Giugno 2nd, 2013 Riccardo Fucile
“1.500 EURO AL MESE’? FIGURIAMOCI”
Millecinquecento euro al mese in media: meno di gelatai, imbianchini e muratori. 
La dichiarazione dei redditi dei gioiellieri — diffusa dal dipartimento delle Finanze del ministero dell’Economia — stupisce tutti tranne che i gioiellieri stessi, che si guardano bene dal commentare questi numeri.
“Non ne so abbastanza”, spiega uno dei nomi più prestigiosi dell’ambiente; “Non parlo, sennò vengono a farmi i controlli”, si preoccupa un altro; “i conti tornano: ha idea di quanti piccoli artigiani vendano pochissimo, soprattutto in tempi di crisi? ”, azzarda un terzo.
Poi arriva un grossista, i cui preziosi sono ben visibili in tutte le più celebri vetrine italiane, e decide di svelare il decalogo dell’evasore: “Voglio fare qualcosa per la società ”, sorride.
Partiamo dai numeri: è verosimile che i suoi colleghi guadagnino meno di 18 mila euro all’anno?
Neanche per sogno. È vero che ci sono piccoli gioiellieri di periferia che hanno costi fissi molto alti — come i commessi, la porta blindata, le spese di assicurazione — e che vendono poco. Questo è un mestiere a rischio. Però direi che in generale la realtà è ben diversa.
Lei quanto dichiara?
Dipende. L’anno scorso sui 50 mila, quest’anno circa 42 mila. Io non denuncio tutto, anche perchè vivo in Italia solo qualche mese all’anno quindi mi autoregolo, mi sembra giusto così.
E non ha paura di essere scoperto?
Il rischio c’è, ma per i grossisti è molto basso. Il modo più diffuso per evadere, che usano molto anche i negozianti, è quello di vendere la merce ai privati senza fattura, cioè senza far pagare l’Iva. Ci guadagnano tutti: il cliente risparmia fino al 20 per cento, e noi possiamo mettere a registro una cifra più bassa, così da pagarci sopra meno tasse. Ci vuole poco per superare la soglia dei 60 mila annui e far scattare l’aliquota più alta
Lo fate con tutti i clienti?
Certo che no. Agli sconosciuti, anche se scelgono gli oggetti più costosi, lo scontrino si fa sempre. Questa dialettica si crea solo con gli acquirenti più affezionati, di cui ci si può fidare. Poi ci sono altri metodi.
Per esempio?
Si può risparmiare sul “magazzino”, che è il nostro invenduto. Io ho 500 paia di orecchini e 400 anelli in oro: per far tornare i conti ho dichiarato i numeri esatti, ma ho abbassato il valore dello stock. Certo che se vengono a controllare magari se ne accorgono, ma è improbabile.
E perchè?
I grossisti non hanno vetrine: siamo meno in vista. La Finanza, prima o poi, in negozio ci va. Il che non significa che i commercianti non evadano, solo che devono stare ancora più attenti di noi.
Altri sistemi?
Se compri una pietra da un privato per 30 mila euro, in nero, ci metti nulla a rivenderla per 50 mila al negoziante di via dei Condotti. Comunque sia, i ricchi ormai comprano soprattutto all’estero, per esempio a Lugano. Poi indossano gli orecchini e tornano in Italia tranquilli e felici. Chi vuole che se ne accorga?
Che tipi sono i suoi clienti?
Al 99 per cento sono commercianti. Vista la crisi che c’è in questo momento, per senso di responsabilità , provo a fatturare il più possibile. Certo, se vendessi in nero guadagnerei di più, ma cerco di non farlo.
E ci riesce?
Mica tanto. In parecchi si rifiutano di avere la fattura, e parlo di alcuni dei nomi più prestigiosi e conosciuti in Italia, anzi nel mondo. Spesso decidono a seconda della convenienza: se sono a corto di fatture, per far quadrare i conti, me le chiedono. Altrimenti non le vogliono. Devi essere bravo a bilanciare. Altri commercianti, invece, vogliono avere tutto in regola, ma purtroppo sono pochi.
Qual è secondo lei il vero reddito medio di un gioielliere italiano?
A occhio direi sui 60, 70 mila euro all’anno. Magari quello che vende i ninnoli d’oro guadagna meno, ma stiate certi che supera i 1.500 euro al mese.
Beatrice Borromeo
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Giugno 2nd, 2013 Riccardo Fucile
I MAESTRINI DALLA PENNA AZZURRA (PRESTATA DA SILVIO) CASALEGGIO E GRILLO MOSTRANO A “POCHI ELETTI” SPEZZONI DI INTERVISTE INDICANDO GLI ERRORI
Arrivano alla spicciolata, a piedi, dalla metro fino agli uffici della Casaleggio associati, nel cuore di Milano, a pochi metri dal Teatro alla Scala.
Il plotoncino di parlamentari Cinque Stelle – con il capogruppo Vito Crimi in avanscoperta, davanti agli altri di una manciata di minuti – si presenta con trolley e giacche.
Un mix di deputati e senatori, tutti indicati come fedelissimi: Roberto Fico, Laura Castelli, Alessandro Di Battista, Luigi Di Maio, Paola Taverna, Giovanni Endrizzi, Laura Bottici, Paola Carinelli.
Ad attenderli, oltre alla stampa, negli uffici due «tutor» d’eccezione: Gianroberto Casaleggio e Beppe Grillo.
L’incontro – durato circa due ore e trenta minuti – è stato fissato per mettere a punto nuove strategie.
COMUNICAZIONE
«È stata una proficua chiacchierata», spiega Di Battista. «Siamo in Parlamento da soli tre mesi, è evidente che dobbiamo migliorare dal punto di vista della comunicazione». «Abbiamo contro il sistema mediatico», continua il deputato, «e vogliamo fare in modo che si parli meno di stupidaggini e di più delle nostre scelte parlamentari».
Il corso era stato oggetto giovedì in assemblea plenaria di alcune critiche per le modalità scelte (secondo alcuni parlamentari il progetto non era stato preventivamente comunicato e non era stato stabilito un criterio per la scelta dei primi partecipanti). «Abbiamo sentito Grillo e ci ha tenuto a sottolineare che si tratta di un parere tecnico», ammette un eletto.
«Probabilmente hanno deciso di partire da persone che, per via di diverse esperienze, sono un filo più avanti a livello comunicativo», analizza Di Battista.
LEZIONE
Venerdì però per i Cinque Stelle è stata una lezione alla Paperissima.
Casaleggio e Grillo – come anticipato nei giorni scorsi – hanno messo al centro dell’attenzione il sistema radiotelevisivo, facendo rivedere a deputati e senatori anche spezzoni di interviste, rimarcando gli errori commessi e dispensando suggerimenti su come evitarli.
Qualcuno ha ipotizzato che il gruppo presente venerdì fosse il gruppo scelto per comparire sul piccolo schermo, ma l’idea è stata respinta da Crimi.
«No», ha detto il capogruppo uscente rispondendo a una precisa domanda. E aggiunge sulla probabile svolta televisiva: «Il talk show è un pollaio solitamente», mentre ci sono aperture per incontri «dove c’è il contradditorio, magari due persone dove c’è un confronto e non ci sono 15 persone» che parlano.
CAMBIAMENTO
Per i Cinque Stelle, però, non si profila solo un cambiamento «televisivo»: è allo studio anche l’idea di una piccola rivoluzione «social».
Oltre al portale per far interagire direttamente parlamentari e militanti, potrebbe nascere un secondo sito ad hoc, dove far confluire i commenti, ma anche le proposte, gli interventi in Aula di deputati e senatori, riducendo così l’effetto-boomerang dei social media.
SOCIAL
Un progetto in controtendenza rispetto alle inclinazioni del leader: proprio venerdì è emerso a State of the Net, la conferenza sullo stato della Rete in Italia il fatto che Grillo è il primo «brand» con cui gli utenti italiani di Facebook hanno interagito nei primi quattro mesi del 2013.
La pagina Facebook del leader ha infatti registrato 14,3 milioni di interazioni (engagement) con gli utenti, doppiando i principali competitor.
Finito il corso, escono prima gli allievi, poi, a pochi minuti di distanza, i due maestri.
Emanuele Buzzi
(da “il Corriere della Sera“)
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Giugno 2nd, 2013 Riccardo Fucile
INCONTRO TRA DUE SETTIMANE, INVITATO L’EX CANDIDATO AL QUIRINALE
La guerra di nervi è ormai cronica. 
E i “ribelli” vogliono accelerare per dare uno strattone al Movimento.
Tra due settimane, infatti, nascerà ufficialmente il primo intergruppo con Pd e Sel. A fare da “padrino” al battesimo dell’iniziativa potrebbe essere Stefano Rodotà .
Ormai quindi è solo questione di tempo. Ma la frattura nel Movimento ci sarà . E sarà dolorosa. Per aprire un varco serve però un grimaldello.
L’idea dei dissidenti è appunto quella di edificare un ponte di dialogo. Sui temi concreti e nonostante Grillo.
All’intergruppo sta lavorando anche il deputato di Sel Giulio Marcon: «Hanno aderito in ottanta, trenta sono grillini. A breve lo ufficializzeremo ».
I convocati si confronteranno sulla “Pace e sul disarmo”. È solo un inizio, ma sta già provocando un terremoto.
Non tutti i cinquestelle che ne fanno parte, naturalmente, sono malpancisti.
Nè l’obiettivo va oltre il pacifismo e la battaglia parlamentare della mozione sugli F35.
Ma la macchina è partita e lo schema può replicarsi all’infinito: «Io aderirò — spiega ad esempio Adriano Zaccagnini — Il nostro spirito, fin dall’inizio, è stato quello di lavorare su temi comuni. Altri possibili intergruppi? Sulla legge elettorale, sulla revisione del sistema bancario. E poi ancora, sulle carceri e sull’idea di unaamnistia per i reati di droga o politici ».
E sulla Tav, naturalmente.
Identificata la minaccia, il quartier generale di Grillo ha già attivato la procedura d’emergenza. L’assemblea grillina potrebbe “vietare” l’adesione ad altri intergruppi.
Le “scomuniche” sono pronte, così come l’elenco dei ribelli.
Ma la speranza è che siano i dissidenti a togliere il disturbo.
Il problema è che il malumore quasi tracima.
I numeri più accreditati parlano di una trentina di deputati e una quindicina di senatori.
Da Turco a Tacconi, Pisano e Rizzetto, fino ai senatori Bocchino e Campanella.
Zaccagnini non pensa che il confronto attivato in nome degli intergruppi sia incompatibile con il M5S.
E, comunque, «accetto il rischio, lo metto in conto. Può essere che Grillo non sia d’accordo, che vogliano mantenere compatto il gruppo. Ma non ha senso, perchè io voglio lavorare per il bene del Paese».
Come lui, si moltiplicano i distinguo.
Sentite Lorenzo Battista: «Il post di Grillo? Non capisco perchè la stampa gli dia eco. Le cose che dice lui non sono la posizione del M5S».
E ancora, sul “rischio intergruppo”: «Basta con la storia delle espulsioni! ».
Tommaso Currò, altro dissidente di primo piano, si infuria in Transatlantico: «Io non me ne vado. Il movimento non ha una paternità . È di chi lo vive!».
Già la prossima settimana i “pontieri” di Pd e Sel potrebbero incontrarsi con i dissidenti, riservatamente.
Anche Pippo Civati tesse la tela e potrebbe andare a Bologna per incontrare — così spiega — Stefano Rodotà .
Il giurista, inoltre, potrebbe essere anche ospite d’onore della conferenza stampa che ufficializzerà l’intergruppo sulla pace, fra due settimane.
«Vogliamo invitarlo spiega Marcon — e vogliamo continuarea collaborare con il movimento. Come abbiamo fatto finora ».
Altri malpancisti riversano il disagio su Facebook.
Scrive Walter Rizzetto: «La cosa più interessante di oggi è la non replica di Rodotà . Comunque vada, stima».
E Currò: «Troppo spesso ho dovuto mordermi la lingua».
Ma il più amaro di tutti è il senatore Fabrizio Bocchino: «Oggi, se incontrassi Rodotà per strada, forse non avrei neanche il coraggio di guardarlo in faccia».
Tommaso Ciriaco
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Giugno 2nd, 2013 Riccardo Fucile
“IL PRESIDENZIALISMO SNATURA LA COSTITUZIONE E RAFFORZA I POPULISMI, MEGLIO IL MODELLO TEDESCO”… “GLI INSULTI DI GRILLO? INACCETTABILI”
«È illusorio curare la crisi della politica con scorciatoie decisioniste semipresidenzialiste. Così si rinforzano il populismo e l’antipolitica».
Idee nette quelle di Stefano Rodotà sulle riforme istituzionali.
E ce n’è per tutti.
Per Berlusconi, per Grillo e per il Pd, che mette in guardia: «Rifondare il partito sul rafforzamento dell’esecutivo servirebbe a coprire un vuoto di cultura politica. Non a rilanciare o rinnovare un’identità ».
Dunque, altro che «ottuagenario miracolato dalla rete», come inveisce il comico genovese, al quale lo studioso replica con fermezza e senza astio.
Quella di Rodotà è un’analisi lucida, che parte da lontano.
A tre decenni dalle diatribe sulla Grande Riforma, tornano i temi del presidenzialismo e del premierato. Con accuse di conservatorismo a chi vi si oppone. Anche lei è conservatore?
«Si è soliti contrapporre conservatori e riformatori a riguardo. Ma nel mezzo c’è molto di più: dal tema del bicameralismo, ai regolamenti, al numero dei parlamentari, ai poteri del premier. Sui principi costituzionali mi iscrivo di buon grado fra conservatori, ma senza rinunciare all’innovazione, sui punti elencati. Perchè un conto è la doverosa manutenzione della nostra Costituzione. Altro il suo stravolgimento su basi presidenziali o semi. Non è vero che il premier oggi non abbia poteri, come dice Berlusconi. Tutt’altro. Semmai il problema è quello dei colpi di mano sulle regole. Favoriti da maggioritarismo e Porcellum, che hanno travolto le garanzie sul 138 e sull’elezione presidenziale vigenti in era proporzionale».
Perchè tornano le pulsioni decisioniste?
«Intanto i famigerati anni 70, accusati di vischiosità , furono i più proficui in senso riformista. Dalle Regioni, allo statuto dei lavoratori, al divorzio. Invece gli anni 80, “decisionisti”, furono sterili e fatti di debito pubblico. Il punto è stata la crisi della politica. Sicchè una politica lottizzatrice pigra e svuotata dinanzi al mutamento sociale anni 80 ha finito con lo scaricare le sue colpe sulle istituzioni e sulla loro forma, invece di ripensare le “sue” forme. Si è celebrata l’alternanza come panacea. Per cui nell’era del bipolarismo tutto si sarebbe rinnovato e alternato, mutando le classi dirigenti. Risultati: aumento della corruzione, instabilità , paralisi. E una politica colonizzata da avventure populiste».
Alla base dell’«ingovernabilità » e delle larghe intese vi sarebbe l’ossessione maggioritaria?
«Sì, è stato il nostro sistema maggioritario a far crescere il populismo e il bipolarismo selvatico, con ciò che ne è seguito. A partire dal Mattarellum…».
Ma esisteva un’altra strada dopo Tangentopoli?
«Certo, e ho cercato di perseguirla in minoranza. Con la Sinistra indipendente, e contro le impostazioni di Segni e Gianfranco Pasquino. Mi sono battuto in tal senso, al referendum del 1993 contro il maggioritario. Il mio modello? Modello tedesco: metà collegi uninominali, e metà proporzionale. E poi: sbarramento, Camere diversificate, poteri del premier e sfiducia costruttiva. Infine, regolamenti, velocizzazione legislativa, poteri del “Cancelliere”. La mia posizione resta questa, sebbene sia stata sconfitta dall’egemonia di un altro senso comune, e con gli effetti che vediamo…».
Veniamo al semipresidenzialismo, che torna a circolare anche nel Pd. Il suo giudizio?
«Tecnicamente ha molte controindicazioni. Dalla cosiddetta monarchia repubblicana ai conflitti della coabitazione. Ma la questione non è tecnica o astratta. In Francia dove si è imposto tra crisi algerina e ambizioni nazionali ha retto, perchè lì c’è una lealtà repubblicana condivisa. Nel contesto italiano di contro, i rischi sono enormi, perchè non c’è delimitazione verso l’estrema destra, e il sistema potrebbe risultare catastrofico e divisivo. Oltralpe anche la sinistra ha votato Chirac, e non Le Pen. E se lo immagina un ballotaggio finale tra Berlusconi e Grillo?».
Conseguenze nefaste anche per la politica, risucchiata a quel punto tutta dentro la figura del decisore eletto dal popolo?
«Certo, per la politica e per i partiti. La subordinazione sarebbe fatale, e ne verrebbe travolta la funzione di garanzia del Presidente, cardine del nostro ordinamento parlamentare. Inficiata anche la norma che definisce immodificabile la forma repubblicana dello Stato, che fa corpo con la Repubblica parlamentare. Con danni e conflitti irreparabili. E devo dare atto a Bersani di questo: è stato sconfitto, ma ha mantenuto una posizione fermamente avversa alla personalizzazione della politica. Che è all’origine dei mali di cui parliamo».
E Grillo, negatore di libertà di mandato e democrazia delegata, non è dentro questi mali? E ancora: è deluso degli attacchi alla sua persona?
«Ho ringraziato Grillo per la sua “designazione”. Dopo avergli anche detto che, dinanzi alla canditura di Prodi, facevo un passo indietro. Poi sono andato a discutere con il suo gruppo alla Camera della democrazia parlamentare. E dissi: “Siete in parlamento, volete gettare al vento la libertà dei singoli in nome del portavoce?” Registrai consensi e dissensi. Ma la questione resta aperta, e andrà avanti lì dentro. Gli insulti? Inaccettabili, visto il mio tentativo di offrire un contributo. Lascio a ciascuno la sua libertà di giudizio, nel rispetto degli altri. Quel che mi sta a cuore è la coerenza delle mie idee. Agli attacchi sono abituato».
Agenda istituzionale di questo governo. Corretta? Confusa? Migliorabile?
«Occorre invertire priorità e strumenti. Prima ci vuole la legge elettorale: abolizione del Porcellum, magari anche con un nuovo Mattarellum. Per sottrarre a Berlusconi un’arma di ricatto, allungare eventualmente i tempi di questo governo e inserire altri temi nell’agenda, a partire dai diritti civili. Poi, per via ordinaria senza comitati e commissioni si potrà affrontare la riforma istituzionale. Ma senza stravolgimenti della forma parlamentare. E, auspicabilmente, nel solco di un sistema alla tedesca anche per quel che riguarda i rami alti».
Abbiamo evocato i partiti, corpi intermedi decisivi nella nostra Costituzione. La fine del finanziamento rischia di ucciderli?
«Viviamo sotto una spinta generalizzata anti-casta, anche per l’uso distorto delle risorse da parte del ceto politicoamministrativo. Ma rischia di farne le spese la democrazia, che senza partiti non esiste. Rischiamo un’americanizzazione della politica, dove il peso delle lobby e del denaro è preminente. Non possiamo rinunciare al ruolo di forti soggettività di massa organizzate, in grado di mediare il nesso tra Parlamento e società . Ruolo non esclusivo certo, perchè essenziali sono anche i momenti referendari, la rete, le associazioni e i movimenti civici. Ma senza partiti la democrazia si estingue, a beneficio dei ricchi e dei potenti».
Bruno Gravagnuolo
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Giugno 2nd, 2013 Riccardo Fucile
IRRITAZIONE NEL PD VERSO L’ATTEGGIAMENTO DEL SINDACO DI FIRENZE
Matteo Orfini – «nascita» dalemiana, cofondatore della corrente dei Giovani turchi e
deputato del Pd – non vede come possano placarsi le tensioni interne al suo partito se non si arriva rapidamente al congresso: «Non ci siamo ancora confrontati sulle ragioni della nostra sconfitta, nè abbiamo stabilito che cosa debba diventare il Partito democratico. Non è che, senza congresso, si possono evitare questi temi: la discussione politica è in atto comunque. Non possiamo averne paura»
Massimo D’Alema vorrebbe Gianni Cuperlo alla guida del partito, Renzi vorrebbe se stesso in un ruolo alto, ma non ancora definito…
«Renzi e D’Alema si incontrano spesso… Forse Renzi è diventato dalemiano? Per me la proposta migliore è Cuperlo».
E il sindaco di Firenze candidato per Palazzo Chigi?
«Quando ha partecipato alle primarie contro Bersani, diceva cose che non condivido. Vedremo in prossimità delle elezioni. Però la cosa più importante adesso è aiutare a ricostruire il Pd, il che è cosa ben diversa dall’andare a presentare un libro in giro per l’Italia. Temo che ci sia qualcuno che cerca di vivere una fase così delicata del partito come gli conviene».
Farete il congresso entro ottobre, così come avete votato di fare?
«Non vedo ragioni per rinviarlo, e dovrà essere aperto non solo agli iscritti, con le primarie per scegliere il nuovo segretario».
Una tesi è che rimandarlo serve a tenere in piedi il governo.
«È un’idea sbagliata, il governo si stabilizza solo se c’è un Pd forte; e un partito forte può uscire soltanto dal congresso. E poi che argomento è? Si vuole forse dire che finchè resta in piedi questo esecutivo non ci sarà congresso?».
Il governo le sembra instabile?
«È sostenuto da una maggioranza particolare che è complicato tenere insieme. Ma sta facendo alcune cose».
C’è sempre qualcuno che minaccia di farlo saltare se non si agisce secondo la propria volontà .
«Lo spauracchio che agita Berlusconi è poco credibile. Quella con il Pdl non è l’unica maggioranza possibile: il Movimento 5 stelle ha già pagato il prezzo della linea Grillo. Perciò dubito che si tornerebbe facilmente al voto».
Daria Gorodisky
(da “il Corriere della Sera“)
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Giugno 2nd, 2013 Riccardo Fucile
CHI AIUTERA’ LA POLITICA GODRA’ DI UN TRATTAMENTO 12 VOLTE PIU’ FAVOREVOLE DI CHI SOSTIENE UN’OPERA BENEFICA… E NON CI SONO TETTI MASSIMI
Chiamatela come meglio credete. Ma non con il nome sbagliato: abolizione del finanziamento pubblico dei partiti.
Perchè inseguire Beppe Grillo è un conto; raggiungerlo, un altro.
I soldi dei contribuenti, e tanti, arrivano alla politica attraverso mille rivoli, moltiplicatisi negli anni come organismi dotati di vita propria. E questa legge non li chiude affatto tutti.
Alcuni li allarga persino.
Gli sgravi fiscali non sono forse una forma di finanziamento pubblico, sia pure indiretto? Si tratta di denari che lo Stato non incassa consentendo ai partiti di avere donazioni da imprese o privati cittadini.
Dunque è come se quei soldi lo Stato li desse alla politica.
Con un trattamento, per chi decide di aiutare economicamente un partito o un politico, 12 volte più favorevole rispetto a quello cui ha diritto il sostenitore di un’opera benefica.
Perchè mentre il singolo cittadino che finanzia un’associazione impegnata nella lotta contro una malattia rara può detrarre dalle tasse il 26 per cento del contributo solo fino a un tetto di 2.065 euro, qui parliamo della possibilità di risparmiare il 52 per cento fino a 5 mila euro e il 26 per cento fino a ben 20 mila.
La matematica, com’è noto, non è un’opinione.
Dare 20 mila euro in beneficenza consente di detrarre al massimo 542 euro, regalare la stessa cifra a un partito ne fa invece risparmiare 6.500.
Vero che il vantaggio fiscale per chi finanzia la politica, ancora lo scorso anno, quando la detrazione era sì al 19 per cento ma con un tetto di 103 mila euro, era addirittura più che quadruplo.
Ma anche così ci sarebbe da chiedersi se sia giusto privilegiare fiscalmente i partiti più delle organizzazioni che aiutano il prossimo.
Altra domanda: siamo sicuri che una volta imboccata questa strada non si debba stabilire indipendentemente dagli sgravi anche un tetto massimo di contribuzione oltre il quale un solo privato o una singola impresa non possa andare, per impedire i condizionamenti da parte di determinati interessi?
Magari fissando pure il principio adottato dalla Germania che impone la pubblicazione immediata via web dei contributi superiori a 50 mila euro.
Vedremo. Intanto prendiamo atto della decisione di rinunciare sia pure gradualmente in tre anni a quello che era rimasto dei ricchi «rimborsi» elettorali: una droga pesante che aveva gonfiato gli apparati di personale trasformando i partiti in macchine per ingoiare denaro.
Ed era chiaro che l’unico modo per tamponare il taglio del finanziamento diretto sarebbe stato quello di agire sul finanziamento indiretto.
Anche se questo, oltre a farci risparmiare un po’ di quattrini non potrà scongiurare una salutare cura dimagrante.
Finanziamento indiretto è pure il 2 per mille delle tasse: altre entrate cui lo Stato rinuncia a favore della politica.
Sempre che ci si possa fare affidamento, visti i precedenti.
Negli anni Novanta si provò con il 4 per mille. All’inizio fu corrisposto ai partiti un anticipo di 160 miliardi di lire, con l’impegno a conguagliare quella cifra, in più o in meno, quando il ministero delle Finanze avesse fatto i calcoli dei denari effettivamente destinati dai contribuenti alla politica.
Peccato che il conto non sia mai stato reso noto.
Elementare la ragione: i partiti avrebbero dovuto restituire tanti denari che avevano già speso. La legge del 4 per mille finì in soffitta e si cominciarono a gonfiare in un modo indecente i «rimborsi».
A quanto ammonterà questo finanziamento indiretto è difficile dire.
Il 2 per mille è una incognita assoluta.
Mentre gli sgravi fiscali erano finora stimabili in una decina di milioni l’anno, somma adesso inevitabilmente destinata a crescere.
Poi però ci sono gli altri rivoli.
L’esenzione dell’Imu per le sedi politiche, per dirne una. I contributi pubblici alla stampa di partito, circa un miliardo di euro dal 1990 a oggi. Oppure le agevolazioni postali per il materiale elettorale, una disposizione introdotta con la legge che ha fatto seguito al referendum del 1993, che si somma curiosamente ai rimborsi delle spese elettorali.
Per dare un’idea delle dimensioni di questo rivolo, i 9 milioni di lettere spedite agli italiani da Silvio Berlusconi con la promessa di restituire l’Imu potrebbero essere costate allo Stato 2 milioni 160 mila euro di francobolli.
Ovviamente oltre ai famosi «rimborsi».
Ma è niente al confronto del torrente più grosso che continuerà certo ad alimentare il finanziamento pubblico.
Stavolta non più indiretto: denaro sonante.
Sono i contributi ai gruppi parlamentari e dei Consigli regionali.
Quanti soldi? Anche qui non è facile dirlo, ma si parla sempre di un centinaio di milioni l’anno, pur dopo il giro di vite imposto in varie Regioni.
Nel solo Lazio dello scandalo Batman si distribuivano ai gruppi 14 milioni l’anno.
I contributi ai gruppi di Camera e Senato spuntano nella legge sul finanziamento pubblico approvata nel 1974 da tutti i partiti (tranne i liberali) durante la bufera dello scandalo petroli.
E sono proprio quelli che il referendum radicale del 1993 aveva abrogato. In barba al voto di 34 milioni di italiani sono stati invece mantenuti: non più per legge, bensì per autonoma iniziativa del Parlamento.
La loro abolizione non è mai stata all’ordine del giorno.
Il finanziamento pubblico dunque non è morto, a dispetto dell’epitaffio scolpito ieri dal governo di Enrico Letta.
Chi credeva davvero che alla politica non sarebbe più arrivato un euro statale si metta l’anima in pace.
Pur eliminando l’autentico sconcio dei «rimborsi» elettorali l’Italia non diventerà come la Svizzera: unico Paese europeo dove non sono previsti sotto alcuna forma contributi per i partiti.
Va detto chiaramente che i rubinetti pubblici resteranno aperti, pur assumendo in qualche caso forme più evolute e moderne.
Una di queste è il libero accesso a spazi pubblicitari sulle reti televisive, o l’erogazione gratuita di alcuni servizi, come accade in Svezia.
E se è fondamentale il vincolo della massima trasparenza per ottenere i benefici fiscali, ancora di più lo è l’obbligo di dotarsi di «requisiti minimi idonei a garantire la democrazia interna».
Il che tira in ballo la legge sulla forma giuridica dei partiti con la quale si dovrebbe attuare l’articolo 49 della Costituzione, mai riempito di contenuti da ben 65 anni. Un anno fa quel provvedimento, per quanto lacunoso, sembrava in dirittura d’arrivo. Poi è rimasto nei cassetti di Montecitorio.
Ma ogni riforma del finanziamento della politica non può risultare credibile, senza le regole che dicano che cosa sono i partiti, quali sono i loro obiettivi, come devono essere organizzati.
Vanno scritte subito, avendo tuttavia sempre presente che è soltanto un primo passo. Al punto in cui si è arrivati, per provare a riconciliarsi con gli italiani i partiti devono fare ben altro: a cominciare da una legge elettorale che restituisca ai cittadini il potere di scegliere.
Quella che ora improvvisamente non è più urgente per nessuno.
Sergio Rizzo
(da “il Corriere della Sera“)
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