Aprile 20th, 2014 Riccardo Fucile
I DATI UFFICIALI DI OPENPOLIS: VERDINI PRESENTE SOLO A 3 VOTAZIONI SU 4.008, QUASI SEMPRE ASSENTI GHEDINI E MATTEOLI… LA GRILLINA TAVERNA PRESENTE SOLO A 1.472 VOTAZIONI SU 4.008… MALE FORZA ITALIA (ROSSI, BONDI, SANTANCHE’, ROMANI) E NCD CON SCHIFANI E SACCONI
Noi li paghiamo e molti di loro non lavorano. Meglio, non votano.
La schiera degli assenteisti esiste in tutte le categorie professionali. Compresa quella dei parlamentari, senza voler generalizzare.
Ma, dati alla mano, più del 40% di deputati e senatori nel primo anno della XVII Legislatura è stato assente a più del 60% delle votazioni.
La classifica delle presenze dei parlamentari della Repubblica italiana è disponibile on line sul sito openpolis.it .
Il sito riporta il numero di sedute a cui ciascun singolo deputato e senatore era in Aula. Con una avvertenza: con assenza si intendono i casi di non partecipazione al voto, sia quello in cui il parlamentare è fisicamente assente (e non in missione) sia quello in cui è presente ma non vota e non partecipa a determinare il numero legale nella votazione. Purtroppo attualmente i sistemi di documentazione dei resoconti di Camera e Senato non consentono di distinguere un caso dall’altro.
I regolamenti non prevedono la registrazione del motivo dell’assenza al voto del parlamentare. Non si può distinguere, pertanto, l’assenza ingiustificata da quella, ad esempio, per ragioni di salute.
Anche per quanto riguarda le missioni, poi, bisogna tenere presente le elevate percentuali del presidente del Consiglio – l’ex premier Enrico Letta, ad esempio, è stato in missione per l’82,42% delle votazioni alla Camera – dei ministri e dei sottosegretari, con picchi che superano il 92%.
La classifica tiene quindi conto delle presenze e delle assenze nelle votazioni, ma anche se il parlamentare è stato assente perchè in missione.
Si scopre così che i più assidui frequentatori di Montecitorio e Palazzo Madama hanno in tasca la tessera del Partito democratico, mentre i più assenteisti sono stati eletti nelle liste di Forza Italia.
Qualche esempio.
Al Senato il più presente è il democratico Carlo Pegorer con il 99,98% di presenze, davanti ai colleghi di partito Federico Fornari (99,93%) e Vito Vattuone (99,58%).
I tre più assenti sono invece di FI: Denis Verdini (99,93% senza missioni: ha partecipato a 3 sole votazioni su 4.008, praticamente ogni votazione è costata ai cittadini oltre 33mila euro netti), l’avvocato di Berlusconi Niccolò Ghedini (99,73%) e Altero Matteoli.
Ai piedi del poco invidiabile podio l’ombra del Cavaliere Mariarosaria Rossi.
E ancora Giulio Tremonti – oggi al Gal – i due esponenti Ncd Renato Schifani e Maurizio Sacconi, e ancora tre senatori FI: Riccardo Conti, Sandro Bondi e il capogruppo Paolo Romani.
Il MoVimento 5 Stelle si difende: al Senato sono due i grillini nella top ten virtuosa, quella cioè dei più presenti: Roberto Cotti e Alberto Airola.
La pentastellata più assente è invece Paola Taverna, assente al 36,73% delle votazioni (1.472 su 4.008). Gli altri grillini ristagnano a metà classifica.
Discorso più o meno speculare per quanto riguarda i deputati.
A Montecitorio i più presenti, con il 100% di votazioni, sono tre parlamentari del Pd: Cinzia Maria Fontana, Giuseppe Guerini e Tino Iannuzzi.
Quarto con il 99,98% un altro deputato Dem, Marco Carra, seguito, con la stessa percentuale, da Achille Totaro, FdI-An.
Poi ancora due esponenti Dem: Mario Tullo e Giorgio Brandolin, seguono a quota 99,56% Giovanni Mottola e Rocco Palese, entrambi di FI.
Il più assenteista alla Camera è l’imprenditore eletto con FI Antonio Angelucci: 99,46% di assenze, 4.064 votazioni su 4.098, seguito da Stefano Quintarelli (Scelta Civica) e da altri quattro esponenti di FI: Marco Martineli, Piero Longo, Rocco Crimi, Daniela Santanchè.
Tra i poco presenti c’è anche l’ex segretario del Pd Pier Luigi Bersani, ottavo, ma a lungo impedito da malattia.
Daniele Di Mario
(da “il Tempo”)
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Aprile 20th, 2014 Riccardo Fucile
EATALY, SCIOPERO A BOLOGNA: “CONTINUA A ESPANDERSI, MA TENGONO MOLTI LAVORATORI PRECARI A VITA”
“Precario, licenziato senza preavviso dopo un anno di lavoro”.
Il punto vendita di Eataly a Bologna è rimasto chiuso per un’ora durante il giorno di Pasqua.
La protesta è firmata dal sindacato Filcams Cgil in solidarietà al ragazzo assunto tramite agenzia per il lavoro e lasciato a casa, secondo quanto denunciato, “senza il minimo preavviso”.
“Non ci sono motivi”, si legge in una nota di Francesco Devicienti e Sonia Ronsini di Rsu Eataly Bologna, “per cui il lavoratore non debba essere confermato se non quello di sostituirlo con un lavoratore con contratto più conveniente. Non possiamo accettare questa logica: l’azienda va bene, sul territorio sta facendo sviluppo e sta incrementando l’occupazione”.
A Bologna, l’azienda del renziano Oscar Farinetti ha appena investito sulla nuova realtà del “Mercato di mezzo” e nel 2015 aprirà “Fico”, quella che lo stesso imprenditore ha definito “una disneyland del cibo“.
Anche per questo i sindacati chiedono spiegazioni: “L’azienda ha tutte le condizioni per ridurre la precarietà che invece si mantiene. Più di venti sono gli addetti ancora assunti con contratti a termine e di somministrazione, su un totale di circa 60 addetti”.
Gli amici di Renzi assomigliano un po’ troppo ai vecchi padroni del vapore?
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Aprile 20th, 2014 Riccardo Fucile
MACELLERIA SOCIALE: “CHE DOBBIAMO ANCORA TAGLIARE?”… GLI AMMINISTRATORI LOCALI PRONTI ALLA RIVOLTA… LA STRATEGIA DI RENZI: LE MAGGIORI TASSE APPLICATE DAGLI ENTI LOCALI, COSI’ LUI RESTA PULITO
I compiti a casa sostengono di averli già fatti. Sindaci e governatori di Regione stanno cercando di capire in quale misura e con quali modalità verranno chiamati a contribuire al decreto sul bonus in busta paga.
La certezza è che il governo Renzi ha chiesto loro di individuare risparmi per beni e servizi indicando il quantum: 700 milioni di euro a carico degli Enti locali, altrettanti a carico delle Regioni.
L’ennesima sforbiciata, insomma, non gradita dai destinatari. E poco importa se il taglio non è lineare e si configura come una sollecitazione ad individuare autonomamente dove intervenire con il bisturi.
Basta sentire il sindaco di Torino, Piero Fassino, incidentalmente anche presidente dell’Anci (Associazione dei comuni) nonchè politicamente prossimo al premier Matteo Renzi.
«La manovra ha i suoi pregi, in particolare per la prima volta si restituiscono soldi ai cittadini e si riduce l’Irap, naturalmente la richiesta ai comuni di predisporre ulteriori riduzioni alle spese impone una verifica con il governo», sottolinea, «ci terrei a dire che noi la nostra parte l’abbiamo fatta volentieri e che negli ultimi cinque anni la spesa dei Comuni, a differenza di quella dello Stato centrale e delle Regioni, è diminuita».
Agevole, quindi, seguirlo nel ragionamento successivo. «I comuni italiani rappresentano il 7,6% della spesa pubblica complessiva, e il 2,5% del debito pubblico. Osservo che una ripartizione dei risparmi in misura uguale per 700 milioni ciascuno tra Stato, Regioni e Enti locali è squilibrata».
Al tavolo di verifica e confronto sul testo del decreto, che garantisce 80 euro ai lavoratori dipendenti, Fassino si riserva di sollevare un ulteriore questione.
«A carico degli Enti locali ci sono 700 milioni, di cui 340 milioni sono in capo ai Comuni. Quest’ultimo importo equivale a quanto il governo centrale deve restituire ai Comuni per gli anticipi di cassa per il mantenimento degli uffici giudiziari dello Stato».
Il sindaco di Torino immagina un meccanismo compensativo che, però, farebbe traballare i conti del decreto.
In apprensione, del resto, è anche l’assessore al bilancio del Comune di Milano, Francesca Balzani. Il leit motiv è quello di altri amministratori locali.
«Una volta ancora si chiedono interventi di riduzione di spesa a un comparto che ha già contribuito in maniera consistente.
Il dato è allarmante, basti pensare al taglio dei trasferimenti destinati al Comune di Milano. Nel 2010 erano 728 milioni, nell’ultimo rendiconto sono diminuiti a 462 milioni».
Il timore è che a farne le spese siano i cittadini. «Ai comuni, per esempio, è delegato il compito di assicurare le politiche sociali, ma, dopo anni di riduzioni di spesa, tagli e congelamenti, si rischia di non garantire alcuni servizi»
L’altra faccia della medaglia è la tentazione di un aumento delle imposte locali con delle mini manovre per mano dei municipi. Balzani ricorda il caso di Milano.
«Ci siamo trovati con uno squilibrio di bilancio di 500 milioni, una situazione che ci ha imposto di varare una manovra fiscale da 200 milioni».
Secondo il decreto voluto da Renzi risparmiare rinegoziando i contratti per i servizi e gli appalti, centralizzando gli acquisti, tagliando stipendi e smantellando le municipalizzate (da 8 mila dovranno scendere a mille), non ha alternative. O meglio, ne ha una sola, peraltro, da scongiurare: l’intervento diretto del Commissario alla spending review che predisporrà tagli lineari.
In tutti i casi il governatore del Lazio, Nicola Zingaretti, tiene a rivendicare il lavoro svolto. «Abbiamo chiuso 10 società regionali e ridotto il numero dei consiglieri di amministrazione di conseguenza. La nostra centrale unica per gli acquisti garantisce 170 milioni di risparmi. Le auto blu le abbiamo già passate al setaccio, ora costano 70 mila euro all’anno contro i 245 mila del passato».
Quello che serve secondo Zingaretti è un corredo di poteri speciali e transitori per intervenire su contratti in essere e forniture in corso. «Altrimenti ci troveremo impantanati in una lunga serie di contenziosi che rischiano di bloccare l’avvio di un circolo virtuoso».
Fassino è ancora più determinato e intende suggerire al governo una misura che imponga a tutti i comuni di non detenere oltre il 35% del capitale delle società municipalizzate. «Una scelta del genere le renderebbe vendibili, appetibili e governabili agli occhi dei privati».
Laconico il giudizio sul decreto del Venerdì Santo da parte di Alessandro Cattaneo, sindaco di Pavia. «Quale che sia il colore o l’estrazione del governo di turno, l’esito è sempre lo stesso. Essere amministratori virtuosi alla lunga è penalizzante. I soliti furbi si salvano sempre, mentre agli altri vengono chiesti continuamente sacrifici. E meno male che al governo c’è il partito dei sindaci».
A fargli eco è l’assessore Balzani, «chiedere di risparmiare a chi non ha più margini di intervento avvantaggia chi ha finora trascurato di mettere a posto i propri conti».
Andrea Ducci
(da “”il Corriere della Sera“)
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Aprile 20th, 2014 Riccardo Fucile
BERGOGLIO PREGA PER BAMBINI, DONNE E MIGRANTI… CON LO SGUARDO RIVOLTO AL VIAGGIO IN TERRA SANTA
Dopo una veglia temporalesca, il cielo di Roma si è affacciato su San Pietro terso e tirato a lucido, ma per il Papa sembrava già sera.
L’ora della Pasqua di Francesco, Pontefice refrattario alla folla e sensibile ai volti: “Io riesco a guardare le singole persone, una alla volta, a entrare in contatto in maniera personale con chi ho davanti. Non sono abituato alle masse”, confidò al confratello padre Spadaro.
Così, al momento della benedizione, l’Urbe e l’Orbe hanno lasciato il posto ai due discepoli di Emmaus, protagonisti dell’epilogo pomeridiano, descritto da Luca nel suo Vangelo.
Il mondo si è fermato in un villaggio a sette miglia da Gerusalemme. Assumendo i contorni geografici e il tratto somatico di nazioni straziate: l’Africa con i suoi demoni, anzitutto, il virus dell’ebola e quello della violenza, tribale e terroristica, efferata e incontrollabile.
A seguire, il vicolo cieco della Siria e dell’Iraq, unitamente all’ennesimo, flebile bagliore in fondo al tunnel israelo-palestinese. Infine i due crateri che rischiano di esplodere nel cuore delle Europe e delle Americhe, l’Ucraina e il Venezuela.
Come il Cristo nella locanda, il suo vicario sa tuttavia che per farsi riconoscere, alla tavola esigente dell’umanità globalizzata, non bastano gli appelli e le breaking news. Insieme alla parola di salvezza occorre spezzare il pane della concretezza: “…la buona notizia”, Bergoglio l’ha ribadito nel messaggio, “non è soltanto una parola, ma è una testimonianza di amore gratuito e fedele: è uscire da sè per andare incontro all’altro, è stare vicino a chi è ferito dalla vita, è condividere con chi manca del necessario, è rimanere accanto a chi è malato o vecchio o escluso…Venite e vedete!”
Perciò Venerdì notte, mentre il Papa ricordava “le persone abbandonate sotto il peso della croce”, il suo elemosiniere si chinava uno per uno, in tempo reale, sui clochard delle stazioni ferroviarie.
Non si capisce la Pasqua di Francesco, la più sociale e impegnata degli ultimi anni, senza questo bisogno fisico, da risurrezione dei corpi, che la tormenta, e senza lo slancio visionario, da risurrezione del mondo, che la proietta verso il prossimo appuntamento con la storia: Gerusalemme.
Sulla spinta di un sogno che si avvera, il Pontefice in effetti è partito per la Terra Santa con un mese di anticipo.
Il triduo pasquale ha offerto la pista di decollo all’immaginazione del Papa stanziale, che detesta gli aeroporti ma prende quota sulle ali della liturgia. In questi tre giorni, la chimica dei simboli ha prodotto una reazione spaziotemporale, trasfigurando momenti e luoghi e trasportandolo a Gerusalemme, “nell’oggi del Giovedì Santo”, come ha detto nella Messa Crismale, buttando lì una frase inosservata e rivelatrice.
Di conseguenza, le alture del suburbio di Casal del Marmo sono diventate per la seconda volta il Monte Sion, con i loro cenacoli fuori porta, dove la via del calvario si dirama nelle strade di periferia: dodici mesi fa il carcere minorile, quest’anno una comunità di disabili. Sentieri che si sono moltiplicati nelle meditazioni del Venerdì di Passione, in una caput mundi del dolore divino e umano, tra storia sacra e cronache contemporanee: boat people e schiave del sesso, maddalene e cirenei, bambini soldato e centurioni pentiti, stipendi d’oro e tuniche tirate a sorte.
Agli occhi di Bergoglio, nel paesaggio della memoria e nelle suggestioni antico-romane, l’Anfiteatro Flavio ha fatto tutt’uno con le mura della Città Santa, distrutte dallo stesso imperatore che, dieci anni dopo, avrebbe messo mano e dato nome al Colosseo.
Davanti a Gerusalemme, di nuovo riedificata, il Papa si trova idealmente e non smette di sostare, con il pensiero e il desiderio, dal primo giorno del pontificato. Esitando però ad entrarvi. L’epicentro della sua Pasqua infatti non si colloca in città , presso il sepolcro, e nemmeno al mattino della domenica, nell’ora e nei luoghi canonici. Francesco va oltre, trasgressivo e creativo.
Dal suo avvento sul soglio di Pietro, il Pontefice argentino ha traversato veloce la notte e l’alba, la crisi e la rinascita della Chiesa.
Ha rovesciato la pietra che la schiacciava, resuscitandola dall’ombra della morte mediatica. L’ha caricata, e gravata, dei problemi del mondo, schierandola “irrevocabilmente dalla parte delle vittime”.
L’ha sollevata, e reintegrata, sul podio della leadership, nel ruolo profetico di “Città sopra il Monte”, attore planetario e catalizzatore di speranza.
Poi però, dopo avere occupato il proscenio, è sceso al crepuscolo verso l’ostello di Emmaus, oscuro e trascurato nei percorsi dei pellegrini.
L’orizzonte del suo pontificato, pertanto, nella cornice autentica, non si coglie dalla loggia delle benedizioni, dove conquista copertine di tendenza e folle festose, ma lungo le vie secondarie, dove accosta le anime in fuga e le storie tese, inseguite dal sinedrio delle proprie paure.
La sua Pasqua non si compie a mezzogiorno, nello zenit della mondovisione, ma la sera della domenica, quando cala il sole.
Fu allora e fu lì, racconta Luca, che il Risorto avvicinò senza rivelarsi due discepoli usciti sul tardi, per non dare nell’occhio, assecondandone i passi decisi e i discorsi incerti, la frenesia del procedere e la fatica dell’argomentare.
Una icona, quella di Emmaus, che Francesco ha evocato a luglio a Rio de Janeiro, nel suo discorso più intenso e programmatico, assurto a “chiave di lettura del presente e del futuro”, nell’intento di spiegare il mistero più difficile: “il mistero della gente che lascia la Chiesa, di persone che dopo essersi lasciate illudere da altre proposte ritengono che ormai la Chiesa, la loro Gerusalemme, non possa offrire più qualcosa di significativo e importante. E allora vanno per la strada da soli, con la loro delusione. Forse la Chiesa è apparsa troppo debole, forse troppo lontana dai loro bisogni…forse prigioniera dei propri rigidi linguaggi…”
Non è la prima volta, sulla scia di una scuola millenaria, che un Papa esce dalle mura e assume il linguaggio dei lontani, barbari o intellettuali che siano, nella gradualità del dialogo e del cammino, per farsi capire da loro.
Rischiando però, di rimando, di non essere compreso dai suoi e risultare “comunista”, “relativista”, “esistenzialista”, nelle diverse e controverse stagioni storiche.
Succede agli incroci epocali e nei tramonti delle civiltà , quando il Vangelo si mischia, si unisce con il mondo e dà origine a nuove sintesi.
Ed è comunque una partita aperta, dove il mondo, dal canto suo, cerca di arruolare i pontefici nei propri panteon e promuoverli nuovi idoli: un rischio “omeopatico” che Francesco è consapevole di correre.
Ma è altrettanto cosciente che si tratta dell’unico metodo, dell’unica cura per non rimanere chiusi nel sepolcro e saltare il turno, violando il copione e rinviando la risurrezione.
“Oggi, serve una Chiesa in grado di far compagnia, di andare al di là del semplice ascolto; una Chiesa che accompagna il cammino mettendosi in cammino con la gente; una Chiesa capace di decifrare la notte contenuta nella fuga di tanti fratelli e sorelle da Gerusalemme…”
Nello sguardo immaginifico e intraprendente del Papa, dunque, le piazze dell’Urbe e dell’Orbe si spezzano e scompongono in milioni di storie individuali. Gerusalemme si svuota e fluisce in una miriade di singoli cammini. E il triduo pasquale allunga il proprio nastro fino alla sera della domenica, per poi riavvolgersi rapidamente in flashback, nell’“oggi del Giovedì Santo”: dove la Città sopra il Monte attende, paziente, l’arrivo del successore dell’apostolo Pietro, fermo all’imbrunire nel cenacolo di Emmaus, emblema della sua scommessa e frontiera del suo pontificato.
(da “Huffingtonpost“)
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Aprile 20th, 2014 Riccardo Fucile
ART. 6 COMMA 50: TAGLIO DI 30 MILIONI PER IL 2014 E DI 40 MILIONI PER IL 2015 AL FONDO DI FINANZIAMENTO DEGLI ATENEI
La prima promessa tradita dal governo Renzi è sull’università .
Non ci saranno tagli lineari, aveva più volte detto il ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini: “Questo governo ha messo al centro la scuola e il sapere”.
Ancora ieri, di fronte alle voci che rivelavano tagli alla voce università nel decreto legge varato in Consiglio dei ministri, la Giannini, neocandidata al Parlamento europeo per Scelta Europea, replicava sicura: “Non c’è alcun taglio”.
A Palazzo Chigi, ieri, il testo del decreto non era stato consegnato alla stampa.
Oggi, però, una bozza circolante tra i rettori della Conferenza delle università (porta la data, 18 aprile, e l’ora, 16,46, del Consiglio dei ministri) al comma 6 articolo 50 parla in maniera esplicita di una sottrazione di 30 milioni al Fondo di finanziamento ordinario delle università per il 2014 e di 45 milioni per ogni anno a partire dal 2015.
Il titolo dell’articolo del decreto spending è “disposizioni finanziarie” e recita: “Per l’università la razionalizzazione della spesa è assicurata attraverso la riduzione della dotazione del Fondo di finanziamento ordinario” (istituito nel 1993 e nelle ultime due stagioni in calo). Inoltre, una “razionalizzazione della spesa” generale viene assicurata attraverso una riduzione del Fondo ordinario per gli enti di ricerca, a eccezione dell’Invalsi.
In questo caso l’ammontare della “razionalizzazione” non è stata quantificata.
La Conferenza dei rettori vuole fermare la conversione in legge di questo passaggio del decreto, ma per ora tace.
Annunciano battaglia in maniera esplicita, invece, gli studenti della Link, il loro coordinamento universitario.
“I numeri prospettati nel decreto legge sulla spending review – dichiara il portavoce Alberto Campailla – parlano della chiara volontà politica di affossare definitivamente il sistema dell’università e della ricerca pubblica, in perfetta continuità con il piano di smantellamento avviato da Berlusconi e proseguito con Monti e Letta. Il rilancio del sistema della formazione e della ricerca pubblica è l’unica strategia credibile e di lungo periodo per l’uscita dall’emergenza, le affermazioni rassicuranti del ministro Giannini sono state fin qui tragicomiche. Siamo pronti a una mobilitazione generale in tutti gli atenei e negli enti di ricerca del paese”.
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Aprile 20th, 2014 Riccardo Fucile
RIDURRE LA SPESA DI 153 MILIONI SIGNIFICA RINUNCIARE A UN CACCIA USA SUI 90 TOTALI…PER DI PIÙ, PARE CHE SIA SOLO UN RINVIO ALL’ANNO PROSSIMO
Se di un taglio si tratta, è di entità assai modesta: 153 milioni di euro sono appena l’1 per cento circa rispetto ai 13 miliardi di spesa complessiva preventivati fino ad oggi per l’acquisto di 90 cacciabombardieri F 35, gli avveniristici e ultracostosi jet americani prodotti dalla Lockheed Martin.
Per avere un ordine di grandezza concreto, 153 milioni equivalgono a un solo aereo (costo attuale stimato 135 milioni) più un pezzetto di motore.
Ma non è affatto sicuro che di una riduzione vera e propria si possa parlare. È più verosimile che il governo di Matteo Renzi, nel Consiglio dei ministri di venerdì sera, abbia deciso un rinvio di spesa.
Detto in altro modo: è probabile che effettivamente nel 2014 quei 153 milioni per gli F 35 non escano dalle casse statali, ma in un secondo momento sì, presumibilmente l’anno prossimo.
In questo caso cambierebbe poco o niente da un punto di vista concreto nella spinosa faccenda dell’acquisto dei cacciabombardieri.
Di che natira sia l’intervento, se un taglietto o un rinvio di spesa, lo si saprà solo quando sarà reso pubblico il disegno di legge apposito.
Nel frattempo, però, lo scaltro Renzi porta comunque a casa un doppio risultato.
Il primo, politico e di immagine, rispetto a quella vasta parte di opinione pubblica all’interno del suo partito, il Pd, ma anche esterna, come gli elettori del Movimento 5 Stelle, contraria al programma di acquisto dei cacciabombardieri.
A tutti loro Renzi fa balenare l’impressione di aver cominciato l’operazione di riduzione tenendo fede a un impegno preso a suo tempo, quando ancora non era capo del governo e andava dicendo in giro che spendere tutti quei quattrini per dei cacciabombardieri in un momento di crisi e sacrifici come questo non aveva senso.
Il secondo risultato è di natura contabile: il governo ha bisogno subito di un po’ di soldi per finanziare l’ormai famoso incremento di 80 euro nelle buste paga dei dipendenti con stipendi inferiori a 1.500 euro al mese e la limaturina o il rinvio di spesa sugli F 35 un po’ di acqua al mulino la porta.
Le organizzazioni che da mesi si battono contro l’acquisto degli F 35 non sono affatto contente della decisione del governo.
Ne mettono in risalto la natura ambigua e la caratura modesta.
Spiega Francesco Vignarca, portavoce della campagna contro i cacciabombardieri: “Non c’è un cambio di verso con gli F 35, ma uno spostamento temporale della spesa relativa al lotto numero 10. Vengono quindi implicitamente confermati gli acquisti relativi ai lotti 8 e 9 che riguardano aerei più costosi in quanto ancora non toccati dalle promesse economie di scala. E anche meno affidabili non avendo subito quelle migliorie apportate di continuo a un progetto in perenne evoluzione che al momento sta comportando un aggravio di spesa del 70 per cento rispetto al 2001”.
Secondo il portavoce del movimento pacifista la scelta del governo è “grave soprattutto perchè politicamente inaccettabile ponendosi di fatto in contrasto con il congelamento di ogni ulteriore spesa per gli F 35 decisa nell’estate di un anno fa dal Parlamento”.
Con una mozione presentata dal gruppo Pd in commissione Difesa fu stabilito allora che ogni ulteriore impegno per l’acquisto dei cacciabombardieri fosse rinviato in attesa di una valutazione parlamentare complessiva sulle esigenze difensive dell’Italia.
Era una piccola rivoluzione copernicana perchè per la prima volta nella storia delle spese per armamenti e in particolare nella vicenda assai opaca degli F 35, il potere finale di decisione veniva spostato dal governo e dalle segrete stanze degli stati maggiori alle aule della Camera e del Senato.
Fino a quel momento per l’acquisto dei cacciabombardieri era stato seguito un percorso inverso a quello che la logica avrebbe dovuto suggerire, stabilendo che l’Italia li avrebbe comprati senza che fossero mai state esplicitate le motivazioni alla base di quella esigenza.
Dalla fine degli anni Novanta del secolo passato fino ai nostri giorni tutti i governi, di centrodestra e centrosinistra, si sono attenuti a quella scelta come fosse un assioma immodificabile.
La mozione Pd spezzava questo continuismo e allo stesso tempo consentiva al Pd di barcamenarsi tra quella parte del partito decisamente contraria all’acquisto e quell’altra parte, con il presidente Giorgio Napolitano come nume tutelare, favorevole in “omaggio agli impegni internazionali assunti”.
Daniele Martini
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Aprile 20th, 2014 Riccardo Fucile
L’EX SEGRETARIO DI STATO ABITERA’ IN 700 METRI QUADRI NEL PALAZZO A FIANCO ALLA MODESTA RESIDENZA DEL PAPA
Circa 10 volte in più, comunque, di Sua Santità .
In Vaticano, entrando dalla Porta del Perugino, la Domus Sanctae Marthae e il Palazzo San Carlo sono edifici vicini.
La prima di dimensioni ridotte, il secondo imponente. Quando Bergoglio, dopo aver osservato i complessi lavori di ristrutturazione nella struttura a fianco, è stato informato su chi sarebbe stato il suo vicino di casa, si è arrabbiato non poco.
Ora non può certo cacciare di casa l’inquilino. Ma la sua ira su chi in Curia ancora resiste al suo titanico tentativo di cambiamento non è passata inosservata il Giovedì santo prima di Pasqua quando, davanti al clero riunito in San Pietro, si è scagliato contro i preti «untuosi, sontuosi e presuntuosi», che devono avere invece «come sorella la povertà ».
La casa dove presto, prima dell’estate, il cardinale Bertone si trasferirà , ha dimensioni sontuose perchè unisce due appartamenti: quello un tempo assegnato a Camillo Cibin, capo della Gendarmeria per tutto il pontificato di Karol Wojtyla, fra i 300 e i 400 metri, da cui è stata infine sloggiata la vedova; e quello di monsignor Bruno Bertagna, vicepresidente del Pontificio Consiglio per i Testi legislativi, deceduto alla fine del 2013, di metratura intorno ai 200.
A questi metri interni vanno però aggiunti circa 100 di terrazzo
In epoca ante Francesco l’assegnazione di alloggi di tutto rispetto per i prìncipi della Chiesa era una prassi consueta. Molti ricordano quando Bertone fu scelto come Segretario di Stato da Benedetto XVI, e dovette attendere quasi un anno prima che il suo predecessore, il cardinal Sodano, piccato per la rimozione, gli lasciasse l’appartamento nella Prima loggia del Palazzo Apostolico, dovendosi così l’altro accomodare nella Torre di San Giovanni.
Sodano si trasferì poi in una casa di vaste proporzioni al Collegio Etiopico. Lì, il cardinale americano Szoka, presidente della Prefettura degli Affari Economici della Santa Sede, dimessosi dall’incarico lo stesso giorno di Sodano (15 settembre 2006), ottenne guarda caso l’appartamento gemello di quest’ultimo sempre al Collegio.
Così quando Bertone, nel vortice delle polemiche su Vatileaks e la seguente rinuncia di Benedetto XVI al pontificato, fu in odore di lasciare la Segreteria di Stato – proposito realizzato solo dopo l’arrivo di Bergoglio – e si cominciò a parlare di dove si sarebbe trasferito lasciando la casa nella Prima loggia, furono avviate le pratiche per l’assegnazione di un altro appartamento.
L’èra di Francesco è cominciata solo dopo. Ora, nella maxi casa, il cardinale non vivrà comunque solo: con lui abiteranno le tre suore che lo seguono da quando aveva assunto l’incarico di Segretario di Stato. Il suo successore, il neo cardinale Pietro Parolin, si è conformato al nuovo corso di Bergoglio, andando ad abitare come il Papa in un bilocale nella Domus Sanctae Marthae .
L’assegnazione di appartamenti di ampia metratura agli ex Segretari di Stato, tuttavia, mostra con evidenza come in Vaticano il nuovo fatichi ancora ad avanzare, e il vecchio resista.
Facile capire dunque il disappunto di Francesco, e l’opposizione di una Curia lenta a spogliarsi degli antichi privilegi.
A meno che il Papa «venuto dalla fine del mondo» non prenda posizione, oltre le parole già pronunciate contro «i preti sontuosi».
Marco Ansaldo
(da “La Repubblica“)
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Aprile 20th, 2014 Riccardo Fucile
L’EUROPA GUARDA CON SOSPETTO LE MOSSE DEMAGOGICHE DEL PREMIER, SOPRANNOMINATO “SILVIO RENZI”
Renzi , il campione dei tweet e delle slide, sa che niente funziona meglio di un testo conciso e concreto per dare l’idea del cambiamento. Non è dunque stata piccola a Bruxelles la sorpresa, la settimana scorsa, quando l’atteso “Piano nazionale di riforme” dell’Italia è atterrato nella poco renziana taglia di 700 pagine.
I casi sono due, ci si è detti nei corridoi comunitari.
O sarà impossibile attuare tutti quei propositi, anche con un mandato elettorale e una maggioranza in parlamento più chiari di quelli di Renzi.
Oppure dietro al piano italiano non c’è convinzione, ma solo la fretta di sbrigare un’incombenza europea copiando e incollando vecchi testi.
Senza cambiare verso, senza dargliene uno. Senza riforme credibili, benchè vengano accampate per rinviare la correzione dei conti pubblici.
L’impressione a Bruxelles è stata spiazzante e gli indizi del crescente sospetto con cui dal resto d’Europa si guarda all’Italia iniziano ad affiorare.
Lo si è visto nei giorni scorsi, quando Pier Carlo Padoan ha scritto al vicepresidente della Commissione europea Siim Kallas. Quella del ministro dell’Economia era una lettera con una piccola dose di esplosivo, perchè per la prima volta un Paese annuncia ufficialmente che non rispetterà i vincoli di bilancio del Fiscal Compact nuovi di zecca.
Il pareggio di bilancio “strutturale” (comunque un deficit reale) slitta già dal 2015 al 2016. Al ministro Padoan, rango politico nel governo, Kallas non ha neppure risposto da pari a pari: gli ha fatto scrivere da Marco Buti, funzionario a capo della direzione economico-finanziaria.
E anche la lettera di Buti contiene un congegno detonatore, perchè annuncia che la Commissione Ue risponderà alla richiesta dell’Italia “il due giugno”.
Subito dopo le elezioni europee, giusto per non turbare la campagna elettorale.
Nel frattempo però la Commissione si è fatta dare i poteri di chiedere correzioni ai governi già in luglio, non appena sarà insediata la nuova squadra di Bruxelles
Per il governo Renzi non sarà una passeggiata
Il premier si è convinto – lo dice in privato – che per l’Europa oggi “il problema è la Francia, non l’Italia”. Eppure nel rapporto con Bruxelles e le capitali che contano qualcosa no funziona.
È come se le comunicazioni fossero regredite a livello quasi solo formale. Il terreno per la lettera di Padoan, malgrado il suo forte impatto, è stata preparato solo da una chiaccherata dello stesso ministro a Washington durante gli incontri del Fondo monetario. Non ci sono quasi altri canali di vero dialogo con l’Europa se non lui, che però è bloccato sui suoi compiti al Tesoro e comunque a Washington la scorsa settimana ha percepito il sospetto dei colleghi riguardo piani del governo.
Nè aiuta che Carlo Cottarelli, un’altra figura molto nota all’estero, abbia palesemente rapporti difficile con il premier.
In qualità di commissario alla spending review, Cottarelli avrebbe dovuto trasferirsi dal Tesoro a Palazzo Chigi già da settimane, a credere agli annunci. Poi però non l’ha mai fatto.
Questi segnali in Europa non sfuggono. A Parigi, Berlino e Bruxelles è ormai unanime la convinzione che quella sul bonus da 80 euro sia poco più di uno zuccherino elettorale.
Non parte di una strategia coerente per rimettere l’Italia in condizioni di crescere dopo un ventennio di stagnazione e crollo dell’economia.
Fra i funzionari della cancelleria tedesca il premier è stato soprannominato “Silvio Renzi”, in Germania è una sorta di anatema.
Ai vertici delle strutture francesi c’è chi si riferisce a lui come “un furbetto” e un “florentin”, fiorentino, cioè un operatore machiavellico: così veniva definito anche il presidente Franà§ois Mitterrand, ma senza il clichè di inaffidabilità italiana che Renzi chiaramente evoca
Possibile che al premier non dispiaccia essere un po’ in freddo con l’Europa: Mario Monti, Franà§ois Hollande a Parigi o George Papandreou in Grecia hanno già dimostrato come buoni rapporti con Bruxelles possono costare voti a casa. Ma è una strategia con alcuni rischi concreti. Non c’è solo il calendario del Fiscal Compact, per quanto esso sia stringente: in estate l’Italia rischia una bocciatura sul piano di riforme e il rinvio del pareggio, che può obbligarla a rivedere la manovra; e in autunno rischia una procedura per debito o deficit eccessivo che, con il Fiscal Compact, diventa di fatto una messa sotto tutela.
Poi c’è una partita anche più seria. In settimana alla Banca centrale europea si sono definiti i criteri con cui le banche saranno sottoposte in estate agli stress test, le “prove di sforzo”. Fra gli istituti 15 sono italiani. L’obiettivo di fondo è vedere quanto le banche possono resistere a un’altra crisi sui titoli di Stato, di cui le aziende di credito in Italia hanno pieni i bilanci. Se dopo gli “stress test” l’Europa chiederà di rafforzare il capitale delle banche oltre quanto può dare il mercato, il governo dovrà fornire le risorse. Chi ha tassato le banche per dare 80 euro ai cittadini, presto può dover tassare i cittadini per dare decine di miliardi alle banche.
Non è un’ipotesi peregrina: più un Paese attrae sfiducia, più l’esame sulle sue banche sarà severo e il risultato negativo.
Ascoltare un po’ di più l’Europa può costerà anche dei voti, ma può anche far risparmiare parecchi soldi agli italiani.
Federico Fubini
(da “La Repubblica”)
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