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DAL PORTO AL “SISTEMA TOTI”, IL POTERE DELLE ‘NDRINE LIGURI

Maggio 19th, 2024 Riccardo Fucile

LA MAFIA CALABRESE HA OCCUPATO INTERI TERRITORI DELLA REGIONE E CONTROLLANO PACCHETTI DI VOTI

Le grandi navi cargo attraccate alle banchine grigie. Le muraglie di container gialli, blu, rossi, bianchi, pescati e spostati da una parte all’altra da gru simili a grattacieli. Nel disordine apparente regna l’ordine tra i moli del porto di Genova, nella “città vecchia” di Fabrizio De Andrè, con quell’«aria spessa carica di sale, gonfia di odori». La lingua di terra stretta tra palazzi a ridosso delle montagne e il mare è il palcoscenico di affari milionari, gestito dai padroni dello scalo marittimo che vivono delle concessioni pubbliche e che per mantenerle hanno sedotto la politica a suon di quattrini. Traffico di mazzette. Non il solo che circola nelle arterie portuali sotto la Lanterna.
Cinque anni fa la Guardia di finanza ha sequestrato sessanta borsoni con due tonnellate di cocaina provenienti dalla Colombia. L’allora procuratore della Repubblica aveva detto alla stampa che «il porto di Genova ha preso il posto di quello di Gioia Tauro». Gioia Tauro, provincia di Reggio Calabria, per un decennio hub prediletto dalla ‘ndrangheta e dai loro narcos alleati. Poi però i controlli eccessivi hanno spinto i clan a investire ad altre latitudini: Rotterdam, Anversa, Marsiglia, Livorno e, appunto, Genova.
In questa storia di cocaina, che vale miliardi di euro, destinata al mercato di tutta Europa, troviamo l’organizzazione criminale che ha fatto della Liguria una sua succursale prestigiosa: la ‘ndrangheta, in particolare quella ‘ndrangheta composta da cosche provenienti dalla provincia di Reggio Calabria, da Gioia Tauro a Locri, capitali dei clan che esprimono narcotrafficanti di primissimo livello, legati ai cartelli sudamericani.
La mafia calabrese ha occupato interi territori della regione, ora al centro dello scandalo politico che ha travolto il presidente della giunta ligure, Giovanni Toti. L’indagine della procura del capoluogo ligure ha confermato un sospetto che circolava da anni: un rapporto incestuoso tra imprenditoria e amministratori pubblici.
I primi, come l’armatore Aldo Spinelli, interessato a incassare le proroghe di concessioni dall’autorità portuale. I secondi affamati di denaro per le loro campagne elettorali faraoniche. Il presidente della regione Liguria, Giovanni Toti, è ancora ai domiciliari con l’accusa di corruzione, così come Spinelli, mentre in carcere si trova Paolo Emilio Signorini, l’ex capo dell’autorità portuale. Ma la stessa indagine ha documentato pure la capacità delle cosche di controllare e offrire pacchetti di voti.
DUE FILONI DI INDAGINE
L’indagine per come la conosciamo oggi è la somma di due filoni distinti, entrambi maturati tra il 2019 e il 2020. Il primo politico-imprenditoriale nato dalla notizia di alcuni finanziamenti ricevuti da Toti provenienti da aziende i cui business erano appesi a decisioni in capo alla regione o all’autorità portuale.
Il secondo è nato a La Spezia e puntava a dimostrare il voto di scambio con i clan, con una presenza ingombrante come quella del capo di gabinetto del presidente, Matteo Cozzani. Il risultato di questa saldatura investigativa è aver svelato la punta nascosta dell’iceberg. E cioè il sistema sommerso di accordi, favori e corruzione. Con i capi bastone dei clan nei panni di mercanti di voti venduti al miglior offerente.
Una lunga informativa della Guardia di finanza, agli atti dell’inchiesta Toti, è dedicata solo ai rapporti tra la politica e gli uomini della mafia, in particolare della mafia siciliana, famiglia Cammarata di Riesi, provincia di Caltanissetta. Ma è scavando un poco più a fondo in questo terreno melmoso che affiora il profilo dell’organizzazione che in Liguria governa le dinamiche criminali, ha deciso elezioni, ha portato a scioglimenti di consigli comunali inquinati dalla sua ingerenza.
«Cosa nostra genovese è risultata anche in stretto collegamento con altre forme di criminalità organizzata, in particolare quella calabrese», è scritto in un rapporto degli investigatori che hanno indagato sui voti sporchi offerti alle liste collegate a Toti. Torniamo, dunque, alla ‘ndrangheta.
GENOVA NOSTRA
«Se vogliamo lavori…qua a Genova…bisogna parlare con Cianci…perché qua a volte fanno i lavori a trattativa privata». Cianci è Domenico Cianci, eletto consigliere regionale nella formazione “Cambiamo Toti presidente”: 4.564 preferenze, terzo candidato più votato della lista nella circoscrizione di Genova.
A parlare, intercettato, era Luigi Mamone. Parole riportate nell’informativa della Guardia di finanza sulla famiglia Mamone, originaria della Calabria, indicata in decine di rapporti come l’anello di congiunzione tra le cosche della piana di Gioia Tauro e l’imprenditoria che conta in Liguria. Il capostipite era Luigi Mamone, deceduto nel 2021, a capo di un gruppo aziendale molto attivo negli appalti pubblici, settore bonifiche ed edilizia.
Le parentele e le amicizie conducono all’apice delle cosche di ‘ndrangheta che contano: le famiglie Raso-Gullace, nel gotha dell’organizzazione mafiosa. Anche i Mamone, in contatto con i siciliani indagati per voto di scambio con il capo di gabinetto di Toti, hanno avuto contatti diretti (incontri documentati) con Cianci.
Alcuni indagati sostengono che il politico totiano abbia «tirato fuori tanti soldi (…)» e riferendosi ai voti dei clan calabresi, commentavano: «I calabresi sono molto uniti, più uniti di noi», cioè dei referenti siciliani.
Il riferimento potrebbe essere, per esempio, a un altra figura della ‘ndrangheta genovese, tale Carmelo Griffo, legatissimo al boss Paolo Nucera di Lavagna. Solo che, come spesso accade in queste storie di politica e mafia, gli eletti credono di poter tradire i patti, dimenticando il profilo dei loro interlocutori.
Ma Griffo non ha avuto problemi a stimolare la memoria dello smemorato Cianci, beneficiario di un suo pacchetto di voti: «Lei è un pagliaccio, un pagliaccio di merda», diceva alterato al consigliere regionale che non aveva rispettato i patti pre elettorali.
La ‘ndrangheta in Liguria, e in generale al nord, è così: perlopiù silente, ma sempre pronta ad applicare i metodi che l’hanno resa famigerata in tutto il mondo.
SANTISSIMA LIGURIA
Da Ventimiglia, Bordighera, a La Spezia fino a Genova, una cosa è certa: le cosche di ‘ndrangheta hanno offerto in questi anni una carrellata di boss dai profili variegati. C’è Domenico Gangemi, il capo genovese, ufficialmente fruttivendolo nel quartiere poco distante da Marassi. Gangemi intercettato dalle microspie, nel lontano 2009, al capo dei capi in Calabria diceva: «Pare che la Liguria è ‘ndranghetista». Nel Ponente ligure, invece, al confine con la Francia l’identikit del padrino sfuma in un imprenditore che per molto tempo ha goduto dell’indifferenza persino della magistratura. È il caso di Bordighera, qui la famiglia Pellegrino ha lavorato nelle costruzioni e nel movimento terra. Il comune era stato sciolto per mafia, poi il Consiglio di stato aveva annullato il provvedimento. Identico destino per Ventimiglia, dove ha comandato fino alla sua morte, nel 2017, Giuseppe Marcianò. Anche Lavagna è stato sciolto per infiltrazione mafiose, provvedimento confermato. E solo alcuni giorni fa, nel pieno della bufera giudiziaria su Toti, sono arrivate le condanne all’ex parlamentare e già sindaca, Gabriella Mondello, per corruzione elettorale. Ancora un volta di mezzo c’era un boss di ‘ndrangheta. Una costante dove c’è potere e denaro. Anche questo è il “sistema” Liguria.
(da editorialedomani.it)

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“IL FOGLIO”: PER I DEPUTATI DEL M5S, ALLA CAMERA, È L’ORA DI DIRE ‘CHE ALLE EUROPEE, LA PERCENTUALE PIÙ CREDIBILE, QUELLA CHE IL MOVIMENTO PUÒ RAGGIUNGERE, È L’UNDICI PER CENTO’”

Maggio 19th, 2024 Riccardo Fucile

IN PIEMONTE E LIGURIA, LE REGIONI ROCCAFORTI, SI VIAGGIA INTORNO ALL’OTTO. SI METTE MALE

La pochette ha perso le punte. Elly Schlein ci sta stazzonando Giuseppe Conte, il virtuoso della lingua, il leader garbuglio e talco. Era un Conte, ma ora vive ammezzato tra Meloni e Schlein, al piano 11 (per cento). Per i deputati del M5s, alla Camera, è l’ora di dire “che alle europee, la percentuale più credibile, quella che il Movimento può raggiungere, è l’undici per cento”.
In Piemonte e Liguria, le regioni roccaforti, si viaggia intorno all’otto[…], nove.
Il candidato più conosciuto, Pasquale Tridico (il suo piatto preferito è il riso in bianco) è sparito come Nino Manfredi spariva in Africa nel film di Scola.
Si mette male. Senza Conte sulla scheda, il M5s sembra la targa di un’auto elettrica. Quel gran genio del suo amico, Rocco Casalino, ha consigliato a Conte la “scanzata”, vale a dire il modello Andrea Scanzi, l’invettiva in calzamaglia nera, lo stogo del drammaturgo-giornalista del Fatto quotidiano.
L’ex premier si è messo a girare i teatri d’Italia. Il 10 maggio, a Milano, era al Dal Verme, ieri ad Ancona, e bisogna riconoscere che i teatri li riempie più di come (non) riesce a Grillo. Si veste con giacca nera, camicia nera e auricolare. Sale sul palco, annuncia i cinque punti del Movimento, dice che “l’Europa è a un bivio” e che se l’Italia vuole evitare l’escaietion non può che scegliere “i costruttori di pace”.
Un’ora e mezzo di spettacolo, poi, nei minuti finali, la presentazione dei candidati che, a dire il vero, neppure i loro parenti conoscono. La star, la capolista nell’Italia centrale, è Carolina Morace, l’ex allenatrice della nazionale di calcio femminile.
Conte ha deciso di non correre alle europee e ha annunciato che proporrà una legge contro i candidati che truffano gli elettori. Chi sono? Sono i leader che si candidano ma non andranno in Europa, due come Meloni e Schlein, due leader che si sarebbero confrontate se solo l’Agcom e Conte non avessero fermato.
Alla Rai, Conte ha risposto “giammai”, che piuttosto che vedere Meloni e Schlein duellare da Vespa, lui urla che Renzi ha fatto anche cose buone. Racconta uno dei parlamentari del M5s che “lo sanno tutti che i sondaggi delle europee sono sempre lusinghieri ma i risultati, le urne, hanno poi dimostrato che a quei numeri bisogna sottrarre almeno un cinque per cento.
Casalino è troppo occupato con i traslochi di casa e i toni fuori misura del M5s non stanno pagando. La questione morale questa volta funziona poco. Un baronetto di Conte (pensate che solo la Lega abbia i suoi dissidenti?) rivela che la fortuna di Conte e che su Chiara Appendino, l’unica che può prendere il suo posto, pesa come un macigno il processo per i fatti di Torino. L’altra, Alessandra Todde, altra fortuna, è stata eletta in Sardegna. Via.
Schlein ha già vinto, grazie a Meloni. Il mancato duello ha fatto parlare per settimane del duello. La sua candidatura, non gradita dagli altri candidati del Pd, ha fatto conoscere tutti i candidati che da Schlein sarebbero stati danneggiati. Un Conte non può mai avere paura di esibirsi, candidarsi. L’ex premier ha invece scelto il teatro, che riempie, ma a ingresso libero, gira l’Italia ma gli spettatori non conoscono gli attori della sua compagnia. E’ finito nel piano ammezzato dei leader, la rampa degli appartamenti senza luce. La peggiore. Un consiglio? Se suonano al citofono non risponda. E’ Salvini, il suo vicino di piano: “Giuseppe, lo facciamo un confrontino?”
(da Il Foglio)

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GEORGIA, LA PRESIDENTE METTE IL VETO SULLA LEGGE FILO RUSSA: “CI ALLONTANA DALLA UE E CI AVVICINA A PUTIN”

Maggio 19th, 2024 Riccardo Fucile

MA IL PARLAMENTO DI TBILISI POTREBBE ORA AGGIRARLO CON UN NUOVO VOTO A MAGGIORANZA SEMPLICE

La presidente della Georgia Salomè Zourabichvili he messo il veto sulla controversa legge sugli «agenti stranieri» approvata in via definitiva dal Parlamento pochi giorni fa, bloccandone – almeno per il momento – l’entrata in vigore.
La mossa della presidente europeista era largamente attesa, dopo che migliaia di cittadini georgiani sono scesi in piazza per mesi – sfidando spesso la linea dura della polizia – per chiedere il ritiro della legge proposta dal partito di governo Sogno Georgiano.
La fetta pro-europea dell’opinione pubblica e i governi occidentali considerano la nuova normativa pericolosamente vicina a quella adottata sul tema nella Russia, e dunque un passo rilevante per portare la Georgia lontano dalla democrazia se non tra le braccia di Vladimir Putin.
Nel merito, la legge approvata in via definitiva il 14 maggio prevede che tutti quegli enti – tra cui mezzi d’informazione e organizzazioni non governative – che ricevono più del 20 per cento dei loro fondi da istituzioni straniere debbano registrarsi come «organizzazioni portatrici degli interessi di una potenza straniera».
Tale definizione li costringerebbe, tra l’altro a condividere informazioni riservate, pena sanzioni fino a circa 10mila dollari. Per le forze d’opposizione e i manifestanti, ricalca quella adottata da Mosca nel 2012 per reprimere il dissenso e ostacolare il lavoro dei media. Per il governo della Georgia è, invece, uno strumento necessario per la trasparenza finanziaria degli enti non governativi e la salvaguardia della sovranità nazionale.
Il messaggio della presidente e il futuro della legge
«Oggi ho posto il veto alla legge russa – ha detto la presidente Zourabichvili in un video-messaggio pubblicato anche sui suoi canali social – Questa legge è russa nella sua essenza e nel suo spirito. Contraddice la nostra Costituzione e tutte le norme europee, quindi rappresenta un ostacolo sul nostro cammino europeo. Questo veto è giuridicamente corretto e sarà comunicato oggi al Parlamento: è un testo che non è soggetto ad alcuna modifica o miglioramento, quindi il veto è molto semplice. Questa legge deve essere abrogata». L’esercizio del potere di voto da parte della presidente europeista complica l’iter della legge, ma non ne scongiura del tutto la futura applicabilità.
Il Parlamento di Tbilisi, controllato dal partito di governo Sogno Georgiano, potrà infatti ora aggirare il veto presidenziale riapprovando la norma con un voto a maggioranza semplice. Ci si aspetta che lo farà già nei prossimi giorni.
(da agenzie)

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IL POSTO FISSO NON CONQUISTA I GIOVANI: LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE PERDE DIPENDENTI

Maggio 19th, 2024 Riccardo Fucile

FANNO ECCEZIONE INPS E FISCO CJE PAGANO MEGLIO… PREVISTE 170.000 ASSUNZIONI CHE BASTERANNO SOLO A COPRIRE CHI VA IN PENSIONE

«Il posto fisso è sacro!», intimava Lino Banfi a Checco Zalone mentre lo schiaffeggiava in Quo Vado. Sebbene, però, siano passati solo otto anni dall’uscita del film del comico pugliese, i nuovi lavoratori sembrano avere un approccio molto diverso: avrebbero perso il fascino per la Pubblica Amministrazione. Un disamore fotografato dai numeri: solo nei ministeri, si sono persi 40mila dipendenti nell’arco di dieci anni. Mentre i dati del conto annuale del Tesoro indicano che nei Comuni la perdita è stata di oltre 60mila addetti. E i concorsi pubblici non sembrano attrarre particolarmente i giovani (e meno giovani) alla ricerca di un’occupazione. Fanno eccezione Inps e Fisco, che pagano meglio: sono previste 170mila assunzioni l’anno. Ma basteranno solo a coprire chi va in pensione.
Nord vs Sud
In controtendenza rispetto al trend generale, la scuola ha visto crescere assunzioni e personale: nell’ultimo decennio il dato è passato da un milione a un milione e 200mila dipendenti. Ma ci sono anche lavori nella Pubblica Amministrazione che i giovani non vogliono fare più, dagli ispettori del lavoro agli impiegati nei municipi. Questi sono i dati riportati dal Messaggero, che cita l’ultimo conto annuale del Pubblico impiego della Ragioneria generale dello Stato. La mancata aspirazione alla confortevole stabilità garantita dal «posto fisso» non è l’unico dato che sfata i luoghi comuni: per esempio, risultano esserci più dipendenti statali al Nord che nel Mezzogiorno. Nel Settentrione, infatti, risultano lavorare nei municipi 5,83 persone ogni mille abitanti, mentre al Sud il dato si ferma a 5,34.
Il futuro
Il disinteresse nei confronti del posto pubblico, tuttavia, potrebbe essere solo un fenomeno momentaneo. La «decrescita infelice» degli ultimi anni, infatti, sembra aver già subito una battuta d’arresto nel 2023. Quando, secondo le stime della Ragioneria, per la prima volta nel decennio il personale pubblico è tornato ad aumentare. Si tratta di una flessione quasi impercettibile: nemmeno 50mila dipendenti su un totale di 3,2 milioni. Ma potrebbe diventare più significativa nel prossimo futuro: i dipendenti pubblici hanno un’età avanzata (l’età media si attesta attorno ai 50 anni). E, dopo anni di blocco del turn over, le assunzioni sono riprese. La domanda adesso è: basterà sostituire chi va in pensione per risolvere il problema della carenza degli organici?
(da agenzie)

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LICENZIARSI PER CERCARE LA FELICITÀ PERDUTA? NON È UNA GRANDE IDEA

Maggio 19th, 2024 Riccardo Fucile

IL 56% DI CHI HA LASCIATO IL LAVORO NELL’ULTIMO ANNO IN ITALIA SE NE È PENTITO. LO DICE UNA RICERCA DEL POLITECNICO DI MILANO … CRESCE IL MALESSERE PSICO-FISICO DI CHI HA UN POSTO FISSO: SOLO IL 5% È FELICE IN UFFICIO E IL 13% NON RIESCE A STACCARE MAI E LAVORA ANCHE NEL TEMPO LIBERO

Oltre la metà di chi ha lasciato il lavoro nell’ultimo anno se ne è pentito. A stabilirlo è l’ultimo rapporto dell’Osservatorio Hr Innovation Practice della School of management del Politecnico di Milano realizzato insieme alla società di ricerche di mercato Bva Doxa. Che fornisce altri dati sulla salute psicofisica negli uffici, tra cui quello sul malessere diffuso: solo il 5% degli italiani è felice in ufficio e il 13% lavora anche nel tempo libero.
Solo il 5% degli impiegati oggi è «felice» in ufficio, il 9% di «stare bene». Il 42% degli italiani è spinto a cambiare da malessere e infelicità. Chi lo ha fatto nel 2023 però vorrebbe tornare indietro nel 56% dei casi: «Continua così la Great Resignation, ma anche il Great Regreat, dice il report, che misura un incremento del 37% rispetto al 2023 in questo pentimento.
Chi ha mollato il posto fisso comunque lo ha fatto alla ricerca del «benessere fisico e mentale» nel 36% dei casi, anche se sono sempre di più le persone che cambiano per migliori opportunità di carriera e di occupabilità nel medio-lungo termine.
Dal quadro dipinto dallo studio emerge una costante incapacità di conciliare vita e occupazione. Si intercetta nel malessere generale ma anche nell’incremento dei cosiddetti Job Creeper, cioè coloro che non riescono a staccare mai e lavorano anche quando dovrebbero curare la vita privata. Nel 2023 questa percentuale è stata del 13% contro il 6% dell’anno precedente.
Rimane stabile la quota dei «Quiet Quitter», cioè gli impiegati che fanno il minimo indispensabile senza lasciarsi coinvolgere emotivamente dalle attività professionali.
Tra i fattori che allontanano aziende e dipendenti c’è la formazione. Le imprese non sono quasi mai in grado di offrire agli aspiranti dipendenti un salario, una possibilità di carriera e uno stile di vita in linea con le aspettative. Ecco perché, dice lo studio, «il luogo di lavoro è sempre meno un posto dove le persone «stanno bene». Questo contribuisce anche al mancato incontro tra domanda e offerta.
L’88% delle organizzazioni italiane fatica ad assumere nuovi dipendenti. E il mancato allineamento è dovuto soprattutto all’assenza di competenze adeguate sia tecniche, nel 57% dei casi, che relazionali (le cosiddette soft skills), nel 36%.
(da Il Corriere)

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