Febbraio 29th, 2024 Riccardo Fucile
“TROPPE PROMESSE NON MANTENUTE. TROPPE DECISIONI E CANDIDATURE CALATE DALL’ALTO. SALVINI LA MATTINA DICE UNA COSA E LA SERA GIURA IL CONTRARIO. IL PONTE SULLO STRETTO AL NORD NON INTERESSA E LUI LO VUOLE. GLI IMMIGRATI CI SERVONO E LUI NON LI VUOLE”… LO “SCHEMA” DEI RIBELLI, SE NON PASSA IL TERZO MANDATO PER ZAIA: FEDRIGA SEGRETARIO DELLA LEGA, ZAIA SINDACO A VENEZIA E MARIO CONTE LASCERÀ TREVISO PER CORRERE DA GOVERNATORE IN REGIONE
«Terzo mandato per Zaia? Di rigore, ma non è più la priorità: la prima cosa adesso è cacciare Matteo Salvini, che sta trascinando la Lega nel baratro». Nei bar, fuori dai capannoni e nei piccoli Comuni del Veneto profondo, si materializza la rivolta contro il leader, ridotto sotto il 4% dal voto in Sardegna.
Il Carroccio qui non mugugna più, come dopo il sorpasso shock da parte di FdI alle politiche. Il popolo venetista alza il tiro e anche la voce. «Troppe promesse non mantenute – dice Andrea Gobbi nella sua officina – troppe decisioni e candidature calate dall’alto. Salvini la mattina dice una cosa e la sera giura il contrario. Il Ponte sullo Stretto al Nord non interessa e lui lo vuole. Gli immigrati ci servono e lui non li vuole. È tempo di cambiare sia il capo che la rotta».
Ora Salvini qui è al 2,6%, Giorgia Meloni al 33%. Dopo il tonfo di Cagliari, però, anche lo zoccolo duro si è rotto: la base è infuriata e le Europee di giugno diventano un incubo per gli stessi sindaci.
«L’errore è stato non fare il congresso – dice Germano Racchella, sindaco di Cartigliano nel Bassanese – quando è stato imposto il cambio di strategia del partito, mettendo nel simbolo Salvini al posto del Nord. Eravamo territoriali e ci siamo svegliati personali: serve subito un esame di coscienza e poi cambiare strada».
Quando si perde, tutti i nodi vengono al pettine: autonomia incagliata, terzo mandato bocciato in Commissione al Senato, gelo Salvini-Meloni, voto europeo a rischio tracollo.
La base non capisce più il suo «ex sindacato territoriale del popolo».
Imprenditori e partite Iva presentano il conto di bilanci che non tornano. Ad aprire il fuoco l’assessore Roberto Marcato, che al vicepremier ha voluto dire che «dopo Zaia in Veneto c’è Zaia, punto». Messaggio: se non passa il terzo mandato vai a casa anche tu. A dichiarare ufficialmente aperto il processo è però il parlamentare europeo Gianantonio Da Re, ex sindaco di Vittorio Veneto e leader dell’ortodossia leghista.
«Il 9 giugno – dice – assisteremo a un disastro annunciato. Un sondaggio interno dà la Lega al 5,5%. Il giorno dopo Salvini si deve dimettere. O il cretino se ne va con le buone, o andiamo tutti a Milano in Via Bellerio e lo cacciamo con le cattive. Ormai la pensiamo tutti così, a partire da 80 parlamentari che aspettano solo i numeri del voto per muoversi. Anticipare il congresso in primavera a questo punto non serve: Salvini ci ha disintegrati e deve assumersene la responsabilità».
A far infuriare iscritti e amministratori, il «distacco dalla gente» del Capitano e della «cerchia ristretta che lo guida». Foza è l’esempio- simbolo. Nel centro asiaghese, alle Europee di cinque anni fa, la Lega ha stabilito il record nazionale di 7 elettori su 10 per Salvini: oggi FdI sfiora il 50%.
Martedì il governatore al quarto mandato ha riunito i suoi, a porte chiuse, a palazzo Balbi. Alle Regionali 2025, ha assicurato, il brand Zaia comunque ci sarà: candidato governatore con la Lega, se Matteo strappa a Giorgia il via libera a una legge ormai ad personam, o candidato consigliere con una propria lista-partito, data oggi vincente.
«Dopo le Europee – prevede Da Re – scatterà l’ora di Massimiliano Fedriga, l’uomo giusto per riportare la Lega alle origini. L’anno prossimo Zaia si candiderà come sindaco a Venezia e Mario Conte lascerà Treviso per correre da governatore in Regione. È tempo che Zaia, causa indecisione cronica, la smetta di tenere in vita Salvini: condannandoci a sparire».
Alle imprese del Nordest lo scenario piace. Venezia, dopo gli affari di Brugnaro, ha bisogno di una star politica. Nei sondaggi per le regionali il ministro meloniano Adolfo Urso, padovano di nascita, non sfonda. Il “traditore” Flavio Tosi, ora coordinatore di Forza Italia, non è stato perdonato e l’industriale Matteo Zoppas ha declinato l’invito.
Lo schema Fedriga-leader a Roma dopo Salvini, Conte governatore del Veneto con Zaia sindaco a Venezia e azionista di maggioranza in consiglio regionale, scalda così la base dissidente.
Non fa i conti però con il 9 giugno e con FdI. A oscurare la vista su Strasburgo, anche lo spettro del generale Roberto Vannacci. «Non scherziamo – il coro dei sindaci leghisti – se Salvini lo impone capolista, qui è la fine. In Europa saremo gli appestati, all’opposizione con Orbán e Le Pen, filo-Putin e nelle mani dell’estrema destra». Se salta Zaia, salta Salvini
(da La Repubblica)
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Febbraio 29th, 2024 Riccardo Fucile
AGGRAPPATO ALLA POLTRONA PERCHE’ SE PERDE POTERE NESSUNO LO SALVA DALLA GALERA
“Non c’è nessuno che possa prendere il mio posto. Non 
riusciranno a farmi fuori. Tutta la Lega è con me”. Matteo Salvini mentre se lo ripete tra sé e sé ostenta una grande sicumera. Il vicepremier sa che, undici anni dopo essersi preso il partito, l’ha trasformato a tal punto da non contemplare neppure una minima contendibilità.
E’ per questo che nell’immediato post Sardegna, al di là del risultato deprimente del Carroccio, ha ricominciato a girare per il paese come se nulla fosse. Lancia l’Italia dei sì, inaugura cantieri, bisticcia con il ministro Crosetto su Vannacci, fa visita al suocero Denis Verdini nel carcere di Sollicciano.
Mettersi in discussione? Tutt’altro. Scruta la squadra di governo, i gruppi parlamentari, e si rincuora: tutta una schiera di fedelissimi pronti (forse) a immolarsi per lui. “E poi, ma chi ci crede davvero alla leadership di Zaia e di Giorgetti? Nessuno”, racconta uno come Gianluigi Paragone, che le dinamiche interne al mondo leghista le conosce bene.
Con una certa ricorrenza, dopo ogni nuova elezione in cui la Lega sprofonda nei consensi, c’è qualcuno che dice: adesso a Salvini gli fanno le scarpe. Lo ha ribadito ieri l’ex ministro leghista Roberto Castelli, secondo cui “la parabola di Salvini è finita”.
Eppure al ministro delle Infrastrutture va dato il merito di aver saputo costruire per tempo un’articolata meccanica difensiva. Che lo salvaguarda dai tentativi di Opa più o meno ostili. E che ha messo una sordina alla cosiddetta “seconda Lega”, quella che si faceva coincidere con lo spirito pragmatico dei governatori del nord. Lo spartiacque decisivo furono le elezioni politiche del 2022: in quell’occasione Salvini riuscì a liberarsi anche degli ultimi residuati di giorgettismo, vicini a un’idea di Lega più bossiana, federalista. I vari Roberto Volpi, Matteo Luigi Bianchi e Paolo Grimoldi non vennero ricandidati. Così adesso tra i vari ministeri e nei due rami del Parlamento siedono (quasi) solo salviniani di ferro: si va dal ministro per gli Affari regionali Roberto Calderoli alla ministra per le Disabilità Alessandra Locatelli. Dal sottosegretario all’Interno Nicola Molteni, che a volte sopravanza anche lo stesso ministro Piantedosi, al viceministro dei Trasporti Edoardo Rixi, fino al sottosegretario del Lavoro Claudio Durigon e ad Alessandro Morelli, sottosegretario di stato alla presidenza del Consiglio alla Programmazione economica. Dai capigruppo di Camera e Senato Riccardo Molinari e Massimiliano Romeo, fino alla sfilza di deputati e senatori semplici: Andrea Crippa (vicesegretario della Lega), Claudio Borghi, Alberto Bagnai, Stefano Candiani, Andrea Paganella, Gian Marco Centinaio, Giulio Centemero, Luca Toccalini. Per non parlare dei riferimenti sui territori come il segretario della Liga veneta Alberto Stefani (deputato) o il coordinatore della Lega lombarda Fabrizio Cecchetti (deputato anch’egli): tutti strettissimi confidenti del segretario. Che in questi anni di leadership non hanno praticamente mai contestato nulla al loro numero uno. E non pensano di farlo nemmeno in questa fase di consenso periclitante del Capitano.
Come spiega ancora Gianluigi Paragone, che è stato anche direttore della Padania e che i leghisti ha continuato a frequentarli anche quando era in Parlamento tra le file del M5s, “Salvini è riuscito a portare la Lega dal 3 al 30 per cento. Qualsiasi potere negoziale lo si deve a lui”. Eppure la sua non messa in discussione deriva anche “da una totale mancanza di altre leadership”, racconta ancora il giornalista ed ex parlamentare. “Zaia preferirebbe fare il sindaco di Venezia piuttosto che scendere a Roma. E’ troppo venetista. E anche Giorgetti, che gli è sempre stato avversario, oramai gioca una partita tutta in solitaria, solo per se stesso. Mentre per quanto riguarda Fedriga, che abbia il fisico per prendere voti e fare il leader è tutto da vedere”. Pure il famoso Comitato nord, nato su impulso di Bossi per recuperare il radicamento federalista, non si sa che fine abbia fatto. E anche i malumori espressi dallo stesso Senatùr vengono derubricati a borbottii che al massimo possono alimentare il dibattito per un paio di giorni.
Solo che al di là delle dinamiche intrapartitiche, la sensazione di inscalfibilità che avvolge Salvini una qualche eco sul governo la produce. Perché avere un alleato che si sente immune alle débâcle elettorali come quella sarda (dove la Lega ha preso il 3,8 per cento) porta la premier Giorgia Meloni a chiedersi fin dove possa spingersi il suo vice per cercare di sussumere nuovo consenso.
Persino oltre le accuse per l’indagine aperta sul generale Vannacci? Tanto che al suo commento di ieri, “siamo al ridicolo”, ha dovuto rispondere il ministro della Difesa Guido Crosetto: “Non c’è nulla a orologeria. E’ un’inchiesta iniziata mesi fa. Sono automatismi tecnici che non riguardano neanche la parte decisoria politica. Spiegherò con una nota della Difesa in modo che tutti abbiano chiaro di cosa si tratta”.
E insomma tra una tappa della campagna elettorale in Abruzzo e un sopralluogo tecnico in un cantiere a Desenzano del Garda, tra un post sull’immigrazione e i diktat quotidiani contro le città 30 km all’ora, è come se Salvini alla sparuta (e quasi inesistente) minoranza della Lega che gli contesta la crisi in atto dicesse: après moi le déluge!
(da ilfoglio.it)
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Febbraio 29th, 2024 Riccardo Fucile
“SPERIAMO CHE IL MINISTRO NON SI PREOCCUPI SOLO PER IL QUASI CONGIUNTO”
Un abbraccio con il «genero» Matteo alla fine del colloquio, poi Denis Verdini è stato riportato dagli agenti della polizia penitenziaria di Sollicciano in una cella singola. È questa la sistemazione dove l’ex senatore rimarrà altri tre giorni. Una fase «cuscinetto», prima di entrare nel carcere vero e proprio.
L’ala in questione si chiama «polo di accoglienza», un reparto di passaggio, giusto il tempo necessario per effettuare le visite mediche e il colloquio di routine con lo psichiatra. Ma una volta nel carcere «vero», le condizioni di detenzione si annunciano ben diverse. Non quelle, insomma, in cui Verdini trascorse il primo periodo di reclusione in pieno Covid nel carcere di Rebibbia, a Roma, nell’ala dove sono detenuti i «colletti bianchi».
Sollicciano, aperto nel 1983, è ritenuto uno dei più problematici penitenziari d’Italia. I numeri parlano chiaro: nella sezione giudiziaria i detenuti sono 569 su una capienza di 500. Ma il sovraffollamento è solo una delle drammatiche criticità di una struttura ritenuta invivibile, dove negli ultimi due anni si sono suicidati sette detenuti e dove ogni mese si registrano decine di gesti di autolesionismo.
Il tutto in una struttura che necessiterebbe di essere demolita e ricostruita ex novo, in quanto monolite in cemento armato che d’estate diventa un forno e d’inverno una sorta di ghiacciaia.
Il ministero delle Infrastrutture, guidato proprio da Salvini, nel novembre scorso aveva approvato un finanziamento da 166 milioni di euro per ristrutturare 20 carceri italiane.
Tra le carceri da riammodernare figura anche Sollicciano, dove sta per partire la costruzione di un nuovo edificio grazie a circa mezzo milione arrivato dallo Stato. La visita a Verdini ha sollevato qualche perplessità nel Sappe, uno dei sindacati della polizia penitenziaria.
«Abbiamo da sempre considerato positivamente e incoraggiato le visite di parlamentari nelle carceri — dice il segretario Aldo Di Giacomo — auspicando che servano sia per verificare le condizioni dei detenuti sia quelle di lavoro del personale penitenziario».
E poi: «Ci auguriamo che la visita del ministro Salvini al padre della sua compagna abbia avuto questo scopo e non si sia limitata a constatare le condizioni del quasi congiunto».
(da Corriere Della Sera)
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Febbraio 29th, 2024 Riccardo Fucile
TRUZZU E MARSILIO SONO AMICI DELLA MELONI DAGLI ANNI GIOVANILI: I LIMITI DI UNA CLASSE DIRIGENTE DI “FEDELISSMI”… QUANDO QUALCUNO CAPIRA’ CHE LEI NON E’ MOLTO MEGLIO SARA’ SEMPRE TROPPO TARDI
Houston, abbiamo un problema. Il messaggio arrivato dalla
Sardegna è giunto forte e chiaro al quartier generale di via della Scrofa, anche a chi fino ad oggi non ha voluto sentire e tra questi c’è stata anche la premier Giorgia Meloni.
I «possibili errori» su cui riflettere richiamati nel comunicato congiunto del centrodestra, infatti non sono solo il peccato d’arroganza nel voler sostituire l’uscente leghista Christian Solinas con un proprio uomo per far valere la superiorità elettorale di Fratelli d’Italia.
Il vero problema che ora si sta palesando è quello che in molti – anche d’area ex missina – avevano già messo in luce inascoltati durante i primi mesi di governo: una classe dirigente di partito non all’altezza del ruolo. In particolare, l’inadeguatezza mostrata sul campo della generazione di cui Meloni è la punta di diamante: la cosiddetta generazione Atreju.
Questa è la seconda vera lezione delle amministrative in Sardegna: il fallimento di Paolo Truzzu è la prima plastica sconfitta di quella generazione di giovani missini degli anni Settanta che hanno sventolato bandiere in piazza insieme a Meloni, con lei hanno imparato a fare politica nel Fuan e poi l’hanno seguita con la fondazione di Fratelli d’Italia.
Proprio questo gruppo di dirigenti è unito a Meloni da uno strettissimo legame di fedeltà solido come sono solo quelli che si formano in età giovanile e da lei è stato premiato con cariche e candidature e difeso contro tutto e tutti. La generazione Atreju, la cui lista è stata stilata proprio da Meloni nell’ormai mitologico Io sono Giorgia, è infatti incistata nei nodi nevralgici del governo e del parlamento.
Tra questi, il nome più blasonato è quello del ministro dell’Agricoltura e marito della sorella di Meloni, Francesco Lollobrigida. Poi ci sono il duo composto da Giovanni Donzelli e il «terribile» Andrea Delmastro, entrambi coinvolti nel caso Cospito e il sottosegretario anche nella sparatoria di Capodanno; il presidente della commissione ambiente Mauro Rotelli, il sottosegretario alla Salute Marcello Gemmato, il sardo Salvatore Deidda che è stato al fianco di Truzzu e ha negato la sconfitta sino all’ultimo.
Il presidente della commissione Giustizia alla Camera Ciro Maschio e l’ex sindaco di Catania e oggi senatore Salvo Pogliese, condannato 2 anni e 3 mesi in appello per spese “pazze” coi soldi dell’Ars siciliana.
Tra le donne, l’ex sottosegretaria Augusta Montaruli, dimessasi dopo la condanna definitiva per l’uso improprio dei fondi dei gruppi consiliari del Piemonte negli anni dal 2010 al 2014 e la quasi candidata sindaca di Palermo Carolina Varchi.
Anche Truzzu fa parte della nidiata: amico «fraterno» – come lo descrivono alcuni parlamentari – della premier, la cui conoscenza risale agli anni del Fuan e poi della festa di Atreju, organizzata dai giovani del partito. Anche per questo, la premier avrebbe spinto così tanto per la sua candidatura in Sardegna, anche a costo di scontrarsi con la Lega di Salvini e certa delle doti del suo dirigente. Invece, la realtà si è incaricata di dimostrarle come l’ex sindaco di Cagliari sia caduto proprio nella città che aveva amministrato, subendo una sconfitta con 10 punti di distacco rispetto alla neo presidente di centrosinistra Alessandra Todde.
IL RISCHIO ABRUZZO
Il rischio, ora, è che lo stesso effetto Sardegna travolga un altro dirigente della generazione Atreju. Quello che nel suo libro Meloni ricorda come «un ragazzo alto», soprannominato «il Lungo» che lei incontra quando per la prima volta mette piede in una sezione dell’Msi a Roma: al secolo Marco Marsilio, oggi presidente uscente e ricandidato alla regione Abruzzo. All’epoca della prima candidatura fu Meloni a spingerlo perchè voleva un suo uomo di fiducia nella prima regione che FdI si candidava a guidare. Poi seguirono le Marche nel 2020, dove venne candidato ed eletto un altro “Atreju”: Francesco Acquaroli che punterà alla riconferma nel 2025.
La candidatura bis di Marsilio non è mai stata messa in discussione, nonostante qualche timido tentativo della Lega. Gli ultimi sondaggi risalgono a prima del voto sardo e davano l’uscente testa a testa con il candidato di centrosinistra Luciano D’Amico, sostenuto come Todde sia dal Pd che dal Movimento 5 Stelle.
Il timore di Meloni, allora, è che un altro suo alfiere cada ad appena due settimane dalla sconfitta in Sardegna (in Abruzzo si vota il 9 e 10 marzo), proprio nella regione dove la cavalcata di FdI è cominciata. Un luogo simbolico, tanto che la premier ha scelto il collegio l’Aquila-Teramo per essere eletta in parlamento nel 2022.
I LIMITI
«Meloni non riesce a scollarsi di dosso il passato. Valuta la fedeltà più di tutto il resto, anche a scapito del merito», è il commento lapidario di un parlamentare di FdI, che non fa parte di quella generazione e guarda con distacco alla cerchia ristretta degli ex ragazzi del Fronte della gioventù. Una percezione, questa, che arriva anche dalle truppe parlamentari più anziane, transitate in FdI da An o da altri partiti e che osservano senza poter intervenire.
Il timore sa crescendo nei territori, è emerso in molti dei congressi locali e in Sardegna è esploso con la sconfitta: la premier, artefice del successo del suo partito, mantiene una regia dall’alto, romanocentrica e inflessibile, anche nella scelta dei candidati locali. E anche a costo di silenziare ogni dissenso o dubbio.
Non a caso, la scelta di Truzzu è arrivata da Roma, come anche quella di Marsilio cinque anni fa in Abruzzo. Una tecnica questa, che è sempre andata di pari passo con campagne elettorali in cui il viso sorridente di Meloni surclassava quello del candidato nella cartellonistica. Le amministrative, però, sono elezioni delicate che rispondono a dinamiche territoriali, che poco si sposano con la scelta di Meloni di trattare le regioni come feudi, dove collocare i suoi vassalli.
(da editorialedomani.it)
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Febbraio 29th, 2024 Riccardo Fucile
NON ERA LEI LA RESPONSABILE DELL’ORDINE PUBBLICO, MA HA PAGATO PER TUTTI… TRASFERITO IN LIGURIA E PROMOSSO ANCHE IL DIRIGENTE DELLA QUESTURA DI PISA
Silvia Conti non ha avuto alcun ruolo nella gestione dell’ordine pubblico a Pisa. Non ha quindi ordinato lei di manganellare gli studenti che manifestavano per la Palestina.
Eppure è lei la prima a pagare mentre i genitori dei ragazzi promettono cause collettive e 15 poliziotti sono a rischio inchiesta. Insieme a due commissari e a un dirigente della questura.
Conti, dirigente del reparto mobile di Firenze dal 2021, è la responsabile della Celere. Il dirigente del reparto mobile però ha un ruolo preciso nella gestione dell’ordine pubblico: organizza uomini e mezzi nella sede del reparto inviandoli poi nel luogo della manifestazione. A gestire la piazza però poi è il funzionario della questura locale. E fonti del Viminale spiegano oggi a La Stampa che la sostituzione era in qualche modo programmata.
In pensione a settembre
Perché la dirigente aveva chiesto da tempo di tornare nella sua città d’origine: Pescara. Al suo posto, dicono i sindacati, arriverà Francesco Trozzi, fino a oggi responsabile dell’ottavo reparto volo di Firenze.
«Il dirigente del Reparto Mobile non è responsabile di eventuali tensioni, ma pende in capo al dirigente del servizio individuato dall’autorità di pubblica sicurezza del questore», spiega il segretario generale del Siulp di Firenze Riccardo Ficozzi.
Silvia Conti ha comunque mandato gli uomini a fare ordine pubblico nelle piazze della cittadina toscana. Anche nella zona tra via San Frediano e piazza dei Cavalieri dove sono arrivate le cariche. Mentre La Repubblica scrive che la comandante del reparto mobile pagherebbe anche la scelta di mandare a Roma, per l’ordine pubblico della manifestazione davanti al Viminale di domenica 25 febbraio, gli stessi uomini che avevano svolto il servizio a Firenze e Pisa.
La carriera
Conti ha fatto carriera nella polizia stradale prima di diventare una delle prime donne a comandare un reparto mobile di una città. Ieri, quando si è diffusa la notizia dell’allontanamento, è stata a lungo applaudita dal personale. E lei stessa è sembrata sorpresa dalla scelta del ministero dell’Interno. Intanto la procura sta cercando di capire chi fossero i poliziotti che hanno inseguito i manifestanti dopo le prime manganellate dopo averli colpiti una prima volta. E intanto ha lasciato il suo posto il dirigente della questura responsabile dell’ordine pubblico.
Il quale sarebbe stato frainteso dagli uomini del reparto mobile quando ha chiesto di mettere maggiore distanza tra loro e i manifestanti. Ma anche nel suo caso la promozione e il trasferimento in Liguria erano stati già decisi da tempo.
Le indagini sui ragazzi
Anche il ministero dell’Interno ha avviato un’indagine amministrativa. Ma la questura ha identificato alcuni dei giovani che hanno partecipato alla manifestazione. Perché due poliziotti si sono fatti refertare per le ferite riportate in piazza. Ora rischiano denunce per manifestazione non autorizzata. La Digos ha ricevuto la delega per l’indagine. Chi rischia di più è il poliziotto che ha rotto il naso a una ragazza. E che ora rischia l’accusa di lesioni. Per identificarlo si studiano le immagini delle videocamere di sicurezza.
(da agenzie)
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Febbraio 29th, 2024 Riccardo Fucile
E FOMENTA LA BASE CONTRO IL SEGRETARIO: “LO VOTANO PERCHE’ SCRITTO SUL SIMBOLO, MA SE CI FOSSE SCRITTO NUTELLA NON CAMBIEREBBE NULLA”
Alessandra Todde ha vinto le elezioni per il ruolo di Presidente
della Sardegna, vedendo il centrodestra uscirne come perdente. E il leghista Mario Borghezio è tornato alla carica: “È la conseguenza di aver accettato, da parte della Lega, la sostituzione di un candidato identitario come Solinas. Bisognava resistere”. E su Calenda: “Il suo è un partito della partitocrazia…”
Dopo la sconfitta della destra alle elezioni regionali in Sardegna, che hanno visto vincitrice Alessandra Todde, abbiamo intervistato Mario Borghezio, storico esponente della Lega della prima ora e rappresentante dell’ala dei puri e duri, per chiedergli come vadano le cose a Palazzo. Di chi è la responsabilità? C’è una parte dei leghisti nostalgici di Bossi? A quanto pare sì: “Votano Salvini perché la Lega adesso si presenta alle elezioni con un simbolo su cui c’è scritto grosso come una casa Salvini. Ma se ci fosse scritto Nutella, voterebbero lo stesso”. E su Calenda: “Non confondiamo sacro e profano. Quello di Calenda è un partito della partitocrazia italiana, che è uno degli aspetti della mafiosità politica”. E, per quanto riguarda la politica estera? Essendo questa un pomo della discordia per molte alleanze tra partiti, lui ci dice cosa ne pensa della possibile vittoria di Trump in vista delle prossime elezioni.
Mario Borghezio, come valuta il risultato delle elezioni in Sardegna?
Credo che sia la conseguenza di aver accettato, o aver dovuto accettare da parte della Lega, la sostituzione di un candidato identitario, come Solinas, rappresentativo del forte sentimento identitario e autonomista dei sardi. Si è scelto, invece, un rappresentante partitico molto meno in sintonia con questo sentimento diffuso.
E che cosa bisognava fare?
Bisognava resistere. Si è scesi a un compromesso perché si è sbagliato.
Ha già una sua idea di Alessandra Todde?
Penso che sia un personaggio di cui dobbiamo ancora scoprire sia i lati positivi che quelli meno. Ma l’esperienza Bossi mi ha insegnato che chi vince ha ragione.
A proposito di Bossi, lui ha detto di soffrire a vedere la Lega in questo modo. Concorda?
L’errore più grave che la Lega potrebbe commettere è quello di dimenticare la propria natura di movimento politico assolutamente e imprescindibilmente identitario.
Salvini però sta dando una sua linea alla Lega.
Non mi sembra che spostare le scelte di punta politiche su quelle come il ponte dello stretto abbia un legame anche solo fantasioso con le esigenze del territorio. Se c’è qualcosa di cui non gliene fotte proprio niente ai siciliani e ai calabresi è proprio il ponte sullo stretto. A tutto l’apparato di potere che in Italia storicamente condiziona la politica, e che si chiama partito degli appalti, interessa molto invece. Ma un partito identitario non condiziona le proprie scelte ai desiderata del super partito degli appalti.
Lei è della Lega ma non si riconosce nel leader del suo partito. Non è un po’ strano?
Io sono della Lega ma mi riconosco esclusivamente nella natura identitaria di un movimento che tale è e che tale deve restare. La Lega è quello e chi si allontana da quello sbaglia. I risultati si sono visti
Ma come mai se non si riconosce in questo partito ne fa ancora parte?
Perché per quanto mi riguarda la Lega non è né Borghezio né Salvini. La Lega è la sua storia, la sua identità e i suoi militanti. Secondo me i veri leghisti la pensano come me.
Ma sono tanti a votare Salvini
Votano Salvini perché la Lega adesso si presenta alle elezioni con un simbolo su cui c’è scritto grosso come una casa Salvini. Ma se ci fosse scritto Nutella, pensando che comunque c’è il guerriero e che dietro c’è la Lega, voterebbero persino nutella.
Ma, ragionando in questi termini, non sta svilendo lo stesso partito a cui lei appartiene?
No, perché penso che l’attaccamento alla natura originaria del movimento sia il marchio di fabbrica dell’azione politica di Borghezio. Io non sono uno che cambia partito perché è in minoranza rispetto ai centri decisionali o perché emarginato rispetto ai centri decisionali del movimento. Mi sentirei leghista anche se pensassi che la maggioranza dei militanti non lo è più. Anche se penso che la maggioranza dei militanti sia identitario è profondamente leghista.
(da mowmag.com)
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Febbraio 29th, 2024 Riccardo Fucile
PREVISTO UN RIMBALZO: “LE VITTORIE MOBILITANO CHI ERA DISILLUSO, MA SARA’ DECISIVA LA SCELTA DEI CANDIDATI”
Che effetto può avere il voto della Sardegna sui prossimi appuntamenti elettorali? Esiste insomma un possibile effetto psicologico per cui, scoperto che il centrodestra non è imbattibile, un pezzo di elettorato finora deluso e sfiduciato torni alle urne o magari cominci a guardare a sinistra come opzione vincente? Risposte certe non possono ovviamente esserci, ma qualche riflessione si può fare.
Carlo Buttaroni, presidente di Tecnè, fa delle premesse sostanziali sul voto sardo: il centrodestra ha preso più voti, quindi dire che la maggioranza è in crisi di consenso non è corretto; la vittoria è quindi di Alessandra Todde, un successo personale.
«Le vittorie sono sempre un coagulante – sostiene Buttaroni – ma queste elezioni lasciano sul tavolo dei dossier aperti per entrambe le coalizioni. Bisogna quindi essere molto cauti, nel caso specifico del centrosinistra va detto che è ancora tutta una coalizione da costruire, che deve darsi ancora una prospettiva a lungo termine. Con le Europee in arrivo, dove ognuno punterà per sé, lo slancio può quindi diventare una frenata che disorienta gli elettori».
Il presidente di YouTrend, Giovanni Diamanti, parla di effetto bandwagon, cioè carrozzone, una sorta di “istinto del gregge” che condiziona le scelte. «In generale una vittoria elettorale porta entusiasmo e mobilita chi per disaffezione o disillusione veniva dato per indeciso, o chi credeva che il centrosinistra non avesse alcuna chance. Dopo ogni tornata amministrativa chi vince ha un piccolo boost nei sondaggi nazionale», riflette.
Ci sarebbe la domanda da un milione di dollari, cioè se questo effetto è quantificabile in termini percentuali: inutile farla, nessun sondaggista lo sa, ça va sans dire. «Mi aspetto comunque un rimbalzo positivo sia per il Pd che per il M5S», conclude Diamanti.
«Sicuramente le vittorie galvanizzano l’elettorato dormiente, questo succede sia nel centrodestra che nel centrosinistra – dice Antonio Noto, direttore di Noto sondaggi -. Chiaramente il risultato sardo ha dato un racconto completamente diverso rispetto all’attualità di un Parlamento a maggioranza di centrodestra».
E però, continua Noto e in questo è in piena sintonia con Buttaroni, «in Sardegna c’è stato più un effetto Todde che un effetto campo largo, il centrodestra infatti ha preso più voti, bisogna fare molta attenzione quando si proietta un dato locale sul nazionale».
Un fattore interessante è che «anche una coalizione che non è forte sui numeri ma poi si identifica con un leader forte, e infatti ormai viviamo il tempo di partiti dei leader, di figure singole che raccontano il posizionamento del partito, può risultare competitiva. Quindi dalla Sardegna proietterei sul nazionale un altro elemento: quanto la forza del leader sia fondamentale per creare consenso».
(da agenzie)
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Febbraio 29th, 2024 Riccardo Fucile
IL GOVERNATORE USCENTE DI FDI AL 50,4%, D’AMICO (SOSTENUTO DA PD, M5S, VERDI, AZIONE E ITALIA VIVA) AL 49,6%, CON TANTI INDECISI
Recentemente, è stato condotto un sondaggio di opinione da
Winpoll focalizzato sulle elezioni regionali in Abruzzo. Questa indagine, realizzata tra il 17 e il 21 febbraio 2024, mirava a catturare le intenzioni di voto e le opinioni della popolazione abruzzese in vista delle prossime elezioni regionali.
Pubblicato il 23 febbraio 2024, lo studio si è avvalso di interviste telefoniche per raccogliere dati da un campione di 1.600 individui, rappresentativo della popolazione regionale per sesso, età e precedenti intenzioni di voto. Andiamo a vedere cosa rivelano i sondaggi Winpoll sui favoriti alle elezioni regionali 2024 in Abruzzo.
I risultati hanno evidenziato un quadro piuttosto vario dell’opinione pubblica riguardo l’operato dell’amministrazione del presidente Marco Marsilio. Il 16% degli intervistati ha valutato positivamente l’operato dell’amministrazione, mentre una percentuale leggermente più alta (18%) inclina verso un giudizio più benevolo che critico.
La maggioranza, pari al 29%, si posiziona in una fascia neutrale, non esprimendo un giudizio definito, mentre il restante 37% distribuisce il proprio dissenso tra le opzioni più critico (15%) e molto critico (22%).
COME VALUTA L’OPERATO DELL’AMMINISTRAZIONE DEL PRESIDENTE MARCO MARSILIO
Molto bene 16%
Più bene che male 18%
Né bene né male 29%
Più male che bene 15%
Molto male 22%
Notorietà e fiducia nei candidati
Quando si tratta della notorietà degli esponenti politici regionali, Marco Marsilio gode di un’ampia riconoscibilità (97%), seguito da Luciano D’Amico con una percentuale del 73%. La fiducia nei loro confronti si attesta al 47% per Marsilio e al 59% per D’Amico, indicando una maggiore inclinazione della popolazione abruzzese a riporre fiducia in quest’ultimo.
Ovviamente, il tasso di riconoscibilità per Marsilio risulta inversamente proporzionale alla fiducia nei suoi confronti, presumibilmente per il semplice fatto che dal 2019 Marsilio è già presidente della Regione e quindi già noto e il suo operato già noto, nel bene e nel male, e soggetto alla valutazione degli elettori sardi.
La competizione per la presidenza della regione appare estremamente serrata tra i candidati in corsa, con Marsilio che raccoglie il 50,4% delle preferenze contro il 49,6% di D’Amico, escludendo gli indecisi e coloro che non intendono votare (34%). Per quanto riguarda le liste partecipanti alle elezioni regionali, il panorama è frammentato: Fratelli d’Italia si distingue con il 25,2% delle preferenze, seguito dal Partito Democratico al 17,8% e dal Movimento 5 Stelle al 13,4%. Le restanti preferenze si distribuiscono tra le varie liste minori, con percentuali che variano dallo 0,8% al 10,2%. Numeri leggermente diversi dai sondaggi politici BiDiMedia sullo stesso tema.
Interessante notare come, a differenza delle intenzioni di voto sondate a livello nazionale, per quanto riguarda le elezioni regionali in Abruzzo, il gap tra Fratelli d’Italia e il Partito Democratico sia meno ampio, visto che sono solo 7,4 i punti percentuali di distanza che li separano. Ancora più vicini, poi, il Movimento 5 Stelle e il Partito Democratico, separati da soli 4,4 punti percentuali.
(da agenzie)
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Febbraio 29th, 2024 Riccardo Fucile
“LE ALTRE DETENUTE MI SCRUTANO A DISTANZA COME SE FOSSI UNA CREATURA STRANA. FORSE PERCHÉ I MEDIA LOCALI MI HANNO TRASFORMATO IN UN MOSTRO SBATTUTO IN PRIMA PAGINA, NON POSSO PARLARE NEANCHE CON MIA MADRE. NON POSSO E NON VOGLIO CREDERE CHE QUESTA PAZZIA SIA REALE”
A più di un anno dal suo arresto, l’11 febbraio del 2023, Ilaria Salis racconta, nel suo diario dal carcere, i primi giorni della prigionia. La vita in cella, l’illusione della libertà negli spostamenti tra il penitenziario e la questura, l’impossibilità di comunicare con sua madre, l’incredulità per il rinnovo della detenzione dopo un mese da reclusa. Nuove lettere che Repubblica insieme con il Tg3 è in grado di pubblicare in esclusiva, consegnate dall’Ambasciata Italiana ai familiari che hanno deciso di mostrarle.
Gyorskocsi Utca. Cella 615. Primi di marzo 2023
Sono in cella da sola e fortunatamente non soffro troppo la solitudine. Devo ammettere che talvolta mi sorprendo a rivolgere due parole al piccione che si posa sul davanzale al di fuori delle sbarre, allo sgabello o all’armadietto. Tutte le mattine vedo uno spettacolo straordinario che purtroppo non vedrò mai più dalle celle successive. Vedo l’alba. A quell’ora – che non so esattamente che ora sia – normalmente mi sto già allenando. Lo sport è il mio unico passatempo perché purtroppo non ho neanche un libro.
L’ora d’aria è anche l’unico momento durante la giornata in cui vedo altre detenute. Con alcune riesco a comunicare in qualche idioma più o meno noto. Le altre mi scrutano a distanza come se fossi una creatura strana. Forse per gli stivali bizzarri che indosso, forse perché i media locali mi hanno trasformato in un mostro sbattuto in prima pagina e mi precede una sinistra fama di “flagello dei nazisti”, o forse semplicemente perché sono straniera aspetto con impazienza i tanto desiderati contatti con le persone care in Italia e scrivo lunghe lettere, immaginando che un giorno non lontano potrò spedirle. Non vedo l’ora! Appena potrò comunicare sarà tutto più facile…
Per combattere la noia ogni tanto gioco con la fantasia, come fanno i bambini. La mia fervida immaginazione talvolta inventa epiloghi rocambolesche per quella che al momento considero alla stregua di una strana disavventura. Purtroppo nel tempo la realtà assumerà una forma ben più drammatica e crudele rispetto ai bozzetti tracciati dall’immaginazione. Un anno dopo sarà ancora sepolta nel profondo di questo Tartaro e quelle lettere, che per lunghi mesi non avrò la possibilità di spedire, diventeranno il canovaccio per questo diario.
7 marzo 2023
La porta si apre e dicono “Police”. Faccio per uscire dalla cella, ma mi fanno cenno che devo indossare qualcosa di più pesante. Non capisco cosa succede, devo uscire dal carcere? Dove mi portano? E soprattutto perché? Mi dicono che tra qualche ora sarò di ritorno in prigione. Sono di nuovo nelle mani della polizia di Questura; Oltrepassiamo il fiume e così scopro che la prigione si trova a Buda, mentre la questura si trova a Pest.
Sono chiusa a Gyorskocsi da 21 giorni esatti e la libertà, la vita normale, il mondo esterno sono realtà ancora vicine e vive. Qualche ora dopo, riportata in prigione e chiusa di nuovo nella cella, mi assale un turbine di vitalità confusa. In preda a umori altalenanti, sono dilaniata dal profumo di libertà che mi ha accarezzato poche ore prima, mentre il mio corpo è costretto in quel Tartaro. E’ molto dura: il corpo deve abituarsi a una condizione nuova e per nulla naturale e il cervello deve fare pace con se stesso e accettare il fatto di essere in prigione.
9 marzo 2023
Ventiseiesimo giorno di prigionia. Evviva! E.T. TELEFONO CASA (sì, proprio il piccolo extraterrestre, perché, quando ci hanno tirati giù da quel taxi, è stato come essere rapiti dagli abitanti di un altro pianeta). Finalmente ricevo il magico telefono verde! Faccio due chiamate brevi perché purtroppo ho pochi soldi e perché “tanto adesso ci sentiamo quando vogliamo”. Parlare nella mia lingua, ascoltare voci affettuose e percepire la vicinanza delle persone scatena in me emozioni devastanti. Qualcosa esplode il mio petto e per la prima volta le mie guance sono rigate da calde lacrime.
10 marzo 2023
In mattinata mi consegnano quasi un migliaio di pagine di documenti di indagine scritti in quella lingua aliena, che è per me l’ungherese. Dicono che il mio arresto sarà rinnovato. Io davvero all’inizio non avevo capito. Quando il giudice aveva detto che ci metteva in prigione per un mese, io avevo capito che era un mese e basta, non che si poteva rinnovare. Ricevo anche la notizia che tutti i miei contatti sono vietati, bloccati per ordine della Procura Generale di Budapest capitale. TUTTI. In pratica non posso parlare neanche con mia madre. Non posso e non voglio credere che questa pazzia sia reale.
Non è possibile, li ho sentiti ieri per la prima volta dopo settimane! Non oso immaginare come saranno preoccupati ed affranti i miei. Ed io sono qui in prigione in un paese che non conosco, senza contatti e non capisco quasi nulla di ciò che accade intorno a me. Mi sento tumulata viva, segregata in un mondo alieno, in un baratro oscuro “dove ‘l sol tace”.
(da La Repubblica)
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