L’APPELLO DEL PAPA’ DI ALAN: “IL MONDO FERMI LA GUERRA, I MIEI FIGLI SIANO SIMBOLO DI PACE”
“SPERO CHE NON SIANO MORTI INVANO, FACCIANO FINIRE I MASSACRI”
«Ho perso tutto e non ho più niente da chiedere alla vita. Ma i miei figli Alan e Galip non sono morti invano. Non è stato un sacrificio inutile perchè in cuor mio sento che il mondo si sta svegliando e si sta rendendo conto del dramma della Siria e del bisogno di pace». Abdullah Kurdi oggi è un uomo che si tiene in piedi aggrappandosi a questo solo pensiero.
Sa quanto potente è la foto del suo figlioletto Alan, morto nella sabbia e nell’acqua di Bodrum dopo il rovesciamento del gommone su cui stavano tentando di raggiungere l’isola greca di Kos.
«Tutti devono guardarla, perchè credo che attraverso questa immagine i miei figli possano in qualche modo aiutare i bambini siriani. Se Dio ha voluto che morissero, è per compiere questa missione».
Abdullah parla al telefono dalla sua Kobane, dove è andato a seppellire Alan, tre anni, Galip, cinque anni, e sua moglie Rehan.
Qual è la lezione che il mondo deve imparare?
«Che la guerra in Siria va fermata al più presto, perchè i siriani non scapperebbero dal loro paese, se non fossero costretti. Vivevamo da re nella nostra Siria. La responsabilità di quello che sta succedendo qui è di tutti quelli che sostengono la guerra. Mi auguro che qualcosa adesso cambi, soprattutto nei paesi arabi dove non ho visto alcuna indignazione per quanto mi è successo».
Lei incolpa qualcuno per la morte dei suoi cari?
«Sì, le autorità del Canada perchè hanno rifiutato la mia richiesta d’asilo nonostante ci fossero 5 famiglie disposte a sostenerci economicamente. Volevo trasferirmi insieme alla mia famiglia e a quella di mio fratello, che ora è in Germania. Non avremmo nemmeno pesato sulle casse del governo canadese. Non ci hanno dato l’autorizzazione e non so perchè».
Da quel rifiuto è nata l’idea di venire in Europa?
«Sì. Ho lavorato a Istanbul, mentre i miei figli li avevo lasciati a Kobane. Lavoravo in un’industria tessile e guadagnavo 800 lire turche. Poi però quando sono cominciati i combattimenti con l’Isis a Kobane, li ho portati in Turchia. Ed è cominciata la mia tragedia. Non mi bastavano i soldi: come facevo a mantenerli quando tra bollette e affitto pagavo 500 lire? Mi sono messo a lavorare come muratore, la sera tornavo a casa e Alan e Galip mi massaggiavano le gambe e la schiena doloranti. Erano loro però ad avere bisogno di cure mediche ».
Quali cure?
«Soffrivano di una malattia congenita alla pelle, avevano bisogno di una pomata speciale da spalmare tre volte al giorno altrimenti si grattavano e la pelle gli diventava scura. Ma in Turchia a causa della lingua non riuscivo a compilare le pratiche per accedere all’assistenza sanitaria. Quindi ho pensato di andare in Germania, dove ci sono i mediatori culturali. Chissà adesso chi gliela spalma quella pomata, forse gli angeli…».
Come vi hanno trattato le autorità turche?
«Non voglio parlar male della Turchia. La presenza di profughi è altissima e non è possibile garantire condizioni buone per tutti. Ma da quanto mi hanno raccontato, in Turchia ci accolgono meglio che in Libano e in Giordania. Ecco perchè volevo andare in Europa, in Germania ma anche in Svezia o in Inghilterra: volevo che i miei figli fossero trattati come persone».
Cosa si ricorda del naufragio del gommone?
«Avevo pagato agli scafisti 4mila euro. A bordo eravamo in 12, il mare era mosso e dopo pochi minuti il gommone si è rovesciato. Nell’acqua ho trovato le braccia dei miei bambini e le ho afferrate, ma mi sono accorto che erano già morti e li ho lasciati andare per provare a salvare mia moglie. Inutilmente. Ora ci sono tante persone accanto a me, ma quando sarò solo temo di crollare».
Cosa farà adesso che è tornato a Kobane?
«Non c’è luce, non c’è acqua, non ci sono le condizioni per restare. Pensavo di rimanere vicino alle tombe dei miei cari, ma qui la vita non è vita».
Proverà a tornare in Europa?
«Non ho ancora deciso. Però se parto, forse impazzisco. Ogni mattina vado sulle loro tombe, innaffio i fiori, ci parlo come se fossero vivi. Parlare con loro mi aiuta un po’».
Fabio Tonacci
(da “la Repubblica”)
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