Giugno 1st, 2024 Riccardo Fucile
L’UOMO CHE NE SPARA UNA AL GIORNO
Si scherzava, l’altro giorno, in Transatlantico. Lollogaffe di qua, Lollogaffe di là. Insomma scopro che sono proprio certi deputati di Fratelli d’Italia ad aver dato un soprannome a Francesco Lollobrigida, ministro dell’Agricoltura e della sovranità alimentare (boh) e quasi cognato di Giorgia Meloni, essendo quasi marito di sua sorella Arianna, la potentissima e temuta Arianna.
Tra di noi – tra noi cronisti- l’idea che addirittura qualche Fratello ironizzasse su Lollobrigida, è sembrata però davvero una stupida crudeltà. Nemmeno voi, un po’ di solidarietà? Siete così spietati? Allora barcollavano e se ne andavano fischiettando alla buvette, lasciandosi dietro il solito mantra dell’io non ti ho detto niente, non ci provare a mettermi in bocca niente, io poi sono pure amico di Lollo da vent’anni e se qualche volta non le azzecca, beh, non è certo colpa mia.
In realtà, Lollogaffe ne infila una dietro l’altra. Inizia con uno strafalcione sulla «sostituzione etnica», citando la teoria del filosofo austriaco Richard Nikolaus di Coudenhove – Kalergi (chiese scusa: «Sono ignorante, non razzista. Fino a ieri non sapevo chi fosse il signor Kalergi»). Però, ci ricasca: «In Italia spesso i poveri mangiano meglio dei ricchi». Un giorno, ferma addirittura un Frecciarossa. Esatto: un Frecciarossa. Una roba che fa infuriare l’opinione pubblica.
Così da Palazzo Chigi sono costretti a raccontarci la storiella che chiunque, volendo, può fermare un Frecciarossa. Tutti pensiamo: beh, adesso Lollo si darà una calmata. Invece, niente.
«Per fortuna la siccità colpirà molto di più alcune regioni del Sud, in particolare la Sicilia…» (forse voleva dire altro, forse ci ha messo un «per fortuna» di troppo, e però, insomma, no?). Poi, una botta alla Kissinger di Tivoli: «Quante guerre non ci sarebbero state di fronte a cene ben organizzate?». Insomma: una gaffe al giorno.
(da Corriere della Sera)
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Giugno 1st, 2024 Riccardo Fucile
PIAZZA DEL POPOLO RIEMPITA MENO DELLA META’: UN BRUTTO SEGNALE PER I SOVRANISTI CHE ORMAI PREFERISCONO SPARTIRSI LE POLTRONE CHE STARE IN PIAZZA SOTTO IL SOLE
Sono le tre di pomeriggio circa quando Giorgia Meloni prende la parola sul palco installato a piazza del Popolo a Roma.
Il momento è centrale: la chiusura di settimane di campagna elettorale per le europee, l’unico evento pre-elezioni a cui la presidente del Consiglio ha preso parte personalmente, quando al voto manca ormai solo una settimana.
Da giorni i militanti del partito invitano e spingono a partecipare, ricordano l’appuntamento del 1° giugno, e ci sono spedizioni partite da diverse parti d’Italia (campeggia una bandiera di Fratelli d’Italia Liguria nella platea). Ma la piazza, di fatto, è mezza vuota.
Come Fanpage.it ha potuto osservare direttamente, la folla presente durante il comizio di Giorgia Meloni arrivava fino a metà della piazza. Ma restava un ampio spazio vuoto al fondo della piazza, come si può osservare anche dalla foto scattata quando la presidente del Consiglio aveva già iniziato a parlare. Per di più, su entrambi i lati della folla restava parecchio spazio da riempire.
Se è vero che solitamente la capienza di questa piazza si stima in circa trentamila persone (sarebbero oltre sessantamila se fosse del tutto sgombra, ma bisogna tenere in considerazione il palco e il backstage che ne occupano una buona parte), qui sembrerebbe che non ce ne fossero nemmeno la metà.
Certo, ci sono delle attenuanti. È il 1° giugno, la primavera è inoltrata, la giornata a Roma (e non solo) è soleggiata e calda, e l’orario scelto – alle 14 l’inizio dell’evento, alle 15 circa l’intervento di Meloni – non è di quelli che spingono le persone a mettersi in una piazza, ferme, sotto il sole. E non sarà l’evento di oggi a compromettere il risultato elettorale di Fratelli d’Italia.
Resta comunque il dato di fatto, testimoniato dalle immagini: per quanto la presidente del Consiglio abbia rivendicato all’inizio del suo discorso, “torneremo sempre alla piazza per ricordarci chi siamo”, oggi la piazza è stata piuttosto vuota.
(da Fanpage)
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Giugno 1st, 2024 Riccardo Fucile
L’EMITTENTE TV CBS NEWS HA ANNUNCIATO CHE BIDEN HA RAGGIUNTO UN ACCORDO PER SPEDIRE IN ITALIA 500 IMMIGRATI SUDAMERICANI, NELL’AMBITO DI UN ACCORDO DI “REINSEDIAMENTO”: E’ IL PIANO DELLA CASA BIANCA PER RIDURRE GLI INGRESSI ILLEGALI DALLA FRONTIERA CON IL MESSICO – I COMUNICATI DISCORDANTI DI PALAZZO CHIGI E VIMINALE E LA PROMESSA MANCATA SUI CENTRI IN ALBANIA
A Washington devono avere buona memoria. E così, impegnati con una emergenza migranti eccezionale, hanno preso al volo quella che era stata una proposta volutamente seria di Giorgia Meloni: l’Italia potrebbe aprire le porte ai venezuelani.
Festa di Atreju 2018, la futura premier dichiara dal palco: «Sono cristiani, sono spesso di origine italiana. Io dico: ci servono immigrati? Prendiamoli in Venezuela. È un’immigrazione più vicina alla nostra cultura».
Detto, fatto. L’emittente tv Cbs News ieri annunciava che l’Amministrazione guidata da Joe Biden avrebbe raggiunto un accordo per inviare in Italia cinquecento immigrati sudamericani, nell’ambito di un accordo di «reinsediamento» a cui parteciperebbero anche Grecia, Spagna e Canada. La strategia farebbe parte del piano della Casa Bianca per ridurre gli ingressi illegali dalla frontiera con il Messico.
La notizia manda in tilt palazzo Chigi. Siamo a ridosso delle elezioni. Il tema dell’immigrazione è già abbastanza caldo. Meloni, anzi, sta organizzando per il 5 giugno una trasferta in Albania, con Matteo Piantedosi, per visitare il primo dei due centri in costruzione per il trattenimento di migranti. La presentano come un’ispezione sul campo.
È evidente che è campagna elettorale: siccome i lavori sono in ritardo, ma procedono, la premier vuole sventolare la sua bandierina sul tema e raccontare all’elettorato che i ritardi sono minimi.
Ecco, nel pieno di questa strategia elettoral-comunicativa, precipita come un meteorite la notizia di Washington. Palazzo Chigi si affretta a precisare: «La ricostruzione di Cbs è del tutto fuorviante».
Non si nega un incontro tra diplomatici, ma «è attualmente allo studio un’ipotesi di reciprocità, secondo la quale gli Usa ospiterebbero rifugiati presenti in Libia con la volontà di recarsi in Europa, mentre alcuni Stati europei del Mediterraneo ospiterebbero poche decine di profughi sudamericani.
Per quanto riguarda la nostra nazione, si tratterebbe di circa venti rifugiati venezuelani di origine italiana per avviare percorsi lavorativi in Italia. Discussione al momento solo allo studio e che risulterebbe, in ogni caso, molto vantaggiosa proprio per Italia e Stati europei di primo approdo». I numeri, insomma, sarebbero molto diversi. E la filosofia di fondo non dispiacerebbe a Meloni perché nel solco di quanto teorizzato in quel comizio del 2018.
Anche il Viminale è preso alla sprovvista dalle indiscrezioni. Ulteriore precisazione, molto più netta di quella di Palazzo Chigi: «L’Italia non darebbe mai un assenso alla ricollocazione di centinaia di persone sul proprio territorio nazionale in considerazione dei già notevolissimi sforzi sostenuti sul fronte dell’accoglienza di migranti». Se saranno venti o poco più, il ministero dell’Interno può accettarli. Tanto più se si tratta di venezuelani, oppositori del comunista Nicolas Maduro, considerato un nemico dal governo della destra italiana. Se fossero diverse centinaia, allora no.
Va ricordato che dall’inizio dell’anno sono 20.865 i nuovi sbarcati, meno della metà rispetto ai 50.355 sbarcati un anno fa. Il comunicato di Palazzo Chigi tradisce un riflesso condizionato di Meloni. Non c’è nessuna emergenza, gli stessi dati del governo lo smentiscono, ma la premier ha comunque bisogno di tenere il punto sui migranti, anche in una sfida tutta interna alla destra con Matteo Salvini.
L’Albania doveva essere il cuore del suo grande piano di svolta, un hub per alleggerire i confini italiani dall’obbligo di verificare lo status dei rifugiati. E invece i ritardi si sono sommati, i lavori sono appena all’inizio. E così Meloni si è trovata a dover giustificare una promessa mancata: e cioè che i centri per i richiedenti asilo, soccorsi in acque internazionali, sarebbero stati pronti per la fine di maggio. Un risultato che avrebbe voluto sbandierare al termine a pochi giorni dal voto.
(da La Stampa)
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Giugno 1st, 2024 Riccardo Fucile
VIAGGIO A GJADER E SHENGJIN, DOVE DOVREBBERO SORGERE LE STRUTTURE PREVISTE DALL’ACCORDO… LAVORI AFFIDATI IN SUBAPPALTO A DITTE MISTERIOSE ALBANESI E KOSOVARE, ALLA FACCIA DELLE NORME ANTIMAFIA
Alle tre del pomeriggio Gjader è un paese fantasma. Come fantasmi saranno i migranti che, sognando l’Europa, verranno deportati all’ombra di questa montagna grazie all’accordo tra Giorgia Meloni e il presidente dell’Albania, Edi Rama.
Gadjer è una frazione del vicino comune di Lezhe, nord del paese, a 50 chilometri dal confine con il Montenegro e dal Kosovo. Ricorda quei vecchi film western con edifici in legno che cadono a pezzi. Qui, però, i muri delle case sono in cemento scrostato.
Il borgo, stretto attorno a un’unica strada tappezzata di buche, conta una trentina di abitazioni a uno e due piani sparse da un lato e dall’altro. L’unico sussulto di vita è in un bar con quattro pensionati che si sfidano a carte. A un altro tavolo è seduto un quarantenne sorridente e disoccupato, che sfugge alle nostre domande. Nessuno vuole parlare del grande centro per migranti. Solo i signori tra una partita e un’altra, sbuffano qualche parola in albanese che il traduttore sintetizza così: «La politica decide sopra le nostre teste».
Il cantiere di Gjader è la smentita più eclatante delle promesse diffuse da Radio propaganda Meloni, che aveva assicurato con enfasi alla nazione che le strutture sarebbero state pronte per maggio 2024.
Il nostro giornale, in una inchiesta pubblicata il 10 aprile scorso, aveva già rivelato il cronoprogramma interno del 3° reparto Genio dell’Aeronautica, al quale il ministero della Difesa ha assegnato con una determina la realizzazione dei centri in Albania stanziando 65 milioni di euro.
La prima struttura sarà a Shengjin e l’altra, appunto, a Gjader. Il cronoprogramma, dicevamo: indica la fine lavori dopo 223 giorni a partire da fine marzo, quindi a fine ottobre – novembre. Tabella di marcia stilata sulla base di relazioni scritte dai militari dopo i sopralluoghi nelle aree interessate in cui sono state segnalate alcune criticità che hanno dilatato i tempi. Altro che inaugurazione entro maggio.
L’inizio della deportazione in Albania dei migranti “invasori” del patrio suolo può così attendere. E sebbene non esista alcuna emergenza in atto (lo rivelano i numeri degli sbarchi), il governo non arretra. Anzi, chiede celerità.
Perciò nella determina sono previste deroghe su deroghe per l’affidamento a ditte esterne di lavori. Fornitori locali dei quali non si conosce nulla. Prima però di addentrarci nel centro di Gjader è necessario tornare sulla costa, nel paese di Shengjin, a trenta minuti di auto dal paese fantasma, dove è quasi pronta la struttura realizzata nel porto commerciale che funzionerà da hotspot, cioè da centro di identificazione. Da lì, poi, i migranti verranno trasferiti a Gjader.
«Non potete entrare». Alla fine, l’uomo davanti all’entrata del porto, si fa capire in una lingua che assomiglia all’italiano condito da alcune parole in albanese. Non c’è verso di fargli cambiare idea. Solo la mattina successiva, autorizzati dal capo dell’autorità portuale di Shengjin, un sessantenne brizzolato e fumatore incallito, riusciamo finalmente ad accedere nel porto che, per volere di Giorgia Meloni, è diventato anche un po’ italiano o della nazione, per usare il termine che più ama la presidente del Consiglio.
Appena varcata la soglia, sulla sinistra, appare una struttura che assomiglia a un super carcere: imponente per le inferriate di grigio scintillante che sembrano toccare il cielo. Servono per impedire la fuga. Per dare colore a questa struttura carceraria, i moduli prefabbricati sono stati poggiati su un prato verde finto, dall’alto sembra un campo di calcetto. Ma di ludico questo spazio non ha nulla.
Per molti sarà solo l’anticamera dell’inferno: i migranti deportati fin qui dalle navi italiane sosteranno giusto il tempo per essere identificati, per le visite mediche. I più fortunati potranno compilare la richiesta di asilo, il destino di altri sarà il rimpatrio ma sempre dopo una sosta a Gjader. Intanto tra navi cargo e pescherecci attraccati ai moli è tutto, o quasi, pronto per il taglio del nastro. Ma comunque vada sarà un’inaugurazione inutile, una passerella: dove verranno mandati i migranti identificati se l’altro, il vero centro, di Gjader è ancora inesistente?
«Questo accordo non riguarda i minori e altri soggetti vulnerabili», aveva assicurato la premier durante la conferenza stampa di novembre, quando con l’omologo albanese aveva presentato il contenuto del protocollo. Le procedure accelerate di frontiera, che dovrebbero essere applicate alle persone che verranno rinchiuse nei centri, non possono, per legge, essere destinate a minori, disabili, anziani, donne in gravidanza, vittime della tratta di esseri umani e altri soggetti con esigenze particolari.
Le imbarcazioni delle autorità italiane dovrebbero, secondo quanto previsto dall’accordo, portare in Albania le persone salvate in acque internazionali. Ma non è possibile determinare se un soggetto può essere o meno considerato vulnerabile su una barca durante i trasbordi e le delicate operazioni di salvataggio. Occorre personale specializzato.
A ogni modo queste rassicurazioni fatte da Meloni durante la conferenza stampa non sembrano corrispondere alla realtà. Da una mappa dei locali interni del centro di Shengjin, visionata da Domani e allegata a una relazione del Genio militare dopo un sopralluogo di gennaio scorso, è previsto un locale di 28 metri quadri chiamato “attesa minori”.
Quegli stessi minori ai quali, per legge, dovrebbero essere garantite le procedure ordinarie. Un giallo che nessuno è ancora riuscito a chiarire.
Anche perché l’Aeronautica, cui fa capo il 3° reparto Genio, ha risposto che per quanto riguarda le informazioni sui progetti albanesi sono maneggiate da un non meglio precisato livello governativo. E neppure la Difesa a oggi ha saputo indicare a chi rivolgerci per avere risposte sui minori e anche sulla filiera oscura degli appalti.
FILIERA SENZA NOME
Ritorniamo quindi a Gjader, il grande cantiere segreto finanziato con milioni di euro degli italiani. A chi vanno a finire questi soldi? Di certo non solo ad aziende della “nazione”. Qui i lavori vanno a rilento.
L’area vista dall’alto, con le immagini realizzate da Domani, appare come una landa arida popolata da gru, escavatori e camion, stretta tra la montagna e una schiera di case. Il sito è un terreno di 70mila metri quadri offerto da Rama all’Italia: un tempo era una base dell’aeronautica militare albanese. Va bonificato persino da eventuali ordigni bellici, è scritto dei documenti ufficiali letti dal nostro giornale.
La struttura sarà una sorta di Cpr all’italiana, potrà contenere oltre 800 persone. «I centri saranno pronti entro la fine di maggio», ripetevano all’unisono ministri e parlamentari, mentendo spudoratamente anche quando era chiaro che non sarebbe stato così. Difficile credere che buona parte dell’esecutivo fosse all’oscuro del vero cronoprogramma in mano al 3° reparto Genio dell’Aeronautica.
Nel centro di Gjader nulla è pronto: dall’impianto fognario alla rete idrica, neppure è iniziata la bonifica di eventuali ordigni bellici da cercare fin dentro i tunnel e i rifugi presenti in quel terreno. Il sorvolo dell’area, perciò, svela il costosissimo bluff di Meloni: oltre ai 65 milioni per la costruzione vanno aggiunti centinaia di milioni per la gestione e la sicurezza interna assicurata dalle nostre forze di polizia in trasferta ben pagata.
Al bluff si somma la riservatezza e l’opacità attorno a questo cantiere pubblico. Al Genio è stata concessa la possibilità di affidare senza gara forniture di vario tipo senza alcuno screening. Fare presto è l’imperativo che arriva da Roma. Figurarsi se c’è il tempo per effettuare verifiche antimafia. «In ragione dell’urgenza e della rilevanza si prevedono i seguenti affidamenti a operatori esterni», è scritto nella determina di affidamento.
«Lavorano 6 compagnie con operai albanesi e kossovari divisi su tre turni sulle 24 ore», conferma un poliziotto di guardia all’entrata secondaria del cantiere.
Di queste aziende, tuttavia, non c’è traccia in nessun cartello di cantiere. A chi vanno, perciò, parte dei fondi pubblici dello stato italiano? Ad anonimi fornitori albanesi e kossovari. Qualcuno sospetta suggerite da ambienti governativi albanesi. Contattato, il presidente Rama non ha risposto alle nostre reiterate richieste di intervista.
Sul cartellone dei lavori è, invece, indicata l’azienda progettista: Akkad, società di ingegneria, sede a Roma. Direttore tecnico dell’azienda è Fabrizio Palmiotti, il suo nome è emerso in un’inchiesta della procura di Matera sugli appalti pubblici.
La società ha declinato la nostra richiesta di commento: avremmo voluto conoscere più dettagli di quella vicenda. Sullo stesso cartellone alla voce impresa esecutrice troviamo scritto Ri.Group della provincia di Lecce. Il rappresentante legale è Salvatore Tafuro: coinvolto in un’inchiesta, ma «prosciolto nel 2020 con sentenza di non luogo a procedere per intervenuta prescrizione», è la risposta dell’azienda da tempo in affari con la Difesa e che si è aggiudicata per 5milioni di euro la realizzazione dei prefabbricati di Gjader.
La catena dei fornitori, come da determina, ricade in capo al 3° reparto Genio dell’aeronautica. Ma neppure da loro al momento abbiamo ricevuto risposte sul tipo di verifiche fatte prima di stipulare contratti con aziende locali.
«La criminalità organizzata albanese è abile nell’inserirsi dove ci sono fondi pubblici», spiega un’autorevole fonte della super procura anti corruzione di Tirana, la Spak. Ma in questo grande bluff dei patrioti al governo, la priorità non è capire a chi finiscano i soldi, si tratta, piuttosto, di tagliare il nastro per dare il via alla deportazione dei migranti per gestire un’emergenza inesistente.
(da editorialedomani.it)
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Giugno 1st, 2024 Riccardo Fucile
IL SOLITO SPOT ELETTORALE…. CON GLI ESERCENTI IN RIVOLTA PERCHE’ NON VOGLIONO APPLICARE LO SCONTO DEL 15%
L’annuncio arriverà il 6 giugno, ad appena 48 ore dall’apertura dei seggi. E lo farà il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida. Ecco, per il secondo anno, “Dedicata a te”, la social card del governo Meloni per i poveri con figli. Avrà più soldi, dovrebbero essere 500 euro dai 460 dell’anno scorso, ma l’importo è da fissare.
Andrà a più famiglie, 100 mila extra nelle stime, 1,3 milioni in tutto con Isee fino a 15 mila euro. Ci si potranno comprare più cose: non solo la spesa di selezionati beni alimentari (alcol escluso), ma anche prodotti del Made in Italy, benzina, abbonamento ai trasporti. Ma soprattutto: sarà operativa da settembre. Pubblicizzata a ridosso delle europee, distribuita da luglio alle Poste, spendibile in autunno.
Tempismo studiato
Un tempismo differito e non casuale. Il rinnovo della card è stato deciso in legge di Bilancio, quindi a dicembre. Così i soldi stanziati: 600 milioni a cui aggiungere circa 50 milioni avanzati l’anno scorso perché non richiesti o non spesi. Manca il decreto attuativo, atteso da cinque mesi (devono firmarlo quattro ministeri: Agricoltura di concerto con Mef, Lavoro e Imprese).
Non è ancora pronto, un ritardo studiato. Dovrebbe esserlo giustappunto per il grande spot del 6 giugno. Sempre che i rappresentanti della distribuzione, dopo il gelo del tavolo con Lollobrigida di martedì, diano il via libera. I rapporti sono tesi. E non è escluso che ci sia una rottura
Le tensioni con le imprese della distribuzione
Lo scontro ruota attorno allo sconto del 15% che il ministro chiede di applicare a chi acquista con la card, come accaduto lo scorso anno. Soltanto che il gioco non vale la candela. Quello sconto – spiegano Coop, Conad, Confcommercio, Confesercenti; Federdistribuzione – non è compensato dall’aumento degli scontrini, come paventato dal ministro. Le sigle sono rimaste scottate dall’iniziativa dello scorso anno, seguita dall’altrettanto poco attrattivo “trimestre tricolore” del ministro Adolfo Urso con alcuni prezzi calmierati. Bottino magro.
Ecco perché insistono con Lollobrigida per togliere lo sconto o abbassarlo. Il ministro vuole invece alzarlo, al limite lasciarlo variabile. Che siano i punti vendita a farsi la “guerra” per i poveri. Con lo spiazzamento possibile tra esercenti dello stesso territorio. Le categorie temono questo scenario. E proveranno a presentarsi compatte al prossimo tavolo, convocato in fretta e furia il 4 giugno. A ridosso del grande annuncio del 6.
Lo scambio con le commissioni sui buoni pasto
Come margine di trattativa e scambio, chiedono di limitare le commissioni sui buoni pasto che arrivano fino al 18% per i ticket emessi dalle imprese, contro il 5% di quelli assegnati ai lavoratori della Pa. Ma Lollobrigida ha già detto che il tema non è di sua competenza e che lui non può farci nulla, se non sensibilizzare colleghi di partito e di governo. E annunciare una carta che non c’è.
(da agenzie)
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Giugno 1st, 2024 Riccardo Fucile
L’ISEE RICHIESTO E’ SCESO DA 9.360 EURO A 6.000 … LE OFFERTE DI LAVORO SONO 8.234 NON 233.000 COME HA DETTO LA MELONI… I CORSI DI FORMAZIONE HANNO ACCOLTO IN REALTA’ SOLO 24.000 PERSONE E AL SUD NON SONO MAI PARTITI
Secondo la presidente del Consiglio Giorgia Meloni chi percepiva il Reddito di cittadinanza (Rdc) ed era in grado di lavorare non si dava abbastanza da fare.
A dimostrarlo, ha sostenuto a Dritto e Rovescio su Rete4, il fatto che solo il 12 per cento di chi ha perso il Reddito perché “occupabile” ha poi fatto domanda per il Supporto formazione e lavoro (Sfl), l’indennità da 350 euro al mese destinata alle persone in povertà assoluta che frequentano una politica attiva, come ad esempio i corsi di formazione. E tutti gli altri? Sfaticati, secondo la logica di Meloni, che però fa acqua da tutte le parti, addirittura rivedendo al ribasso le cifre dichiarate dalla ministra del Lavoro, Marina Calderone.
Mancano i dati
Il governo ha smesso di fornire i dati sulle misure che hanno sostituito il Reddito di cittadinanza, l’Assegno di inclusione (Adi) al via da gennaio e, appunto, il Supporto formazione e lavoro partito il primo settembre scorso.
Sul sito del ministero del Lavoro le ultime note sono del 2023 e il poco che si è saputo in seguito è uscito solo grazie ad alcune interrogazioni parlamentari. Così, a tutto beneficio della sua campagna elettorale, Meloni è libera di comunicare cifre che difficilmente si possono verificare.
Proviamo comunque a capirci qualcosa. A fine 2022 il governo Meloni ha deciso che le persone in povertà assoluta 18-59enni senza minori, disabili o over 60 nel proprio nucleo famigliare sono in grado di lavorare, e quindi non hanno diritto al Rdc. Il governo aveva calcolato 404mila occupabili, ai quali limitare a 7 le mensilità da erogare nel 2023. Salvo poi escluderne 191mila perché “presi in carico dai servizi sociali, in quanto non attivabili al lavoro”. Ad agosto l’Inps ha poi calcolato che a perdere il Reddito nel 2023 sarebbero state 230mila persone. In larga parte sole, per lo più in età avanzata, con bassi livelli di istruzione e residenti al Sud.
Da Calderone numeri diversi
A gennaio è la ministra Calderone a precisare che la platea potenziale degli ex Rdc per il nuovo Supporto formazione e lavoro è di circa 250mila persone. Un dato definitivo, visto che il Reddito era oramai abolito e le ultime, poche migliaia di “occupabili” avevano smesso di percepirlo a dicembre.
Secondo la percentuale fornita ora da Meloni sarebbero dunque 30mila gli ex Rdc che hanno fatto domanda per il Supporto. Peccato che a gennaio Calderone parlasse di 50mila domande, cioè il 20 per cento di 250mila, non il 12 dichiarato in tv da Meloni.
Chi delle due dà i numeri? Visto che il ministero dice di non avere dati pronti da fornire alla stampa, non si può che sperare in un chiarimento.
Nel frattempo, e a differenza di Meloni, si può e si deve fare qualche distinguo. Per ricevere il Sfl serve un Indicatore della situazione economica equivalente (Isee) sotto i 6.000 euro, mentre per il Reddito la soglia era di 9.360 euro. In altre parole, bisogna essere ancora più poveri e questo ha ridotto la platea potenziale degli ex percettori del Reddito.
Silenzio anche sui tanti working poor, la parte dei beneficiari Rdc che un lavoro ce l’aveva. Secondo l’Anpal si trattava di un quinto dei 404mila “occupabili” inizialmente stimati, probabilmente un terzo della platea effettiva. Avrebbero dovuto lasciare lavoro e stipendio, per quanto insufficiente, e accettare i 350 euro offerti dal governo? Avrebbero fatto un pessimo affare.
Il muro di gomma
Al netto delle cifre da campagna elettorale c’è una realtà fatta di ostacoli burocratici, cortocircuiti informatici e muri di gomma, denunciata e raccontata anche dal Fatto. E proprio a partire dalla nuova piattaforma citata anche da Meloni, Siisl, sulla quale la premier vanta 228mila posti di lavoro offerti.
Il dato corrisponde, conferma Inps, ma precisa: “Attualmente “attive” su Siisl ci sono 8.234 offerte di lavoro (10.920 posti disponibili)”. Ottomila offerte su tutto il territorio nazionale non sono un granché. Né si tratta di offerte alle quali i poveri ex percettori di Rdc possono sempre ambire, anzi. Istat e Ufficio parlamentare di bilancio (Upb) avevano provato ad avvertire il governo: solo il 30 per cento degli “occupabili” ha un’istruzione superiore alla scuola dell’obbligo, spesso non sono giovani e il 65 per cento vive nel Mezzogiorno, dove la domanda di lavoro è molto bassa.
Abbandonati dallo Stato
Ma chi li sente Istat e Upb? A rendere gli “occupabili” davvero tali, promise invece il governo, ci avrebbero pensato i corsi di formazione. Che per disoccupati di lunga data, magari ultracinquantenni, servono a poco e in alcune regioni, in particolare nel Mezzogiorno, non sono mai partiti. Che l’offerta sia inadeguata lo dicono anche al ministero e grazie a una recente interrogazione parlamentare è emerso che le persone prese in carico per il Supporto formazione e lavoro sono oggi 110mila, ma solo 24mila ha fatto un corso di formazione.
Così chi fa domanda per il Sfl si arrabatta per ricevere i 350 euro facendo bilanci di competenze e simulazioni di colloqui di lavoro, spesso non riuscendo a percepirlo tutti i mesi e infatti la maggior parte non ha ricevuto più di tre mensilità dallo scorso settembre. Centri per l’impiego ed enti di formazione confermano che a rinunciare sono in tanti, e che per tanti la sensazione è quella di essere stati abbandonati dallo Stato.
Che invece preferisce dare la colpa a loro raccontando che dietro al Reddito di cittadinanza si nascondeva una marea di sfaticati. Peggio: lo fa sparando cifre a proprio uso e consumo mentre continua a nascondere i dati alla comunità scientifica, all’informazione, ai cittadini.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Giugno 1st, 2024 Riccardo Fucile
CHI PARTECIPA AI BANDI DEL MINISTERO SI PRESTA A CONSIGLIARE DI VOTARE PER I CANDIDATI DI FDI INDICATI DAL MINISTRO DELL’AGRICOLTURA
«Carissimo associato, solo per chi alle Europee dell’8 e 9 giugno intendesse votare Fratelli d’Italia, dalla segreteria dell’onorevole Lollobrigida ci hanno indicato che i candidati di Fratelli d’Italia sensibilizzati sui temi propri dei prodotti agroalimentari Dop e Igp nel collegio Nord Ovest sono: Paolo Inselvini, Federica Picchi; nel collegio Nord Est Guglielmo Garagnani e Valeria Manotav».
La lettera è del Consorzio Tutela Grana Padano e a firmarla sono il presidente Stefano Berni e il direttore generale Renato Zaghini. L’hanno inviata ai 140 associati. E, ricorda Repubblica, i consorzi sono in corsa per ottenere finanziamenti milionari per bandi ancora aperti.
La lettera
La lettera prosegue indicando altre preferenze: «Nel Nord Est, sempre riferendosi alla lista di Fratelli d’Italia, si segnala che l’assessore regionale veneto Elena Donazzan si è sempre dimostrata sensibile alle tematiche a noi care».
Dal Consorzio, contattati dal quotidiano, ci tengono a precisare che non si tratta di un «invito a votare FdI»: «Premesso che i nostri soci sono politicamente trasversali e noi sempre abbiamo sostenuto in occasione di elezioni politiche ad amministrative candidati vicini alle nostre tematiche. «Indipendentemente dal loro partito come testimoniano per puro esempio gli appoggi a De Castro e Carra del Pd, Fava della Lega, Fiori di Forza Italia e Beccalossi di An, ci teniamo a sottolineare di non aver scritto di votare FdI».
Il bando
Il Consorzio ha partecipato al bando per i contratti di filiera del ministero dell’Agricoltura con un progetto da 16,6 milioni di euro. Sono stati già finanziati 39 progetti per 640 milioni. Il Consorzio si è piazzato al 160esimo posto, ma proprio grazie a Lollobrigida il bando potrà contare su altri 2 miliardi di euro. Che consentiranno di arrivare fino alla fine della graduatoria.
(da agenzie)
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Giugno 1st, 2024 Riccardo Fucile
UNA NARRAZIONE FUORVIANTE E OFFENSIVA, TRA SPAGHETTATA IN CARCERE E L’ACCOGLIENZA DEL CAPITANO SCHETTINO
La narrazione trionfalistica del ritorno in Italia di Chico Forti non va giù a Selvaggia Lucarelli, che sui social demonizza l’accoglienza riservata al 65enne triestino rientrato nel nostro Paese dopo anni di prigionia negli Stati Uniti per l’omicidio di Dale Pike.
In un post social al vetriolo, la giornalista e opinionista ha denunciato quella che considera una narrazione fuorviante e offensiva nei confronti dei molti detenuti che vivono in condizioni disumane nelle carceri italiane.
«Non so se è più pietoso a) il racconto di Forti sull’accoglienza da RE in carcere b) il racconto su come Schettino, che in carcere evidentemente chiamano ancora “il comandante”, abbia chiesto di vederlo per dirgli “sei il mio eroe”. In pratica, un assassino si gongola del fatto che un uomo che se ne è scappato mentre una nave affondava e risucchiava in mare i suoi passeggeri sia fiero di lui», premette Lucarelli.
La spaghettata in carcere
In un colloquio nel carcere di Verona con Bruno Vespa, pubblicato sul Quotidiano Nazionale, Chico Forti ha raccontato quanto l’abbia colpito il vitto della prigione veneta: «Quando una guardia stava per togliermi una mela un po’ ammaccata, l’ho fermata: non vedevo una mela da 24 anni, nel carcere di Miami frutta e verdura non esistono. E poi la cucina curata dai compagni di cella: qui si può comperare di tutto e mi hanno accolto prima con gli spaghetti alla amatriciana e poi con quelli alle vongole. A Miami una sigaretta con tabacco di scarto costa 25 dollari». E come terza opzione tra le cose «pietose», Lucarelli mette proprio «la spaghettata in carcere, prassi comune in tutte le carceri del paese per tutti i detenuti».
L’intervista di Vespa
Lucarelli si avventa contro il tono leggero dell’intervista di Vespa a Forti, in cui il conduttore ha chiesto all’ex detenuto se tornerà a fare surf piuttosto che affrontare le gravi accuse di omicidio che lo riguardano: «Vespa che se la ride chiedendo non se si sia pentito di aver fatto fuori un uomo per bieche ragioni di denaro, ma se tornerà a fare surf. A FARE SURF. Il tutto sottolineando il dramma dell’omicida Forti rimandato in Italia senza neppure un calzino».
Dal canto suo, il 65enne ha sempre ribadito di essere innocente: «Io non ho mai pensato all’ergastolo, ma sempre al giorno successivo. Se credi in te e hai dei principi, procedi. Se non credi in te, ti suicidi. La mia roccia? Mia mamma: la mia energia. Lo sguardo di una persona di 96 anni si affievolisce. Nel suo ho visto i fuochi d’artificio».
«I detenuti ordinari vivono nel degrado»
Una narrazione inaccettabile secondo Lucarelli che chiude con una riflessione amara sulla condizione delle carceri italiane e sul trattamento riservato ai detenuti ordinari, spesso costretti a vivere in condizioni disperate e senza alcun privilegio: «Tutto questo in un paese in cui le carceri sono sovraffollate, in uno stato di degrado totale, con detenuti evidentemente di serie b che faticano ad accedere a servizi igienici decenti e cure e che se vogliono uscire per visitare un parente devono aspettare (se va bene) il suo funerale. Sempre che il funerale non sia il loro, visto il tasso di disperazione e suicidi in carcere», scrive. «Che paese di merda», conclude.
(da agenzie)
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Giugno 1st, 2024 Riccardo Fucile
“A RISCHIO ANCHE LA FAMIGLIA ITALIANA DI CUI E’ OSPITE”… L’INDIRIZZO DI DOVE TRASCORRE I DOMICILIARI PUBBLICATO SU SITI NEONAZISTI CON RELATIVE MINACCE
“Ilaria chiede il trasferimento nell’ambasciata d’Italia”. L’appello arriva da Roberto Salis, padre dell’attivista candidata alle Europee nella lista Alleanza Verdi e Sinistra, durante una tappa della campagna elettorale a Bari.
“Quello che ci aspettiamo dal governo italiano è che si occupi della difesa dei cittadini italiani – ha detto – Oggi Ilaria ha contattato l’ambasciatore italiano e ha chiesto di essere trasferita presso l’ambasciata d’Italia anche per evitare di esporre inutilmente a rischi di ritorsioni i cittadini italiani che in questo momento la stanno aiutando”.
E anche perché l’indirizzo al quale Ilaria Salis sta scontando i domiciliari a Budapest sarebbe stato condiviso da un gruppo di naziskin tedeschi. E quindi è ancor più in pericolo.
Roberto Salis ha rassicurato sulle condizioni di sua figlia, “sta un pelino meglio”, dice – come raccontato dalla stessa attivista in un’intervista a Repubblica – e da quando è ai domiciliari, “dorme meglio, non ha le cimici nel letto, mangia molto meglio, l’alimentazione ora la possiamo stabilire noi”. Ma “è ancora molto provata. Deve recuperare la forma fisica e dal punto di vista psichico è difficile capirlo perché è molto premurosa nei confronti dei suoi genitori. Non lascia intravedere eventuali segnali di debolezza”.
Salis ha poi lanciato un appello a “reagire con forza a questi soprusi che avvengono da stati dittatoriali che fanno parte della nostra Unione senza averne il merito per poterlo farle. Le regole in casa altrui dipende da come sono definite. Nel senso che se sono regole ingiuste o sbagliate vanno contestate. Non è possibile trovarsi in una situazione in cui in Europa nel 2024 ci sia una nazione in cui vengono tollerati degli atti che sono considerati apologia di nazismo in Germania e apologia di fascismo in Italia. Stare a guardare è da vigliacchi”.
Ha paragonato quello di sua figlia a “uno dei processi di Torquemada nell’inquisizione. Un modo di comportarsi che giustifica l’approccio di chi con le catene vuole dimostrare delle tesi costruite in maniera pretestuosa. Certamente non abbiamo mai perso la speranza perché se lo avessimo fatto avremmo fatto il loro gioco e se troviamo delle resistenze in noi aumenta la determinazione”. E infine ha chiarito: “Il caso di Chico Forti non c’entra nulla con quello di Ilaria”.
(da agenzie)
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