Maggio 16th, 2025 Riccardo Fucile
PER SALVINI, CHE DEVE FRONTEGGIARE I MAL DI PANCIA NELLA BASE PER LA SCELTA DEL GENERALE, C’E’ ANCHE LA GRANA TRENTINO CON IL LEGHISTA FUGATTI PRONTO A CORRERE PER LA TERZA VOLTA
Quattro vicesegretari e una piccola rivoluzione interna che genera molti malumori.
Matteo Salvini spiazza tutti e annuncia al consiglio federale il quartetto che lo affiancherà al vertice: Claudio Durigon, Alberto Stefani, Roberto Vannacci e Silvia Sardone.
Se i primi due sono riconferme, la novità è la promozione del generalissimo, fresco di tessera leghista, e l’arrivo della ex forzista lombarda Sardone come vice al posto di Andrea Crippa. Uno choc per i gruppi parlamentari, dove nessuno sapeva niente prima di aver letto la notizia sulle agenzie.
Resta muto il defenestrato Crippa, al quale Salvini assicura in futuro «un ruolo rilevante per il bene della Lega». Petto in fuori, il generale Roberto Vannacci, è invece al solito loquace.
E svela il senso politico che questa mossa ha per Salvini: attrezzare la Lega per una competizione sempre più serrata con (contro) Fratelli d’Italia e Giorgia Meloni. «Siamo l’unico vero partito sovranista in Italia – sottolinea infatti Vannacci all’ Adnkronos . Non facciamo finta e non ci pieghiamo ai compromessi. Non ci lasciamo ammaliare dagli inciuci».
Un messaggio chiaro e diretto a Fratelli d’Italia, che in Europa collabora con Ursula von der Leyen.
Salvini è consapevole che Vannacci, dentro la Lega, è sopportato a stento. Ma, come alle ultime Europee, ha bisogno della forza propulsiva dell’ex militare di estrema destra per puntellare la gara dei consensi con FdI. Quanto a Silvia Sardone, il segretario è convinto che possa crescere mediaticamente e politicamente fino a diventare l’anti-Meloni leghista.
Nasce infatti nella covata moderata di Guido Podestà, all’epoca ras berlusconiano della Lombardia. Poi passa sotto l’ala di Mariastella Gelmini, ma viene messa presto ai margini perché accusata di puntare troppo baldanzosamente alla corte del sovrano di Arcore.
Da lì la rottura e il passaggio alla Lega, di cui è diventata l’aralda sovranista nei talk in tv. L’interessata, naturalmente, ricambia con gratitudine e ringrazia per i gradi ricevuti: «Essere nominata vice segretaria, la prima donna nella storia della Lega, è per me un grande onore e una responsabilità che assumo con
entusiasmo».
Tra i tanti malmostosi per il giro di nomine, l’unico ad avere il coraggio di uscire fuori a viso aperto è il solito Luca Zaia, che sta a Vannacci come l’aglio ai vampiri. La sua dichiarazione è il gelo assoluto: «È una prerogativa del segretario scegliere i vice, è giusto e lo rispetto. Mi fermo qui. Nel senso che non è che cambio identità in base ai vice segretari».
Ma oltre ai vicesegretari, c’è un’altra enorme grana in vista per la Lega. La questione del divieto del terzo mandato per i presidenti di regione. Archiviata la pratica Zaia, dopo la sentenza della Corte costituzionale che ha stabilito il divieto di ricandidatura per le regioni a statuto ordinario, il problema è ora il Trentino.
Il leghista Maurizio Fugatti, in carica, ha già fatto sapere di essere pronto a correre per la terza volta. Ma Fratelli d’Italia e Forza Italia pensano, al contrario, che il divieto di terzo mandato debba per coerenza essere esteso anche alle regioni a statuto speciale.
Il ministro per le riforme Elisabetta Casellati ha anticipato l’intenzione dell’esecutivo di impugnare la legge che consentirebbe la ricandidatura di Fugatti. I termini scadono il 19 maggio e proprio lunedì ci sarà il Consiglio dei ministri che potrebbe decidere per l’impugnativa. «La questione – ha spiegato Casellati – è che se c’è una legge di una provincia a statuto speciale che parla di terzo mandato, un problema si pone nel rapporto con la legge ordinaria».
Salvini ieri ha sparato in aria il suo bengala: «Mi auguro che l’esecutivo non impugni la legge»
(da La repubblica)
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Maggio 16th, 2025 Riccardo Fucile
TAJANI PROTESTA: “CERCANO DI DIVIDERE L’UE. È UN ERRORE GRAVISSIMO” … GIORGIA MELONI CONTINUA A TENERE IL PIEDE IN DUE STAFFE: INCONTRA L’EUROSCETTICO ROMENO SIMION E PRENDE TEMPO SUL PIANO DI RIARMO
La Cdu parla ufficiosamente di un «errore». Ma per il governo a trazione
cristianodemocratica, la notizia pubblicata ieri dal quotidiano Welt è imbarazzante. E ha scatenato già una bufera in Italia. Oltretutto, alla vigilia del primo viaggio di Friedrich Merz a Roma.
E la notizia è che durante i negoziati per la definizione del contratto di coalizione, il partner di governo socialdemocratico avrebbe insistito per escludere l’Italia di Meloni dai Paesi strategici con cui ampliare il classico “formato Weimar”, ossia Germania, Francia e Polonia.
Nelle bozze iniziali del documento, Roma sarebbe stata inclusa nel formato cosiddetto “Weimar plus”.
Ma su insistenza del partito guidato dal vicecancelliere Lars Klingbeil, «il passaggio è stato cancellato».
Insieme al dossier spinoso Unicredit-Commerzbank e a quello del colosso degli armamenti Kbns, che secondo i media tedeschi non ha potuto portare a termine un’acquisizione a causa dell’Italia.
La notizia sarà probabilmente argomento del faccia a faccia tra Merz e Meloni.
Intanto dal partito della premier, FdI, è intervenuto il ministro per gli Affari europei, Tommaso Foti.
Che ha definito «gravissima, se confermata », l’indiscrezione del quotidiano tedesco.
Immediata anche la reazione del ministro degli Esteri, Antonio Tajani: «Quella dei socialisti tedeschi è una scelta antieuropea. Quando cercano di dividere l’Ue, che deve invece in questo momento essere unita, commettono un errore gravissimo».
Il capo della diplomazia italiana ha voluto ricordare anche che Forza Italia è uno storico alleato nel Ppe della Cdu di Friedrich Merz e che «l’Italia è uno storico interlocutore della Germania».
Quanto Merz tenga alla riesumazione di “Weimar” lo dimostra la sua scelta di organizzare le sue prime due visite ufficiali a Parigi e Varsavia. E di firmare con la Francia un accordo bilaterale sulla difesa.
(da La Repubblica)
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Maggio 16th, 2025 Riccardo Fucile
LE IMMAGINI SATELLITARI DA GIORNI MOSTRANO UNA CONCENTRAZIONE DELLE TRUPPE RUSSE IN PRIMA LINEA, IN PARTICOLARE SUL VERSANTE ORIENTALE … NON SOLO: SECONDO DIVERSI REPORT DI SERVIZI SEGRETI EUROPEI, IL CREMLINO STUDIA UN ATTACCO AD UN PAESE DELL’UNIONE ENTRO I PROSSIMI 3-5 ANNI
Non ci sono le condizioni per raggiungere la pace in Ucraina in tempi brevi. Tutto sembra rinviato al prossimo autunno. E la Russia si prepara ad armarsi sempre di più al fine di diventare un pericolo immanente per l’Europa. Nei contatti in corso tra i vertici della Nato e i Paesi della Ue la sfiducia nei confronti delle riunioni in Turchia è palpabile da giorni. Le intenzioni di Vladimir Putin sono infatti considerate non sincere in relazione ad un percorso di tregua. Nei report trasmessi al quartier generale dell’Alleanza Atlantica a Bruxelles da diversi servizi di intelligence occidentale, infatti, emergono tre
aspetti che rendono manifesti i propositi dilatori del presidente russo.
Il primo riguarda la situazione sul terreno. Pur rilevando una sostanziale immobilità dei due fronti, il Cremlino è deciso a sfruttare i mesi estivi per una ulteriore avanzata.
Senza le piogge e senza il fango invernale, i tentativi di guadagnare posizioni sono considerati più agevoli. Le immagini satellitari, infatti, da giorni mostrano una concentrazione delle truppe russe in prima linea.
In particolare sul versante orientale. L’idea è sempre la stessa: conquistare metri o chilometri per poi trattare da una posizione di forza. E non si esclude un’altra tornata di reclutamenti. Secondo alcuni osservatori della Nato, sarebbero anche in corso ulteriori coinvolgimenti delle forze armate nordcoreane. Ma per realizzare questo progetto, a Mosca giudicano indispensabile sfruttare a pieno la primavera e l’estate senza alcuna tregua o cessate il fuoco
Un negoziato concreto, dunque, difficilmente potrà entrare nel vivo prima del prossimo settembre. Anche perché il Cremlino ha ricevuto risposte negative dall’opposizione ucraina a Zelensky. Putin aveva maturato la convinzione, dopo il trattamento riservato da Donald Trump al presidente di Kiev, che sarebbe stato possibile sostituirlo in tempi brevi.
In realtà persino il principale leader della minoranza interna, l’attuale sindaco della capitale, ha fatto sapere di non considerare opportune elezioni ora e soprattutto di giudicare non utili per il suo Paese il “licenziamento” di Zelensky. Insomma tutti fattori che stanno spingendo Mosca a ritardare il processo di pace.
Il secondo punto – emerso nei colloqui Nato-Ue – riguarda l’economia russa. Ormai quasi totalmente convertita alla guerra. Non si tratta solo del sistema industriale ma anche di quello sociale. Ci sono almeno un milione di famiglie che hanno adeguato il tenore di vita agli stipendi maggiorati dei soldati al fronte. Va poi considerato che il numero di militari russi è cresciuto negli ultimi 3 anni fino a quasi due milioni e mezzo di unità. Interrompere questo flusso di denaro, quindi, e riconvertire il tessuto industriale non è così facile.
Infine c’è un terzo punto: secondo diversi report di servizi segreti europei il Cremlino studia un attacco ad un Paese dell’Unione entro i prossimi 3-5 ann
Un arco temporale non casuale e che corrisponde alla fine del mandato presidenziale di Putin.
Previsioni che stanno condizionando le scelte dell’Alleanza Atlantica e della Ue in vista del summit Nato del prossimo mese L’idea è di stabilire un “calendario” di investimenti e prodotti da acquistare o realizzare.
(da agenzie)
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Maggio 16th, 2025 Riccardo Fucile
SI TRATTA DELL’ENNESIMO CASO DI ESTERNALIZZAZIONE DEL LAVORO E DI MANCATO CONTROLLO, COME GIÀ PER “ALVIERO MARTINI SPA” E “GIORGIO ARMANI OPERATIONS”
Anche gli articoli da viaggio, le borse e accessori di pelletteria di Valentino
sarebbero realizzati da lavoratori sfruttati. Dopo l’Alviero Martini spa e Giorgio Armani operations il Tribunale di Milano mette in amministrazione giudiziaria Valentino Bags lab, società della omonima maison.
Ne l’azienda, da oltre 1 miliardo e mezzo di fatturato nel mondo fondata nel 1960 e dal 2012 appartenente a un fondo della famiglia reale del Qatar, «Mayhoola for Investments», né lo stilista 93enne risultano indagati.
«Si tratta di un contesto generalizzato, connotato da una attività agevolatoria di Valentino Bags Lab srl rispetto a soggetti indagati del delitto di sfruttamento della manodopera e da un generale ricorso ad una esternalizzazione del lavoro non accompagrata da adeguati strumenti di controllo della filiera produttiva», osservano i giudici nel provvedimento.
«Il meccanismo è stato colposamente alimentato dalla società Valentino Bags lab che non ha verificato la reale capacità imprenditoriale delle società appaltatrici
Secondo quanto riferito dal titolare di una delle società appaltatrice, Bags Milano srl, dal 2018 l’unico committente è la Valentino Bags lab che oggi commissiona circa 4000 borse al mese i cui costi di produzione oscillano da 35 a 75 euro a borsa a seconda delle complessità di confezionamento e quindi dal tempo di produzione.
Articoli da viaggio, borse e pelletteria realizzati da sarti cinesi e filippini – come rilevato da un’ispezione del 2024 – privi di permesso di soggiorno in Italia, senza contratto e con macchinari elettrici con i dispositivi di sicurezza «rimossi per accelerare la resa produttiva a scapito della sicurezza delle mani rispetto agli ingranaggi».
In luoghi di lavoro dove i prodotti chimici infiammabili ammassati sono sparsi senza custodia adeguata e nelle vicinanze di camerate dormitorio/cucina «degradate e insalubri» ricavate con abusivi tramezzi in cartongesso. I lavoratori dovevano sottostare e a turni infiniti di notte e nei giorni festivi per paghe a cottimo di «3 euro e mezzo a pezzo per il taglio di pelle, e 7 euro a pezzo per la tingitura».
(da agenzie)
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Maggio 16th, 2025 Riccardo Fucile
“PER PUTIN, SEDERSI CON ZELENSKY AVREBBE SIGNIFICATO RICONOSCERNE LA LEGITTIMITÀ, RINNEGARE ANNI DI PROPAGANDA E SMENTIRE SÉ STESSO. IL TEMPO È L’ARMA PRINCIPALE DI MOSCA”
Putin non ha accettato l’invito di Zelensky a Istanbul per un negoziato diretto. La proposta non era soltanto un gesto di apertura, ma una sfida strategica, quasi un ultimatum simbolico.
Zelensky sapeva che Putin difficilmente avrebbe accettato: mirava così a smascherare e neutralizzare, nella sostanza, le proposte del Cremlino. Per Putin, sedersi con Zelensky avrebbe significato riconoscerne la legittimità, rinnegare anni di propaganda e smentire sé stesso.
Mosca, da parte sua, continua a richiamare il modello Istanbul 2022: un negoziato avviato senza cessate il fuoco, con le operazioni militari in corso, e con la pretesa di imporre a Kiev un accordo punitivo. Un formato che riappare oggi, rivestito di retorica negoziale ma animato dagli stessi obiettivi: paralizzare e mutilare l’Ucraina, dividere l’Occidente e guadagnare tempo.
Il tempo è infatti l’arma principale di Mosca. Putin non vuole un cessate il fuoco prima di avere incassato risultati negoziali concreti, consapevole che interrompere i combattimenti renderebbe politicamente e militarmente difficile riprenderli. Una tregua svuoterebbe di senso la strategia di logoramento sul campo, togliendo alla Russia la pistola puntata sul tavolo del negoziato.
L’assenza di tregua consente inoltre a Mosca di prolungare i colloqui indefinitamente, mostrando disponibilità apparente mentre prosegue la guerra. Oggi, il negoziato è parte del conflitto, non un’alternativa ad esso.
Zelensky lo sa, e sa anche che l’arbitro decisivo si trova a Washington. Sia lui che Putin vogliono dimostrare a Trump che la responsabilità della guerra è dell’altro. Rilanci, accuse incrociate e manovre tattiche sono tutte indirizzate alla Casa Bianca, oggi vero centro della partita.
Trump ha ormai compreso di condividere con l’Europa l’interesse a una tregua rapida e una pace duratura. Sa anche che Mosca mira a dilatare i tempi, e per questo l’irritazione americana cresce. Trump resta però ambiguo: da un lato
promuove l’accordo sui minerali critici con Kiev -segnale di impegno strategico- dall’altro elogia le apparenti aperture di Mosca.
Non ha ancora deciso se rompere con Putin o cercare con lui una nuova intesa globale. Ma ha fretta: vuole poter dichiarare missione compiuta, esibire una tregua come trofeo e riposizionare la strategia americana nel Pacifico.
Per Mosca, Istanbul è una scelta geopolitica per tentare di escludere l’Europa, rilanciare il negoziato senza concedere una tregua, ripartire da una piattaforma punitiva per Kiev e riportare al centro l’asse USA-Russia. Ma proprio per questo la presenza di Putin appare improbabile.
Ogni sua mossa ha due destinatari: Washington e il fronte interno, dove il margine di manovra si è ristretto e le divisioni tra le componenti più aggressive e quelle più prudenti del sistema russo si acuiscono. Putin andrà a Istanbul solo se potrà ottenere risultati presentabili come successo: amputazioni territoriali ucraine corrispondenti almeno ai territori già occupati e l’assenza di garanzie di sicurezza efficaci per Kiev.
Per questo esige implicitamente condizioni negoziali esose. Se le ottenesse, avrebbe una giustificazione. In caso contrario, un alibi per restare lontano. Resta però il problema di non tirare troppo la corda con Washington e salvaguardare, se possibile, il suo rapporto con Trump.
L’incontro di Istanbul, cui non parteciperà neanche Lavrov, si svolgersi quindi senza i suoi veri protagonisti -Putin e Trump- lasciando il negoziato alle seconde linee russe e ucraine.
Ma il suo significato resta decisivo. Zelensky ha costretto Mosca a scoprirsi, ha svelato i limiti della narrativa del Cremlino, ha consolidato il sostegno degli alleati e ha posto Trump di fronte a una scelta tra il sostegno a Kiev e il fascino di un patto con l’autocrazia.
Il tempo delle ambiguità si accorcia. Istanbul è un banco di prova, non per raggiungere la pace, ma per capire chi è davvero disposto a cercarla.
Ettore Sequi
per “la Stampa”
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Maggio 16th, 2025 Riccardo Fucile
DOPO LE APERTURE DI PAPA FRANCESCO IL RITORNO TRADIZIONALISTA”, COSI’ L’ISCRITTO ALLE LISTE REPUBBLICANE ALLONTANERA’ FEDELI AUMENTANDO LE DISCRIMINAZIONI NELLA SOCIETA’ CIVILE (ALTRO CHE CONTINUITA’ CON BERGOGLIO)
“È compito di chi ha responsabilità di governo adoperarsi per costruire società
civili armoniche e pacificate. Ciò può essere fatto anzitutto investendo sulla famiglia, fondata sull’unione stabile tra uomo e donna, ‘società piccola ma vera, e anteriore a ogni civile società'”. Così Papa Leone XIV ricevendo in udienza il Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede.
Il Santo Padre ha voluto rimarcare non solo il ruolo della famiglia, ma anche
che essa va intesa come un’unione tra persone di sesso diverso. Se, dunque, sul tema della pace e dell’ecologia il pontificato di Papa Prevost sembra in linea con quello del suo predecessore Bergoglio, sui diritti civile e le aperture della Chiesa agli omosessuali Leone XIV ha marcato una netta distanza.
Papa Francesco, infatti, aveva spiazzato il mondo intero con quel “Chi sono io per giudicare?” pronunciato il 29 luglio 2013 durante una conferenza stampa in aereo di ritorno dal suo primo viaggio apostolico, la Giornata mondiale della gioventù a Rio de Janeiro.
In quell’occasione Francesco aveva risposto a una domanda sui gay. Nella Chiesa non c’era mai stata un’apertura simile sul tema dell’omosessualità e quel gesto di umiltà da parte di Bergoglio era stato molto apprezzato dalle realtà LGBTQ. Con Leone XIV si potrebbe ora assistere a un’inversione di rotta, come d’altro canto era emerso anche nei giorni scorsi analizzando sue dichiarazioni passate. La stessa chiusura potrebbe esserci su eutanasia e aborto.
Come ricorda il New York Times in un discorso ai vescovi del 2012, il cardinale Robert Prevost espresse preoccupazione per l’influenza dei media occidentali e della cultura popolare, accusati di favorire “simpatia per credenze e pratiche in contrasto con il Vangelo”. Tra i temi citati, lo “stile di vita omosessuale” e le “famiglie alternative formate da partner dello stesso sesso con figli adottivi”.
Durante il suo episcopato a Chiclayo, nel nord-ovest del Perù, Prevost si oppose fermamente a un progetto governativo che mirava a introdurre l’insegnamento del genere nelle scuole pubbliche. “La promozione dell’ideologia di genere è fonte di confusione, perché cerca di creare generi che non esistono”, dichiarò alla stampa locale
Insomma, con Leone XIV la Chiesa Cattolica potrebbe tornare ad assumere posizioni decisamente tradizionalista sui diritti degli omosessuali.
(da agenzie)
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Maggio 16th, 2025 Riccardo Fucile
COME NEL 2019, HAFTAR VUOLE APPROFITTARE DELLA GUERRA TRA MILIZIE, SEGUITA ALLA MORTE DI AL KIKLI (E DEL PUGNO DI FERRO DEL GOVERNO), PER RIUNIFICARE IL PAESE SOTTO IL SUO CONTROLLO … LE MIRE DI MOSCA E DI ERDOGAN E L’IMPOTENZA ITALIANA DI FRONTE AL DISASTRO DELL’EX COLONIA
Le violenze a Tripoli sono riesplose nella notte tra il 14 e il 15 maggio ma gli scontri armati nella capitale libica non sono l’unico dato di cronaca cittadina da tenere d’occhio.
«Raccomandiamo ai nostri concittadini di evitare di recarsi nella Libia occidentale finché la situazione non si normalizzerà»: a parlare èMaria Zakharova, portavoce del ministero degli Esteri russo, che ieri mattina ha informato i suoi connazionali in Libia che la situazione, al momento, è incerta. Per usare un eufemismo.
E le notizie non fanno ben sperare: l’auto di Ali al-Jabari, il comandante delle Forze di supporto ai servizi di sicurezza libici, controllate dal ministero degli Interni di Tripoli, è stata presa di mira ieri mattina da un attacco combinato, finendo sotto il fuoco incrociato degli Ak-47 di una milizia la cui identità non è nota.
Al-Jabari è uscito illeso ma questo tentativo di omicidio è un altro, grande, tassello nel complicato scenario libico di queste ore.
«Da ieri ci siamo nascosti in cantina» dice al manifesto Samir: la sua voce è agitata, i messaggi vocali sono strozzati, si sente il vociare delle figlie in sottofondo. «Si stanno ammazzando tra loro» dice, riassumendo così la nuova balcanizzazione della città
Tutti contro tutti e nessuno che controlla nulla, nemmeno il governo
riconosciuto, che perde i pezzi: mercoledì la ministra della Giustizia Halima Al-Buseifi, una delle sostenitrici più ardite del patto di non belligeranza, e di co-esistenza, tra il governo e le milizie tripolitane, si è dimessa mentre le armi crepitavano in città.
E ieri il procuratore della Corte penale internazionale, Karim Khan, ha invitatoo il procuratore generale libico a fare il possibile per consegnare Osama Almasri Njeim, il torturatore che l’Italia ha rispedito a casa su un volo di servizio
Tra il 14 e il 15 maggio mentre in alcune aree di Tripoli si sparava e si combatteva «c’è stata una manifestazione di protesta: la gente chiedeva le dimissioni del primo ministro Abdulhamid al-Dbeibah e molti invocavano anche l’arrivo di Haftar».
La «gente», la chiama Samir: i manifestanti non erano persone comuni o, almeno, non solo.
Tra loro c’erano i miliziani che fino a lunedì erano comandati da Abdel Ghani al-Kikli e che oggi si trovano senza un comando, senza un lavoro.
Loro e le loro famiglie: hanno preso d’assalto l’ex quartier generale della milizia, ora occupato dalla 444esima Brigata fedele al governo, e hanno anche incendiato diversi veicoli blindati. Per tutta risposta, gli uomini della 444esima gli hanno sparato addosso.
Quest’ultimo fatto potrebbe essere la nuova matrice dello scandalo e molti media internazionali, soprattutto russi, raccontano queste vicende come «fuoco sui manifestanti».
Nel frattempo altre milizie, da Zawiya e legate ad al-Kikli, si stanno mobilitando verso Tripoli, da ovest, e da sud-est sono in arrivo proprio gli uomini di Haftar, che come nel 2019 sembra intenzionato a voler approfittare della crisi tripolitana per mettere le mani sulla città. E sull’intera Libia.
Gli uomini di Al-Kikli hanno distribuito invece armi leggere ai gruppi armati nei distretti orientali di Tripoli, sono state erette barricate e bruciati pneumatici a ‘Arada e Souq al-Jumaa e il complesso di al-Rajma, al centro di un vecchio accordo tra il governo e le milizie come snodo logistico per le merci, è stato occupato dalle milizie.
La Turchia , che è uno dei principali alleati del governo tripolitano, ha espresso «profonda preoccupazione» per l’escalation di violenza e si è offerta di mediare per la pace, anche se non è un mistero il quasi cambio di casacca di Ankara, da Tripoli a Bengasi.
E Haftar? Ieri la milizia guidata dal gangster Haitham El-Tajouri ha diffuso foto e video di azioni di guerriglia a Tripoli: i miliziani sono a bordo di veicoli con il logo Rib87, gli stessi, molto riconoscibili, che usano gli uomini di Haftar, che continuano ad avanzare verso Tripoli, sebbene più lentamente, da sud e sud-ovest.
Mentre a Tripoli regna l’incertezza, e la paura, nell’”altra” Libia, la Cirenaica, si va avanti business as usual: mercoledì, sulla pagina Facebook dell’aeroporto di Benina, vicino Bengasi, è stata pubblicata la notizia della visita di una delegazione saudita, nell’ambito dei preparativi per la ripresa dei voli tra Arabia Saudita e Libia orientale.
(da agenzie)
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Maggio 16th, 2025 Riccardo Fucile
IL GOVERNO TRABALLA ANCHE PER I GUAI FINANZIARI E L’AVANZATA DEL GENERALE HAFTAR DALLA CIRENAICA: POTREBBE CADERE GIÀ NEI PROSSIMI GIORNI…CENTO ITALIANI SONO RIENTRATI A ROMA
Decine di manifestanti, in particolare del quartiere Souq al-Juma e della città di
Zawiya, realtà considerate vicine alla milizia Radaa – a cui appartiene tra gli altri il generale Almasri – manifestano in piazza dei Martiri a Tripoli (la vecchia piazza Verde del regime di Gheddafi), chiedendo il rovesciamento del governo di unità nazionale guidato da Abdel Hamid Dbeibah.
Lo riportano i media libici. Il premier, nel frattempo, ha rivendicato l’operazione contro la milizia di al Kikli: “Un passo necessario per porre fine a una realtà che ha violato troppo la legge ed è stata associata a gravi violazioni dei diritti umani”.
Circa 100 cittadini italiani e 17 spagnoli bloccati dagli scontri delle ultime ore a Tripoli tra milizie rivali che nella giornata di ieri con l’assistenza e l’organizzazione dell’ambasciata d’Italia, del personale dei carabinieri e della Presidenza del Consiglio, avevano raggiunto, accompagnati dal vice ambasciatore d’Italia in Libia, Riccardo Villa, l’aeroporto di Misurata (a est di Tripoli) per imbarcarsi poi su un volo speciale diretto a Roma, sono arrivati verso l’una di notte a Fiumicino con un Airbus A320 della Medsky Airways.
“Ero andato a Tripoli per la 16/a edizione della ‘Libya Build’, la fiera più grande e prestigiosa del Nord Africa dedicata al settore dell’edilizia e delle costruzioni – ha detto un sessantenne che faceva parte di un gruppo di altri connazionali andati con lui a Tripoli per la stessa ragione -. Martedì, il giorno dell’apertura della Fiera, la situazione era abbastanza tranquilla anche nell’aria se si sentiva che qualcosa stesse per accadere. In gioco c’era il confronto tra le milizie rivali e il controllo di alcune zone.
Nessuno, però, si aspettava che la ‘scintilla’ sarebbe potuta esplodere così in fretta. Finita la giornata – ha continuato – siamo tornati in albergo e di notte è cominciato il conflitto a fuoco tra le milizie. Il giorno dopo nessuno di noi è andato alla Fiera. Si è poi parlato di una tregua ma il timore era che gli scontri sarebbero potuti riprendere e così è stato.
A quel punto l’Ambasciata, coadiuvata dall’Unità di crisi della Farnesina, si è attivata per permetterci di rientrare in Italia in sicurezza ed oggi siamo qui.
Devo però anche dire che quando abbiamo lasciato la Libia la situazione era abbastanza tranquilla. Chissà se durerà. Ovviamente me lo auguro”. Tra gli italiani rientrati, anche un dipendente dell’Eni. “Ero a Tripoli per lavoro da due anni e mezzo. Due sere fa ero in casa quando, intorno alle 10 di sera, sono scoppiati i primi disordini in strada che sono poi andati avanti fino alle 3 del mattino. Il giorno successivo è sembrato tutto più tranquillo poi di notte, verso le 3, hanno ripreso gli spari. A quel punto mi sono letteralmente barricato in casa. L’azienda, attraverso messaggi whatsapp, ha comunicato a me e ai miei colleghi che, non appena possibile, il personale non indispensabile avrebbe potuto lasciare il Paese con un volo speciale che abbiamo poi preso oggi. Sono comunque pronto a tornare in Libia non appena la situazione lo consentirà”, ha concluso.
In Libia restano comunque circa duecento connazionali che vivono stabilmente nelle città più importanti della Tripolitania e della Cirenaica.
Gli scontri a Tripoli sono stati innescati dal pugno duro del premier Dbeibeh contro i vari gruppi armati, e dopo l’agguato ad Al Kikli detto Gheniwa, capo
del gruppo paramilitare che gestisce il carcere di Abu Salim e al vertice di uno dei clan più attivi nello sfruttamento dei migranti e nella spartizione delle risorse petrolifere. Le milizie di Rada hanno respinto l’offensiva della Brigata governativa 444 e marciato verso il palazzo della presidenza.
Media e attivisti locali riferiscono di spari ai manifestanti che stavano protestando di fronte alla residenza del premier chiedendone le dimissioni. Il bilancio degli scontri è di almeno otto morti e 70 feriti.
Il contesto nella regione è di grande instabilità, il governo di Dbeibeh ha un grosso problema finanziario legato ai proventi del petrolio, tanto che c’è chi scommette su una sua caduta già nei prossimi giorni. In questo quadro così confuso bisogna registrare una traccia americana, con Donald Trump che vorrebbe deportare i migranti irregolari proprio in Libia, come già successo per i venezuelani verso El Salvador. Su questa possibilità, però, vuole vederci chiaro il governo di Giorgia Meloni, già in allarme sul rischio che i disordini libici possano portare a una nuova crisi migratoria.
(da agenzie)
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Maggio 16th, 2025 Riccardo Fucile
COME NO, MEGLIO ANCORA UNA AMBASCIATA O UN SUPERMERCATO, COSI FA PURE LA SPESA IN ATTESA CHE ARRIVI LA POLIZIA… LE OPPOSIZIONI: “SERVE LO STATO, NON IL FAI DA TE”,, I FAMILIARI DELLE VITTIME: “LA MAGGIOR PARTE DEGLI OMICIDI AVVIENE IN CASA, PAROLE SENZA SENSO”
«Il funzionamento del braccialetto elettronico è molto spesso incompatibile con i mezzi di trasporto delle persone: nel momento dell’allarme nei confronti di una persona, molto spesso la vittima si trova ad una distanza non compatibile con l’intervento delle forze dell’ordine. Dobbiamo coniugare questi due elementi dando un’allerta alla vittima, affinché sia in grado – nel momento in cui coglie questo momento di pericolo – di trovare delle forme di autodifesa, magari rifugiandosi in una chiesa o in una farmacia, in un luogo più protetto».
È quanto ha dichiarato il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, rispondendo a una domanda parlamentare durante il question time al Senato, nel corso del quale ha riconosciuto i limiti attuali del braccialetto elettronico. Parole che, però, hanno sollevato un’ondata di polemiche, soprattutto tra i familiari delle vittime di femminicidio e all’opposizione.
La famiglia Marruocco: «Concetta uccisa in casa e lui aveva il braccialetto elettronico»
«Mia sorella era in casa, il luogo dove dovrebbe sentirsi più protetta. Il braccialetto non ha funzionato e lui l’ha accoltellata. Queste misure servono solo a stressare la vittima, non a salvarla. Facciano misure più efficaci e
restrittive, perché gli aggressori non possono restare in libertà e tenere la vittima in un continuo stato di paura», ha dichiarato Raffaella Marruocco, sorella di Concetta, uccisa dal marito a Cerreto d’Esi nel 2023.
All’epoca, l’uomo era sottoposto alla misura del braccialetto elettronico, ma entrò in casa e accoltellò la donna senza che la sua presenza fosse rilevata in tempo.
Parole forti anche dall’avvocato della famiglia Marruocco, Giuseppe Villa: «Il problema non si risolve chiedendo alle vittime di trovare da sole un riparo. Serve un sistema che funzioni davvero. Non bastano qualche centinaio di metri in più di distanza, bisogna ripensare tutto, evitare soluzioni fittizie. Nordio fornisce una risposta insoddisfacente».
Il caso del femminicidio Palmieri
La drammatica testimonianza dell’avvocato Ettore Censano si aggiunge alle famiglie che in queste ore stanno prendendo parola. Celeste Palmieri, 56 anni, è stata uccisa nell’ottobre 2024 a San Severo dal marito dal quale si stava separando, nonostante l’uomo indossasse il braccialetto elettronico.
«Il braccialetto suonò pochi giorni prima e lei riuscì a rifugiarsi in chiesa. Ma il giorno del femminicidio non ha avuto il tempo. Tutto è successo in pochi minuti. Anche se fosse stato ai domiciliari, avrebbe potuto evadere. Serve una custodia diversa per soggetti pericolosi».
In quel caso, l’uomo aveva il divieto di avvicinamento e indossava un braccialetto elettronico che, però, non aveva inviato alcuna segnalazione diretta alla donna. L’allarme era stato invece trasmesso ai carabinieri, che avevano prontamente allertato la vittima e inviato una pattuglia. Ma ogni intervento si è rivelato inutile.
Lo scontro politico
La reazione politica non si è fatta attendere. I senatori del Partito Democratico Filippo Sensi, Valeria Valente e Cecilia D’Elia, membri della Commissione femminicidio, accusano Nordio di «scaricare la responsabilità sulle vittime»: «É chiaro che esiste un problema oggettivo di condizioni di intervento tempestivo da parte delle forze dell’ordine ed é altrettanto chiaro che il buonsenso suggerisce a una vittima di violenza di allontanarsi il più possibile dal suo
aguzzino, tuttavia lo Stato non può abdicare al suo compito di protezione delle donne che hanno denunciato. Il monitoraggio delle misure di sicurezza e l’intervento successivo spetta allo Stato, non alla vittima».
Della stessa linea anche il Movimento 5 Stelle: «Forse il ministro ignora che la maggior parte dei femminicidi avviene nelle case o in situazioni dove le vittime difficilmente riescono a mettersi al riparo dai loro carnefici».
(da agenzie)
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