Aprile 6th, 2014 Riccardo Fucile
A POCHI GIORNI DAL PELLEGRINAGGIO A LONDRA, ARRIVA IL PRIMO GIUDIZIO SULLA RIFORMA CARA A RENZI: ED E’ TUTT’ALTRO CHE TENERO
Finora la velocità è stata l’asso nella manica di Matteo Renzi in versione premier.
Ma allora perchè scegliere per la riforma del lavoro un percorso lungo e incerto, affidando al Parlamento il compito di delineare davvero il suo “Jobs Act”?
E perchè limitarsi a “linee guida vaghe”, che non fanno capire qual è la rotta per regolare la giungla italiana dei contratti precari?
Se lo chiede, con evidente spirito critico, il Financial Times, che manifesta tutte le sue perplessità di fronte alla vaghezza del piano e alla decisione di affidarne la definizione alle Commissioni parlamentari.
Per il premier, non si tratta solo delle prime critiche internazionali alle sue politiche, ma di un giudizio negativo che arriva nella stessa settimana della sua visita londinese in cui ha incontrato il premier David Cameron e tutto il gotha finanziario della City. Un gotha che, evidentemente, non è riuscito a convincere, malgrado i sorrisi, le battute e le rassicurazioni.
“Di fronte a un’Italia che nell’ultimo anno ha perso circa 1.000 posti di lavoro al giorno, per Matteo Renzi la necessità di riformare radicalmente le inefficienze del mercato del lavoro è stata una specie di mantra costante; per gli investitori si tratta di un tema scottante”, scrive il giornale della City.
“È per questo che anche i suoi sostenitori sono rimasti stupiti quando il nuovo primo ministro italiano ha deciso di lasciare al Parlamento il compito di tracciare il suo Jobs Act, un processo che potrebbe richiedere un anno prima che una legge venga approvata”.
Secondo Il FT, la bozza di proposte presentata dal governo alla Commissione Lavoro del Senato venerdì scorso si limita a elencare “intenzioni generiche” per riformare il welfare per i disoccupati, migliorare le agenzie del lavoro e stabilire una nuova forma di contratto che dia ai lavoratori una progressiva sicurezza.
Si tratta, secondo il quotidiano, “di linee guida vaghe, prive di una chiara intenzione di arrivare a una singola, più universale forma di contratto di lavoro” che metta fine al “confuso sistema attuale” in cui la forza lavoro risulta divisa a metà : da una parte i garantiti, che godono di “contratti a vita”; dall’altra una considerevole minoranza con contratti a breve termine e pochi (o nessun) diritto.
(da “Huffingtonpost“)
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Aprile 6th, 2014 Riccardo Fucile
IL MINISTRO DEL LAVORO: PIANO PER 900 MILA GIOVANI, MA È QUELLO DEL GOVERNO LETTA…. PER AVERE IL SUSSIDIO DI DISOCCUPAZIONE SI DOVRà€ SERVIRE ALLA CARITAS
Leggendo l’intervista rilasciata dal ministro del Lavoro a Repubblica, e offerta con grande risalto ai lettori, si ha tutta la sensazione del bluff.
Giuliano Poletti, infatti, non riesce a resistere alla tentazione berlusconiana promettendo 900 mila posti di lavoro in 24 mesi come se fosse vero.
Soprattutto, come se la promessa poggiasse su atti e intenzioni del governo Renzi e non su quello precedente.
Poletti, però, nella foga di fare bella figura si spinge oltre: smentisce una delle promesse principali del Jobs Act, il contratto a tutele crescenti, e aggancia il futuro del sussidio di disoccupazione alla carità cristiana.
I POSTI DI LAVORO
“Un piano lavoro per 900 mila giovani” è l’entusiastico titolo di prima pagina del quotidiano di Ezio Mauro.
Il ministro, nell’intervista, utilizza parole più sobrie: “Il bacino potenziale è di 900 mila giovani che nell’arco di 24 mesi riceveranno un’opportunità di inserimento”.
Tutto è molto più sfumato e lo è perchè così funziona il piano che altro non è che la Youth Guarantee, la Garanzia giovani, promossa dall’Unione Europea e già messa a punto dal predecessore di Poletti, Enrico Giovannini.
Il governo Letta aveva stanziato, infatti, 1,5 miliardi di euro (750 milioni europei e altrettanti nazionali) per “assicurare ai giovani con meno di 25 anni un’offerta qualitativamente valida di lavoro, proseguimento degli studi, apprendistato, tirocinio o altra misura di formazione, entro 4 mesi dall’uscita dal sistema di istruzione formale o dall’inizio della disoccupazione”.
Il fatto che nell’offerta ci siano apprendistato e tirocinio spiega chiaramente come buona parte dei possibili posti di lavoro non saranno affatto stabili.
Le spiegazioni offerte dallo stesso ministero sono ancora più chiare: “Ai giovani che presenteranno i requisiti verrà offerto un finanziamento diretto (bonus, voucher, ecc.) per accedere a una gamma di possibili percorsi, tra cui: l’inserimento con un contratto di lavoro dipendente, l’avvio di un contratto di apprendistato o di un’esperienza di tirocinio, l’impegno nel servizio civile, la formazione specifica professionalizzante e l’accompagnamentonell’avvio di una iniziativa imprenditoriale o di lavoro autonomo”.
Tutto questo, inoltre, è stato già predisposto e l’attuale governo lo ha trovato bell’e pronto. Ma il ministro Poletti non ne fa menzione.
IL BLUFF DEL JOBS ACT
Dall’intervista, ma anche dal disegno di legge delega presentato due giorni fa al Senato, si ricava un’altra constatazione: il Jobs Act non è affatto quello che era stato promesso.
La novità più rilevante del piano di Renzi, infatti, era la promessa di abolire i vari contratti precari per introdurre un contratto a tempo indeterminato, a tutele crescenti, in cui sacrificare un po’ di diritti per i primi tre anni (innanzitutto, l’articolo 18) in cambio di un contratto stabile. L’ipotesi aveva ricevuto il sostanziale via libera dei sindacati, compresa quella Cgil che con l’attuale governo ha un contenzioso che va oltre il merito delle proposte ma riguarda le relazioni sindacali nel loro complesso.
Invece Poletti chiarisce che il contratto a tutele crescenti, che nella legge-delega è previsto in forma “eventualmente sperimentale”, si affiancherà soltanto, e non sostituirà , i contratti a tempo determinato e le altre tipologie lavorative.
Che saranno asciugate e razionalizzate ma che vedranno, di fatto, quattro insiemi: il nuovo contratto a tempo determinato, ulteriormente liberalizzato dal decreto in discussione alla Camera; il nuovo contratto a tutele crescenti (quando sarà sperimentato); il classico contratto a tempo indeterminato attualmente in vigore; i nuovi contratti temporanei basati sui voucher, a somiglianza dei mini-jobs tedeschi e che saranno potenziati.
In questo nuovo quadro, il centro di gravità sembra poggiare sui contratti a tempo determinato anche se il responsabile Pd dell’Economia, Filippo Taddei, insiste nel dire che il contratto indeterminato costerà “sensibilmente meno”.
SUSSIDIO DA CARITAS
Mentre il viceministro all’Economia, Enrico Morando, ribadisce la possibilità del salario minimoorario, immaginando “il carcere” per le imprese che non lo rispettino, Poletti fa un nuovo annuncio: il “servizio comunitario” per chi riceverà un sussidio di disoccupazione.
Che vuole dire? Ad esempio, “rendersi disponibile a distribuire i pranzi alla Caritas o assistere gli anziani”.
Niente a che vedere con i lavori socialmente utili, che facevano ritenere di avere diritti all’assunzione.
Qui, di diritti esigibili, non si fa menzione.
Salvatore Cannavò
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Aprile 6th, 2014 Riccardo Fucile
IL PORTAVOCE DEL PENTAGONO: “IL PROGRAMMA STABILITO CONTINUA SENZA ALCUNA MODIFICA”
«La fornitura complessiva di F35 all’Italia è rimasta invariata, durante l’ultima riunione dell’Executive Steering Board che gestisce il programma. Può darsi che in futuro ci saranno aggiustamenti, magari sui tempi degli acquisti, ma per ora non sono arrivate comunicazioni formali in proposito».
A rivelarlo è Joe Della Vedova, Public Affairs Director for the Joint Program Office F35, ossia portavoce dell’operazione F35 per il Pentagono.
«L’assemblaggio del primo aereo in Italia – aggiunge – è iniziato a dicembre e continua regolarmente. Secondo i nostri calcoli, nel lungo periodo la partecipazione di un Paese darà vantaggi economici superiori all’investimento iniziale».
Il programma per la costruzione e la vendita dei caccia F35 è gestito dal Joint Strike Fighter Executive Steering Board, che include i rappresentanti di tutti i paesi membri e si riunisce due volte all’anno per fare il punto.
In passato questo organismo si era dato appuntamento anche a Roma.
L’ultimo incontro è avvenuto giovedì a Washington, e l’Italia era presente con il contrammiraglio Francesco Covella.
Secondo Della Vedova non sono stati annunciati cambiamenti rispetto agli impegni del passato, che per Roma prevedono l’acquisto di sessanta F35 A e trenta F35 B, da completare fra il 2024 e il 2025.
Il prezzo al momento, secondo l’ultimo contratto firmato con la Lockheed che costruisce gli apparecchi, è di circa 117 milioni di dollari per aereo, ma diminuirà nel tempo, e nel 2019 dovrebbe scendere fra 80 e 85 milioni.
L’Italia inoltre è coinvolta nella produzione del caccia, attraverso lo stabilimento di Cameri, e lo sarà nella sua manutenzione.
Durante la riunione di giovedì sono stati forniti gli ultimi dati sull’avanzamento del progetto, ma non sono stati annunciati cambiamenti: la prossima sarà a settembre in Norvegia.
«Ci rendiamo conto – dice Della Vedova a La Stampa – che in Italia è cambiato il governo, e quindi i nuovi leader devono essere informati per prendere le loro decisioni. Su questo progetto, infatti, circolano anche molte notizie sbagliate. Inoltre è chiaro che la crisi economica in corso ha pesato sui bilanci di tutti».
Alla luce di questi problemi, una soluzione che alcuni Paesi membri stanno adottando è ritardare i propri acquisti, senza modificare i numeri: «Lo ha fatto la Norvegia, e gli stessi Stati Uniti. Gli Usa si sono impegnati a comprare 2.423 F35 e questo totale non è mai cambiato. Tuttavia nel bilancio per il 2015, appena presentato dal presidente Obama, l’acquisto di alcuni aerei previsto nell’arco dei prossimi cinque anni è stato rinviato. Avverrà , ma più avanti nel tempo, per consentire ora dei risparmi. Su questo non c’è alcun problema»
Durante l’incontro di giovedì, si è discusso molto del rapporto fra i costi e i benefici per i membri.
«Ci sono almeno tre ragioni per cui un Paese come l’Italia trarrebbe vantaggio dalla conferma degli impegni attuali. La prima sta nella produzione stessa: voi ospitate uno stabilimento, e ognuno degli oltre tremila caccia che verranno costruiti e venduti avrà parti realizzate dalle vostre aziende. La seconda sta nella manutenzione. Gli F35 voleranno per almeno venti o trent’anni, e durante questo periodo avranno bisogno di assistenza. L’Italia è coinvolta nella manutenzione e ne trarrà grandi benefici economici. La terza ragione, poi, sta nel recupero degli investimenti iniziali. Come Paese fondatore del progetto, voi avete partecipato al suo sviluppo, e quindi avete il diritto di ricevere i compensi relativi alle adesioni future. Negli ultimi tempi, per esempio, Giappone, Israele e Corea del Sud hanno deciso di unirsi all’iniziativa, e questi nuovi acquisti forse aprono lo spazio per limare alcuni ordini fatti da altri. Non avendo partecipato all’investimento iniziale, però, dovranno corrispondere pagamenti di recupero che andranno ai membri originari, come l’Italia. Se si considerano tutti questi elementi e la riduzione del prezzo degli aerei, alla fine ci guadagnerete sul piano economico, oltre a quello strategico».
Paolo Mastrolilli
(da “La Stampa“)
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Aprile 6th, 2014 Riccardo Fucile
ESCLUSI I VERTICI DELLE ORGANIZZAZIONI CRIMINALI…MA IL SEMPLICE AFFILIATO RESTEREBBE IN LIBERTà€
Se la nuova norma sulla carcerazione preventiva fosse già legge, uno come Antonio Rognoni, ex direttore generale di Infrastrutture Lombarde, tra i grandi registi delle opere di Expo, non sarebbe finito in carcere.
Il reato per cui è accusato, infatti, è la turbativa d’asta la cui condanna parte da un anno. Lo stesso dicasi per Lele Mora arrestato nel 2011 per bancarotta e finito a Opera.
Il reato parte da un minimo di due anni.
Senza contare che spesso anche i casi connessi alla mafia vengono puniti con sanzioni minime.
Sì, perchè qua il tetto è quello dei tre anni che diventano quattro quando si tratta di arresti domiciliari. Sotto questi limiti il codice prevede che l’esecuzione della pena venga sospesa.
Da ciò prende spunto la proposta di limitare la custodia preventiva. Tradotto: in questi casi niente carcere fin da subito.
Ecco, in sostanza, la novità contenuta nella norma al vaglio del Parlamento.
Sulla carta, l’obiettivo è tutelare i diritti degli indagati, come segnalato spesso dalla Corte Costituzionale, ed evitare il sovraffollamento delle carceri.
Tradotto: il 90% dei reati compiuti, se la proposta diventerà legge, non prevede l’arresto preventivo alla chiusura delle indagini preliminari.
Per capire, le persone coinvolte nell’indagine milanese sulla società Kaleidos che ha scoperchiato la rete formigoniana della Compagnia delle opere, braccio finanziario di Comunione e liberazione, l’avrebbero fatta franca senza finire dietro le sbarre.
Anche qui il reato è turbativa d’asta. E dunque, ragionando sul come potrebbe essere, niente carcere ma misure alternative.
La parola magica è “pena edittale”, ovvero la previsione del minimo richiesto dal codice. Un minimo che se non supera i 4 anni impone al giudice di calcolare una sentenza definitiva che non preveda il carcere.
Una prognosi che deve essere ben motivata. Pena, l’annullamento dell’ordinanza.
Ed è proprio partendo da questa prognosi che la nuova norma non chiede ma impone al giudice di escludere le manette (e i domiciliari) nella fase della custodia cautelare. Dentro, come detto, ci finisce di tutto: dal furto alla rapina ai reati da colletti bianchi e contro la pubblica amministrazione.
Perchè uno come Massimo Ponzoni, ex assessore regionale lombardo, accusato di bancarotta nel 2011, seguendo la nuova proposta, non sarebbe finito dentro.
Per la bancarotta, infatti, il codice prevede pene a partire da due anni.
In tutti questi esempi, la nuova norma affida un’ampia discrezionalità al giudice.
In un caso come quello del faccendiere Pierangelo Daccò, accusato del crack San Raffaele, probabilmente nessun gip, vecchia o nuova legge, avrebbe concesso misure alternative. Daccò è stato condannato a 9 anni in Appello.
Ma non ci sono solo i reati contro la pubblica amministrazione come la corruzione, ci sono anche quelli predatori che hanno forti ricadute sul fronte dell’allarme sociale.
E anche qui qualche problema potrebbe insorgere.
La nuova norma non prevede la custodia in carcere per gli scippatori oppure per i furti o, in certi casi, anche per i rapinatori. Il rischio è immaginabile: con una direzione normativa del genere ci si potrebbe trovare davanti all’eventualità di fermare uno scippatore già in attesa di giudizio.
Il codice, per questo reato prevede pene che partono da un minimo di un anno.
E poi c’e’ la mafia. In questo caso a rischio sono anche i partecipi dell’associazione mafiosa (416 bis) che non hanno il ruolo di capi e che molto spesso incassano condanne inferiori ai quattro anni.
Per chi, invece, ha ruoli apicali il carcere è obbligatorio .
E poi ci sono i reati connessi. Come la droga. Non l’articolo ex 74, ma il 73 che punisce lo spaccio semplice.
In elenco anche i reati contro la pubblica amministrazione aggravati dall’articolo 7 (il metodo mafioso). In questo caso la nuova norma li associa all’omicidio, al sequestro di persona, all’estorsione.
Tutti casi per i quali il legislatore dice al giudice: il carcere è la via principale, ma è necessario perlustrare tutte le altre misure alternative prima di decidere.
Su queste pesa la reiterazione del reato che ora dovrà essere dimostrata a partire dall’attualità . Insomma, la norma se da un lato assolve alla necessità di tutelare i diritti evitando gli abusi, dall’altro rischia di ridurre lo strumento della custodia preventiva.
Davide Milosa
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Aprile 6th, 2014 Riccardo Fucile
L’ALLARME DEL PROCURATORE DI ROMA PIGNATONE: “STANNO RENDENDO IMPOSSIBILE L’ARRESTO”, ANCHE PER SCIPPATORI, RAPINATORI E PER ALTRI REATI CON PENE INFERIORI AI 4 ANNI
L’ultimo allarme è arrivato dal procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone: “Stanno rendendo impossibile l’arresto, anche domiciliare, per delitti che considero di un certo allarme sociale”, ha detto a un convegno.
Si riferiva agli esiti della riforma della custodia cautelare, approvata il 2 aprile dal Senato e ora passata alla Camera.
Con gli ultimi emendamenti approvati, il giudice non potrà disporre il carcere e neppure la detenzione in casa, se è prevedibile che l’indagato possa essere condannato a pene inferiori a 4 anni di carcere.
“Questo significa lasciare fuori la corruzione e gli altri reati tipici dei cosiddetti colletti bianchi, comprese le bancarotte, le evasioni fiscali anche di grandi dimensioni, malversazioni e altre violazioni di tipo economico”, ha spiegato Pignatone.
“Ma non solo: il legislatore deve sapere che così non si potrà arrestare nemmeno chi compie delitti di strada come lo scippo, il furto, fino alla rapina, a meno che uno non entri in una banca impugnando il kalashnikov”.
La legge che modifica la custodia cautelare ha una storia lunga.
Il Pd aveva presentato in Parlamento un testo su questa materia anche nella scorsa legislatura. Ne ripropone uno simile nella primavera scorsa, primi firmatari Donatella Ferranti, Andrea Orlando, Anna Rossomando, con l’appoggio anche di Gennaro Migliore e dei parlamentari di Sel.
Spiega Ferranti, oggi presidente della commissione Giustizia della Camera: “La nostra proposta cercava di rispondere al sovraffollamento delle carceri in cui, su 60 mila detenuti complessivi, 23 mila sono in custodia cautelare. E poi alle sentenze della Corte costituzionale, che dal 2010 in poi bocciano le norme dei cosiddetti pacchetti sicurezza che rendono automatico l’arresto per tutta una serie di reati. L’automatismo, dice la Consulta, ci può essere solo in caso di mafia. In tutti gli altri casi va motivato caso per caso”.
Il testo passa dalla commissione Giustizia della Camera (che ascolta in audizione anche l’Associazione nazionale magistrati) all’aula di Montecitorio, poi passa al Senato, dove viene approvato il 2 aprile con l’opposizione della Lega e l’astensione del Movimento 5 stelle.
“Il problema — spiega Ferranti, — è che, nel viaggio, il nostro testo ha subìto molte modifiche”.
In più ha ricevuto l’innesto di alcune proposte formulate dalla commissione ministeriale guidata dal presidente della Corte d’appello di Milano, Giovanni Canzio.
“Ora il pacchetto torna alla Camera con una formulazione diversa da quella iniziale e che — ammette Ferranti — effettivamente presenta alcuni problemi”.
Il più grave lo indica Maurizio Carbone, segretario generale dell’Associazione nazionale magistrati (che il Senato non ha ritenuto di consultare): “La custodia cautelare in carcere, o anche agli arresti domiciliari, viene esclusa in tutti quei casi in cui l’indagato potrebbe avere, alla fine del suo percorso processuale, una pena diversa dal carcere”.
Dunque: niente cella per chi potrà essere condannato fino a 2 anni, perchè potrà beneficiare della sospensione condizionale della pena; ma niente carcere neppure per chi potrà essere condannato fino a quattro anni, perchè fino a quella soglia si prevedono misure alternative al carcere.
Con una soglia così alta, resteranno fuori anche i responsabili di reati gravissimi, come denuncia Pignatone.
Ma non solo: questa legge trasforma il giudice delle indagini preliminari, che deve decidere se arrestare o no, in una sorta di Mago Otelma che deve prevedere il futuro.
“Non dovrà più valutare le esigenze cautelari al momento del fatto commesso — spiega Carbone — ma dovrà prevedere l’approdo finale dell’iter processuale”.
Una specie di pratica divinatoria che dovrebbe anticipare una sentenza definitiva che arriverà dieci anni dopo. E che dovrebbe tener conto di tutti gli sconti di pena possibili nel nostro sistema. Questo è anche in contraddizione con lo spirito della legge, almeno quello proclamato: la custodia cautelare, dicono i “riformatori”, non può essere un’anticipazione della pena definitiva.
Giusto: ma proprio per questo deve dunque essere presa sulla base delle esigenze cautelari nel momento in cui il reato è commesso, non anticipare la pena futura.
Carbone constata che il testo legislativo almeno un miglioramento lo ha avuto, nel suo viaggio, e proprio grazie ai suggerimenti dell’Associazione nazionale magistrati.
È stato eliminato l’obbligo di lasciar fuori, per esempio, chi abbia commesso un omicidio, magari con modalità efferate, ma che è incensurato.
Gianni Barbacetto
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Aprile 6th, 2014 Riccardo Fucile
ANTICIPAZIONE DELL’INCHIESTA CHE SARA’ TRASMESSA LUNEDI’ 7 APRILE
È l’inchiesta che secondo il sindaco di Verona Flavio Tosi non si sarebbe mai dovuta vedere. Un’inchiesta che già il 21 febbraio scorso aveva creato forti clamori ancora prima di andare in onda.
Cosa è successo?
Il sindaco Tosi viene a sapere che l’inviato di Report, Sigfrido Ranucci, stava lavorando a un un’inchiesta sulla sua amministrazione e sulla sua Fondazione, “Ricostruiamo il Paese”.
Ma soprattutto viene a sapere che l’inviato di Report era sulle tracce di un video hard che contiene immagini imbarazzanti per il sindaco di Verona, un video che sarebbe stato usato per ricattarlo già dai tempi in cui era assessore alla sanità della regione veneta.
Tosi allora fa registrare di nascosto il giornalista, porta i video in procura, querela Sigfrido Ranucci e indice una conferenza stampa accusandolo di voler costruire prove false nei suoi confronti e di voler acquistare il falso video utilizzando i soldi pubblici della Rai.
Ma come sono andate effettivamente le cose? Il video hard è un falso scoop o esiste veramente? E chi sono i due che per conto di Tosi hanno registrato Ranucci?
Per le risposte bisognerà aspettare la puntata di Report in onda su Rai3 lunedì alle 21,05.
Fino ad oggi era nota solo la versione di Tosi, grazie anche ai video che gli erano stati consegnati da Sergio Borsato, il cantante leghista che aveva attirato Ranucci nella trappola.
Quello che Tosi e Borsato non sapevano però è che anche Ranucci ha registrato l’incontro, ma stranamente non tutto quello che è avvenuto è stato portato in Procura da Tosi, perchè?
Cosa contengono di così scottante queste immagini?
Borsato annuncia a Ranucci l’arrivo di un compare, presentato come l’autore del video hard: «Ce lo siamo portati a casa dall’estero, ma attenzione: questo ha una fifa boia e dobbiamo vincere un po’ la sua paura, a questo qua gli fanno la pelle perchè questo qua era presente, questo è quello che ha registrato il video».
E non sapendo di essere registrato a sua volta continua: «Adesso dobbiamo ammorbidirlo, ma dopo bisogna pagarlo», avverte ancora Borsato prima dell’arrivo del misterioso personaggio: insomma è da lui che arriva la richiesta di pagare per il video, tema oggetto di durissime polemiche nelle scorse settimane tra Tosi e Report.
E a cosa dovrebbero servire questi soldi, secondo Borsato? «Lui mi dice: mi servono per stare un altro po’ fuori dai coglioni».
La telecamera di Ranucci documenta anche il viaggio in taxi con Borsato verso il ristorante dove li aspetta l’altro compare.
Il cantautore si vanta di conoscere come girerebbero le tangenti in ambito Lega, e parla della Siram, un’azienda francese specializzata in appalti con gli ospedali che, secondo l’ex tesoriere del Carroccio Francesco Belsito e l’imprenditore Stefano Bonet, avrebbe pagato mazzette a persone vicine al sindaco di Verona.
Siram e Tosi hanno sempre smentito, sulla vicenda sta ancora indagando la procura di Milano e molti verbali sono secretati.
Ma Borsato va oltre e tira in ballo anche la moglie di Tosi, Stefania Villanova, dirigente della Sanità alla Regione Veneto.
«Se apri il vaso di Pandora, esce anche il coniglio», dice ancora Borsato che parla anche di tangenti di Finmeccanica, del ruolo di Tarantelli, dell’appalto della Global service. Insomma è un fiume in piena.
Ma come può un cantautore ex leghista affermare di sapere tante cose?
Il mistero si potrebbe chiarire quando si sa chi è il suo complice incaricato da Tosi di documentare il nostro incontro: Massimo Giacobbo, la cui identità fino a oggi non era mai uscita (neppure Tosi l’ha mai nominato).
L’inchiesta di Report tratterà anche di come e dove la Fondazione di Tosi stia cercando consensi per candidarsi alle primarie di centrodestra.
Verrà poi trasmessa anche l’intervista al suo assessore Marco Giorlo, che è stata al centro di violente polemiche in quanto causa delle sue dimissioni prima ancora di andare in onda.
(da “il Corriere della Sera”)
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Aprile 6th, 2014 Riccardo Fucile
PASSIONE POLITICA E RIGORE MORALE LO HANNO PORTATO A FARE SCELTE CONTROCORRENTE… FINO A DEDICARSI SOLO ALLA SUA BRINDISI
Lo spessore intellettuale, la profondità d’analisi, il rigore morale, la passione politica, il senso delle istituzioni, l’orgoglio e la tenacia a presidio del territorio: anche il più strenuo oppositore ha sempre riconosciuto a Domenico Mennitti qualcosa di più dell’onore delle armi.
Anzi: molto di più, nonostante il carattere spigoloso.
Uomo di destra, parlamentare, sindaco, giornalista, fondatore di think tank e riviste, politologo dal coraggio visionario e dall’incoercibile indipendenza, Mennitti si è spento nella “sua” Brindisi a 75 anni.
Quella cittadina era stata l’ultima dimensione perlustrata e sfida abbracciata. Ma non certo l’unica.
Il Msi.
Nato a Termoli l’11 agosto del 1939, negli anni cinquanta si trasferisce a Brindisi, dove intreccia da subito le due passioni più ardenti: il giornalismo e la politica.
Dal 1979 al 1991 è stato parlamentare per il Movimento sociale, candidandosi – nel 1987 – alla segreteria nazionale (vinse Gianfranco Fini); nel 1989 diventa il vice di Pino Rauti, e nel 1991 lascia il partito della Fiamma in polemica con tutti.
Spirito inquieto, intelletto vivace e dinamico, fiuta gli albori di una nuova stagione politica e percepisce l’insufficienza (e l’inadeguatezza) degli strumenti classici della destra post-fascista: si dedica al giornalismo, dalla rivista-pensatoio “Proposta” (dal 1985 al 1991) alla direzione del “Roma”, storica testata napoletana. Osa, provoca, decostruisce e pungola.
Forza Italia.
Poi, nel dicembre del 1993, l’incontro con Silvio Berlusconi: Forza Italia è un germoglio, il cavaliere vuol puntellare il movimento che sa di marketing con le idee politiche di un pool di intellettuali. Purchè disposti a navigare in mare aperto, senza steccati.
E Mimmo Mennitti contribuisce a irrobustire l’impalcatura teorica di Forza Italia, o almeno ci prova. Contaminando e innovando, ma sempre senza mai derogare al suo tratto: le idee, il coraggio intellettuale, la cultura.
E’ il primo coordinatore nazionale dei club di Forza Italia e membro del Comitato di presidenza, fino al 1996. In quel 1994 aveva anche partorito, dirigendone la rivista, la fondazione “Ideazione”.
Nel 1999 vola a Strasburgo e Bruxelles: eurodeputato, membro dell’Ufficio di presidenza del Ppe, a capo della Delegazione dei Popolari europei presso la Commissione parlamentare mista Ue-Romania.
La normalizzazione di Forza Italia non sbiadisce però caratteristiche (e carattere) di Mimmo da Brindisi: un forzista dall’autonomia di pensiero insopprimibile, quasi una monade nel partito degli yes-man.
Sindaco.
Sanguigno, verace, orgoglioso, ironico, testardo, duro col verticismo carismatico di Berlusconi. E spesso istintivo, come quando decide – “io che non ho mai amministrato nemmeno un condominio” – di candidarsi a sindaco di Brindisi.
E’ il 2004, il capoluogo messapico vacilla martoriato dalle inchieste giudiziarie e dallo scandalo tangentopoli: un’intera classe politica spazzata via, un’identità del tutto smarrita, una dignità sfrangiata e oltraggiata.
Mennitti, a capo di una coalizione di centrodestra, vince al primo turno e col 53,8%. Indossa la fascia tricolore e spariglia: parla di “idee”, “cultura”, “rigenerazione urbana”, “orgoglio della città “, sforna progetti, riaccende – emozionato come un bimbo – le luci del Teatro Verdi, picchia su tasti ormai sconosciuti e dimenticati.
Qualcosa gli riesce, molto altro no. Quando occorre sbraita, minaccia dimissioni, batte il pugno sul tavolo, stringe all’angolo alleati e compagni di partito, tacitati dal suo carisma e dal suo spessore, tiene la barra dritta della moralità pubblica – e non era semplice.
E, ancora una volta e se necessario, straccia la tessera di partito e serra la mandibola davanti a Berlusconi e ai quadri nazionali di Forza Italia e Pdl: la battaglia contro il rigassificatore nel cuore di Brindisi, che avrebbe svilito e smentito la sua idea di “città d’acqua”, ne è la plastica rappresentazione.
Marcia in corteo sottobraccio al post-comunista Nichi Vendola, che per “Mimmo” ha sempre nutrito una stima prossima alla venerazione, e poi alza il telefono per bacchettare e incalzare i ministri berlusconiani.
Nel 2009, pur tra qualche veto, si ricandida. E vince ancora, stavolta al ballottaggio (52,5%).
La malattia però già affiora perfidamente e lui nell’aprile 2011 annuncia le dimissioni, che decorrono dal 31 agosto.
Torna così all’altro pilastro: il giornalismo, da opinionista su diverse testate, tra cui “Nuovo Quotidiano di Puglia”.
Tribune da cui sferza, punge, rilancia.
Come è sempre stato nel suo stile.
Francesco Gioffredi
(da “Brindisi Quotidiano“)
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Aprile 6th, 2014 Riccardo Fucile
“CI SONO I NUMERI ANCHE SENZA FORZA ITALIA”… E BRUNETTA POLEMIZZA CON VERDINI
Botta e risposta domenicale fra il ministro per le Riforme Maria Elena Boschi e il leader di Forza Italia Silvio Berlusconi.
Da un lato l’ex cavaliere convalescente, parlando al telefono a un evento del suo partito a Roma, rilancia il tormentone dell’elezione diretta del premier e ribadisce che “l’Italia deve tornare ad essere una democrazia”, e dunque “basta con i governi non eletti dal popolo e con i piccoli partiti”.
Dall’altro Maria Elena Boschi, intervenendo nel corso del programma “L’intervista” di Maria Latella su Sky Tg24, lancia una provocazione: “La maggioranza ha i numeri anche senza Forza Italia”, ma “scommetto sulla tenuta dell’accordo del Nazareno, le parole di Berlusconi di ieri sera vanno in questa direzione”.
E chiarisce che “sui punti principali della riforma del Senato, sui paletti essenziali, non c’è margine di manovra”.
Una tabella di marcia quella del governo che non prevede l’ipotesi di tornare al voto a ottobre, se le riforme dovessero fallire. “Assolutamente no. Stiamo lavorando seriamente, siamo persone molto determinate, a partire dal premier, e non ci facciamo certo scoraggiare da chi cerca di metterci il bastone tra le ruote. Non pensiamo a un piano B in caso di fallimento”.
Non si risparmia nemmeno Renato Brunetta, che coinvolge nel dibattito anche Denis Verdini.
In una nota il capogruppo dei deputati di Forza Italia rivolge all’uomo dell’organizzazione un appello: “Sulle riforme e sulla legge elettorale faccio un appello ad una persona che stimo da sempre, Verdini. Denis, perchè non pubblichi il testo del famoso accordo Renzi-Berlusconi? E così la facciamo finita una volta per tutte? Per chiarezza, per verità storica, per trasparenza. Vediamo chi bara. Vediamo cosa poi diranno il presidente Renzi e la ministra Boschi, tanto sicuri dei loro numeri, ma in realtà con una paura matta di andarsi a schiantare contro la dorata facciata di Palazzo Madama. Voglio proprio vedere la loro riforma del Senato senza Forza Italia, voglio proprio vedere il via libera definitivo all’Italicum senza i nostri voti, già decisivi per l’approvazione della legge elettorale alla Camera”.
Sull’accordo con Forza Italia in mattinata era intervenuta anche Debora Serracchiani, vicesegretario Pd, spiegando di essere convinta “che Forza Italia terrà fede agli impegni presi, rispetterà il patto”.
Mentre l’esponente della Lega, Roberto Calderoli ha detto: “Se le cose saranno fatte seriamente saremo i primi a sostenere questa riforma”.
Mentre boccia l’Italicum: “Il nostro non potrà che essere un no, contro un colpo di mano che neanche il fascismo ha mai fatto”.
(da “Huffingtonpost”)
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Aprile 6th, 2014 Riccardo Fucile
SULL’UNITA’ SI PARLA ANCHE DI SONIA ALFANO, CATERINA CHINNICI E STEFANO BOERI… OFFERTA CANDIDATURA A LUCIA ANNIBALI
Ancora pochi giorni per la presentazione delle liste dei candidati Pd alle europee 2014: mercoledì, infatti, il segretario Matteo Renzi darà l’approvazione definitiva al progetto.
Ma la novità più importante, come riporta l’Unità , è la candidatura di Marco Tardelli, giocatore dell’Italia Campione del Mondo nel 1982, che rappresenterà il Partito Democratico alle prossimo elezioni europee.
E se il presidente del Consiglio sta ancora cercando di convincere Lucia Annibali, l’avvocatessa sfregiata dal suo ex compagno nell’aprile del 2013, affinchè si schieri nella fila del Partito Democratico come capolista nell’Italia centrale, è praticamente fatta per gli altri.
Come riporta l’Unità , infatti, per il Nord Est il capolista sarà l’ex ministro dell’Agricoltura, Paolo De Castro, molto vicino a Romano Prodi; Stefano Boeri sarà il rappresentante del Nord Ovest, David Sassoli quello del Centro, Annibali permettendo.
Il sindaco di Bari Michele Emiliano per il sud mentre è ancora in forse il sindaco di Lampedusa, Giusy Nicolini, per le isole.
Tanti poi i nomi noti, oltre a Marco Tardelli. Fra le candidature siciliane, infatti, spicca il nome di Caterina Chinnici, figlia del magistrato Rocco ucciso dalla mafia nel 1983, magistrato anche lei. E ancora Sonia Alfano. In Emilia Romagna, invece, tra gli altri anche Cecile Kyenge, ex ministro dell’integrazione nel Governo Letta.
A scorrere le liste dei candidati alle Europee, poi, si ritrova tutta la nomenklatura del Partito Democratico: il Piemonte ha confermato Mercedes Bresso, la Liguria Sergio Cofferati, il Centro Roberto Gualtieri. In Campania torna Andrea Cozzolino, in lista Massimo Paolucci, dalemiano doc.
Mercoledì, inoltre, la direzione inoltre dovrà votare la deroga per l’uscente Gianni Pittella che sarebbe al quarto mandato.
(da “Huffingtonpost“)
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