo i critici, per controllare lo spoglio dei voti nelle elezioni.
E, ancora, nelle migliaia di rivoltosi che nella regione di Puno hanno attaccato le stazioni di polizia, mentre a Lima hanno provocato la distruzione di un palazzo storico. Oltre sessanta le vittime, inclusi i sei soldati annegati mentre cercavano di sfuggire a un linciaggio. Il nodo è lo scontro fra l’attuale presidente, Dina Boluarte, e il predecessore Pedro Castillo, inseguito dai giudici e agli arresti per tentato golpe.
In Georgia, invece, siamo già nell’orbita delle turbolenze legate alla guerra in Ucraina, con la folla pro-Unione Europea che tenta di bloccare le proposte di legge contro gli “agenti stranieri” che ricalcano quelle di Putin, anti-Occidente.
(da il Messaggero)
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Marzo 20th, 2023 Riccardo Fucile
LA DENUNCIA DI UNA PAZIENTE DELLA SANITA’ LOMBARDA
Bisogna attendere 1.300 giorni per poter effettuare una colecistectomia. Non si tratta di un caso limite, ma della cifra riportata nelle tabelle pubblicate dall’ospedale San Raffaele di Milano sotto la voce Vlc, come è anche chiamata l’asportazione della cistifellea, ovvero videolaparocolecistectomia, nella sezione ‘Liste delle attese dei ricoveri ordinari’.
Un valore che può essere considerato un record della sanità pubblica lombarda, se non fosse che da festeggiare c’è ben poco. E questo lo sa bene la signora Aurelia, che ha vissuto sulla propria pelle questi quasi quattro anni d’attesa: “Non è giusto che un cittadino onesto, che paga le tasse, non abbia diritto a un servizio sanitario pubblico che funzioni”.
Intervenuta in diretta nella puntata di venerdì 17 marzo di 37e2, la trasmissione radiofonica sulla salute di Radio Popolare, Aurelia è stata intervistata dal condutture, il dottor Vittorio Agnoletto, che ha provveduto a verificare quanto denunciato dalla signora: “Abbiamo chiesto al San Raffaele conferma di questa storia”, spiega a Fanpage.it, “e loro senza battere ciglio, come fosse una cosa normale, ci hanno risposto parlando dei 1.300 giorni d’attesa e confermando che quanto ci è stato riferito è in linea con la tempistica reale”.
Il racconto di Aurelia
A 37e2 Aurelia ha raccontato che i primi episodi di coliche biliari si sono verificati ad agosto del 2020. “Sono andata al pronto soccorso del San Raffaele”, ha detto, “ma per via della pandemia a ottobre vengo messa in lista d’attesa, senza una data precisa, per l’intervento di colecistectomia”. In quei giorni aveva calcoli grandi più di un centimetro e i medici le avevano spiegato che non potevano essere sciolti in alcun modo.
“Da allora ogni sei mesi mi sottopongo a controlli, ma ancora nessuna data è prevista per l’intervento”, ha denunciato Aurelia che, nel frattempo, continua a stare male: “Fitte, nausee, vomito, nonostante il cambiamento di regime alimentare”. Con il passare dei mesi, anche se si può parlare anche di anni in questo caso, i dolori sono aumentati fino a diventare insopportabili.
A gennaio del 2023 decide quindi di chiamare il San Raffaele chiedendo a che punto fosse la lista d’attesa. “Mi hanno detto che c’era da aspettare ancora tantissimo tempo”, ha raccontato la signora che ha poi chiesto quanto avrebbe dovuto attendere se avesse fatto la stessa operazione a pagamento: “Al telefono mi hanno detto che da privato non ci sono tempi d’attesa e che il costo era di 7.500 euro, a quel punto mi sono fermata”.
“È solo una questione economica”
Nella situazione spiegata da Aurelia, i calcoli non rappresentano un problema urgente. “Muovendosi, però, potrebbero portare anche a una pancreatite”, spiega il dottor Agnoletto, “la situazione può precipitare e a quel punto bisogna intervenire d’urgenza. Ma in medicina non bisogna aspettare che il dolore diventi insopportabile per intervenire”.
La risposta fornita dall’ospedale San Raffaele, che ha confermato in tutto e per tutto il problema che sta vivendo la signora Aurelia (tranne che per il preventivo da 7.500 euro, poiché la donna ha detto che le era stato comunicato per telefono e non per via scritta) porta alla luce, ancora una volta, “un’enorme contraddizione”.
Come sostiene Agnoletto, il problema qui “non è che non hanno sale o equipe disponibili, perché se la signora paga l’intervento glielo fanno immediatamente, ma è solo una questione economica, la scelta di far scivolare indietro questi interventi finché le persone disperate, se possono, decidono di farli privatamente”
Le liste d’attesa del San Raffaele
Andando a controllare sulle tabelle pubblicate sul sito dell’ospedale San Raffaele relative alle liste d’attesa dei ricoveri ordinari, si può vedere come a ottobre 2022 (ultimo aggiornamento) ci siano degli interventi che come la colecistectomia prevedono attese superiori ai mille giorni.
“La signora Aurelia potrebbe fare lo stesso intervento in altri ospedali, certo”, afferma Agnoletto, “ma dovrebbe ricominciare d’accapo tutto il percorso, chiamare il Cup, vedere i nuovi tempi d’attesa e tutto il resto”.
Secondo il conduttore di 37e2 il problema non è il singolo caso, per il quale ha comunque chiesto una risposta in merito all’assessore al Welfare Guido Bertolaso (ancora non arrivata), ma l’intero sistema degli accreditamenti dove “viene data la precedenza a interventi che garantiscono maggiori guadagni al privato: di fronte a una situazione di questo tipo, la Regione non ha niente da dire? O attende di fare verifiche solo quando emergono casi come questo o come quello che riguarda MultiMedica?”.
(da Fanpage)
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Marzo 20th, 2023 Riccardo Fucile
IL CONDUTTORE DI CHE TEMPO CHE FA E’ IN SCADENZA DI CONTRATTO CON I VERTICI RAI
Tornano insistenti le indiscrezioni che vorrebbero Massimo Giletti sempre più vicino al ritorno in Rai.
A riaccendere le voci è stato TvBlog che ha parlato di una trattativa in corso tra il giornalista e conduttore di La7 con viale Mazzini che potrebbe vedere una svolta non prima di maggio, quando è attesa la possibile nomina dell’amministratore delegato al posto di Carlo Fuortes. Secondo TvBlob, nel caso in cui la trattativa dovesse andare in porto, Giletti potrebbe prendere lo spazio al momento occupato da Fabio Fazio con Che tempo che fa, quindi la prima serata della domenica su Rai3. Secondo quanto ha potuto verificare Open, un’offerta da parte della Rai a Giletti ci sarebbe.
Ma è anche vero che lo stesso giornalista ha già avviato i progetti per le modifiche in studio per la prossima stagione di Non è l’Arena su La7. Secondo TvBlog, nel momento in cui il prossimo maggio non dovesse essere rinnovato il contratto in scadenza di Fazio, il conduttore potrebbe traslocare sul canale Nove del gruppo Discovery, come più volte emerso in passate indiscrezioni.
Lo strappo di Giletti con la Rai
Periodicamente emergono indiscrezioni su trattative tra Giletti e la Rai, da quando almeno il conduttore andò via da viale Mazzini in epoca renziana, quando il direttore generale era l’ex direttore del Tg1 Mario Orfeo. In quell’occasione, il programma di Giletti la domenica pomeriggio era stato considerato non più idoneo per quella fascia oraria. Al giornalista erano state offerte delle prime serate di intrattenimento, ma Giletti non accettò mai, convinto di mantenere ampio spazio all’approfondimento giornalistico nel suo programma.
(da Open)
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Marzo 20th, 2023 Riccardo Fucile
QUEI CONTRATTI FURONO RESCISSI NEL 2012 QUANDO IL GOVERNO MONTI BLOCCÒ L’OPERA E EUROLINK AVVIÒ UN MAXI CONTENZIOSO DA 700 MILIONI CON LO STATO, CHE ADESSO DOVRÀ RITIRARE IN CAMBIO DELLA PROMESSA DI REALIZZARE IL PONTE…MA CI SONO UNA SERIE DI TRAPPOLE LEGALI CHE POSSONO FINIRE TRA LE CHIAPPE DELLO STATO
Prima, mercoledì pomeriggio, sono stati gli uffici legislativi di tre ministeri – Interno, Economia e Affari Europei – a porre il problema nel pre-Consiglio dei ministri. Poi il muro si è rafforzato sull’asse Palazzo Chigi-Quirinale.
Quella norma voluta da Matteo Salvini che, per realizzare il ponte sullo Stretto di Messina, resuscita in automatico il vecchio contratto col consorzio Eurolink, capeggiato da Salini Impregilo (oggi Webuild), così com’è non può passare. Quei contratti furono rescissi nel 2012 quando il governo Monti bloccò l’opera bollandola come uno spreco di soldi.
Eurolink ha avviato un maxi contenzioso da 700 milioni con lo Stato che adesso dovrà ritirare in cambio della promessa di realizzare il ponte. Questo scambio è contemplato dal decreto con una serie di passaggi giuridici intricati e ad alto rischio di autogol per la P.A. La norma, per dire, fa rivivere il vecchio contratto mentre il contenzioso è ancora in corso (e peraltro mentre si eliminano le norme che hanno permesso allo Stato di vincere in primo grado contro Webuild).
Una scelta che ha fatto strabuzzare gli occhi ai giuristi del Colle, peraltro sensibili al tema della concorrenza: se rivive il contratto annullato, per fare il ponte non ci sarà una nuova gara e il rischio è una contestazione della Commissione Ue. È stato il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, già magistrato, a manifestare a Palazzo Chigi la sua contrarietà contro l’obbrobrio giuridico. Anche il Quirinale, come detto, è d’accordo e monitora la questione.
Ed è questa la formula in cui si inseriscono i colloqui tra Palazzo Chigi e il Quirinale. Mantovano ha manifestato la sua contrarietà alla norma che resuscita in automatico i vecchi contratti e chiede di modificarla sarebbe meglio far ripartire l’opera con un nuovo bando di gara.
Ma Salvini non vuole perché significherebbe far ripartire tutto da capo e allungare i tempi: il ministro da tempo va in giro a dire che la posa della prima pietra arriverà entro il 2024. Una nuova gara, poi, farebbe infuriare assai la Webuild di Pietro Salini.
Il problema tecnico che ha allarmato Palazzo Chigi e il Quirinale, come detto, riguarda soprattutto la questione del contenzioso aperto dalle imprese con lo Stato: anche se ritirassero la causa in cambio della ripresa del balletto sul ponte, nessuno garantisce che, soprattutto alla luce di un progetto che difficilmente vedrà la luce, le imprese a un certo punto non decidano di riaprire il contenzioso potendo contare su un’arma giuridica in più. Il rischio di un cortocircuito giudiziario è concreto.
(da IL Fatto Quotidiano)
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Marzo 20th, 2023 Riccardo Fucile
STRAGE DI CUTRO, UN TESTIMONE SMENTISCE LA TEMPESTIVITA’ DEI SOCCORSI
I morti accertati sono 87 e ancora non si sa quanti corpi restituirà il mare. Alle ricerche davanti alla costa di Cutro, si affianca il lavoro della magistratura.
Nel tribunale dei minorenni di Catanzaro, oggi 20 marzo, si è celebrata la seconda udienza dell’incidente probatorio del procedimento a carico del 17enne pachistano, presunto scafista.
Davanti al giudice, uno dei superstiti ha raccontato di essersi salvato «salendo sopra un legno, ho nuotato per mezz’ora e quando sono arrivato a terra non c’erano ancora i carabinieri».
Francesco Verri, avvocato membro del pool legale che assiste i familiari delle vittime, ha commentato: «Il racconto conferma che sono trascorsi troppi tragici minuti dall’urto sulla secca fino a quanto sono arrivati i soccorsi, persino a terra. Un aspetto che sta emergendo prepotentemente in questa indagine».
Il superstite, sentito oggi insieme a un altro teste, ha sostenuto che il 17enne non fosse un vero e proprio componente dell’equipaggio, ma che svolgesse il ruolo di interprete tra i trafficanti turchi e i migranti.
Le testimonianze odierne hanno soddisfatto il difensore del 17enne, l’avvocato Salvatore Perri: i superstiti sentiti, a suo avviso, non fanno altro che corroborare l’ipotesi che il suo assistito si trovasse sulla barca come migrante e non come scafista.
«Anche oggi – ha riferito Perri ai giornalisti fuori dal tribunale – uno dei due testi escussi ha confermato quanto ci aveva detto giorni fa un altro teste, e cioè che hanno provato a fare un viaggio qualche giorno prima di quello che poi hanno portato a termine, ma che non si è potuto concludere perché, dopo alcuni giorni, la barca non sarebbe arrivata e loro hanno fatto rientro a Istanbul con un taxi insieme anche all’indagato, taxi che si sono pagati un po’ ciascuno».
Un altro elemento sul quale si sta concentrando il lavoro della magistratura è il ritrovamento di un borsone a bordo dell’imbarcazione, dentro al quale erano stipate delle banconote in valuta turca. «Un teste – ha spiegato Perri – ha riferito che i comandanti turchi hanno chiesto ai migranti di lasciare le lire turche che avevano e che le avrebbero raccolte per loro. Ma non era assolutamente la quota di viaggio: a domanda specifica della difesa delle persone offese, hanno riferito che il viaggio è stato pagato con il metodo Hawala, ovvero mediamente il deposito a un soggetto terzo nel paese di provenienza».
(da Open)
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Marzo 20th, 2023 Riccardo Fucile
NON PASSANO LE DUE MOZIONI DI SFIDUCIA AL GOVERNO BORNE
E’ stata definitavemente adottata dal parlamento francese la discussa riforma delle pensioni del governo Macron.
Nessuna delle due mozioni di sfiducia ha raccolto i voti necessari per far cadere il governo francese.
Prima è stata bocciata per soli nove voti la mozione di sfiducia “transpartisan” del partito indipendente Liot, votata da tutte le opposizioni al governo di Elisabeth Borne.
Poi è andata nulla anche la votazione alla mozione del partito di estrema destra Rassemblement National guidato da Marine Le Pen che poco prima del voto aveva dichiarato: “Borne deve dimettersi oppure il presidente deve rimuoverla dall’incarico”.
Un risultato comunque negativo per il governo e il presidente Emmanuel Macron, in quanto una buona parte dei deputati gollisti, i Republicains, ha votato a favore andando contro le indicazioni del presidente del partito, Eric Ciotti.
“Questi 9 voti risicati che mancano non risolvono niente. La situazione resta la stessa, noi continuiamo la mobilitazione fino al ritiro di questa riforma delle pensioni”, così Mathilde Panot, per la France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon. Anche il leader della sinistra radicale si è espresso con toni duri: “Quello che non è stato possibile raggiungere con un normale voto parlamentare, lo dobbiamo ottenere con le proteste, gli scioperi, le manifestazioni. Adesso è ora di passare a una sfiducia popolare”
Intanto nella zona tra Invalides e Concorde, non lontano dall’Assemblée Nationale, gruppi di manifestanti stanno affluendo nonostante la polizia sia schierata sin da questa mattina e gli assembramenti siano vietati. All’altezza di Place Vauban, non lontano dalla zona di Palais Bourbon, alcuni cassonetti sono già stati dati alle fiamme.
(da agenzie)
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