Aprile 29th, 2014 Riccardo Fucile
IL MINISTERO DEI BENI CULTURALI HA SUBITO IL 30% DI TAGLI AL BILANCI, MA CONTINUA A PAGARE OGNI ANNO 21 MILIONI DI AFFITTO PER I SUOI CENTO ARCHIVI
È un paradosso. Ogni anno dalle esangui casse dei Beni culturali escono oltre 10 milioni di euro e finiscono nel portafoglio di Eur s.p.a., la società al 90 per cento del ministero dell’Economia e al 10 del Comune di Roma che gestisce il quartiere omonimo a sud della capitale.
È il prezzo dell’affitto degli edifici che ospitano alcuni musei e l’Archivio centrale dello Stato, 110 chilometri di scaffalature in cui è depositata la memoria cartacea del Paese.
Alcuni di questi edifici sono anche offerti in garanzia dei debiti che l’Eur, uno dei fulcri della “parentopoli” allestita dall’allora sindaco Gianni Alemanno, ha contratto per le sue operazioni immobiliari, fra le quali la “Nuvola” di Fuksas, che non si sa quando mai verrà finita, e la Lama, il palazzo a specchio che dovrebbe diventare un albergo e ancora si cerca chi mai potrà gestirlo
Un pezzo dello Stato, uno dei più immiseriti, si svena per rimpinguare un altro pezzo dello Stato, appartenente quasi interamente al ministero di Pier Carlo Padoan.
La vicenda romana è la più eclatante. Ma non è la sola nel dissestato panorama dei nostri beni culturali.
Dal 2008, quando aveva già subito tagli mortificanti dal governo Berlusconi, il ministero di Dario Franceschini si trova oggi con un budget ridotto quasi del 30 per cento (da 2 miliardi a 1 miliardo e mezzo: dallo 0,28 per cento del bilancio dello Stato allo 0,19).
E nonostante questo paga ogni anno 21 milioni soltanto per affittare le sedi di alcuni dei suoi 100 Archivi. Dove è collocato un materiale che si alimenta costantemente e che potrebbe crescere ancora se si attuerà il proposito di Matteo Renzi di depositare le carte secretate negli ultimi decenni.
L’Archivio centrale dello Stato paga all’Eur 4 milioni e mezzo.
Il Museo dell’età preistorica Luigi Pigorini 3 milioni 600 mila.
Il Museo delle Arti e delle Tradizioni popolari 1 milione 890 mila.
Il Museo dell’Alto Medioevo, a rischio chiusura, 370 mila.
Paradosso nel paradosso, i soldi vanno dal ministero per i Beni culturali all’Eur s.p.a. per «la realizzazione di grandi progetti di sviluppo immobiliare e valorizzazione urbanistica», come si legge negli obiettivi della società presieduta da Pierluigi Borghini, ex candidato sindaco del centrodestra, una società che esercita una specie di governatorato su un intero quartiere di Roma e che con soldi pubblici agisce come un operatore privato.
Basti ricordare la vicenda del Velodromo, l’opera di Cesare Ligini fatta esplodere con la dinamite per realizzarci torri e palazzine, oppure il progetto di un faraonico acquario con galleria commerciale (entrambe le iniziative furono avviate con Veltroni sindaco).
O, ancora, l’idea di un Gran Premio di Formula 1, con i bolidi che avrebbero sfrecciato fra i metafisici edifici di travertino bianco. L’idea, poi decaduta, era caldeggiata da Alemanno e dal suo uomo di fiducia Riccardo Mancini, ex militante di gruppi neofascisti, fino alla primavera del 2013 amministratore delegato dell’Eur (dove ha assunto molti “camerati”), poi finito in galera per tangenti.
La condizione dell’Archivio centrale è esemplare.
I 4 milioni e mezzo (3.575.287,96 euro più Iva) gravano su una struttura in preoccupante disagio, con personale sempre più ridotto, avanti nell’età e che fa salti mortali per garantire un servizio essenziale. I depositi sono affetti da umidità e lo spazio è carente.
A differenza di un museo, l’Archivio non stacca biglietti e l’unica fonte dalla quale recupera un po’ di quattrini sono le fotocopie.
Lo scorso capodanno un migliaio di ragazzi si sono scatenati nei saloni dell’edificio al ritmo della elettro-house. Questo in virtù di una convenzione con una società , la Let’s go che, a pagamento, ha preso in gestione vasti spazi e ha organizzato iniziative che si fa fatica a conciliare con un Archivio: un paio di appuntamenti dell’allora Pdl o una mostra della Range Rover. Si sono sollevate molte proteste.
E faceva tristezza vedere fino a che punto si è costretti a snaturare un patrimonio culturale pur di sopravvivere.
La storia si trascina da decenni. In origine l’Archivio centrale pagava all’Eur un canone di “concessione in uso”, in attesa che l’Eur fosse liquidato e il palazzo rientrasse nel patrimonio dello Stato.
Il canone era di 62 milioni di lire, poi salito a 200 nel 1987, quando si trasformò in affitto a prezzi di mercato.
L’effetto fu lo stratosferico innalzamento a 4 miliardi e 200 milioni. Nel 2000 l’Eur, invece di essere liquidato, in epoca di ubriacatura da privatizzazioni venne trasformato in s.p.a.. Ed eccoci arrivati ai 4 milioni e mezzo di oggi. Che erano oltre 5 milioni fino all’anno scorso, poi ridotti del 15 per cento dalla spending review di Monti.
Sul cosa fare ci si interroga da anni.
Un’ipotesi è il trasferimento sia dell’Archivio, sia dei musei: operazione costosa. Un’altra soluzione, meno onerosa per il patrimonio culturale, sarebbe la demanializzazione degli edifici dell’Eur, cioè il passaggio allo Stato.
Il che porterebbe l’Italia al livello di civiltà culturale degli altri paesi europei, dove l’Archivio centrale è uno dei luoghi simbolici di una nazione.
Ma per questo è necessaria un’iniziativa politica. E poi, di questi tempi, demanializzare sembra una cattiva parola.
Francesco Erbani
(da “la Repubblica“)
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Aprile 29th, 2014 Riccardo Fucile
PICCHIARE SUI DEBOLI: SI VA IN TV PER CIRCUIRE I MENO INFORMATI
A quattro settimane dal voto per le europee, la campagna elettorale italiana sembra basarsi di
nuovo sulla televisione: quanto ci vai tu, quanto ci vado io, e l’ospitata da Barbara D’Urso, la partita del cuore, Porta a Porta, giù giù fino a Omnibus e i ricorsi all’Agcom.
Pare di essere tornati indietro di vent’anni, ai tempi di Funari e Mike Bongiorno.
Invece, qualcosa di diverso c’è.
Nel senso che nel 2014 l’iperpresenza televisiva, inevitabilmente, può convincere solo una fascia minoritaria di elettori. Probabilmente un decimo, o giù di lì.
Una fascia che tuttavia può regalare ancora quei punti percentuali che nel misurino del dopo voto saranno fondamentali per poter dire che si è vinto.
Detta altrimenti: ormai lì, in tivù, si va solo per picchiare sui deboli.
Sugli elettori meno avvertiti, meno informati, meno attenti. E, paradossalmente, tanto più aumentano i cittadini che si emancipano dall’informazione televisiva, quanto più diventa pressante e invasiva la propaganda verso quelle persone che invece sono ancora chiuse nella gabbia dei sei-sette canali genaralisti, quindi influenzabili da uno schermo.
Il risultato è che la corsa all’apparire in tivù ha ormai qualcosa di vomitevole: ai limiti della circonvenzione d’incapace, della violenza sugli anziani, sui bambini o sui disabili
Altro che par condicio: bisognerebbe imporre il divieto per i leader di apparire in tivù per i tre mesi che precedono il voto.
Mica per punire i leader, ma per tutelarne le vittime.
(da gilioli.blogautore“)
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Aprile 29th, 2014 Riccardo Fucile
IMPRENDITORI E BANCHE HANNO SVALUTATO LE PARTECIPAZIONI E ORA RIPUNTANO SUL NUOVO SALVATAGGIO DELLA COMPAGNIA
Il pozzo senza fondo di Alitalia, alla fine, si è mangiato pure i soldi dei “patrioti”. Cinque anni fa la cordata messa assieme da Silvio Berlusconi ha staccato tra le fanfare un assegno da un miliardo (debiti compresi) per salvare dal crac l’excompagnia di bandiera.
Oggi buona parte di quei soldi sono andati in fumo.
E tra contabilizzazioni in perdita e svalutazioni, i nuovi soci hanno già bruciato in questa avventura più di mezzo miliardo di euro.
I numeri, come succede spesso quando c’è di mezzo Alitalia, non tornano per nessuno.
I contribuenti italiani hanno pagato di tasca loro nel 2008 qualcosa come 4 miliardi per calare la saracinesca sulla vecchia aerolinea e riconsegnarla — ripulita di debiti e in versione “light” (meno dipendenti e meno rotte) — a Roberto Colaninno & C. Sembrava la volta buona, l’occasione giusta per voltare pagina e dimenticare gli anni neri del controllo statale.
Invece no. Il “Piano fenice” messo a punto da Corrado Passera, allora ad di IntesaSanPaolo, non ha funzionato.
L’aerolinea tricolore ha continuato a macinare perdite — più di un miliardo dal 2009, qualcosa come 450mila euro al giorno — e alla fine il conto del salvataggio l’hanno pagato, salatissimo, anche i salvatori
L’Oscar del realismo, su questo fronte, va ad Air France. Parigi è entrata in Alitalia sei anni fa firmando un assegno di 323 milioni, convinta di essere riuscita a coronare il suo sogno: conquistare i cieli tricolori a un prezzo da saldo.
A ottobre scorso, la società transalpina — a furia di risultati in profondo rosso — ha preso atto di aver buttato i soldi dalla finestra e ha alzato bandiera bianca. Il valore della sua partecipazione nel vettore romano è stato portato a zero.
E per non scottarsi di nuovo le dita ha deciso di non partecipare all’ultimo aumento di capitale da 200 milioni, diluendo la partecipazione al 7% e lasciando via libera a Etihad
Quasi cento milioni è il pedaggio pagato finora dai Benetton. Atlantia, l’azienda controllata dalla famiglia, ha sborsato nel 2008 100 milioni per staccare il suo biglietto a bordo di Alitalia.
Soldi andati quasi tutti in fumo. L’investimento è stato già svalutato di 96 milioni di euro. E per difendere i propri interessi (Ponzano Veneto è pure socio di riferimento di Fiumicino) la dinastia veneta è stata costretta lo scorso ottobre a riaprire il portafoglio e mettere sul piatto altri 40 milioni per l’aumento di capitale e il prestito obbligazionario necessari per salvare la compagnia dal crac.
Roberto Colaninno — con grande orgoglio e malgrado la gelida evidenza delle cifre — continua a credere all’investimento.
Si lecca le ferite ma non molla. La sua Immsi ha investito sei anni fa 80 milioni e ha tenuto duro fino al 2012 mantenendo intatto a bilancio il valore della partecipazione del 10% circa in Alitalia.
Poi pure l’ex numero uno di Telecom è stato costretto a far buon viso a cattiva sorte: lo scorso anno ha ammesso che la quota nella compagnia aveva perso 36,3 milioni di valore. E adesso ha dato un’altra sforbiciata di 14 milioni.
Botte dure, ma non abbastanza da scoraggiare l’imprenditore mantovano che a fine 2013 ha rilanciato con altri 40 milioni, scommettendo sull’arrivo degli emiri.
L’avventura aeronautica è costata carissima pure a Intesa-SanPaolo, regista dell’intera operazione (anche con generosi finanziamenti ai “patrioti”). L’ultimo bilancio di Ca’ de Sass fotografa impietoso con le cifre il flop: i 100 milioni pagati per entrare in Alitalia sono diventati oggi 39, con 61 milioni persi in svalutazioni.
E il salasso finale rischia di essere ancor più pesante visto che l’istituto di credito — tirato per la giacchetta dalla politica — continua ad alzare la posta: nell’ultimo aumento di capitale ha investito altri 76 milioni di euro.
Banca Imi ha appena prorogato a giugno 2015 una linea di credito da 105 milioni necessaria a puntellare l’operatività dell’aerolinea.
Ed Etihad pretende che questa esposizione venga trasformata in capitale (oggi Intesa ha il 20% di Alitalia) con un ulteriore sconto sul suo valore. Stessa richiesta fatta a Unicredit — fresco socio grazie a un assegno di 50 milioni ed esposto per quasi 200 milioni con il vettore — Mps (80 milioni) e Popolare di Sondrio (80).
L’elenco dei “caduti” dai patrioti potrebbe proseguire scorrendo tutto il libro soci: Fonsai ha portato a zero (da 50 milioni) la sua partecipazione.
La Pirelli di Marco Tronchetti Provera ha visto andare in fumo 15 dei 20 milioni spesi per la sua piccola quota.
E stessa sorte è toccata pure ai piccoli azionisti attirati nella cordata dalle sirene “politiche” di Silvio Berlusconi —che grazie anche ad Alitalia ha vinto le elezioni 2008 — e dalla speranza di un rapporto privilegiato con IntesaSanPaolo.
Molti di loro oggi hanno gettato la spugna. E il cerino è passato nelle mani di altri protagonisti, pronti a mettere una nuova fiche sulla roulette della compagnia tricolore. Lo Stato, uscito dalla porta nel 2008, è rientrato adesso dalla finestra con le Poste, sbarcate nel capitale con 75 milioni. Etihad potrebbe far saltare il banco con un assegno di 500 milioni.
Ma fino a quando Alitalia continuerà a perdere mezzo milione al giorno, anche questi soldi rischiano di diventare presto carta straccia.
Ettore Livini
(da “La Repubblica”)
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Aprile 29th, 2014 Riccardo Fucile
IL GESTO DI DANI ALVES DIVENTA UN SIMBOLO GLOBALIZZATO: “LUI PER PRIMO HA UMILIATO CHI VOLEVA OFFENDERLO”
Forse adesso, mentre su Dani Alves si spandono echi kennediani e tutti gli idealisti del pianeta si
immedesimano nella sua pernacchia alla Totò come un giorno, in altri palcoscenici, si professarono berlinesi, i soloni si vergogneranno.
E cestinando trent’anni di pensosi dibattiti sociologici sul tema del razzismo, rifletteranno sull’Uovo di Colombo.
Sulla semplicità di un prossimo trentenne di passaporto brasiliano che di fronte agli ululati e alle banane in campo, con la brevità dell’artista improvvisato e il gesto secco dell’attore consumato, sbuccia il frutto, lo inghiotte e torna al suo mestiere. A un calcio d’angolo da battere.
Al rassicurante spettacolo che deve continuare senza più interruzioni, proibizionismi o gabbie metaforiche.
Lasciando alla nuda evidenza il compito di giudicare. Alle polizie in divisa l’onere dell’espulsione del lanciatore di verdura (da domani, se vorrà , il tifoso del Villareal che ha gettato la banana al “negro” del Barcellona potrà crearsi l’arena nel tinello di casa) e ai fratelli di Dani Alves in mutande, il desiderio di solidarizzare a due passi dal Mondiale.
Allo stadio Madrigal, nel solito corollario di vigliacca maleducazione anonima che eccita il branco, Dani Alves si era ritrovato in solitudine a decidere in un istante.
Un minuto dopo , allo stesso ritmo del ripudio in campo aperto, del suo gesto hanno fatto manifesto di patria, Mondiale calcistico e futuro prossimo milioni di persone.
Ne hanno cercato la voce, e non solo l’immagine rimasta negli occhi, migliaia di cronisti.
Mentre il compagno Neymar metteva in rete autoscatti filiali con banane sbucciate, Dani ha risposto dimenticando il politicamente corretto: “Sono in Spagna da 11 anni, non è cambiato nulla. Non ci rimane che ridere di questi ritardati”.
In un salto dialettico più vicino a Massimo Troisi che all’appropriazione indebita che dal Manzanarre al Reno non ha mancato di registrare commenti improntati all’univocità o all’esasperato sciovinismo in stile Cinegiornale di Globoesporte: “Quella banana è il Brasile che viaggia attraverso il tempo e lo spazio. Quell’ironia nel gesto di mangiare il frutto è come un ballerino che balla la samba o un giocatore che dribbla”.
Alves è rimasto distante dai proclami dando fondo a un indignato umorismo. L’esempio, certo. In un universo in cui fanno più notizia le brutture, le riflessioni a posteriori di Dani sull’allegria: “Siamo un popolo felice con la samba nei piedi e quel tifoso mi ha aiutato: quando ho cominciato a giocare mio padre mi diceva sempre di mangiare banane per evitare i crampi. Come avrà fatto a indovinare?” restituiscono a meno di due mesi dall’evento brasiliano qualcosa che sembrava essere stato travolto dalle contingenze.
Un’ipotesi, una base, una vera tavola non necessariamente rotonda (ci sono spigoli che picchiano sul raziocinio, sul realismo) su cui provare a ragionare e a ricostruire il senso di uno sport che in quel paese gioca chiunque abbia due gambe.
La banana di Alves, per ogni autoctono che ha avuto un nonno in lacrime per la disfatta del Maracanà nel 1950, ha il suono nostalgico di certe pubblicità della Chiquita.
Quelle in cui al posto degli insulti e del determinismo, per godere dello spettacolo della natura, si dava spazio alle istruzioni per l’uso: “But, bananas like the climate of the very, very tropical Equator/So you should never put bananas in the refrigerator”. Le banane vengono da un posto caldo e come i pensieri, non si dovrebbero stipare nel congelatore.
Alves ha aperto la porta e ha lasciato che il ghiaccio si sciogliesse.
Dare forma ai frammenti, ora, toccherà a tutti gli altri.
Malcom Pagani
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Aprile 29th, 2014 Riccardo Fucile
CONSULTATO DALL’UEPE, L’ARCIVESCOVO DI MILANO HA INDICATO LA STRUTTURA SERVITA DALLA CARITAS AMBROSIANA COME LUOGO IDEALE PER LA RIEDUCAZIONE
Non fa certo parte del Tribunale di sorveglianza, nè dell’Ufficio dell’esecuzione penale.
Eppure Angelo Scola, arcivescovo di Milano, ha un ruolo importante nella vicenda dell’affidamento ai servizi sociali del condannato definitivo Silvio Berlusconi.
Inutile chiedere conferme presso la Curia ambrosiana: tutti negano o sostengono di non saperne nulla. Ma secondo quanto risulta al Fatto quotidiano, il cardinal Scola è stato consultato ed è intervenuto personalmente per determinare il luogo dove Berlusconi andrà a svolgere la sua attività di “giustizia riparativa”, l’istituto Sacra Famiglia di Cesano Boscone.
È stato Scola, e non il Tribunale di sorveglianza, nè l’Ufficio esecuzione penale esterna, a indicare la struttura dove l’ex presidente del Consiglio passerà quattro ore alla settimana, nei dieci mesi e mezzo in cui sconterà la sua pena per frode fiscale.
Tutto è iniziato con una richiesta del Tribunale di sorveglianza: prima ancora di decidere tra detenzione domiciliare e affidamento ai servizi sociali, il presidente Pasquale Nobile De Santis e la giudice Beatrice Crosti (competente per i condannati il cui cognome inizia con la lettera B) hanno chiesto alla dottoressa Severina Panarello, che dirige l’Ufficio esecuzione penale esterna di Milano, di delineare un “progetto di giustizia riparativa”, cioè di indicare un’attività di volontariato da prescrivere al condannato e un luogo dove svolgerla.
La dottoressa Panarello si è rivolta alla più solida e strutturata delle associazioni e fondazioni convenzionate con il suo ufficio per ricevere gli affidati in prova: la Caritas ambrosiana, espressione diretta della Diocesi di Milano.
A questo punto entra in campo don Roberto Davanzo, dal 2005 direttore della Caritas.
Ex scout, alpinista, amante della moto Guzzi, Davanzo coinvolge il suo arcivescovo.
Incontri, riunioni, colloqui riservati. Monsignor Scola, che proviene dal movimento di Comunione e liberazione e nel 2011 è tornato da arcivescovo nella diocesi che è stata guidata da don Dionigi Tettamanzi e da Carlo Maria Martini, si prende a cuore la faccenda. Svolge rapide consultazioni, parla con alcuni interlocutori.
Alla fine, la Caritas indica a Severina Panarello che la struttura più adatta per il condannato eccellente è la Sacra Famiglia di Cesano Boscone. Un’istituzione storica, per la diocesi di Milano. Perchè non è una delle tante strutture assistenziali fondate e condotte da ordini o congregazioni religiose, ma è espressione diretta della diocesi ambrosiana.
È nata infatti nel 1896 direttamente da una parrocchia e dall’attività di un parroco: don Domenico Pogliani, allora prevosto di Cesano Boscone, ai margini di Milano, che aprì un “ospizio per gli incurabili della campagna”.
In 118 anni di vita, la Sacra Famiglia è cresciuta, fino a diventare una struttura imponente, con 2 mila addetti e una quindicina di comunità alloggio e filiali anche fuori dalla Lombardia.
Ma il legame con la diocesi è rimasto intatto: oggi è una fondazione onlus, che resta però nella sfera d’influenza dall’arcivescovo di Milano.
Tanto è vero che presidente della Sacra Famiglia è don Vincenzo Barbante, ex amministratore della diocesi, in pratica il ministro delle finanze della Curia ambrosiana.
È proprio alla Sacra Famiglia che monsignor Angelo Scola ha dato appuntamento per il suo primo incontro con il volontariato della diocesi, appena nominato arcivescovo di Milano.
Ora vi ha “sistemato” il più eccellente degli affidati in prova ai servizi sociali.
Che cosa andrà a fare Berlusconi alla Sacra Famiglia?
Dall’Ufficio esecuzione penale esterna (l’Uepe) trapela soltanto che non è ancora stato messo a punto il progetto definitivo per l’affidato. Evidentemente qualcosa si dev’essere inceppato, se, a diciannove giorni dall’ordinanza del Tribunale di sorveglianza e a sei dalla firma della carta delle prescrizioni che è tenuto a rispettare, Berlusconi non ha ancora iniziato il suo “progetto di riparazione sociale”.
È ancora in corso una evidentemente complessa triangolazione tra Caritas, Sacra Famiglia e Uepe, in contatto con il giudice di sorveglianza, per definire i compiti concreti dell’affidato.
E anche le garanzie di sicurezza: per l’affidato, che di solito gira con la scorta, ma anche per gli ospiti dell’istituto, che devono essere protetti dagli assedi mediatici e dagli (eventuali) utilizzi propagandistici.
Di certo Berlusconi non avrà a che fare con i malati più gravi e i disabili psichici ospitati dall’istituto, nè potrà svolgere compiti che richiedono formazione e professionalità paramediche. Si occuperà invece di anziani, magari nel centro diurno integrato di Villa Sormani, accanto alla sede centrale dell’istituto di Cesano Boscone: dovrà dare assistenza, accompagnamento, aiuto a chi fa fatica a muoversi, a parlare, a mangiare.
Qualcosa di diverso, comunque, dall’“intrattenimento” e dall’“animazione” che Berlusconi ha evocato nel suo monologo in tv davanti a una trasognata Barbara D’Urso.
Gianni Barbacetto
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Aprile 29th, 2014 Riccardo Fucile
LA SENTENZA DELL’AVVOCATO CASTELLANETA RICOSTRUISCE GLI INCONTRI PROCURATI DA TARANTINI: “SCONCERTANTE QUADRO DI VITA PRIVATA”
Non erano “cene eleganti”. E Berlusconi lo sapeva bene. 
Tra il 2008 e il 2009, a Palazzo Grazioli e villa La Certosa in Sardegna — scrive il giudice Ambrogio Marrone nelle sue motivazioni — si svolgevano “nottate boccaccesche” che coinvolgevano 30 ragazze.
Erano gli anni in cui imperversava Gianpi Tarantini, ben istruito sui gusti di Berlusconi, da Sabina Beganovic, definita la “Tarantini in gonnella”.
“L’ambiente nel quale si svolge la vicenda — annota il gup — non è certo quello delle case chiuse: i fatti si svolgono in ambienti lussuosi, senza alcuna costrizione per le ragazze”.
Il giudice parla di “sconcertante quadro della vita privata” dell’ex presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. Descrive una “fiorente attività di esercizio della prostituzione”.
Il giudice analizza il “materiale probatorio nel contenuto di oscenità e bassezza” e scrive: “Tarantini dimostra di aver costituito una specie di ‘agenzia di servizi’, in cui le prestatrici d’opera, dietro pagamento di un corrispettivo in denaro… forniscono servizi consistenti in prestazioni sessuali”.
E soprattutto sottolinea: “Tali utilità vengono elargite di solito dallo stesso Berlusconi, quasi sempre poco prima che queste vadano via dalle sue dimore, il giorno dopo l’incontro ‘ravvicinato’ a scopo sessuale, avvenuto di notte con le ragazze di turno”.
Segno che Berlusconi — non indagato in questo processo — era ben consapevole, al contrario di quanto ha sempre sostenuto, che si trattava di donne da pagare in cambio di prestazioni sessuali. E infatti, Berlusconi, è indagato a Bari per aver indotto Tarantini a mentire su questo punto.
Le 187 pagine della sentenza firmata dal giudice Marrone riguardano soltanto l’avvocato pugliese Salvatore Castellaneta, condannato, con rito abbreviato, per sfruttamento della prostituzione a un anno di reclusione.
Castellaneta è stato assolto dal reato associativo perchè “partecipava solo occasionalmente alle iniziative di Tarantini” e, per il suo difensore, l’avvocato Michele Laforgia, questo dimostra che “Castellaneta era estraneo al sistema ideato da Tarantini per conquistare i favori di Berlusconi”. Lo stesso processo — con il rito ordinario — vede imputati per induzione, favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione, i fratelli Gianpi e Claudio Tarantini, Massimiliano Verdoscia, Peter Faraone, Sabina Beganovic, e le attrici Letizia Filippi e Francesca Lana.
Il giudice assesta dei colpi anche all’accusa. In almeno due passi della sentenza.
Parla di “danno alle indagini” quando il pm Giuseppe Scelsi ordinò una “incauta perquisizione” a danno di Tarantini, “nel maggio 2009, in relazione ad altre indagini per reati contro la Pubblica amministrazione”.
Da quel momento, infatti, gli imputati furono molto più accorti nelle conversazioni poichè capirono di essere sotto indagine.
E poi annota che “il fidato autista e factotum” di Gianpi, Dino Mastromarco, “inopinatamente non risulta tra gli imputati”.
Per il resto, la sentenza è una carrellata sulla “sconcertante vita privata” di Berlusconi.
A casa Berlusconi, Gianpi si muove ormai da padrone. Una sera Tarantini passa il telefono a Barbara Montereale, che dice a Berlusconi: “Pronto Presidente? Noi la stiamo aspettando”. Surreale la risposta dell’ex premier: “E dove siete?”. “Siamo già a tavola”, risponde Montereale. E Berlusconi: “Da me?”. “Sì! Manca solo lei…”. “Sto arrivando”, conclude Berlusconi.
E se Gianpi utilizzava le donne per conquistare Berlusconi, l’ex premier “utilizzava” i “vecchietti” Carlo Rossella e Fabrizio Del Noce “per fornire alle ragazze lo stimolo a partecipare alla cena” perchè “così le ragazze sentono che c’è qualcuno che ha il potere di farle lavorare”.
“Le ragazze si dividevano in due categorie ben distinte: quelle, cosiddette ‘facili’, cioè disponibili a concedere prestazioni sessuali (a pagamento o dietro altra utilità ) e quelle che facevano da cornice all’evento, considerate ‘di immagine’”.
L’obiettivo di Tarantini — sfumato quello di candidarsi alle elezioni europee — è chiudere affari con le società targate Finmeccanica. Ed è per questo che porta donne disponibili al premier cercando di ingraziarselo: in un’occasione Tarantini “dimostrava di saper trarre il massimo vantaggio anche dalle situazioni apparentemente a lui sfavorevoli, proponendo a Berlusconi di volare tutti insieme sull’aereo presidenziale, dicendo che le ragazze (che aveva reclutato) abitavano a Milano e facendo credere che lui aveva un impegno di lavoro in città l’indomani mattina”.
Ossequioso all’invito berlusconiano — “la patonza deve girare” — Gianpi saggia personalmente la capacità amatoria delle donne che porta dall’ex premier.
Come nel caso di Grazia Capone, che gli viene presentata dall’avvocato Castellaneta: “Ma tromba?”, chiede Gianpi a Castellaneta, che gli risponde: “E certo!”.
“Tarantini — scrive il giudice — chiede a Castellaneta di poter prima “collaudare” la ragazza. “Me la posso trombare io prima oggi pomeriggio…”.
“E va bè oggi? — risponde Castellaneta -… Trombatela domani scusa!”.
Antonio Massari
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Aprile 29th, 2014 Riccardo Fucile
OLTRE AL VIRUS DELLA CHIACCHIERITE E DELL’ANNUNCITE, RENZI HA CONTRATTO PURE LA PREZZEMOLITE
Dunque sabato sera i telespettatori di Amici saranno privati dell’imprescindibile presenza di Matteo Renzi accanto a Maria, a causa di una legge odiosamente illiberale: la par condicio che proibisce le ospitate di politici nei programmi non giornalistici in campagna elettorale.
Si teme così che il premier, già costretto a declinare l’autoconvocazione come goleador alla Partita del Cuore, non tenterà neppure di sfoggiare le sue doti di cantante al concertone del 1° Maggio o a The Voice, cucinare prelibatezze della cucina toscana a Masterchef, saggiare la sua enciclopedica sapienza (leggendaria fin dai tempi della Ruota della Fortuna) in un quiz pre o post-tg, declamare con la sua voce baritonale il segnale orario, le previsioni del tempo e l’oroscopo.
Gli italiani dovranno dunque attendere fine maggio per sapere che faccia ha il presidente del Consiglio, ingiustamente oscurato da tutte le tv, eccezion fatta per i programmi del mattino, del pomeriggio, della sera e della notte.
A meno che non accolga l’invito di Barbara D’Urso a Domenica Live che — lo si è scoperto dopo il monologo del Cainano — è nientemeno che un “programma giornalistico”.
Se non ci fosse da scompisciarsi di fronte a un capo del governo così pieno di sè da voler occupare ogni teleinterstizio diurno e notturno, verrebbe da domandargli perchè se ne infischi così ostentatamente di una legge nata per riportare un minimo di decenza nella patria del conflitto d’interessi, al punto di farsi dare una lezione di par condicio addirittura da Mediaset.
La risposta, purtroppo, è nota: vent’anni di berlusconismo hanno coperto e giustificato i conflitti d’interessi del centrosinistra, trincerato dietro l’alibi del “lui ce l’ha più grosso di noi”.
Chi parla più della mostruosità di un leader politico proprietario di tre reti televisive che da vent’anni si fa intervistare (si fa per dire) dai suoi impiegati?
Anzichè sciogliere quel nodo, il centrosinistra si è preso la rivincita controllando pezzi di Rai e di giornali, che usano i medesimi riguardi riservati a B. dai suoi impiegati, senza disdegnare qualche ospitata a Mediaset per dimostrarne lo squisito pluralismo. D’Alema che cucina il risotto a Porta a Porta o duetta con Gianni Morandi su Rai1. Fassino che piagnucola davanti alla tata Elsa a C’è posta per te.
Amato che finge di giocare a tennis con Panatta chez Vespa. Politici di ogni colore che fanno i pagliacci al Bagaglino con le torte in faccia.
Quando Renzi dice che il patto con B. riguarda “solo” le riforme (hai detto niente), gli sfugge che la scelta di un simile partner costituente gl’impedisce di polemizzare con le mostruosità che escono dalla sua bocca (per dire qualcosa sulla dichiarazione di guerra alla Germania, ha dovuto equipararla alla “frase inaccettabile di Grillo sulla Shoah”, che però non esiste: Grillo non ha detto nulla sulla Shoah; ha parafrasato molto inopportunamente un brano di Primo Levi, con un assurdo fotomontaggio sulla P2 e Auschwitz).
E di fare qualcosa contro il conflitto d’interessi, che infatti resta tabù.
Più i giorni passano, più il leader “nuovo” somiglia a quelli che doveva rottamare: chiacchiere tante, fatti pochi e transumanze da una tv all’altra per “fare il simpatico”. La differenza è il giubbotto fico al posto della grisaglia.
Appena entrato a Palazzo Chigi, oltre ai virus della chiacchierite e dell’annuncite, Renzi ha contratto pure la prezzemolite.
Aiutato dalla peggior classe giornalistica del mondo, s’è convinto che gl’italiani muoiano dalla voglia di sapere se preferisce la carne o il pesce, le bionde o le more, gli slip o i boxer.
Ieri è apparso in tv con un pallone e poi con una banana in mano. Intanto la Boschi ci ragguagliava su Vanity Fair su altre questioni decisive: se vuole dei figli, e se sì quanti, se ha già trovato l’uomo giusto o se possiamo fare qualcosa per aiutarla nelle ricerche.
Un giorno o l’altro magari verrà fuori un politico serio, che si fa eleggere e va al governo per governare e parla solo quando ha qualcosa da dire: non per promettere ciò che farà , ma per comunicare ciò che ha fatto.
E non lo noterà nessuno.
Marco Travaglio
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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