CON QUESTA CLASSE DIRIGENTE LA MELONI PENSA DI ANDARE A PALAZZO CHIGI?
L’AMBIGUITA’ DI GIORGIA NON PAGA PIU’, DENTRO FDI IL NAZISMO DA OPERETTA VIENE COCCOLATO
Qualche giorno fa, chiudendo la campagna elettorale a Milano – Giorgia Meloni era già andata via – Ignazio La Russa ha chiamato lui sul palco: “Carlo, Sali tu”.
L’uomo forte del Nord, la nuova generazione di Fratelli d’Italia. Perché Carlo Fidanza non è un rubagalline di provincia o un improvvisato, che vuoi per inesperienza vuoi per fare lo spaccone non resiste al fascino dello sterco del demonio, inconsapevole dei rischi. E scivola su una carnevalata nostalgica.
È un politico di lungo corso, tanto che – lo racconta Giorgia Meloni nella sua autobiografia – Gianfranco Fini aveva inizialmente puntato su di lui per la guida di Azione giovani.
Da lì, una volta eletta lei, inizia un lungo sodalizio politico, cementato dal fattore generazionale, fino a quando lui diventa, di fatto, se non il numero tre uno dei massimi dirigenti del partito. O meglio, il numero tre, e il capo delegazione di Fdi al Parlamento europeo, partito che guida il gruppo dei Conservatori europei.
Un partito cioè che, secondo i sondaggi, è il primo del paese e ambisce a governarlo con la sua leader. Quella che dovrebbe chiamarsi classe dirigente, il cui requisito, per non governare il paese, dovrebbe essere la capacità di guida, la consapevolezza, la responsabilità, la pulizia morale.
Ecco, il giudizio sulla qualità della classe dirigente è già nella biografia, e nel peso specifico dei protagonisti, in questa storiaccia tragica e desolante di “doppio nero”.
Il nero del fascismo: saluti romani e battute sugli ebrei, grandi tragedie del novecento trangugiate come una tartina nel macabro aperitivo elettorale.
Il “male assoluto” che diventa operetta, nella leggerezza delle parole minacciose contro i “neri” e contro il giornalista Berizzi, sotto scorta per intimidazioni fasciste, il cui nome viene pronunciato nel sorriso squadristico a favor di foto.
Gli azzeccarbugli del negazionismo, che fanno della carnevalata una linea di difesa, dovrebbero sapere che la leggerezza fintamente goliardica è una penosa aggravante, non un’attenuante.
E poi l’altro corno del “doppio nero”, il “black”, soldi chiesti per finanziare la campagna elettorale della candidata Chiara Valcepina, colei che dice “l’unica fascista sono io” e si vanta per la sua capacità di incassare i voti delle escort regalando profumi.
Le sfruttate, in un partito che si riempie la bocca con la lotta al racket della prostituzione, altro sfavillante esempio di doppia morale, come la lotta agli spacciatori con Luca Morisi: “Le modalità – dice Fidanza al giornalista sotto copertura – sono: versare nel conto corrente dedicato. Se invece voi avete l’esigenza del contrario e vi è più comodo fare del black, lei si paga il bar e col black poi coprirà altre spese”.
Al suo fianco c’è un personaggio noto nella Milano dei camerati, Roberto Jonghi Lavarini, il “barone nero”, condannato a due anni per apologia di fascismo che spiega poi come funziona un collaudato sistema di “lavatrici”.
C’è sempre, a conferma di una consuetudine, non è una presenza occasionale. E dunque il numero tre della Meloni propone l’illecito nell’ambito di un sistema che pare collaudato, col linguaggio del faccendiere anche quando parla di “contatti” per fare affari con l’est europeo, in occasione di un evento con Aleksandr Dugin, il filosofo amato dai sovranisti europei, amico di Gianluca Savoini.
Se questo illecito si concretizza è questione che attiene ai tribunali. Ma la questione politica è squadernata, qui ed ora, e prescinde dal buon esisto dell’incasso.
Giorgia Meloni, “donna, mamma, cristiana”, capo di un partito che il neofascismo lo ha tollerato adesso spiega che non c’è spazio “per atteggiamenti ambigui sull’antisemitismo o per il paranazismo da operetta” e ha fatto autosospendere Fidanza.
Evidentemente c’è voluta Fanpage per farle scoprire l’andazzo in casa sua. La classica toppa, che per esempio non ha messo su Roma, dove candida il “camerata” Vincenzo Cuomo, ex capo ultras della Lazio, uno che sull’avambraccio destro ha impressa la scritta Werwolf: il nome dell’operazione nazista che il comandante delle SS, Heinrich Himmler, organizzò nel 1944 per contrastare l’avanzata degli Alleati nonché la denominazione che Adolf Hitler scelse per il quartier generale dell’Oberkommando in Ucraina.
Un altro si chiama Milo Mancini, e ha tatuato sul braccio Benito Mussolini e la scritta dux. Un altro ancora, Gimmi Cangiano, alle scorse regionali in Campania come slogan usò il motto “me ne frego”. E così via.
E allora, certo: un partito del venti per cento non può essere un partito in cui tutti sono fascisti, però è un partito dove vige qualcosa di più di un sistema di “tolleranza” e di giustificazionismo: quel mondo viene coccolato e coltivato.
E tutto questo vige perché la Meloni ha scelto di tornare indietro rispetto alla svolta di Fini e alla condanna del “male assoluto”, liberando, al momento della costruzione del suo partito, un sentimento represso.
E dando ad esso piena cittadinanza pratica e legittimazione teorica, con la favoletta del “siamo oltre il Novecento”, buona per non fare i conti con la storia.
Una melassa ambigua, di storia à la carte, in cui post-fascismo e nouvelle vague populista confluiscono nell’ostilità a una visione liberale della società e dell’individuo. Fintamente modernizzatrice, ma perfetta per non offendere i nostalgici. L’errore non è solo Fidanza, è nel manico.
(da Huffingtonpost)
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