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L’INNOMINATO

Marzo 20th, 2014 Riccardo Fucile

SI PONE IL PROBLEMA DI COME CHIAMARE BERLUSCONI

Il Cavaliere non è più Cavaliere.
Si è autosospeso, cioè è sceso da cavallo un attimo prima che la federazione nazionale dei cavalieri (in Italia non ci facciamo mancare nulla) lo buttasse giù.
Non potendo ancora ignorarlo, si pone dunque il problema di come chiamarlo.
L’abbreviazione Cav va in soffitta insieme con la versione extralarge, per la disperazione dei paleo-giornalisti, quasi tutti di sinistra, adoratori di Giuliano Ferrara, che quel nomignolo inventò nel sostanziale disinteresse del resto della popolazione.
«Il Dottore» è l’appellativo con cui le segretarie, i dipendenti, e tra essi soprattutto Arrigo Sacchi e Galliani, lo hanno sempre evocato in azienda, ma fuori da lì suona banale e persino allusivo, se si pensa a certi bunga bunga zeppi di giulive travestite da infermiere.
Ci sarebbe «Presidente», se non facesse riferimento a due entità  in crollo verticale di consensi: Forza Italia e il Milan: e poi è così che vengono chiamati D’Alema e gli altri politici in pensione.
«Il Berlusca» rimane il soprannome più milanesoide e in fondo più vero, ma sembra una foto ingiallita degli Anni Ottanta.
«Papi» suscita imbarazzo, «Love of my life» ilarità  e in ogni caso il primo è un’esclusiva delle para-minorenni e il secondo delle igieniste dentali.
«Silvio» ha un che di patetico e di eccessivamente confidenziale.
Alla fine temo bisognerà  rassegnarsi a chiamare Berlusconi nell’unico modo che riesca ancora a identificarlo: il papà  di Matteo.

Massimo Gramellini
(da “La Stampa”)

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CARRAI E L’AFFITTO PAGATO PER RENZI: I PM APRONO UN FASCICOLO

Marzo 20th, 2014 Riccardo Fucile

RIFLETTORI SULL’IMPRENDITORE ANCHE PER LA MOSTRA DI POLLOCK E MICHELANGELO PER IL COMPENSO DI 400.000 EURO ALLA FIDANZATA

Per trentaquattro mesi, l’ex sindaco Matteo Renzi ha vissuto in un appartamento al quinto piano di via degli Alfani 8, a due passi da Palazzo Vecchio.
A pagare l’affitto, dal 14 marzo 2011 al 22 gennaio scorso, è stato l’imprenditore Marco Carrai (38 anni), fidato consigliere e migliore amico del premier.
E adesso la Procura di Firenze, in seguito ad un esposto ricevuto nei giorni scorsi, ha aperto un fascicolo per fare chiarezza sui rapporti tra l’ex sindaco (oggi premier) e l’imprenditore fiorentino e per verificare se quest’ultimo abbia ottenuto favori in cambio.
Si tratta di un fascicolo esplorativo: al momento non ci sono nè indagati, nè sono formulate ipotesi di reato.
Il procuratore aggiunto Giuliano Giambartolomei, che dal 27 ottobre regge la Procura dopo il pensionamento di Giuseppe Quattrocchi, affiderà  le indagini a un pm per accertare che non sia stato danneggiato l’interesse pubblico.
In quell’appartamento l’ex sindaco aveva trasferito la sua residenza da Pontassieve (paese a 20 chilometri da piazza Signoria, dove abitano la moglie Agnese e i tre figli) per seguire da vicino il governo di Palazzo Vecchio e, soprattutto, per votare nella città  che amministrava.
In quell’abitazione di cinque vani, con vista sulla città , il sindaco si riposava tra un impegno e l’altro.
A pagare l’affitto, come rivelato da Libero nei giorni scorsi, (prima 900 e poi 1.200 euro al mese) non era però l’ex Rottamatore, bensì Carrai, che ha guidato in passato un’importante partecipata di Palazzo Vecchio come la Firenze Parcheggi e adesso è presidente di Adf, la società  che gestisce l’aeroporto di Firenze (di cui sempre il Comune detiene una quota).
Carrai è anche un imprenditore che investe su diversi fronti.
Tra questi anche quello della tecnologia applicata alla fruizione dei beni culturali. Carrai, con una delle aziende di cui è socio, la C&T Crossmedia, si è aggiudicato l’anno scorso dal Comune l’organizzazione di un servizio per visitare Palazzo Vecchio con la guida di un tablet interattivo. Per ogni dispositivo noleggiato dai turisti, la C&T riceve una percentuale.
Dopo aver duellato per giorni con il direttore Maurizio Belpietro, minacciando anche querele, alla fine Carrai ha inviato a Libero la copia del contratto di affitto dell’appartamento di via degli Alfani 8, che il quotidiano ha pubblicato ieri.
Il proprietario dell’immobile è Alessandro Dini, consigliere d’amministrazione della Rototype, il cui sito internet è stato curato dalla Dotmedia, l’agenzia di comunicazione di cui è socio anche il cognato di Renzi.
Fino al gennaio 2011, prima di trasferirsi nella casa pagata dall’imprenditore, l’allora sindaco aveva affittato (a proprie spese) una mansarda dietro Palazzo Vecchio, salvo poi recedere dal contratto perchè con lo stipendio da sindaco non riusciva a sostenere i circa mille euro mensili di locazione.
A tenere puntati i riflettori su Carrai è da qualche giorno la polemica sulla mostra che nelle prossime settimane vedrà  protagoniste a Palazzo Vecchio le opere di Jackson Pollock e Michelangelo.
Per l’esposizione, una delle più attese degli ultimi tempi a Firenze, l’amministrazione pagherà  agli organizzatori 375 mila euro.
Una dei due curatori è Francesca Campana Comparini, 26 anni, laureata in filosofia, che a settembre sposerà  Carrai nella basilica di San Miniato al Monte.

Valentina Marotta e Claudio Bozza
(da “il Corriere della Sera”)

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BABY SQUILLO: UN CLIENTE E’ IL FIGLIO DEL SENATORE DONATO BRUNO DI FORZA ITALIA

Marzo 20th, 2014 Riccardo Fucile

SI TRATTA DI UN AVVOCATO 35ENNE, SPOSATO DA POCO… IL PADRE E’ UNO DEI FALCHI DI FORZA ITALIA, GIA’ PRESIDENTE DELLA GIUNTA DELLE ELEZIONI

Si chiama Nicola Bruno, ha 35 anni, fa l’avvocato, è sposato da poco.
È lui il figlio del parlamentare di centrodestra finito nell’inchiesta sulla prostituzione minorile di Roma.
Accusato di aver avuto incontri sessuali a pagamento con Aurora e Azzurra – 14 e 15 anni – in un appartamento dei Parioli. Lo accusano di sfruttamento, gli contestano di essere stato più volte in quella casa.
Suo padre è Donato Bruno, anche lui avvocato, onorevole di Forza Italia, che in passato ha guidato la Giunta delle elezioni e la Giunta del regolamento della Camera ed è ritenuto uno dei «falchi» del partito di Silvio Berlusconi.
Sono state le intercettazioni a indirizzare le indagini su Nicola Bruno.
Nel settembre scorso, dopo la denuncia della madre di Aurora, il procuratore aggiunto Maria Monteleone e il sostituto Cristiana Macchiusi decidono di mettere sotto controllo il cellulare della ragazzina proprio per individuare sfruttatori e clienti. Hanno già  un lungo elenco di numeri telefonici e di messaggi «whatsapp» (il servizio di sms gratuiti) consegnato dalla signora, ma devono effettuare controlli diretti, soprattutto capire se davvero la ragazzina sia finita nelle mani di due «aguzzini» che la costringono a prostituirsi.
Le indagini dei carabinieri del Nucleo investigativo si concentrano sugli uomini che entrano ed escono da quel palazzo di viale Parioli, sulle conversazioni, sugli appuntamenti.
E tra i «contatti» frequenti viene individuato anche il telefono del giovane legale. Vengono disposte ulteriori verifiche, raccolti quegli elementi che i magistrati hanno definito «incontrovertibili».
Quando il quadro degli accertamenti è completato si decide di iscrivere il suo nome nel registro degli indagati insieme a quello di altre 20 persone.
Alcuni, come Mauro Floriani – il marito dell’onorevole Alessandra Mussolini – decidono di presentarsi spontaneamente in Procura. Altri vengono invece convocati. Bruno dovrebbe essere interrogato nei prossimi giorni.
La linea della Procura appare ormai tracciata: di fronte a una situazione che appare «cristallizzata» l’intenzione è quella di procedere con una richiesta di giudizio immediato e con processi singoli per ogni imputato.
Le dichiarazioni delle ragazzine sono state già  raccolte in sede di incidente probatorio proprio per evitare di farle partecipare al dibattimento.
Gli indagati sono ormai una cinquantina e molti altri potrebbero aggiungersi nei prossimi giorni.
Del resto la mole di dati raccolta dagli investigatori fa presumere che possano essere almeno un centinaio gli uomini che in sei mesi hanno avuto rapporti con le due ragazze.
Il periodo preso in esame dagli inquirenti va dalla primavera scorsa, quando Aurora decide di mettere un annuncio su «Bakekaincontri» e di affidarsi a Mirko Ieni, e la fine di ottobre quando sono stati arrestati gli sfruttatori e la mamma di Azzurra con l’accusa di aver favorito l’attività  della figlia.
In realtà  i contatti sono migliaia, ma moltissimi appaiono casuali.
Nei giorni scorsi l’attenzione si è puntata su Andrea Cividini, funzionario di Bankitalia il cui telefono appare nell’elenco dei «chiamanti».
Il manager ha però escluso di aver mai incontrato le giovani e soprattutto avrebbe dimostrato che quel cellulare non era in uso a lui. Uno scambio di persona.
Molti altri si sono presentati davanti ai magistrati per spiegare di essere stati coinvolti per errore. Ma non tutti sono stati così convincenti: alcuni hanno utilizzato utenze intestate a donne, tuttavia le intercettazioni hanno dimostrato che erano certamente loro gli interlocutori.
Altre tracce sono state raccolte attraverso video e foto che gli sfruttatori avevano effettuato di nascosto.
Immagini carpite fuori e dentro la casa che probabilmente volevano utilizzare per ricattare i clienti.

Fiorenza Sarzanini
(da “il Corriere della Sera“)

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BERLUSCONI PENSA AL NOME NEL SIMBOLO, MA IL FIGLIO IN LISTA DIPENDE DAL 10 APRILE

Marzo 20th, 2014 Riccardo Fucile

IL CAV NON E’ PIU’ CAV… ANGOSCIA E PAURA LO PARALIZZANO…E QUELLA FRASE DI BETTINO: “IL PROSSIMO SARAI TU”

E adesso il 10 aprile fa davvero paura.
Quando Silvio Berlusconi accoglie lo stato maggiore del suo partito è un fiume in piena: “Io sono un cittadino che non ha fatto nulla contro il proprio paese, mi stanno facendo passare come un delinquente. Perseguiranno l’obiettivo di eliminarmi fino alla fine”. Già , fino alla fine.
Il Cavaliere non è più Cavaliere. E non solo come onorificenza. Per la prima volta sente sulla sua pelle la sensazione che il declino è iniziato. Personale. Politico.
Perchè il giorno dopo l’interdizione la frana di Forza Italia è iniziata.
Risuona, sinistra, nella sua mente quella frase che più volte gli disse Bettino Craxi da Hammamet: “Il prossimo sarai tu”.
Restano assai colpiti i capigruppo Brunetta e Romani, chiamati insieme a Verdini, Gianni Letta e Niccolò Ghedini a discutere di candidature per le europee a palazzo Grazioli.
Berlusconi li accoglie più come amici con cui sfogarsi e condividere l’angoscia del 10 aprile che come dirigenti del suo partito.
Adesso che la testa è fissa su quella data è tremendo pensare che da quel giorno non ci saranno più riunioni di questo tipo: “Non gliene frega niente delle candidature alle europee” racconta chi ha accesso a palazzo Grazioli.
Il punto di caduta sarà  che i big saranno tutti candidati, a partire da Raffaele Fitto, perchè se non corrono quelli che hanno i voti si rischia grosso.
Ma per ora non si può dire, altrimenti viene depotenziata la battaglia simbolica su Berlusconi capolista.
Per questo l’ufficio stampa smentisce la notizia data dall’Ansa sui nomi dei capilista: Fitto al Sud, Tajani al centro, Brunetta nel Nord Est e Toti nel Nord Ovest.
Ma non è questa la priorità  del Cavaliere. È la perdita della libertà  l’unico pensiero. Ogni giorno è un passo verso la fine, umiliazione dopo umiliazione.
Ieri interdetto, oggi non più Cavaliere. Domani chissà : domiciliari o servizi sociali. Con l’impossibilità  di parlare all’esterno, agire, fare la campagna elettorale.
È questo che condivide con i suoi. Perchè per la prima volta il “piano B” non c’è. L’unica certezza è la necessità  di mettere il nome “Berlusconi” nel simbolo per evitare che si realizzi lo scenario che prefigurano i sondaggi riservati, con Forza Italia al 17 per cento: “Sotto il 20 — trapela da palazzo Grazioli – si disintegra il partito”.
Ma la certezza riguarda la necessità , non la realizzazione.
Il rischio è che vengano annullate un bel po’ di voti a causa di elettori che scrivono “Berlusconi” sulla scheda”.
La soluzione sarebbe mettere un Berlusconi in lista. E qui si complica tutto dannatamente.
Perchè l’ex premier vorrebbe tenere i figli alla larga della politica: “Io — ha ripetuto ai suoi — non voglio far passare a loro quello che sto passando io”.
Anche perchè la sola ipotesi di un Erede ha prodotto la grande faida.
Con quelli di primo letto che non vogliono Barbara, “la figlia di Veronica”, che è però quella che funziona di più.
E Marina, su cui pure il Cavaliere ha fatto i suoi sondaggi, non è spendibile nell’era Renzi.
In un clima tragicomico dalla Corte viene spifferato anche il nome di “Pier Silvio”, come soluzione “terza”.
La verità  è che tutto dipende da come andrà  il 10 aprile. La discesa in campo di uno dei figli è legata alla totale perdita di agibilità : domiciliari o servizi sociali “veri”, allora figli in campo.
Nella confusione del fine impero, ora che per la prima volta il marchio non garantisce tutti, parte la corsa a improvvisate scialuppe.
E così succede che una prudente come Mariastella Gelmini dichiari che un Berlusconi sarà  in lista. Per essere smentita poche ore dopo da Giovanni Toti, all’uscita del vertice a Grazioli: “La famiglia ha sempre smentito e a me non risulta”.
C’è una confusa ansia di posizionarsi nelle mosse di un partito che teme il precipizio. Parole ripetute per decenni paiono aver perso appeal, tutto d’un colpo: “Continuerà  a guidare i moderati” assicura Toti.
Ma da quelle parti sono troppo esperti di comunicazione per non capire che stavolta non è come le altre.
Renzi è giovane, dà  l’idea di futuro, ha consenso.
Berlusconi ha il doppio di anni, appare come il passato.

(da “Huffingtonpost”)

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“CHE TAGLI VOLETE FARE A CHI GUADAGNA 1300 EURO AL MESE?”: L’ULTIMO INSULTO ALLE FORZE DELL’ORDINE

Marzo 20th, 2014 Riccardo Fucile

UN CARABINIERE PRENDE 1300 EURO AL MESE, IN SVIZZERA QUATTRO VOLTE TANTO… IL COMANDANTE DELLA GDF: “LA SPENDING REVIEW L’ABBIAMO FATTA DA SOLI”

Quanto vale affrontare un contrabbandiere deciso a buttarti fuoristrada con il suo suv, o ingaggiare un conflitto a fuoco con i killer della mafia?
Per le donne e gli uomini delle forze dell’ordine, che della difesa del loro Paese hanno fatto una ragione di vita, per tutto questo bastano 1300 euro al mese.
Tanto prende un poliziotto, un carabiniere o un militare della Guardia di Finanza.
E in epoca di spending review, sentire parlare di «tagli», «risparmi» e «superstipendi» brucia a chi tutti i giorni si gioca la vita sulla strada. E qualche volta la perde.
Così può accadere che un ufficiale e gentiluomo, come il Comandante Generale della Guardia di Finanza, il Generale di Corpo d’Armata Saverio Capolupo, trovandosi in Senato per riferire sui risultati alla lotta all’evasione fiscale, si voglia togliere un «sassolino» dalla scarpa.
«Stipendi d’oro? Spending review? – ha detto ieri Capolupo davanti ai senatori – noi siamo diecimila in meno di quelli che dovremmo essere. Il massimo che guadagna un Generale di corpo d’Armata, al vertice della carriera, sono cinquemila euro al mese. Cosa altro si può tagliare?»
Effettivamente andando ad «investigare», visto che si parla di «comparto sicurezza», sugli stipendi degli italiani in divisa, rispetto ai loro omologhi europei, la situazione appare decisamente squilibrata.
In base ad una ricerca effettuata da Il Tempo, infatti, lo stipendio-base di un poliziotto, carabiniere o militare della Guardia di Finanza appare il più basso dei Paesi del blocco centrale europeo.
E non è che in Italia la vita costi meno che in Germania o nel Regno Unito.
Un carabiniere italiano prende circa 1.300 euro netti al mese contro i 1.750 del «Soldat» tedesco, i 1.400 dell’Agent B, il «bobby» londinese.
Se poi andiamo in Svizzera… una guardia al primo incarico può mettersi in tasca l’equivalente di più di 5.300 euro al mese tondi tondi.
Nulla che possa realmente ripagare l’impegno di uomini e donne che tutti i giorni rischiano la vita. Ma comunque un riconoscimento, quello degli altri Paesi, che appare più commisurato al servizio reso.
Se poi nella tabella elaborata da Il Tempo si passa dai semplici agenti ai vertici viene sbugiardato chiunque parli di «maxistipendi» nel comparto sicurezza.
Se un Generale di Corpo d’Armata italiano, come rilevato dal Comandante Generale della Gdf, prende 5.000 euro al mese, il suo alter ego tedesco, un Generalleutenat può contare su oltre 7000 euro netti mensili, un capo della polizia del Regno Unito oltre i 9.000 e un Capo della Polizia in Svizzera, dove evidentemente amano esagerare, prende, addirittura, quasi 15.000 euro netti mensili.
Scendendo a livello intermedio, cioè quello di un commissario, per l’italiano ci sono circa 2.500 euro netti mensili, per l’Oberst tedesco c’è più del doppio, 5.500 euro al mese, altrettanti per l’inglese e più di 11.000 per lo svizzero.
E c’è da precisare che gli stipendi dei dipendenti pubblici italiani sono fermi, congelati, bloccati dal 2010 e anche per chi viene promosso la retribuzione resta tale e quale.
Alla faccia della meritocrazia. Un bravo ufficiale o sottufficiale che per i suoi meriti viene promosso… becca sempre lo stesso stipendio.
Si capiscono bene, allora, le parole misurate, ma ferme, del Generale Saverio Capolupo che ieri, davanti alla VI Commissione Finanze e Tesoro del Senato della Repubblica, ha detto che la Guardia di Finanza la sua spending review l’ha già  fatta con la chiusura di 72 reparti, intervenendo sui comparto aereo e marino e rivedendo tutte le locazioni. «Cosa altro possiamo chiedere – ha domandato ai senatori Capolupo – a chi guadagna 1.300 euro al mese?»
E già  che c’era ieri il numero uno della Gdf si è tolto anche un altro paio di sassolini dalla scarpa. Uno ha riguardato i tanto sbandierati blitz antievasione.
Quelli, per intenderci, nelle località  vip della Penisola.
Interrogato sull’argomento dal senatore Franco Carraro (l’ex sindaco di Roma) Capolupo ha messo in chiaro che «noi di blitz non ne facciamo.
A Cortina d’Ampezzo e a Capri, non c’eravamo. Anzi – ha aggiunto il Generale – c’eravamo, ma con discrezione, in borghese, come abitudine del Corpo.
Ma posso parlare per noi. Se poi altri enti sono intervenuti non posso rispondere per loro, anche se la stampa ha scritto che i blitz li abbiamo fatti noi. Ma questo non risponde al vero».
E ha anche evidenziato come la Guardia di Finanza ancora oggi non ha accesso a tutti i database per veloci e corrette indagini fiscali.
Incredibile ma vero.

(da “il Tempo”)

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CHE CI FA LA PORTAEREI “CAVOUR” A DAKAR CON LUISA CORNA?

Marzo 20th, 2014 Riccardo Fucile

PIU’ CHE LA PISTA DI UNA PORTAEREI SEMBRA IL PALCO DI SANREMO CON LA CORNA CHE CANTA L’INNO E L’ORCHESTRA CHE SUONA…E INTORNO UNA FIERA GALLEGGIANTE

Strano show quello organizzato lunedì sera sulla nave Cavour attraccata nel porto di Dakar, in Senegal: un po’ avanspettacolo, un po’ rassegna bellica.
Con contorno di Nutella.
Di sicuro contribuirà  alle polemiche sulle spese militari italiane. E sull’utilizzo delle nostre navi da guerra: mentre la portaerei Garibaldi viene destinata alla vendita, la sua sorella maggiore Cavour viene utilizzata come una sorta di fiera galleggiante.
Con una spesa di trenta milioni di euro, di cui il 35 per cento a carico dello Stato.
Ma tra gli italiani presenti a bordo qualcuno è rimasto interdetto. Non ha gradito. E ha cominciato a far circolare le notizia e a protestare.
Già  l’invito aveva suscitato qualche perplessità . Nell’elegante cartoncino inviato dall’Ambasciata italiana in Senegal c’era un dettaglio per lo meno curioso: “Abiti da sera o militari”.
Insomma, a bordo si sono presentati signore in abito da sera tutte ingioiellate, uomini in smoking e soldati in divisa. Uno strano miscuglio.
Era soltanto l’inizio: “A bordo ci siamo trovati davanti una specie di mercato”, racconta uno degli ospiti.
Aggiunge : “Ci aspettavamo di trovare soldati, ma c’erano soprattutto gli stand di un sacco di imprese italiane. Alcune pubbliche, tante private. Un miscuglio strano, dalla Ferrero che fa la Nutella alla Beretta che produce pistole e fucili. Poi Pirelli, Ferretti e Federlegno, ma anche Finmeccanica con i suoi elicotteri”.
Così, qualcuno ha chiesto informazioni: “Abbiamo scoperto che la Cavour – racconta un invitato – è partita dall’Italia il 13 novembre per una specie di tour promozionale di prodotti italiani mischiato con un’iniziativa umanitaria. In tutto sono 146 giorni di navigazione per diciottomila miglia”.
I dettagli aggiungono perplessità .
La nave ha toccato sette porti del Golfo Arabo e tredici africani: Arabia Saudita, Gibuti, Emirati Arabi Uniti, Barhein, Kuwait, Qatar, Oman, Kenya, Madagascar, Mozambico, Sudafrica, Angola, Congo, Nigeria, Ghana, Senegal, Marocco e Algeria. Tutto chiaro? “Mica tanto”, storce il naso più d’uno.
“Primo perchè stiamo parlando di pubblicità  di armi anche in paesi non proprio democratici, talvolta in condizioni di conflitto”.
Non solo: “C’è l’aspetto delle spese”. Si scoprono così interrogazioni presentate da Sel e M5S che raccontano: ogni giorno di navigazione costa 200mila euro, i 1.200 membri di equipaggio all’estero arrivano a essere pagati 180 euro al giorno.
Totale: la spesa prevista per la spedizione era di venti milioni, che potrebbero diventare 33.
Di questi il 65% a carico delle industrie sponsor, il restante 35% (circa dieci milioni) a carico dello Stato
Insomma, un’operazione commerciale che tra un discorso della Croce Rossa (che poi va a curare i feriti) e un concerto cerca di vendere tecnologie militari (che poi magari serviranno per le guerre) prodotte da società  per azioni, anche se alcune di proprietà  dello Stato.
Poco importa che l’Italia sia in “buona” compagnia: la spedizione della Cavour (che anni fa aveva fatto un’analoga crociera in Sud America) è stata organizzata in fretta e furia per precedere quella della portaerei concorrente dei cugini francesi.
La missione “Sistema Paese in Movimento” contro la “Bois Belleau”.
“Certo, c’è l’aspetto umanitario, ma a noi dava ancora più fastidio perchè pareva quasi far da paravento a quello commerciale e bellico”, è la critica di diversi ospiti.
Non solo. Qualcuno si è preso la briga di chiedere che cosa ha caricato la Cavour nella stiva: 30.000 chilogrammi di pasta, 50.000 di farina, 18.000 di pomodori pelati, 27.000 litri di acqua in 54.000 bottigliette e 12.000 litri di vino.
Frutta e verdura fresca, mozzarelle e panettoni (6.000 le razioni di emergenza).
La tipica dotazione di una nave da guerra.

Ferruccio Sansa

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SPESE PAZZE SARDEGNA, CONTESTATI ALTRI 45.000 EURO ALLA SOTTOSEGRETARIA BARRACCIU

Marzo 20th, 2014 Riccardo Fucile

AVREBBE UTILIZZATO PER FINI NON ISTITUZIONALI SOLDI DESTINATI AL PD

Si allarga l’inchiesta della Procura di Cagliari sulle spese compiute dal sottosegretario della Cultura, Francesca Barracciu, quando era consigliere regionale.
Oltre ai 33 mila euro iniziali – come riporta il quotidiano l’Unione Sarda – ora gli investigatori del pubblico ministero Marco Cocco contestano spese per altri 40-45 mila euro.
Soldi destinati al Gruppo del Pd che l’ex consigliere avrebbe utilizzato, secondo l’accusa, per fini non istituzionali.
Barracciu, infatti, è coinvolta nell’inchiesta-bis sui fondi che vede indagati una quarantina di consiglieri di vari Gruppi regionali delle due precedenti legislature.
Altri 19, del Gruppo misto, invece, sono a processo per peculato dopo l’esito della prima indagine ed uno è già  stato condannato.
Venerdì scorso il sottosegretario era stato interrogato a Cagliari in gran segreto negli uffici della Polizia giudiziaria, accompagnata dagli avvocati Carlo Federico Grosso e Giuseppe Macciotta. In totale, adesso, le presunte spese illecite dell’esponente Pd sfiorerebbero gli 80 mila euro.
In corso accertamenti della Procura, inoltre, fra quanto dichiarato dalla Barracciu nel primo interrogatorio ed i riscontri segnati dalla sua carta di credito.
L’ex candidata alla Presidenza della Regione, poi ritiratasi dopo la notizia dell’inchiesta, avrebbe giustificato le prime spese con spostamenti nell’Isola in nome e per conto del Gruppo del Pd.
In realtà  gli investigatori della Procura, seguendo le strisciate della carta, potrebbero contestare quella ricostruzione.
Anche per questa ragione il pm Marco Cocco si avvierebbe a chiudere rapidamente l’indagine con la possibile richiesta di giudizio immediato: procedura che il codice prevede quando esiste l’evidenza della prova.

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IL RITO DELLO SCIOPERO DEI TRASPORTI: I CITTADINI PAGANO LO SFASCIO DEL SETTORE

Marzo 20th, 2014 Riccardo Fucile

DA SETTE ANNI NON C’E’ ACCORDO SUL RINNOVO DEL CONTRATTO… ALLA BASE LA   CRISI DI UN SETTORE CHE SI REGGE PER IL 50% SU CONTRIBUTI PUBBLICI TRA SPRECHI E CLIENTELE

Linee della metro chiuse. Attese prolungate alle fermate degli autobus. Clacson e traffico in tilt, sia in centro che in periferia.
Per quello che ormai sembra un rituale dei giorni nostri: lo sciopero del trasporto pubblico locale.
Nodo del contendere? Il contratto nazionale degli autoferrotranvieri, scaduto alla fine del 2007. Sul suo mancato rinnovo, che coinvolge circa 110mila lavoratori, pesa la situazione di sfascio del settore.
E lo stallo crea disagi dove le aziende di trasporto sono in forte rosso, come a Roma. Ma anche in città  come Milano, dove l’Atm è in utile.
Oltre sei anni di trattative, ma sul contratto nazionale nessun accordo.
Finora non sono bastati più di sei anni perchè un accordo venisse raggiunto tra i sindacati e le associazioni datoriali Asstra e Anav, che riuniscono le aziende del trasporto pubblico locale, sia quelle partecipate dagli enti locali, che quelle private.
Il problema sono sempre loro, i soldi.
La crisi ha limitato le risorse pubbliche messe a disposizione del settore, che proprio dai contributi del governo è fortemente dipendente. E la malagestione ha fatto il resto. Tanto che “il 40% delle aziende — ha ricordato a fine 2013 l’allora sottosegretario con delega al trasporto pubblico locale Erasmo D’Angelis — è tecnicamente fallito o con indebitamenti record”.
E se le aziende sono in rosso, non hanno denaro sufficiente da offrire nella trattativa per il nuovo contratto. Che quindi — sostengono Asstra e Anav — deve essere autofinanziato dai lavoratori. Ovvero i miglioramenti salariali non devono aumentare i costi aziendali, ma vanno controbilanciati da un aumento di flessibilità  e di produttività .
Più lavoro insomma, una condizione che il sindacato non accetta.
Il contratto lavorativo scaduto prevede una media su 4 mesi di 39 ore alla settimana. “L’unica proposta concreta che ci è arrivata dalle associazioni datoriali — dice il segretario nazionale della Filt-Cgil Alessandro Rocchi — è di portare l’orario a una media di 40 ore settimanali in una finestra allungata a 12 mesi”.
Più produttività  e più flessibilità , appunto.
Inaccettabile per Rocchi, visto che “le 39 ore settimanali sono in linea con i contratti di altre categorie e la media calcolata su 17 settimane garantisce già  una flessibilità  che in altri settori non c’è”. E accusa: “Le associazioni datoriali chiedono che il contratto lo paghino i lavoratori. O in alternativa vogliono soldi dal governo”.
L’ultimo tentativo di arrivare a un accordo è di settimana scorsa.
Attorno al tavolo si sono seduti anche il ministro del Lavoro Giuliano Poletti e il ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture Maurizio Lupi, che per convincere Asstra e Anav a firmare un nuovo contratto ha messo sul piatto lo sblocco di 1,2 miliardi di crediti che le aziende di trasporto vantano verso la pubblica amministrazione.
Le società  potrebbero così risparmiare 120 milioni di interessi all’anno sui debiti fatti con le banche, ma l’offerta non ha riscaldato più di tanto le associazioni datoriali, secondo cui non si tratterebbe di un intervento strutturale, ma solo di un atto dovuto. “La loro unica richiesta è da sempre più soldi pubblici e peggiori condizioni di lavoro”, accusa il segretario generale della Fit-Cisl Giovanni Luciano, che invita le aziende a lasciare Asstra, come ha già  fatto l’Atm di Milano.
“Faremo   il contratto con altri, se alle due associazioni non interessa”, conclude Luciano.
Un settore allo sfascio con poche risorse pubbliche
Per facilitare la firma del contratto, il governo per ora altri soldi da mettere non ne ha. Il fondo nazionale creato nel 2013 per finanziare in modo strutturale la gestione del trasporto pubblico locale è di 4,9 miliardi l’anno.
Per raggiungere il fabbisogno stimato in 6,4 miliardi, le regioni dovrebbero aggiungere una parte dell’ex fondo perequativo, le cui risorse però non sono espressamente destinate ai trasporti e quindi rischiano di essere utilizzate per altri settori.
Secondo le tabelle riportate nel dossier ‘Mobilità  urbana’ della Cassa depositi e prestiti, nel 2013 i finanziamenti pubblici hanno contribuito al 53,6% dei ricavi delle aziende.
Molto di più dell’incasso dovuto ai biglietti (29,5%) e alla vendita di spazi pubblicitari, alla gestione di parcheggi e ad altre fonti di ricavo (16,9%).
L’intervento statale è dunque fondamentale per tenere in piedi la gestione operativa di un servizio, che come la sanità , non si regge da sè. Così come è fondamentale sul fronte degli investimenti.
Per colmare il gap infrastrutturale di reti metropolitane e tranviarie che le città  italiane scontano rispetto a quelle europee, sarebbero necessari secondo l’Asstra 20 miliardi di euro in 10 anni.
Altri 7,5 servirebbero nello stesso periodo per portare l’età  media del parco veicoli su gomma, che in Italia è pari a 11,6 anni, al livello della media Ue (7 anni).
Altri 2 miliardi consentirebbero di adeguare l’età  media del materiale rotabile.
Ma anche qui, le risorse sono insufficienti, visto che dopo anni di investimenti nulli, il governo Letta ha cambiato rotta, ma è riuscito a stanziare appena 500 milioni di euro per il triennio 2014-2016. Troppo poco.
Tanto più che mezzi vecchi significano spese di manutenzione elevate, e quindi costi più alti per la gestione del servizio. Un circolo vizioso da cui non si esce.
“Siamo in una situazione eccezionale in cui molte aziende sono al limite del fallimento — spiega il presidente dell’Asstra Marcello Panettoni —. Non possiamo firmare un contratto che aumenti i costi di gestione. Per questo chiediamo ai sindacati più produttività  e più flessibilità , che noi restituiremo in stipendi”.
Una richiesta che secondo Panettoni vorrebbe dire organizzare i turni in modo che non si verifichino più i casi di aziende dove i lavoratori arrivano ad avere “più di 90 giorni di riposo all’anno, anzichè i 52 stabiliti dal contratto nazionale”.
E vorrebbe dire aumentare le ore di guida: “Su una giornata lavorativa che di solito è di 6 ore e mezza, in alcune città  le ore di guida sono 4 o 5. E’ chiaro che non si possa condurre il mezzo per 6 ore e mezza, ma questa differenza va ridotta”.
Tutte questioni che però sono materia di contrattazione di secondo livello, fa notare dalla Filt-Cgil Rocchi: “Il contratto nazionale non si può sostituire alla contrattazione locale e non può introdurre meccanismi di efficientamento senza che vengano modificati gli accordi aziendali”.
Insomma, per ottenere più efficienza sarebbe necessario mettere mano agli accordi di ogni singola azienda. Cosa che con ogni probabilità  non farebbe piacere ai sindacati locali. Ma per Rocchi il punto non è questo: “Il vero problema è che gran parte delle aziende pubbliche continuano a essere dirette da sottoprodotti della politica locale”.
Dai costi storici ai costi standard
Alla scarsità  di risorse pubbliche si aggiungono gli sperperi degli amministratori delle società . Così si sono incancrenite situazioni come quella dell’Atac di Roma, che in dieci anni ha accumulato perdite per quasi 1,6 miliardi di euro.
Mentre il sistema di distribuzione dei fondi pubblici sembra fatto apposta per alimentare le voragini, dal momento che si basa sui costi storici: le aziende che in passato hanno speso di più, incassano più soldi dallo Stato e non vengono incentivate a diventare più efficienti.
Tale sistema non ferma gli sprechi. E non premia le aziende più virtuose, come Atm, che nel 2012 ha registrato 4,4 milioni di utili e oltre al trasporto di Milano gestisce quello di Copenaghen.
Il ministro Lupi sta così lavorando per introdurre i costi standard, in modo da ripartire i finanziamenti in base ai costi stimati per garantire il servizio in una certa zona.
Con la speranza che questo aiuti a curare i mali del trasporto pubblico locale. Che di certo necessita maggiore efficienza e una migliore programmazione.
In Italia, per esempio, il coefficiente di riempimento del trasporto pubblico locale è del 22%, ovvero tre quarti dei posti sui mezzi di trasporto rimangono vuoti.
Un dato che va confrontato con il 45% spagnolo il 42% francese e il 29% del Regno Unito.
Sulle inefficienze gestionali influisce anche l’elevata frammentazione del settore, che secondo il report della Cassa depositi e prestiti conta più di 1.100 aziende, quasi la metà  delle quali ha meno di sei dipendenti.
I primi cinque operatori inoltre registrano insieme una produzione chilometrica pari al 30% del totale a livello nazionale, meno del 49% corrispondente alla media europea e del 65% raggiunto in Francia.
Da migliorare anche una serie di fattori esterni alla gestione del servizio, come la velocità  commerciale, che per gli autobus italiani è di 20,2 km/h, inferiore a quella di altri paesi, come la Francia (23,7 km/h) e il Regno Unito (24 km/h).
Mezzi più lenti a causa del traffico o della carenza di corsie preferenziali necessitano di un tempo maggiore per coprire la corsa.
Quindi più ore lavorative e più costi.

(da “il Fatto Quotidiano“)

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