Giugno 29th, 2023 Riccardo Fucile
LA MODIFICA È SOSPETTA PERCHE’ COSÌ SEMBRA CHE SI TRATTI DI UN BONUS DEL GOVERNO
Che si tratti di un errore voluto, di un malinteso o di un eccesso di zelo di qualche anonimo dirigente dell’Inps, una cosa è certa: ai sindacalisti della Cgil appare sospetto che sui cedolini delle pensioni di luglio la voce relativa alla cosiddetta quattordicesima mensilità sia stata sostituita, per un numero di destinatari al momento imprecisato, dalla voce “aumento pensioni basse 2023”, quando si tratta degli stessi importi e delle stesse somme.
“Dalla verifica effettuata su alcuni cedolini delle pensioni del mese di luglio – denunciano dallo Spi-Cgil – si evince che l’erogazione della quattordicesima mensilità, frutto di un’importante conquista del sindacato risalente ormai al 2007 e ulteriormente allargata nel 2016, viene indicata sotto la voce ‘aumento pensioni basse 2023’”.
Il risultato, secondo il j’accuse, è che “passerebbe così il messaggio che dietro quelle somme ci sia una decisione del governo in favore delle pensionate e dei pensionati italiani e che possa trattarsi di un aumento che verrà garantito mensilmente”.
Il problema che può ingenerare confusione e creare il caso nasce dalla concomitanza, nel mese di luglio, dell’erogazione degli aumenti (con arretrati) delle pensioni minime, decisi dal governo nella manovra per l’anno in corso, e che oscillano tra gli 8 e i 36 euro mensili (per gli infra e gli over 75enni), e dell’erogazione della quattordicesima che esiste da anni e che non coincide con gli incrementi indicati per le minime.
La dicitura presente sui cedolini incriminati lascia aperta la porta a confusioni e strumentalizzazioni. Da qui la denuncia dei dirigenti sindacali della Cgil.
(da agenzie)
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Giugno 29th, 2023 Riccardo Fucile
NOME PER NOME DI CHI HA VOTATO PRO O CONTRO DANIELA SANTANCHE’
Cosa è successo davvero in occasione dell’ordine del giorno che ha impegnato il governo a maggiori controlli sui possibili abusi della Cassa Covid (compresa Visibilia) e quei voti spuntati anche tra le fila della maggioranza?
Non regge la versione fornita subito dopo il voto dell’ordine del giorno del Pd contro Daniela Santanché, accolto dal governo e votato a maggioranza dall’aula di Montecitorio.
Non si può dire che il centrodestra fosse distratto e non avesse letto in quel testo il riferimento esplicito a Visibilia e al ministro del Turismo perché come dimostra il video che qui pubblichiamo prima del voto ha chiesto la parola il Pd Arturo Scotto proprio avvisando la maggioranza: «Non so se vi siete resi conto di cosa state per votare», e spiegando al di là di ogni ragionevole dubbio che quel testo era pensato proprio contro la Santanché.
E in effetti a favore dell’ordine del giorno ha votato solo una parte del centrodestra, quella che ha voluto seguire l’ok della viceministra del Lavoro Maria Teresa Bellucci o forse quella che meno in simpatia aveva la stessa Santanché.
Il sì all’odg di Scotto nell’urna è stata la scelta del 56,08% dei deputati di Fratelli di Italia, del 57% dei deputati di Forza Italia e del 70% di quelli della Lega. Nessuno dei 10 componenti del gruppo Noi moderati di Maurizio Lupi ha dato il suo voto contro la Santanché.
L’ordine del giorno del Pd che riguardava la cassa integrazione Covid percepita senza averne diritto (e appunto il solo caso citato in premessa come ipotesi è quello di Visibilia) ha avuto anche cinque voti contrari. Due da Fratelli di Italia (Cristina Almici e Fabrizio Comba). Tre no sono venuti invece da Forza Italia: quelli di Mauro D’Attis, dell’ex sindaco di Verona Flavio Tosi e dell’ex portavoce di Silvio Berlusconi, Paolo Emilio Russo.
Sono stati in quindici invece ad astenersi. Nove sono di Fratelli di Italia: Alessia Ambrosi, Gerolamo Cangiano, Luciano Ciocchetti, Gianni Lampis, Eliana Longi, Marina Marchetto Aliprandi, Gianfranco Rotondi, Imma Vietri e Gianluca Vinci. Cinque astenuti sono stati di Noi Moderati: Pino Bicchielli, Ilaria Cavo, Calogero Pisano, Martina Semenzato e Franco Tirelli. La quindicesima astenuta era invece della Lega: Silvana Comaroli.
Decine di deputati di centrodestra non hanno partecipato a molte votazioni, saltando quindi anche quella dell’ordine del giorno contro la Santanché. Ma dieci- tutti di Fratelli di Italia- hanno partecipato a tutte le votazioni saltando solo quella della “trappola Scotto”, di cui evidentemente avevano ben capito la portata.
I dieci arruolabili anche essi nel gruppo “amici della Santanché” sono: Federico Mollicone, Mauro Rotelli, Luca Sbardella, Massimo Ruspandini, Salvatore Deidda, Andrea Di Giuseppe, Maria Grazia Frijia, Novo Umberto Maerna, Barbara Polo e Maria Carolina Varchi.
Più arbitrario invece dividere con precisione il plotone del sì all’odg fra pecorelle obbedienti alle indicazioni del governo e antipatizzanti del ministro del Turismo. Di sicuro entrambi sono presenti in quelle fila.
(da Open)
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Giugno 29th, 2023 Riccardo Fucile
“PRIGOZHIN HA RIFIUTATO DI SCENDERE A PATTI, NIENTE PIU’ FONDI O ARMI”
I miliziani del gruppo Wagner non combatteranno più in Ucraina. A chiudere definitivamente la porta ai «rivoltosi» agli ordini di Yevgeny Prigozhin è oggi un esponente di peso del partito di governo di Vladimir Putin, Andrey Kartapolov.
Il presidente del comitato di Difesa della Duma ha ufficializzato la fine del coinvolgimento in Ucraina della milizia, spiegando, citato dall’agenzia statale Tass, che la ragione è da attribuirsi al rifiuto di Prigozhin di firmare il contratto con il ministero della Difesa russo che avrebbe determinato di fatto lo smantellamento della milizia. Pochi giorni prima dell’ammutinamento, ha spiegato Kartapolov, il ministero della Difesa di Mosca aveva chiesto a tutti i gruppi che svolgono compiti di combattimento di firmare un contratto.
Ebbene, «tutti hanno iniziato a prendere questa decisione, tranne Prigozhin. Gli fu detto pertanto che la Wagner non avrebbe più preso parte all’operazione militare speciale né gli sarebbe più stati allocati finanziamenti o forniture». Una ricostruzione questa che sembra coincidere con quella data 48 ore dopo la fallita rivolta da Prigozhin, che in un lungo messaggio audio aveva spiegato come essa non fosse stata mirata a rovesciare Putin, ma a «protestare» contro i vertici del Cremlino che minacciavano di sciogliere la milizia a partire dal 1° luglio.
(da agenzie)
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Giugno 29th, 2023 Riccardo Fucile
PER I GIUDICI, IL PAESE AFRICANO HA “FORTI CARENZE” NEL SISTEMA DI ASILO… UN DURO COLPO PER IL PREMIER CONSERVATORE RISHI SUNAK, E PER LA MINISTRA DELL’INTERNO, SUELLA BRAVERMAN, GIÀ CRITICATI PER I COSTI ELEVATI DEL PIANO INTRODOTTO DA BORIS JOHNSON
La Corte d’appello di Londra ha dichiarato illegale il contestatissimo piano Ruanda voluto dal governo britannico, all’interno della sua draconiana stretta sull’immigrazione irregolare, per il trasferimento di quote di richiedenti asilo in Africa a scopo dissuasivo, ribaltando il precedente verdetto dell’Alta corte.
Si tratta di un duro colpo per l’esecutivo di Rishi Sunak e per il disegno di legge noto come Illegal Migration Bill introdotto per fermare gli sbarchi sulle coste inglesi. La corte ha dato quindi ragione al ricorso presentato dai richiedenti asilo e dalle organizzazioni in difesa dei migranti mentre il governo conservatore è uscito sconfitto proprio nei giorni in cui in Parlamento si discute del disegno di legge per fermare gli sbarchi.
Secondo la sentenza, il Ruanda non può essere considerato un Paese terzo sicuro: “A meno che le carenze” nel sistema di asilo della nazione africana non vengano corrette, il trasferimento resta illegale. Il piano era stato introdotto durante l’esecutivo di Boris Johnson ma era rimasto di fatto inattuato per le tante azioni legali avviate.
Nei giorni scorsi era scoppiata un’altra polemica, fra l’altro dentro lo stesso partito di maggioranza, per i costi del progetto rivelati dal ministero dell’Interno. E’ stato stimato in 169 mila sterline (196 mila euro) l’esborso per il trasferimento di un singolo immigrato dal Regno Unito al Ruanda.
Proprio su questi dati si è innescato un botta e risposta tra la deputata conservatrice Caroline Nokes, presidente della Commissione per le Pari opportunità della Camera dei Comuni, secondo cui i costi del piano superano i benefici, e la ministra dell’Interno Suella Braverman, fautrice della linea intransigente verso i migranti e convinta sostenitrice dell’iniziativa.
(da agenzie)
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Giugno 29th, 2023 Riccardo Fucile
LA MANCATA APPROVAZIONE DEL MES È UN GUAIO SOPRATTUTTO PER L’ITALIA, CHE HA IL DEBITO ALLE STELLE E NON PUÒ APPROFITTARE DELLA GARANZIA COMUNE DEL FONDO. LA BOLLA RISCHIA DI ESPLODERE
«Finalmente, è ufficiale!» Vitor Constancio, ex vicepresidente della Bce e apprezzato pensionato polemista sui social, stringe la mano a Fabio Panetta. Entrambi sorridono. Passa il capoeconomista di Unicredit, Erik Nielsen, e un paio di studiosi italiani che stanno facendo una stellare carriera all’estero. Altre strette di mano, altri sorrisi. Al Forum di Sintra, il trasloco dell’italiano da Francoforte a via Nazionale è la notizia del giorno. Il suo cellulare, da martedì sera, non fa che squillare o vibrare.
La premier italiana sceglie di sferrare un attacco ad alzo zero contro la Bce. Un affondo che mette in grave imbarazzo l’uomo che la premier ha appena designato e rende più complicata la prima sfida che lo attende: assicurare all’Italia il posto finora sempre occupato nel board Bce.
La mancata ratifica del Mes, fanno notare in ambienti europei, non è un grosso un ostacolo alla possibilità che l’Italia riesca a nominare un italiano dopo Panetta. «Il Mes interessa, ma a partire da Berlino, tutti fanno lo stesso discorso: lo scudo per le banche è utile soprattutto ai Paesi che non possono permettersi di salvarle. Anzitutto all’Italia con il suo debito alle stelle, non certo alla Germania o altri nordici che le possono salvare con soldi propri».
In teoria, però, Christine Lagarde vorrebbe mantenere l’impegno a spezzare il muro di cravatte ai vertici della Bce, nominando una donna al posto di Panetta. E la presidente della Commissione affari economici Irene Tinagli spinge nella stessa direzione. Non un dettaglio: il Parlamento europeo è chiamato ad esprimersi sulla nomina.
Qualche nome già circola da tempo, come quello della vicedirettrice generale della Banca d’Italia Alessandra Perrazzelli. La stessa presidente della Bce è donna, nel board è affiancata da Isabel Schnabel, e a Roma sono insomma fiduciosi che essere donna non sarà il prerequisito imprescindibile per la poltrona di Panetta.
Uno dei nomi più papabili, se cadesse il veto su un candidato uomo, è quello di Piero Cipollone, vicedirettore della Banca d’Italia, un uomo dal curriculum internazionale, che vanta studi a Berkeley e Stanford e quattro anni trascorsi alla Banca mondiale.
L’altra sfida che aspetta Panetta e riuscire a farsi ascoltare tra i banchieri centrali mentre il governo italiano è così anti-Bce. Perché un conto è il tormentone dell’euroscettico Matteo Salvini, leader della Lega in affanno e palesemente alla continua ricerca di occasioni per mettere alle strette Meloni.
Il suo attacco, martedì pomeriggio, non aveva suscitato a Sintra che una generica alzata di spalle. Copione trito e ritrito. Ma già la critica concomitante dell’alleato moderato, l’altro vicepremier Antonio Tajani, aveva sollevato qualche sopracciglio. L’aggressione a freddo di Meloni, il giorno dopo, ha fugato ogni dubbio sulla compattezza del governo nella critica frontale a una Bce che, effettivamente, ha assunto anche a Sintra una postura da ‘falco’.
E non solo sui tassi: in realtà per l’Italia c’è un rischio ancora più grande che si annida nelle discussioni a microfoni spenti. E riguarda i nostri Btp. La retorica di Lagarde sembra ormai in piena sintonia con il membro del board che in questi mesi ha assunto sempre più potere, la tedesca Isabel Schnabel, falco per eccellenza della Bce. E al Forum di Sintra è stato in particolare un paper che ha fatto aggrottare le sopracciglia […]. Un saggio di Annette Vissing-Jorgensen che si interroga su quanto bisognerebbe ridurre i bilanci delle banche centrali in questa fase di stretta monetaria. E la risposta, totalmente condivisa da Schnabel, è: di molto.
La Bce, in soldoni, dovrebbe scegliere la via più rapida possibile per ridurre i 5.000 miliardi di titoli di Stato e i titoli privati che ha acquistato durante la crisi. Il limite invalicabile resta quello di non rinnovare solo i titoli alla scadenza naturale, ma secondo una fonte autorevole, i falchi stanno spingendo moltissimo per ridurre il bilancio della Bce attraverso le tempistiche dei vari programmi (App, Pepp e Tltro). Un’operazione che potrebbe creare enorme nervosismo sui mercati, specie nei confronti dei Paesi più indebitati. Leggi: l’Italia.
(da la Repubblica)
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Giugno 29th, 2023 Riccardo Fucile
UN GIUDICE ITALIANO HA ORDINATO L’IMMEDIATO INGRESSO IN ITALIA DI HARRY. RIFUGIATO SUDANESE VITTIMA DEL RESPINGIMENTO ILLEGALE DI ASSO VENTONOVE IL 2 LUGLIO 2018, MA L’AMBASCIATA ITALIANA NON RISPONDE
“Una nuova terribile ingiustizia. Un giudice italiano ha ordinato l’immediato ingresso in territorio italiano di Harry, rifugiato sudanese vittima del respingimento illegale Asso Ventinove del 1-2 luglio 2018, ma l’ambasciata italiana non risponde”.
E’ la denuncia di Mediterranea Saving Humans che spiega come lo scorso 10 giugno il giovane abbia vinto la causa intentata contro parte del Governo italiano (Consiglio dei ministri, ministeri della Difesa, dell’Interno, degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale, Ambasciata d’Italia a Tripoli).
“Il giudice – dice la sentenza – accoglie il ricorso e, per l’effetto, dichiara il diritto del signor Harry (nome di fantasia, ndr) di presentare domanda di protezione internazionale in Italia e ordina alle amministrazioni competenti di emanare tutti gli atti ritenuti necessari a consentire il suo immediato ingresso nel territorio dello Stato italiano”.
Una vittoria per Harry, il suo team legale (Cristina Laura Cecchini, Loredana Leo, Giulia Crescini e Ginevra Maccarrone nell’ambito del progetto Sciabaca & Oruka dell’Asgi) e per il JLProject, progetto di Mediterranea Saving Humans che segue da anni il ragazzo e che ha effettuato le indagini forensi per il suo caso.
“Harry è in Libia da troppi anni, ha visto morire amiche e amici, in mare, nei lager libici e anche a casa sua in Sudan. Ha sofferto la fame, la sete, non ce la fa più. E’ stato illegalmente deportato in Libia da una nave italiana, la Asso Ventinove, su ordine del Governo italiano. Un gigantesco (276 tra uomini, donne e bambini) respingimento, avvenuto in segreto, per nascondere l’illecito agli occhi del mondo”, dicono i volontari di JLProject, che nel 2019 hanno scoperto il caso.
“Abbiamo trovato le prove della sua illegalità – dicono -, abbiamo pianto i morti che si sono susseguiti negli anni (Josi e Seid morti di fame e malattia nei lager libici, Amela stuprata e uccisa da un libico), ci siamo ancora più legati ai sopravvissuti e abbiamo cercato di aiutarli legalmente. E poi abbiamo vinto la prima causa”.
“Harry oggi potrebbe festeggiare la straordinaria vittoria legale, tanto agognata, contro la terribile ingiustizia del respingimento illegale che ha subito cinque anni fa – dicono da JLProject -. Ma sta, invece, soffrendo per una nuova atroce ingiustizia: l’Ambasciata italiana a Tripoli non risponde alle richieste dei suoi legali, ignorando, così, la sentenza di un giudice italiano”.
Secondo le avvocate del giovane sudanese l’Ambasciata italiana a Tripoli non avrebbe risposto alle due diverse Pec inviate. “La sentenza è esecutiva e Harry ha il diritto di prendere un aereo di linea da Tripoli per Roma – dicono da Mediterranea -. Ma purtroppo non ha il passaporto, condizione comune alla maggioranza dei rifugiati (le guardie dei lager libici rubano soldi e documenti ai detenuti). Ha solo il documento Unhcr (status di rifugiato), che, però, non è un titolo di viaggio. L’Ambasciata italiana a Tripoli ha perso la causa e per effetto della sentenza deve emettere immediatamente un documento sostitutivo che consenta ad Harry di poter salire sull’aereo. Eppure non lo ha ancora fatto”.
“Le politiche di esternalizzazione svuotano il diritto d’asilo respingendo e bloccando illegittimamente le persone in Libia e in altri Paesi non sicuri – dicono le avvocate di Asgi -. Questa decisione finalmente riporta al centro il diritto a cercare protezione attraverso l’ingresso sul territorio italiano. Le autorità del Paese di bandiera della nave e le autorità che coordinano le operazioni hanno il preciso compito di pretendere il rispetto del principio di non refoulement e di agire in questo senso”. Il JLProject fa appello a tutti per “chiedere al Governo italiano l’immediato rilascio dei documenti di Harry e si augura che le ingiustizie continue subite da questo e da tanti altri uomini, donne e bambini in Libia cessino una volta per tutte”.
(da Globalist)
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Giugno 29th, 2023 Riccardo Fucile
DIECI GIORNI FA IL MINISTRO FITTO AVEVA ASSICURATO CHE BRUXELLES STAVA PER STACCARE L’ASSEGNO DA 19 MILIARDI DEL RECOVERY. INVECE IL VIA LIBERA FORMALE NON È ANCORA ARRIVATO E COMUNQUE SERVIRANNO SETTIMANE PER L’EROGAZIONE DEI FONDI. TRADOTTO: I SOLDI ARRIVERANNO A SETTEMBRE… E LA QUARTA TRANCHE DA 16 MILIARDI POTREBBE SLITTARE AL 2024
Il via libera formale alla terza rata del Pnrr da 19 miliardi collegata agli obiettivi del secondo semestre 2022 continua a essere attesa a ore, dopo la definizione degli ultimi dettagli ancora aperti, in particolare per quel che riguarda il target degli alloggi universitari.
Il percorso burocratico che porta dal disco verde all’erogazione effettiva dell’assegno comunitario richiederà però altre settimane, con il risultato che l’arrivo dei fondi nelle casse dello Stato non si materializzerà prima di settembre.
Ma non è questo lo slittamento che più preoccupa il Governo. La questione cruciale è infatti legata alla tranche successiva, la quarta, con i suoi 16 miliardi connessi al complicato elenco dei 27 obiettivi dei primi sei mesi di quest’anno.
Il rischio, in pratica, è quello di non riuscire a ottenere i finanziamenti entro l’anno: e in questo caso l’allungamento dei tempi si farebbe sentire direttamente sul fabbisogno di cassa, già in rapida crescita (+17,75 miliardi più dell’anno scorso solo tra aprile e maggio), spinto soprattutto dalla spesa per le pensioni.
Sulla quarta rata il nodo è duplice. Da un lato riguarda la rimodulazione degli obiettivi ampiamente annunciata e discussa a metà giugno con i tecnici della Commissione europea in visita a Roma
Il punto però è che l’intesa sul ridisegno degli obiettivi non è stata ancora formalizzata, con la conseguenza che la domanda potrebbe quindi slittare almeno a settembre, una volta raggiunto l’accordo. E qui entra in gioco l’altra incognita: il fattore tempo.
L’esperienza recente della terza rata, con l’esame comunitario diventato parecchio più puntuto dopo gli allarmi della Corte dei conti Ue, mostra che tra la presentazione della richiesta e l’ok formale possono passare oltre sei mesi.
Fino a qui il Tesoro, come confermato dal programma trimestrale di lunedì, conta di gestire le dinamiche di cassa senza ritoccare il livello complessivo delle emissioni che per quest’anno si attestano a 320 miliardi sul medio e lungo termine. Ma la questione quarta rata solleva un punto interrogativo ulteriore da 16 miliardi.
Il complicato intreccio tra terza e quarta tranche, revisione generale del Piano e integrazione con il RepowerEu che impegna da mesi il Governo, si inserisce nel tavolo già affollatissimo di dossier aperti con Bruxelles, che spaziano dalla ratifica del Mes alla revisione del Patto di stabilità fino alle regole di ingaggio per la gestione dei migranti. Sono tutti temi caldissimi, come dimostrano toni e contenuti degli interventi di ieri della premier Giorgia Meloni in Parlamento, che potrebbero rappresentare soltanto l’antipasto di una battagliera campagna elettorale del centrodestra in vista delle europee del 2024.
Oggi il ministro per il Pnrr, Raffaele Fitto, volerà nuovamente a Bruxelles a fianco di Meloni per il Consiglio europeo. Un’occasione per probabili nuovi bilaterali sul Piano, che dovrà vedere a luglio l’entrata nel vivo delle decisioni concerete sulla riscrittura del cronoprogramma di milestone e target.
(da il Sole 24 Ore)
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Giugno 29th, 2023 Riccardo Fucile
ANCHE I BANCHIERI, L’ESTABLISHMENT ROMANO, I POTERI FORTI E GLI ALLEATI STRANIERI SONO SODDISFATTI DELLA SCALATA DELL’ECONOMISTA CIOCIARO IN BANKITALIA. FINALMENTE ANCHE LA DESTRA HA IL SUO SUPER TECNICO D’AREA CHE IN CASO DI NECESSITÀ PUÓ ESSERE USATO COME CARTA DI RISERVA DELLA REPUBBLICA
La promozione a Via Nazionale dell’amico di infanzia di Massimo Carminati («ma con lui non ho avuto nessun contatto da 30 anni», spiegò Panetta nel 2014) piace molto anche a un pezzo dell’establishment romano e milanese, che da tempo sta spingendo la scalata del ciociaro con in tasca un dottorato alla London School of Economics.
Non solo in chiave Bankitalia. Ma come figura di alto profilo che possa, se serve, essere usata come carta di riserva nell’agone politico. Per intenderci, un super tecnico alla Draghi, ma con un profilo politico marcatamente di destra, che in caso di difficoltà del governo – ad oggi non in vista – possa scendere in campo per costruire esecutivi alternativi a quello retto ora da Meloni.
LA CARRIERA
La costruzione della leadership di Panetta come “Ciampi di destra” parte da lontano, ma ha visto un’accelerazione dopo il settembre dello scorso anno, quando Fratelli d’Italia, partito postfascista, ha vinto le elezioni politiche.
Durante la complicata fase della formazione dell’esecutivo, per tranquillizzare i mercati e i poteri forti nazionali ed europei il Quirinale e la premier incaricata hanno puntato proprio sull’attuale membro del comitato esecutivo della Banca centrale europea per il ruolo, delicatissimo, di ministro dell’Economia.
Una nomina di prestigio che Panetta ha però rifiutato seccamente: assunto in Bankitalia nel 1985 (dove scalò rapidamente le posizioni passando da capo del servizio di politica monetaria a responsabile dei processi per coinvolgere l’istituto nel sistema dell’euro, fino alla vicedirezione del 2012) il suo sogno è sempre stato solo uno: quello di diventare governatore di via Nazionale.
Una prematura nomina al Mef, rappresentante di un governo di ultradestra, avrebbe però non solo bruciato la possibilità di succedere all’amico-rivale Ignazio Visco, ma anche indebolito il percorso da civil servant delle istituzioni a cui il banchiere (che resta un abile navigatore bipartisan) tiene moltissimo.
L’operazione Panetta, con la nomina annunciata martedì, è infine riuscita alla grande. E ora tranquillizza coloro che, tra grandi imprenditori, banchieri, uomini del deep state oltre ad osservatori stranieri, credono che serva a portata di mano un’alternativa credibile a Meloni in caso di sfaldamento della maggioranza.
«Ad ora non esiste un reale pericolo per Meloni, la sinistra è annichilita, ma nessuno può prevedere l’arrivo improvviso di un cigno nero: un attacco della speculazione internazionale all’Italia, uno screzio insanabile tra la premier e Salvini, un implosione di Forza Italia, un crollo improvviso dei consensi per cause esogene» spiega un alto dirigente di palazzo Chigi che conosce bene Panetta da lustri.
«A quel punto le strade sono due: o si torna subito alle elezioni, o il presidente Sergio Mattarella prova a formare un governo con un nuovo premier, che sia però accettato anche dal partito di maggioranza relativa di questa legislatura, cioè FdI. Panetta ha una cultura di destra e Meloni lo stima moltissimo.
Parlano la stessa lingua, s’intendono a perfezione: in via del tutto eccezionale, per il bene del paese, in molti credono che potrebbe dire di sì a un suo eventuale incarico. Sono solo ipotesi futuribili, ma è bene che la Repubblica abbia carte di riserva spendibili».
RELAZIONI
Panetta è un banchiere centrale sui generis rispetto a Visco e Draghi. Grandi capacità relazionali dentro le bizantine burocrazie della Capitale, mangia fin da ragazzo pane, economia e politica. Allievo dell’altro governatore ciociaro Antonio Fazio, ottimi rapporti con Pier Ferdinando Casini, Matteo Renzi, Carlo Calenda (e con l’influente segretario generale del Quirinale Ugo Zampetti), il banchiere è stimato anche dall’ad di Intesa Carlo Messina. Non solo. I bene informati raccontano che sia stato lui, quando Draghi doveva fare il governo, a sondare per conto dell’ex presidente della Bce i futuri ministri. Una leggenda di cui non esistono prove.
È certamente vero, invece, che i due si sono conosciuti nei corridoi di Banca d’Italia tanti anni fa, e che nonostante le differenze caratteriali e politiche (uno liberal, l’altro conservatore) si apprezzino reciprocamente. In Bankitalia spiegano che Panetta, a differenza di Visco, ha furbamente sempre riconosciuto la leadership di Draghi.
Una posizione ossequiente grazie al quale l’ex presidente della Bce ha chiuso un occhio rispetto al fatto che cari amici di Panetta come Renzi e Casini siano stati i primi sabotatori della sua corsa al Quirinale.
«Più che un Draghi di destra, Panetta è il Ciampi che i conservatori italiani non hanno mai avuto», aggiunge un burocrate del Quirinale che simpatizza per il tecnico sessantatreenne.
«Draghi ha fatto anche il banchiere d’affari lavorando anche per multinazionali straniere per poi tornare a Bankitalia come governatore. Panetta come Ciampi è un prodotto più “nazionale”, un civil servant che ha lavorato solo nelle istituzioni italiane».
Vedremo se i dioscuri dell’operazione Panetta, che sono molti, avranno ragione. E che se davvero, in caso di una futura deflagrazione della maggioranza che oggi sembra fantascienza, il loro beniamino avrà le carte per giocarsi anche una partita in politica.
Non solo come premier, ma addirittura come possibile inquilino del Quirinale, visto che la destra oggi maggioranza nel paese crede che sia arrivato il momento – alla fine del mandato di Mattarella – di avere diritto ad eleggere un suo rappresentante al Colle.
«Si vedrà. Le dico solo che Giorgia non ha alcuna voglia di abdicare. Ma sta dimostrando che la destra una classe dirigente di livello ce l’ha. Se in futuro Panetta servirà in altre posizioni, vedremo. L’importante è che sia uno di noi», chiosa un importante dirigente di Fdi.
(da EditorialeDomani)
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Giugno 29th, 2023 Riccardo Fucile
DA COSA? DA MIGRANTI E INGLESISMI. E DAL MINISTRO VALDITARA
Ogni mattina un «patriota» si sveglia con una missione: onorare l’identità nazionale, proteggerla dalle contaminazioni, santificarne «le radici giudaico-cristiane». Da quando a palazzo Chigi c’è Giorgia Meloni il risveglio è senz’altro più dolce, ma il vero patriota lo si riconosce dall’abnegazione: mai abbassare la guardia, se c’è in ballo l’onore italico. Anzi, è proprio quando il vento della storia soffia a proprio favore, che bisogna affondare il colpo.
Dev’essere questo il ragionamento che si fa tra i banchi parlamentari di Fratelli d’Italia: non si spiega altrimenti il profluvio di proposte di legge che provengono dagli scranni meloniani dall’inizio di questa legislatura e che mirano, appunto, alla salvaguardia dell’italianità in tutte le sue forme. In particolare una: quella linguistica. Perché, se c’è una cosa che gonfia più di ogni altra la sensibilità dei patrioti, quella è la lingua italiana.
Lo scorso novembre, ad appena un mese dall’insediamento delle nuove Camere, il senatore Roberto Menia – residente a Trieste ma nato a Pieve di Cadore, sulla sponda destra del più patriottico dei fiumi, il Piave – ha presentato un disegno di legge costituzionale intitolato «Riconoscimento dell’italiano come lingua ufficiale della Repubblica».
Menia – che è alla sua prima legislatura a Palazzo Madama, dopo averne fatte cinque a Montecitorio tra il 1994 e il 2013 – era stato primo promotore, una ventina d’anni fa, insieme a Ignazio La Russa, della legge che istituì il Giorno del Ricordo dedicato alle vittime delle foibe.
Ebbene, ora il senatore di FdI (ex Msi, An, Pdl e Futuro e Libertà) si è accorto che nella nostra Costituzione manca un articolo che chiarisca quale sia la lingua ufficiale dell’Italia: «Un vuoto che va colmato», osserva il parlamentare nel testo che presenta la proposta. Si sa mai che un domani qualcuno si svegli e decida di sostituire nelle scuole l’insegnamento dell’italiano con quello del francese, o peggio ancora dell’arabo.
Secondo Menia, la lingua di Dante – che, lo ricordiamo, è considerato dai meloniani il padre della cultura di destra – è minacciata dal «fenomeno migratorio», che «pone nuove questioni», fra le quali il «mantenimento» e la «difesa dell’identità italiana delle nostre città e Paesi». Insomma, per il senatore gli immigrati, oltre a rubarci il lavoro, sono pronti anche ad azzerare la nostra lingua per soppiantarla con qualcuno dei loro idiomi tribali.
Ma il patriota di Pieve di Cadore è allarmato soprattutto per ciò che avviene in certi territori di confine del Nord Italia, dove è riconosciuto il bilinguismo: «In alcuni casi – scrive – elementi di protezione avanzata delle minoranze nazionali o linguistiche diventano strumento per l’imposizione di un monolinguismo nella toponomastica che cancella l’italiano». «In altri casi – prosegue, lanciando una frecciata agli alleati della Lega – orientamenti autonomisti esasperati pongono situazioni in cui si tende a valorizzare la lingua o il dialetto di comunità minoritarie in antitesi alla lingua comune». Ecco quindi la proposta di legge costituzionale, composta da un unico articolo: «L’italiano è la lingua ufficiale dello Stato. Tutti i cittadini hanno il dovere di conoscerlo e il diritto di usarlo». Precetto condivisibile, per carità, ma abbastanza superfluo, dal momento che già oggi gli stranieri che richiedono la cittadinanza devono superare un test di italiano.
Il ddl Menia è in attesa di essere discusso dalla Commissione Affari costituzionali del Senato. Nell’omologa commissione della Camera, invece, giacciono ben due proposte di legge per la salvaguardia della lingua, entrambe presentate a fine dicembre dal vicepresidente di Montecitorio, Fabio Rampelli, già segretario della sezione del Fronte della Gioventù di Colle Oppio a Roma, quella da cui proviene Meloni. I due ddl sono molto simili fra loro, solo che uno è di natura costituzionale, mentre l’altro si ferma alla legge ordinaria.
Anche Rampelli vuole far scrivere sulla nostra Carta fondamentale che «la lingua italiana è la lingua ufficiale della Repubblica»: nella relazione che accompagna uno dei due testi parla di «foresterismi» (li chiama proprio così) che rischiano di «portare a un collasso dell’uso della lingua italiana fino alla sua progressiva scomparsa». Ma rispetto a Menia, il vicepresidente della Camera si spinge oltre, volendo vietare l’utilizzo di parole straniere negli enti pubblici e privati, nelle aziende, nelle scuole e nelle università. E prevedendo, per chi sgarra, una sanzione amministrativa che va dai 5mila ai 100mila euro.
Sembra di essere tornati negli anni dell’italianizzazione imposta dal regime fascista, quando il «pullman» bisognava chiamarlo «torpedone» e non si poteva dire «cocktail» ma solo «bevanda arlecchina». Ma la beffa clamorosa, per questi patrioti del terzo millennio, è che, mentre loro si adoperano per proteggere la purezza dell’italiano, il Governo Meloni ha istituito, per tutelare le eccellenze nazionali, un ministero del «Made in Italy» e ha annunciato la prossima istituzione di un «liceo del Made in Italy», nonché un finanziamento da 10 milioni di euro per il campionato di calcio, che dall’anno prossimo, all’estero, si chiamerà «Serie A Made in Italy». Poveri patrioti: non si poteva semplicemente usare la locuzione nostrana «fatto in Italia»?
Come noto, l’italiano discende dal latino. E, come altrettanto noto, i Fratelli d’Italia nutrono grande ammirazione per i nostri antenati romani. Ecco allora che un manipolo di senatori, la maggior parte dei quali meloniani (tra cui il già citato Menia), si è premurato, lo scorso 10 maggio, di depositare una nuova proposta di legge per valorizzare il liceo classico, la scuola per eccellenza in cui si insegna la lingua di Virgilio. La prima firmataria del ddl – per la precisione – è un’esponente che oggi fa parte del gruppo Noi Moderati: la casalese Giovanna Petrenga, che peraltro alle ultime politiche si era candidata con FdI.
I senatori propongono di introdurre nei licei classici l’insegnamento di nuove materie, quali archeologia, editoria, informatica, una seconda lingua straniera, antropologia culturale, economia politica, diritto costituzionale, amministrativo e internazionale.
Nelle intenzioni dei proponenti, questa novità dovrebbe rivitalizzare l’indirizzo classico, sempre più spesso snobbato dagli adolescenti italiani. Un tema per nulla secondario, secondo Petrenga e colleghi: «Nuove generazioni di laureati italiani non sono in grado di leggere il significato di una scritta in latino su un monumento al contrario di molti loro coetanei stranieri», si legge nella relazione che accompagna il ddl.
E ancora: «I numeri non alti delle iscrizioni di studenti al liceo classico, indirizzo di studi che più degli altri rappresenta un baluardo per la difesa dell’identità e dei valori occidentali, celano una questione di grande rilevanza, una enorme criticità: una diminuzione della preparazione culturale generale delle nuove generazioni e, conseguentemente, una loro minore capacità di analisi e comprensione della realtà che li circonda».
Secondo i “patrioti senatori”, tuttavia, «per far comprendere l’importanza educativa del liceo classico non è sufficiente unicamente un intervento legislativo: è importante un coinvolgimento dell’Unesco per valorizzare gli studi classici e le lingue latina e greca, facendole includere nella lista dei beni culturali immateriali».
Parole che stridono con la tesi ribadita più volte dal ministro dell’Istruzione e del Merito del loro stesso governo, il leghista Giuseppe Valditara, il quale sostiene che sia «necessario superare il concetto novecentesco di intelligenza e la concezione gentiliana di scuola che vedeva la piramide scolastica con il liceo classico in cima, seguito dal liceo scientifico e infine dagli istituti tecnico-professionali».
Cosicché, in fin dei conti, se ne può dedurre che ciò che differenzia Lega e Fratelli d’Italia è una sillaba: da «Prima l’Italia» a «Prima l’italiano».
(da TPI)
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