PIPPO CIVATI: “MI CHIAMAVANO IL KENNEDY DELLA BRIANZA, ANCH’IO FUI INVITATO AD ARCORE, MA RIFIUTAI”
“STIMO ELLY, RICORDO QUANDO LA VIDI ALL’UNIVERSITA’ A BOLOGNA E LE DISSI: MA TU, PERCHE’ NON FAI POLITICA?”
La bravura di Elly Schlein? «Aver saputo tenere in equilibrio le diverse anime del Pd per le Europee e ottenere un ottimo risultato. Renzi, invece, vinse alla tornata del 2014 (il famoso 40,8%, ndr) ma non fu in grado di mantenere tra i dem questo equilibrio».
A onor di cronaca, Pippo Civati, all’anagrafe Giuseppe, classe 1975 – consigliere comunale della sua città, Monza, a 22 anni, consigliere regionale lombardo a 30 anni con oltre 19 mila preferenze, poi «rottamatore» del Pd di cui è stato deputato dal 2013 al 2018 – a parlare dei suoi ex sodali arriva dopo oltre un’ora di intervista.
Già «innovatore» in rotta col Pd di Matteo Renzi tanto da uscirne sbattendo la porta, oggi Civati è editore di People, la casa editrice fondata nel 2019 con Stefano Catone e Francesco Foti.
Come un fiume in piena, discorre di filosofia – «che errore pensare che sia nemica della politica!» -, libri – «non consiglio a nessuno di ripetere a casa l’esperimento di aprire una casa editrice, però che bello il mio lavoro» -, pacifismo – «il Pd mette Berlinguer sulla tessera poi si dimentica che quel segretario del Pci dedicò almeno una decina d’anni alla causa pacifista», e di una vita lontana dalla politica fatta nelle istituzioni – «chiariamo: sono l’ultimo dei parlamentaristi rimasti» – ma «piena di politica agita, ogni giorno».
Civati, partiamo dalla fine: si sente ancora con Renzi?
«Ogni tanto ci scriviamo dei messaggini, a suon di battute. Per esempio, so quando uscirà questa intervista lui mi scriverà, adesso mi chiama “editore”. Però tra noi non c’è mai stato alcun astio, né invidia».
No?
«Macché. Tra noi c’è solo una distanza siderale su tante cose».
In una recente intervista al «Foglio» ha detto che «Renzi è il Picasso della politica italiana» e che «chi determina il gioco non è necessariamente un accumulatore di voti, ma colui che sfodera l’intuizione giusta». Lo pensa davvero
«Quella è stata una definizione usata quelli del “Foglio” nel titolo. Io ho detto che lui, come Picasso, ha dei periodi di diversi colori: ora, per esempio, è nel suo periodo rosso (ride). Certo, resta un talento. Uno che tecnicamente è bravo. Dopodiché, come si dice, “non è il nostro bravo”: ho sempre sostenuto che Renzi fosse un centrista tendenza destra. Il che non sarebbe neanche stato un problema, neppure in passato, se non fosse che ci hanno sempre spiegato che in realtà era un riformista».
Un po’ ci ha creduto anche lei, all’inizio eravate i due «rottamatori»…
«Io e Renzi abbiamo fatto insieme una sola Leopolda, poi le nostre strade si sono separate».
Anche perché lui è andato a Arcore e lei si arrabbiò moltissimo.
«Non è che mi arrabbiai: rimasi basito. Avevamo appena fatto la Leopolda!».
Oggi il Pd dovrebbe fare un’alleanza con Renzi?
«No. Anche perché Renzi è l’autore di questo sistema elettorale che è disastroso, visto che impone una coalizione. Invece io penso, e lo dico dal 2018, che bisognerebbe abolire i collegi uninominali per far sì che ogni forza politica presenti una sua proposta e non si perda dietro il continuo astrattismo della coalizione. Il Pd dovrebbe fare il Pd, ammesso che sappia cos’è il Pd».
E arriviamo a Elly Schlein e al suo Pd: oggi lei ne è la segretaria, ma quasi 10 anni fa fondò con lei “Possibile”. Lo avrebbe mai detto, allora, che Schlein sarebbe diventata la leader dem e capa dell’opposizione? Si è pentito di aver lasciato il Pd?
«Prima che Elly vincesse il congresso continuavo a dire a Stefano Bonaccini “guarda che perdi, vince lei”. Lui rideva. Quindi no, non mi sono stupito della sua vittoria. Poi lei ha fatto questa scelta di entrare in quel partito, ma per me resta il giudizio positivo di quello fatto insieme. E pur non condividendo questa sua scelta, le auguro ogni bene. Magari da parte mia c’è un po’ di rammarico per non essere riusciti a fare quello che avremmo potuto fare in modo diverso rispetto alle lobby, alla struttura e alle modalità che ci sono nel Pd. Ma no, non mi sono mai pentito di aver lasciato il Pd e sorrido quando oggi sento i vertici del partito parlare di temi di cui io parlavo loro già dieci anni fa: sistema elettorale, premierato, lavoro, tasse e patrimoniale, il salario minimo».
Con Schlein vi sentite?
«Ci siamo incrociati in aeroporto durante una campagna elettorale. Ripeto: il mio rapporto di stima verso di lei non cambia. Sono ancora quello che ero quando, oltre dieci anni fa, la vidi davanti a un’aula universitaria a Bologna e le dissi “ma tu, perché non fai politica?”. Però la politica allontana anche le persone vicine».
Una cosa di Schlein che ha apprezzato in questi mesi?
«Il modo in cui ha tenuto in equilibrio il Pd dopo l’ottimo risultato alle Europee. Una cosa che, ad esempio, non riuscì a Renzi quando nel 2014 ottenne un risultato ancora più eccellente».
L’ha convinta la battaglia della segretaria sul salario minimo?
«Direi che è tardi e che è una battaglia sgonfia, sono stati al governo 10 anni. E stessa cosa con lo ius soli o scholae: se si apre un fronte con Forza Italia i dem devono andare a vedere a che gioco giocano».
Cosa le risponderebbe se le chiedesse di tornare in politica, col Pd?
«Premesso che non me lo ha mai chiesto, ma per per il rapporto con quel partito resta difficile. E ho imparato che nella vita le stagioni sono diverse».
A proposito di stagioni della vita, mi sono segnata i soprannomi che le hanno affibbiato da quando si è fatto eleggere la prima volta nel 1997 al consiglio comunale della sua città: «filosofo di Monza»; «Kennedy della Brianza»; «enfant prodige del Pd»; «piombino» (dal congresso dei dem a Piombino nel 2009 in cui si contraddistinse insieme ad altri giovani dirigenti del partito); «rottamatore» e poi «innovatore», «il Vendola del nord», «il nuovo Cacciari del Pd». Sono tanti, Civati. Qual è il suo preferito e quale quello che non può sentire?
«(Ride, ndr) Aggiungo il più divertente, “Filippo”, che è quello che mi danno quando pensano che Pippo sia il diminutivo. Qualche giorno fa un ragazzo mi ha scritto su Instagram che stava facendo le parole crociate e alla definizione di “un socialista italiano di nome Filippo» ha messo il mio cognome invece di quello di Turati. Invece io mi chiamo Giuseppe, Pippo è perché da piccolo non riuscivo a dirlo. Però il soprannome che mi piace di meno è “filosofo della Brianza”, perché è vero che forse c’è voluto del coraggio a studiare filosofia in Brianza (ride ancora, ndr), ma ho sempre percepito venisse detto in modo dispregiativo, come se la filosofia (e la cultura) facciano danno alla politica. Invece penso che sia l’opposto».
E quello che le è piaciuto di più?
«Beh, “Kennedy della Brianza” mi piace, fa simpatia. Poi per fortuna a me è andata bene, diciamo. Gliene racconto uno che mi diede Berlusconi».
Prego.
«Una volta Berlusconi disse che “in Forza Italia serve un Civati”. Da allora il sindaco di Monza, che era ovviamente berlusconiano, le provò tutte per portarmi a Arcore, ma io mi sono sempre rifiutato. Non faceva per me».
Ha letto l’intervista di Marina Berlusconi al Corriere in cui si dice «più vicina al centrosinistra sui diritti civili»? Che ne pensa? Lei e Pier Silvio Berlusconi stanno cambiando Forza Italia? Chi dei due scende in campo?
«Mi pare più lanciato Pier Silvio. Poi penso che i diritti civili siano importantissimi, ma che siano solo un pezzo della discussione e dell’essere di sinistra. I Berlusconi stanno diventando di centrosinistra anche sul fronte delle tasse, della patrimoniale, della gestione economica? Io non credo. Certo che è interessante osservare l’evoluzione della dinastia che è molto più moderna di Silvio Berlusconi, che è stato un eterno democristiano. Quando gli chiesero se, in qualità di amico di Craxi, fosse socialista lui rispose “no, sono democristiano”. Diciamo un dc punk, ma sempre dc. Certo è che né Meloni né Salvini saranno contenti di questa evoluzione».
Un aggettivo per questo governo?
«Scarso. E poi, cito il mio libro “non sono fascisti, ma”».
Non le piace la prima donna premier?
«Mi piace l’idea della donna. Ma preferisco che il dibattito sulle donne lo facciano le donne. Mi limito a dire che mi piacerebbe avere una premier che avesse un’idea di chiara di cosa è il patriarcato e ne fosse conseguente».
Come Kamala Harris?
«Ecco, già meglio. Anche se io avrei preferito qualcuno più a sinistra: Bernie Sanders».
Cosa ha votato alle Europee?
«Non glielo dico».
L’operazione di Avs di candidare Ilaria Salis le è piaciuta?
«Mi ha convinto molto sotto il profilo della liberazione personale e del messaggio da dare al governo. Aggiungo il dato personale che lei è di Monza come me e tutto parla di noi. In campagna elettorale con la mia casa editrice People abbiamo fatto un piccolo libretto dedicato a lei, si chiama “Ilaria e noi”. Spero che faccia belle battaglie al Parlamento europeo».
Arriviamo all’oggi: lei fa l’editore. Come ci è finito a pubblicare libri?
«Per me il rapporto tra la cultura e la politica è sempre stato centrale e a lungo mi sono interrogato su come trasferire alle persone le questioni politiche. Con Stefano Catone e Francesco Foti, miei due collaboratori storici, abbiamo sempre accarezzato l’idea di fare qualcosa di editoriale. Poi c’è stata ovviamente anche una ragione oggettiva, ai politici dicono spesso “vai a lavorare” e quando ho lasciato il Pd e il Parlamento avevo bisogno di lavorare. Così ci siamo lanciati, nel 2019 abbiamo aperto una Srl, un po’ ironico se ripenso a quanto nei talk show mi dicevano “ma cosa parli di partite iva che non ne sai niente?». Ecco, ora lo so, lo scriva pure. Fatto sta che dopo pochi mesi dal lancio di People è arrivato il Covid. Che uno dice: che fortuna, durante il lockdown erano tutti a casa a leggere… Peccato che noi avevamo sì e no 10 libri, un po’ scarsi come offerta».
Oggi invece avete un catalogo con 40 autori, circa 250 libri l’anno, una rivista trimestrale che si chiama «Ossigeno». Quello di cui va più fiero?
«Indubbiamente “La guerra di Bepi” di Andrea Pennacchi che è anche il nostro autore best seller. Per tante ragioni sono legato a questo titolo, anche affettive. Poi sono molto fiero di aver pubblicato autrici afrodiscendenti: abbiamo raccontato le loro storie eliminando questa coltre di razzismo che copre l’Italia».
Il libro che si pente di aver pubblicato?
«Di nessuno mi pento. Diciamo che di qualcuno mi rammarico non si sia compreso. Come nel caso di “Latitante gentiluomo” di Vassilis Paleokostas, una storia autobiografica che ha dell’incredibile. Non ha avuto molto successo anche se ultimamente l’ha ri-raccontata J-Ax nel suo podcast. A me piacerebbe vederla su Netflix».
Uno che avrebbe voluto pubblicare? So che è un grande amante della casa editrice Neri Pozza.
«Sì, mi piace moltissimo, è un punto di riferimento. Un libro che mi sarebbe piaciuto pubblicare è “Mussolini ha fatto anche cose buone” di Francesco Filippi edito da Bollati Boringhieri. Anche se quello che più di tutti avrei voluto avere in catalogo è “Cronorifugio” di Georgi Gospodinov: il libro più politico del periodo, per capire l’Europa e anche l’Italia. L’editore è Voland».
People è una casa editrice militante. In risposta al «Mondo al contrario» del generale Roberto Vannacci avete pubblicato «Il generale al contrario» di Saverio Tommasi. Poi è finita che Vannacci ha preso 500 mila preferenze alle Europee… Come se lo spiega?
«Noi la chiamiamo la “causa editrice” perché c’è sempre una ragione ideale, militante, che motiva un’azione personale e collettiva. Non si fanno i libri per contrastare Giorgia Meloni o Roberto Vannacci, si figuri che io un anno prima della vittoria di Meloni scrissi “Non siete fascisti ma” e tutti mi prendevano in giro… Guardi com’è finita. Ma si fanno libri per dare strumenti alle persone. La nostra era una riflessione sul vannaccismo, che è un modo di pensare fortissimo. Quindi quando il generale ha preso i voti non mi sono stupito per niente. La nostra tendenza è di aprire sempre di più. A partire dalla politica e dall’opinione pubblica, in questa società è tutto molto corrivo, scivola via e non ci si ferma mai a ragionare».
Qual è la ricetta per far funzionare una casa editrice nell’epoca d’oro della crisi dell’editoria?
«Bella domanda. Non saprei. Diciamo che ci vuole pazienza, costanza e soprattutto un elemento di riconoscibilità che non diventi identitario: va costruita una comunità di lettori. Questo è forse il piccolo merito che abbiamo avuto. Poi è chiaro che di errori ne abbiam fatti. Ecco, diciamo che non consiglio a nessuno di ripetere a casa l’esperimento di aprire una casa editrice».
Tra le pubblicazioni di People ci sono tantissimi titoli sulla pace in contrapposizione alla guerra. D’altronde lei, anche come deputato del Pd di Renzi si schierò apertamente contro la spesa per gli arei militari F35. Il governo e il Pd stanno sbagliando sui due grandi conflitti in corso, Ucraina-Russia e Israele-Palestina?
«Credo che serva una iniezione di pacifismo e un atteggiamento di cautela sulle armi. Ricordo sempre la lezione di Alex Langer che, da pacifista purissimo, alla fine, tra mille sofferenze, chiese l’intervento sui Balcani. Invece oggi vedo una leggerezza, un entusiasmo… Aumentiamo la spesa di armamenti senza il minimo dubbio etico e umano, ci entusiasmiamo per la Nato…».
E trova che il Pd abbia una posizione ambigua?
«Il Pd è ambiguo per definizione. È il partito del campo largo, d’altronde. Ho visto che hanno messo Berlinguer sulla tessera e allora mi sono chiesto se qualcuno di loro si sia ricordato che Berlinguer spese una decennio della sua vita a parlare e praticare il pacifismo. Su Gaza, ad esempio, mi sarei aspettato una maggiore nettezza nel condannare Israele».
C’è un dibattito molto acceso sulla parola «genocidio»: è sbagliato usarla?
«No, secondo me non è un termine sproporzionato. Abbiamo definito genocidio quello degli armeni, quello dei Balcani, quello di alcuni paesi africani… Il punto è che dovremmo usare questa parola e il suo portato per evitare i genocidi, non per commentarli. E lo dico da persona che ha scritto un libro con Liliana Segre, quindi di certo non mi si può accusare di essere antisemita o antisionista».
Ha lasciato la Lombardia ormai diversi anni fa.
«Resta la mia regione, non ci torno più molto perché ho perso entrambi i miei genitori, ma ogni tanto, anche per lavoro sì. E poi mi mancano Formigoni e il Trota, certo! Quando il Celeste cadde per molti era inimmaginabile un mondo senza Formigoni. Era tipo il Resegone. Io e pochi altri invece spingemmo per la manifestazione “Libera la sedia”, ci rispondevano “ma aspettiamo!”. Era un altro mondo».
Oggi vive a Verona e ha cambiato vita. Le manca la politica istituzionale? Meglio quella o meglio quella agita fuori dalle istituzioni?
«Verona è una bellissima città “di sinistra” come dico sempre (ride). Poi scendo spesso a Roma perché lì ho tantissimi amici, anche se quest’anno ho perso il mio migliore amico, Marco Tiberi. Ho scelto di vivere a Verona per amore, poi l’amore è finito ma ho una figlia, Nina, che ha 12 anni e ho scelto di dedicare gran parte della mia vita a lei. La politica la faccio ancora, Possibile esiste e facciamo tantissime cose insieme, giro molto e questo mi consente di poter fare politica dal vivo. Poi sì, resto l’ultimo dei parlamentaristi rimasti, ho una venerazione per la vita istituzionale. Ci sono parlamentari però molto più bravi di me, penso a Marco Causi, ad esempio… Ma come dicevo, la vita è fatta di stagioni e oggi, se mi chiedessero di tornare, non so se accetterei. Anche se alla fine in questo Paese se sei stato politico una volta lo resti per sempre. La passione resta, ma non sono come quelli che se perdono un referendum dicono che se ne vanno e poi restano…. Le racconto un aneddoto che secondo me spiega bene come mi sento oggi».
Prego.
«Qualche tempo fa ero candidato al Senato in un posto in cui non mi avrebbero mai eletto. Mia figlia allora mi chiese “ma davvero poi vai in Senato?” e io le dissi “guarda non so, mi piacerebbe molto per certi aspetti, per altri invece no”. Lei a un certo punto mi guarda e mi fa “ma poi, papà, cos’è il Senato?”. La sua era una domanda sincera, che a me ha aperto un mondo».
(da agenzie)
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