Aprile 7th, 2014 Riccardo Fucile
DALLE PRIME LEGGI DEGLI ANNI ’90 AGLI ANNUNCI DI RENZI, UNA LUNGA SERIE DI PROGETTI FALLITI
Per riassumere 20 anni di storia basta poco: una serie infinita di annunci, tentativi falliti, scarsissimi risultati.
Una storia fatta essenzialmente di proclami, quella delle dismissioni del patrimonio immobiliare dello Stato.
La vendita in blocco di palazzi, caserme, fari e terreni di proprietà pubblica è stata indicata da ogni governo come la panacea per fare cassa e contrastare l’aumento del debito pubblico.
L’ultima a rilanciare l’idea è stata il ministro Pinotti: “Siamo pronti a vendere 385 tra caserme e presidi”, spiegava il 16 marzo la titolare della Difesa.
Ma i tempi della burocrazia, procedure farraginose e un mercato immobiliare paralizzato dalla crisi rendono l’impresa quasi disperata: nonostante le promesse di vendite miliardarie fatte dai vari governi, negli ultimi 5 anni il Demanio ha dismesso beni per soli 660 milioni.
Dalle prime leggi degli anni ’90 agli ultimi annunci del governo Renzi, le dismissioni hanno inanellato una lunga serie di progetti falliti, società di gestione aperte e subito chiuse, richiami della Corte dei Conti, beni conferiti e mai finiti sul mercato o rimasti invenduti.
Negli ultimi 10 anni le vendite degli immobili degli enti alle aste pubbliche sono andate a picco: se nel 2003 il 60% si era concluso con una vendita, nel 2012 la percentuale era scesa al 17%.
Con i prezzi che sono crollati e i costi di gestione che sono lievitati, finendo per gravare ulteriormente sul debito.
CASERME, ANNI DI ANNUNCI E DIETROFRONT
Con l’Ue che pressa perchè l’Italia riduca il debito, il governo è tornato a parlare di dismissioni e l’ultima moda sono le caserme.
Nessuno ci è riuscito per anni, eppure la Pinotti vuole “mettere a punto entro un mese uno strumento anche normativo che consenta di dare velocità a queste cose”.
Ma sul tema il governo ha fatto già diversi dietrofront in pochi mesi. Maggio 2011: il ministero della Difesa invita gestori di fondi real estate a partecipare a una gara per la creazione di uno o più fondi di sviluppo in cui sarebbero state apportate le caserme da dismettere.
Il bando viene pubblicato a dicembre, ma già il 4 giugno 2012 la Difesa sospende la gara per 6 mesi per la”mancanza di un piano definito di valorizzazione delle caserme”. Sei mesi dopo, il 25 gennaio 2013, il ministero revoca il bando. A maggio il ministro Mauro spiega: “Le dimissioni si faranno quando miglioreranno le condizioni”. Improvvisamente, però, a novembre le condizioni sono migliorate: siamo “pronti ad attingere all’immenso patrimonio immobiliare per fare cassa, dismettendo palazzi e caserme”, annuncia Mauro il 18 novembre.
Forse non è un caso che soli 3 giorni prima, il 15 novembre, era arrivato un duro richiamo della Commissione Ue, che bocciava la legge di Stabilità e bacchettava l’Italia: “C’è il rischio — scrive l’esecutivo — che, con i piani correnti, la regola della riduzione del debito non sarà rispettata nel 2014″ (leggi) .
ASTE DESERTE E SVALUTAZIONI
Ma quante caserme ha venduto lo Stato? Poche e tutte piccole.
“Il primo passaggio di caserme avvenne nel 2007 — spiegano dall’Agenzia del Demanio — quando circa 400 beni da dismettere per un valore nominale di 2 miliardi passarono dalla Difesa al Demanio civile, incaricato di prepararle per la vendita, ovvero fare i cambi di destinazione”.
Una ventina di questi beni (ma solo di piccolo taglio, le caserme delle grandi città non rientravano nel novero) sono arrivati sul mercato nel 2010, ma le aste non hanno dato grandi risultati: “Se alcune piccole strutture sono andate a privati per pochi milioni (ad esempio la Gnutti di Brescia per 9,1 milioni, la Minghetti di Bologna per 3,8 milioni, la Scotti di Bergamo per 2,5 milioni, la Flores a Bergamo per 1,1 milioni), le più grandi come la Sani di Bologna (del costo originario di 42 milioni) e la Piave di Albenga (40 milioni) dopo 3 aste sono rimaste invendute”.
Fino a fine 2013, quando sono state acquistate con altri 32 immobili da Cassa Depositi e Prestiti, ovvero dallo Stato con i soldi dei correntisti. E sono di fatto rimaste in pancia allo Stato.
I prezzi? Crollati: la Piave è venuta via per 28 milioni; per la Sani, la Masini e la Mazzoni di Bologna ne sono bastati in tutto 50.
Un’operazione di rientro dal deficit da 490 milioni, conclusa in extremis il 31 dicembre 2013 per evitare di sforare il tetto del 3%.
Un’operazione di puro maquillage finanziario che in un sol colpo ha risollevato le sorti delle dismissioni operate dal Demanio, crollate dai 137 milioni del 2009 agli 11,9 del 2012.
Altro che miliardi: nonostante tutti gli annunci, negli ultimi 5 anni il Demanio ha dismesso beni per soli 660 milioni.
BNP PARIBAS REAL ESTATE: “LO STATO NON VUOLE VENDERE”
I grandi investitori ai proclami ormai non credono più: “Sono 20 anni che il mercato ascolta annunci più o meno ambiziosi — spiega al fattoquotidiano.it Cesare Ferrero, country manager di Bnp Paribas Real Estate — e poi fa poco o nulla. Per mia regola non compro mai da chi non vuole vendere, e in questi anni l’ho capito: lo Stato non vuole vendere”.
Perchè? “Innanzitutto prima di fare annunci al vento bisogna preparare gli immobili, ovvero predisporre tutti gli atti, i documenti e le autorizzazioni necessarie. Mettere cioè il compratore in condizione di mandare subito i muratori per iniziare i lavori. Perchè dovrei comperare una caserma per poi non sapere quando posso entrarci, dato che per avere il cambio di destinazione d’uso servono anni? Una volta c’era la liquidità , oggi nessuno si assume il rischio di aspettare che la macchina amministrativa si muova”.
Ma esiste un mercato per le caserme della Pinotti?
“Il mercato c’è quando l’interlocutore vuole vendere davvero: lo Stato deve dirci, cioè, con precisione cosa vuole dismettere, quando e in quanto tempo riusciamo a prendere possesso degli immobili. Quindi in questo momento il mercato non c’è”.
La fotografia l’aveva scattata il 18 marzo, due giorni dopo l’annuncio del ministro, il Capo di Stato Maggiore della Difesa, l’ammiraglio Luigi Binelli Mantelli: “Le caserme ci sono, è il mercato che non c’è”.
DUE DECENNI DI TENTATIVI
Il patrimonio immobiliare pubblico ammonta a 340 miliardi.
Sono 20 anni che lo Stato dice di volerlo vendere.
Il primo tentativo vero è contenuto nella legge 35/1992. La società veicolo è Immobiliare Italia, nata nel 1993. Ma le procedure sono complicate, Immobiliare Italia non diviene mai operativa e 5 anni dopo il progetto viene abbandonato. Nel 1996 ci prova il governo Prodi: la legge 662 nomina una commissione con il compito di classificare i beni da valorizzare.
Ma la disciplina per la sottoscrizione dei fondi è troppo complessa e il processo si arena subito. La Commissione non riesce nemmeno a censire i beni perchè i dati forniti dalla Sogei, la società informatica del ministero delle Finanze, sono incompleti. “Il panorama è quello di un’amministrazione che spesso ignora il valore di ciò che amministra”, scrive la Corte dei Conti nel 1998. Nel 2002 nasce Patrimonio Spa, che dopo 9 anni di flop viene messa in liquidazione a luglio 2011.
E PROMESSE DI INCASSI MILIARDARI
Negli ultimi anni la gara è chi la spara più grossa.
Nell’aprile 2010 Tremonti metteva in vendita i fari, da trasformare in resort di lusso. Idea rilanciata nell’agosto 2011. Due mesi dopo il prof torna alla carica e pensa a cessioni per “25-30 miliardi”. A luglio 2012 il ministro Grilli promette “vendite per 15-20 miliardi l’anno, pari all’1% del Pil”. Non manca all’appello nemmeno il governo Letta: nel luglio 2013 trapela un piano firmato da Renato Brunetta per tagliare il debito di 400 miliardi in 5 anni che prevede anche la vendita del patrimonio non strategico.
L’ultima puntata della telenovela è del 13 ottobre 2013, giorno in cui diventa operativa Invimit, società di gestione che si occuperà della vendita delle caserme.
“E anche le valorizzazioni sono difficili — spiega Maurizio Cannone, direttore della rivista specializzata Monitor Immobiliare — gli enti locali possono chiedere la cessione di beni in disuso, ma entro 3 anni devono dimostrare che il valore degli immobili è cresciuto altrimenti li perdono. E gli enti, che hanno sempre meno risorse, il rischio non se lo prendono”.
CARTOLARIZZAZIONI, NAUFRAGIO PAGATO DALLO STATO
L’unica dismissione in blocco effettivamente avviata fu un’operazione di finanza creativa firmata da Giulio Tremonti.
Con la legge 410/2001 il governo Berlusconi fa sì che i 7 enti previdenziali pubblici (Enpals, Inail, Inpdap, Inpdai, Inps, Ipost e Ipsema) cedano 27.500 immobili ad una società veicolo privata, la Scip (Società di Cartolarizzazione di Immobili Pubblici), che anticipa al Tesoro un corrispettivo ricavato dall’emissione di obbligazioni (garantite dal valore degli stessi beni in vendita, quindi dallo Stato) e poi rimborsa gli investitori con il ricavato della vendita degli immobili.
Viene offerto al mercato per 3,5 miliardi un patrimonio valutato 5,1 miliardi e vengono emessi bond per 2,3 miliardi. Le vendite vanno bene e consentono di rimborsare i titoli alle scadenze previste, l’ultima a dicembre 2003: nel 2008 il saldo di cassa è di 1,4 miliardi. Nel 2002, sull’onda dell’entusiasmo, viene costituita Scip 2, cui vengono affidati 62.800 immobili, per un totale di 7,8 miliardi: la società emette titoli per 6,6 miliardi. Le vendite però vanno male, a più riprese la società non riesce a rispettare le scadenze.
A fine 2008 si registrano incassi pari al 66,5% del previsto. Finisce con un bagno di sangue e a pagare è lo Stato: nel 2009 il ministro dell’Economia certifica un buco da 1,7 miliardi che finirà a carico del bilancio pubblico, liquida la Scip 2 e gli enti si riprendono 28.000 appartamenti rimasti invenduti.
LE BACCHETTATE DELLA CORTE DEI CONTI: “RISCHIO SVENDITE”
Il 20 giugno 2012, 6 giorni dopo che il governo Monti era tornato a parlare di dismissioni e a 6 mesi dal decreto Salva Italia che ne ridisciplina le procedure, il presidente aggiunto Raffaele Squitieri riferisce in Parlamento e avverte: “Il rischio è quello di una svendita per un patrimonio che è inestimabile”.
Ma negli anni i richiami sono stati continui. Nel 2006, in piena bufera Scip 2, nel documento “Analisi dei risultati delle cartolarizzazioni” la Corte dei Conti condanna la “scarsa trasparenza” del piano elencandone i motivi: “La ristrettezza dei tempi di organizzazione e di attuazione delle operazioni”; “la disorganicità e la scarsa flessibilità della normativa”; “la carenza di capacità gestionali delle pubbliche amministrazioni”; “i limiti dei sistemi interni di controllo strategico e gestionale”, si legge a pagina 33.
La sentenza su Scip 2 arriva nel 2008: “Un ambizioso progetto rimasto incompiuto — scrive la Corte nel giudizio sul rendiconto generale dello Stato — che ha conseguito risultati più che modesti”. Ma che ha fatto la felicità delle banche: Abn Amro, Bnl, Jp Morgan e Citigroup per Scip 1 e Banca Imi, Deutsche Bank, Intesa e Lehman Brothers per Scip 2. I costi operativi? Oscillano dagli 850 milioni indicati dalla Corte agli 1,3 miliardi conteggiati dal “Coordinamento nazionale inquilini immobili di pregio”.
ASTE PUBBLICHE, DIECI ANNI DI CROLLO: “IL MERCATO E’ FERMO”
Al di là delle grandi dismissioni orchestrate dallo Stato centrale, quelle piccole fatte da Regioni, Province, Comuni ed enti pubblici continuano.
Ma neanche queste vanno bene.
Secondo i dati contenuti in un report pubblicato nel 2014 dal Consiglio Nazionale del Notariato, tra il 2003 e il 2012 le vendite all’asta di immobili messi sul mercato dai 7 enti pubblici sono letteralmente crollate: se nel 2003 il 60% delle aste pubbliche si era concluso con una vendita, nel 2012 la percentuale era scesa al 17%.
“Un calo ancora peggiore del calo delle normali trattative — spiega Roberto Braccio, consigliere del Consiglio Nazionale del Notariato, responsabile del progetto Ran, una piattaforma web dedicata alle aste telematiche lanciata per sbloccare il settore delle aste giudiziarie — se nello stesso periodo gli atti di compravendita del settore residenziale nazionale sono diminuiti del 42%, le aggiudicazioni nelle aste degli enti sono precipitate del 72%”.
Il motivo? “Il mercato è fermo, i capitali non ci sono le dismissioni in blocco non funzionano più”.
IMMOBILI DEGLI ENTI, LE USCITE SUPERANO LE ENTRATE
Amministrare il patrimonio immobiliare costa.
L’Inps, ad esempio, possiede più di 25 mila immobili per 3,2 miliardi: tra il 2008 e il 2012, ha calcolato Il Sole 24 Ore, il rosso di bilancio della gestione immobiliare è stato di 380 milioni. Eppure con un patrimonio immobiliare così cospicuo ci si attenderebbe che gli incassi degli affitti portino in cassa risorse consistenti. Invece avviene l’esatto contrario: secondo il quotidiano, nel 2010 la gestione immobiliare dell’istituto «ha chiuso con 55 milioni di rosso, l’Inps ha incassato affitti per 34 milioni.
Ma tra manutenzione, spese e tasse sono usciti dalle casse 64 milioni, quasi il doppio delle entrate». Il colpo di grazia lo ha dato la tassa sugli immobili: “Nel 2012 su ben 272 milioni di perdite l’Imu ha contribuito per ben 217 milioni”.
VACIAGO: “A LONDRA HANNO VENDUTO L’AMMIRAGLIATO IN CINQUE GIORNI
“Come si fa a vendere immobili pubblici che non esistono perchè non risultano nemmeno accatastati?”, domanda Giacomo Vaciago, economista, tra il ’96 e il ’98 presidente della Commissione del ministero delle Finanze per la dismissione degli immobili.
La Corte dei Conti dà ragione al professore: “Mancano del tutto i dati riferiti a estensione in mq — scrivono i giudici nel 1998 sui dati forniti da Sogei nel tentativo di censimento dei beni valorizzabili fatto dal governo Prodi — delle pertinenze, delle eventuali indizione d’asta (…). Sono quasi sempre assenti (nel 90% o più dei casi) precedente utilizzazione, destinazione piano regolatore (…)”.
Persino il “codice fiscale dell’acquirente”. “E’ inutile far finta di essere la Germania — prosegue Vaciago — nel 2012 il Regno Unito ha venduto in 5 giorni il palazzo dell’Ammiragliato, su Trafalgar Square, a Londra: diventerà un hotel di extralusso. Quando lo faremo anche noi saremo un paese civile”. Cosa ci manca? “Bisogna stabilire con chiarezza chi fa cosa e definire le responsabilità .
Come si fa a dire di voler dismettere se oggi per vendere un solo immobile bisogna interessare 5 livelli di governo?”
La ricetta: “Bisogna parlare l’inglese, ovvero rivolgersi ai mercati internazionali ma soprattutto uscire dalla logica della burocratizzazione”.
Gli annunci, intanto, si susseguono: “Così il debito cresce e il valore degli asset continua a calare”.
Marco Quarantelli
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Aprile 7th, 2014 Riccardo Fucile
LO STATO HA CASE PER 281 MILIARDI E PAGA 1 MILIARDO IN AFFITTI
Lo Stato italiano è fra i più grandi (e incapaci) gestori al mondo di case, palazzi, caserme, “fabbricati rurali”, “opere destinate al culto”.
La Ragioneria Generale stima che questo patrimonio in mattoni abbia un valore che, unica eccezione in Italia, cresce in modo esplosivo nonostante la nostra lunga recessione: valeva 128 miliardi di euro nel 2008, più che raddoppiati a 281 miliardi nel 2012.
Tolti, ovviamente, i beni artistici o archeologici.
Una fortuna, solo questa, superiore a quella (cumulata) dei cinque uomini più ricchi del pianeta: gente come Bill Gates, Carlos Slim o Warren Buffett.
Positivo, no? No.
Perchè soltanto lo Stato centrale “butta” ogni anno oltre un miliardo di euro per pagare gli affitti di sedi e di uffici.
Ma anche perchè nemmeno Palazzo Chigi, cioè il governo, o lo stesso Demanio “confessano” al Tesoro le proprietà che controllano, così che a nessuno salti in mente di provare a risparmiarci sopra qualcosa. Opacità .
Così il mattone di Stato rischia di trasformarsi in un incomprensibile segreto di Stato. O più precisamente ancora, in un segreto fra le varie branche dell’amministrazione dello Stato.
Possibile? A dire il vero, tutto era partito con le migliori intenzioni.
Negli ultimi anni il Tesoro ha avviato un’indagine sul patrimonio della pubblica amministrazione.
Si legge nell’ultima edizione, pubblicata (molto in sordina) un paio di mesi fa: «La conoscenza sistematica e puntuale degli attivi del patrimonio pubblico rappresenta un elemento indispensabile per orientare le decisioni di politica economica», cioè per la «valorizzazione» e la «redditività ».
E ancora: «La gestione efficiente del patrimonio pubblico può svolgere un ruolo importante per il contenimento del deficit e la riduzione del debito pubblico». Di lì il censimento: a tutte le amministrazioni è stato chiesto di registrare i propri beni al sole, immobili e terreni, su un portale del Tesoro.
Di fronte a obiettivi del genere, ci sarebbe da aspettarsi un’adesione di tutti o quasi. Peccato che non sia successo.
Informa lo stesso ministero dell’Economia che il 40% delle pubbliche amministrazioni non ha ancora comunicato l’ammontare del proprio patrimonio immobiliare.
Non l’ha fatto Palazzo Chigi, se non per il 10% degli uffici coinvolti; l’hanno fatto solo in parte gli altri organi di rilievo costituzionali. Lo stesso Demanio ha omesso di notificare al Tesoro buona parte di quello che sa dei propri palazzi e dei propri terreni, malgrado che sia proprio il ministero dell’Economia a controllarlo.
Gli ultimi dati disponibili dicono che l’ha fatto solo il 43% delle amministrazioni centrali (il 100% dei ministeri e delle quattro Agenzie fiscali e il 40% delle altre amministrazioni), il 59% degli enti locali (l’85% delle Regioni, il 95% delle Province, il 64% dei Comuni, il 96% delle Università ) e il 100% degli enti previdenziali (ormai sono rimasti solo l’Inps e l’Inail).
L’80% degli immobili è stato comunicato dalle amministrazioni locali, in particolare dai Comuni che possiedono circa il 73% del totale.
Alcune delle omissioni più vistose vengono invece dalla Presidenza del Consiglio (ferma al 10% di aggiornamento dei dati), dall’Automobil Club e dagli Istituti Autonomi Case Popolari.
Insomma molti sembrano più gelosi dei propri averi che smaniosi di ridurre deficit e debito. Altro che trasparenza.
La pubblica amministrazione italiana continua a adorare l’opacità , i chiaroscuri dietro i quali possono proseguire inefficienze, clientele, abusi, sprechi. E dire che comunicare le proprie proprietà al dipartimento del Tesoro sarebbe stato un obbligo di legge: articolo 2, comma 222, periodi undicesimo e seguenti della 191 del 2009. Norma scritta dal governo e dal governo violata, come altre volte.
Uno Stato reticente. Che non paga nemmeno l’affitto in molti casi.
Uno Stato, infatti, scandalosamente moroso: solo nel bilancio dell’Inail (l’Istituto nazionale delle assicurazioni), con un ingente patrimonio di immobili da 4 miliardi di euro, mancano ogni anno all’appello circa 30-40 milioni di euro (erano oltre il doppio qualche anno fa) per canoni di locazioni da parte dei ministeri o altri uffici pubblici. Così che ogni anno l’Istituto deve presentare una diffida per evitare che il tutto cada in prescrizione.
Non è una partita di giro, visto che l’Inail è pubblico: è, piuttosto, uno spreco di risorse pubbliche, mentre da anni per far quadrare i conti si ricorre ad un incremento progressivo della pressione fiscale sui cittadini e le imprese, o a tagli lineari che colpiscono anche i servizi sociali.
Le cartolarizzazioni inventate da Giulio Tremonti non sono servite a molto.
Le articolate operazioni di finanza creativa (da Scip 1 a Scip 2) hanno messo sul mercato quote del patrimonio immobiliare pubblico, adottato il meccanismo del “vendi e riaffitta”, salvo poi clamorosi ripensamenti che di fatto costringono ora enti come l’Inail, forte di una imponente disponibilità di cassa, ma anche l’Inps, a ricomprare immobili ceduti dallo Stato: dalle caserme (per esempio quelle dei carabinieri a Roma a piazza del Popolo, in Via Panisperna o ancora quella di Piazza San Lorenzo in Lucina) a palazzo di pregio o funzionali all’attività istituzionale (la prefettura dell’Aquila finita nel portafogli di Beni Stabili).
Anche perchè – lo prevede la legge – gli affitti degli enti ad altri soggetti della pubblica amministrazione devono essere scontati del 30%. Pubblico sembrerebbe meglio, in questo caso, del privato o comunque meno costoso.
Per quanto – ha scritto Edoardo Reviglio, chief economist della Cassa depositi e prestiti – «la gestione degli immobili pubblici è caratterizzata in genere da alti costi di gestione ordinaria e straordinaria, stimati in media dalle 2 alle 3 volte superiori a quelli di mercato».
Stime private, parallele a quella della Ragioneria, indicano che il valore totale del patrimonio immobiliare pubblico sia intorno ai 400 miliardi di euro.
L’Istituto Bruno Leoni ha calcolato che il valore degli immobili pubblici «potenzialmente liberi», quindi non necessari ai fini istituzionali nè affittati ad altri, ammonti a 42 miliardi di euro, più di 2,5 di Pil. Sono cifre enormemente più grandi di quei dieci miliardi che servono per tagliare l’Irpef che pesa sulle buste paga dei lavoratori dipendenti.
Nel dettaglio, la pubblica amministrazione italiana, o meglio quel 60% che ha rispettato l’obbligo della comunicazione, possiede 1,5 milioni di immobili, probabilmente più di chiunque altro (salvo forse lo Stato francese).
Emergono dall’indagine del Tesoro 634 mila unità immobiliari, per una superficie complessiva di oltre 300 milioni di metri quadri.
Uno spazio immenso al quale vanno aggiunti 875 mila terreni per una estensione di circa un milione e 700 mila ettari.
Eppure, nonostante questi numeri, lo Stato, i suoi organi costituzionali così come gli enti locali dei diversi livelli affittano gli uffici. Se ne va poco più di un miliardo ogni anno sotto la voce canoni di locazione solo per lo Stato centrale. Uno dei più grandi immobiliaristi al mondo va in affitto.
Peraltro, alle stime più recenti della Ragioneria, di questo miliardo speso in affitti solo dai ministeri ben 176 milioni vengono spesi contraendo “debiti fuori bilancio”: non ci sono i soldi stanziati, ma una certa amministrazione continua a stare in affitto spostando gli t agli anni successivi.
Del resto l’esempio viene all’alto, con la Camera dei deputati ha firmato con l’imprenditore Sergio Scarpellini un contratto-capestro (a nulla alla fine sono valsi i tentativi del M5S di abrogarlo) per affittare per nove anni, rinnovabile per altri nove, senza possibilità di recesso, alcuni palazzi nel centro di Roma da destinare ai parlamentari. Il tutto per oltre 20 milioni l’anno.
Con la spending review in corso, il commissario Carlo Cottarelli, ha indicato un obiettivo rigoroso: scendere nell’arco di quattro anni da un miliardo di spesa per affitti a 80 milioni. Una riduzione del 92,7%.
Ci sarà la volontà di farli, fra burocrati e politici? Solo per dare un’idea della portata dei progressi in corso, nell’ultimo anno il calo del monte locazioni è stato di circa lo 0,1%. Forse lo 0,2%.
Di qui al 92,7% la strada non si presenta breve nè in discesa.
Soprattutto se lo Stato immobiliarista continua a privilegiare l’opacità .
Federico Fubini e Roberto Mania
(da “La Repubblica”)
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Aprile 7th, 2014 Riccardo Fucile
IL NUOVO LIBRO DI ENRICO DEAGLIO: L’INTERVISTA ALL’AUTORE
Enrico Deaglio è un giornalista italiano di lungo corso.
Nella sua carriera ha raccontato alcuni dei passaggi più importanti della storia italiana recente. E’ stato cronista, direttore di settimanali, autore e ideatore di trasmissioni televisive, documentarista e scrittore di libri di successo.
Nonostante ora si definisca un “anziano, prevenuto e amareggiato” non ha perso il vizio del buon giornalista: indagare la realtà .
Nel suo ultimo libro “Indagine sul ventennio” (Feltrinelli, pp215, 15 euro) ha deciso di accendere i riflettori su qualcosa che lui stesso definisce come “un pasticciaccio brutto”: il ventennio di Silvio Berlusconi.
Analisi e racconti corredati da interviste inedite a politici (Prodi), giornalisti (Lerner), scrittori (Saviano e Sofri), psicologi (Recalcati), giovani studenti.
Deaglio torna, lui che fu tra i primi a farlo nel ’94 con Besame Mucho.
Diario di una anno abbastanza crudele, a occuparsi dell’ex Cav.
Nell’anno in cui l’epopea di Silvio fa venti: dalla discesa in campo (gennaio 1994) alla vicenda della condanna definitiva per frode fiscale e la conseguente decadenza dal Senato (fine 2013).
Un ventennio raccontato attraverso fatti e personaggi, di alcuni di questi l’autore ne ripercorre le gesta in una graffiante appendice, protagonisti di queste due decadi. Deaglio aggiunge all’analisi di ciò che è stato (ed è conosciuto) un elemento nuovo. Nell’ultimo capitolo del libro infatti pubblica alcuni estratti di un riservatissimo rapporto sui risultati investigativi dell’operazione Oceano.
Rapporto che la Direzione investigativa antimafia, pochi mesi prima del voto del marzo ’94, fece arrivare sulle scrivanie di quattro procure italiane.
Un testo di 70 pagine in cui si esaminava lo stato delle indagini sulle stragi del 1992 e del 1993. Proprio le bombe e i morti, secondo la Dia, furono un formidabile volano per la ripresa di quella “strategia del colpo di stato” che aveva come obiettivo lo spostamento a destra dell’assetto politico italiano dopo Tangentopoli.
Deaglio, lei pubblica in anteprima nel libro un rapporto della Dia sull’operazione Oceano. Perchè quelle 70 pagine sono così importanti
Perchè quel documento ci racconta come la Mafia all’inizio degli anni ’90 avesse rapporti non solo con la politica ma anche con il mondo finanziario. Adesso può sembrare normale ma detto 20 anni fa, quando di finanza poco o nulla si sapeva, rappresentava un fattore di novità forte. Legami e affari che la malavita organizzata già a quei tempi intrecciava con i grandi gruppi imprenditoriali del paese. Nel rapporto è scritto chiaro: ‘quel nodo bilaterale (mafia, politica) prevalente potrebbe diventare trivalente così da coprire per intero quella realtà che, in gran parte nascosta attraversa i vari settori della vita del nostro paese’.
Negli estratti non vengono fatti nomi però. Lei pensa che potessero essere coinvolti personaggi di peso dell’imprenditoria italiana
Credo di si. Bisogna specificare che quello che pubblico io è il rapporto di un’indagine molto più complessa nella quale probabilmente alcuni nomi vengono fuori. Certo è che a inizio ’94 alcune procure avevano posto più di un focus sui grandi gruppi imprenditoriali italiani. Era inizio ’94 Berlusconi in fretta e furia organizzò un partito, si candidò e vinse le elezioni garantendosi l’immunità e riparandosi da ogni possibile pericolo. Mi faccia però aggiungere un elemento.
Prego
Se Falcone e Borsellino nel ’94 fossero stati ancora vivi Berlusconi non sarebbe mai diventato Presidente del Consiglio e il ventennio non sarebbe mai cominciato.
Perchè ne è così sicuro?
Perchè Falcone indagava sui colletti bianchi di Milano e Borsellino prima di altri aveva capito quanto stretti fossero i legami tra la Mafia, gli imprenditori del nord e il mondo della finanza.
Negli ultimi vent’anni però Berlusconi ha vinto 4 volte le elezioni, ha governato per più di tremila giorni e ora continua, seppur tra mille difficoltà , a essere un protagonista della politica italiana. Dentro Forza Italia non si vede nessuno in grado di prenderne il posto, Renzi fa accordi con lui sulle riforme, Napolitano lo riceve in quanto leader di una forza politica. E’ proprio sicuro si sia chiusa un’epoca?
Si credo di sì, lui ormai è vecchio. Sono venuti meno i presupposti che lo portano avanti. E’ certo vero che gli resta un potere contrattuale ma questo solo per la pavidità di chi lo circonda. Lui è finito ma i disastri che ha fatto ce li ritroveremo per molto tempo.
Nel libro lei non è tenero neanche nei confronti di chi in queste due decadi è stato all’opposizione dell’ex Cav. Chiama in causa gli ex Pci: Occhetto, D’Alema, Veltroni, Fassino. Che colpe ebbero?
La prima e la più importante di non denunciare subito il pericolo democratico che rappresentava Forza Italia. Scelsero di trattare e di scendere a patti, vedi la Bicamerale di D’Alema nel 1996. Non fecero mai opposizione vera, illusero un elettorato che credeva potesse esserci in loro una reale alternativa a Berlusconi.
A proposito di sinistra, di Renzi che pensa? E’ d’accordo con chi crede sia un Berlusconi sotto altre spoglie?
No, non penso. Tra di loro ci sono molte differenze. Renzi è un politico, spregiudicato ma è un politico cresciuto facendo politica. E’ possibile che in qualche modo il berlusconismo abbia contaminato il suo modo di farla — penso alla questione della leadership e del partito padronale – ma da qua a definirlo un altro Berlusconi ne passa eccome.
Nel libro c’è spazio anche per Grillo, racconta di quando il leader M5s “scaldava i comizi” di Alfredo Biondi. Pensa che anche lui sia un figlio del berlusconismo?
Assolutamente si. Grillo è un uomo di destra, con pessime idee, con un modo di fare politica tipicamente berlusconiano. Ha fondato un partito autoritario con l’idea che ci sia uno solo uomo al comando che prende decisioni per tutti. Quella che lui chiama democrazia su internet è solo finzione.
In Indagine sul ventennio lei si pone una domanda: “Come ha potuto un paese civile, ricco, con una stampa libera, istituzioni antiche, accettare Berlusconi?” Vuole provare a rispondere
Prima del 94 eravamo convinti che la vittoria sul fascismo avrebbe funzionato da anticorpo a nuovi autoritarismi, credevamo nella forza della nostra — seppur giovane – democrazia. C’eravamo solo illusi perchè con l’arrivo di Berlusconi le basi su cui poggiavamo le nostre certezze si dimostrarono davvero molto fragili.
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Aprile 7th, 2014 Riccardo Fucile
DE GUIDO ERA DIPENDENTE DELLA FONDAZIONE MA LAVORAVA PER I DEM…. IL GIUDICE ORDINA IL REINTEGRO MA NEI PARTITI NON SI APPLICA
Vent’anni a lavorare per un partito, e questo è il ringraziamento: licenziato senza preavviso. Magari ci sta pure, direte.
Le casse dei partiti si stanno prosciugando ed è questo il risultato inevitabile.
Se non fosse che la storia di Carmine De Guido, un «pollo di allevamento” (come lui stesso si autodefinisce) del Pds, poi dei Ds, e infine del Partito democratico, con i tagli ai costi della politica c’entra fino a un certo punto.
Tutto comincia infatti due anni fa, nel febbraio del 2012, quando ancora la scure doveva abbattersi sui rimborsi elettorali.
È allora che arriva a Taranto, dove De Guido in quel momento presta servizio per il Pd, una telefonata del tesoriere dei Ds, Ugo Sposetti: il quale annuncia al Nostro la chiusura di un rubinetto rimasto aperto, dice, anche troppo a lungo.
Gli spiega che Ds e Pd sono due soggetti diversi, e il primo non può formalmente continuare a pagare gli stipendi per il secondo.
«Guadagnavo 1.300 euro al mese. Il mio stipendio si è interrotto da un giorno all’altro senza che mai sia arrivata la lettera di licenziamento», racconta De Guido.
La ragione è forse che quella lettera nessuno la può, o la vuole firmare.
E qui si toccano con mano le conseguenze assurde del metodo usato per far nascere il Partito democratico: non con una fusione fra i Ds e la Margherita che sarebbe stata la strada più logica (e forse avrebbe anche impedito certi abusi come quelli emersi nel caso che ha coinvolto l’ex tesoriere margheritino Luigi Lusi), bensì creando un soggetto nuovo e lasciando in vita i due partiti fondatori. Di fatto morti, ma giuridicamente ancora in vita.
In una frazione di secondo, nel febbraio del 2012, De Guido si ritrova figlio di nessuno.
Non è più riconosciuto come dipendente dei Ds, che non esistono più, ma nemmeno risulta in forza al Pd, per cui invece lavora.
Dice: «Avevo formale contratto di lavoro con la federazione di Taranto dei Ds ma i soldi arrivavano da Roma. Il passaggio dai Ds al Pd non è mai stato contrattualmente formalizzato, ma nei fatti lavoravo per il Partito democratico. Tant’è che il mio posto di lavoro era la sede della federazione provinciale del Pd. Lo sapevano tutti, da Sergio Blasi (l’ex segretario regionale, ndr) al suo successore Michele Emiliano».
Nel partito, De Guido non è proprio un ragazzino di bottega.
A giugno compie 49 anni e per quasi tredici, dal marzo del 1993 al dicembre 2005, ha lavorato al Bottegone. Era uno di quelli della sinistra giovanile di Stefano Fassina e Nicola Zingaretti e si occupava della sicurezza urbana.
Poi nel 2006 viene trasferito a Taranto. Ha in tasca un regolare contratto della federazione diessina, dove c’è scritto: «funzionario politico».
Il passaggio al Pd è impalpabile. Tanto per lui quanto per suo fratello Vincenzo, che è addirittura segretario della sezione Gramsci-città vecchia, prima dei Ds e poi dei democratici.
L’attività politica continua, insomma, come se nulla fosse accaduto: nel 2009 De Guido ha l’incarico di seguire la campagna elettorale di Elena Paciotti per le europee.
Fino a quel famoso giorno di febbraio.
La cosa però non finisce lì. «Nell’agosto del 2012», continua De Guido, «c’è un incontro a Bari nella stanza di Blasi, con i tesorieri provinciali e regionali, e anche il tesoriere nazionale Antonio Misiani.
Il tuo problema sarà risolto, dicono. Idem mi dice Fassina. E poi Emiliano. Ma alle rassicurazioni non seguono i fatti».
Sfinito, fa una causa di lavoro contro la federazione diessina di Taranto e il Pd provinciale e a luglio del 2013 il giudice impone il reintegro di De Guido. Motivo: il licenziamento verbale non è ammesso.
Però non succede niente, nonostante il partito venga inondato dalle sue lettere: «Ho scritto a Massimo D’Alema, Pier Bersani, Sposetti, Fassina. All’attuale responsabile degli enti locali Stefano Bonaccini. Ho scritto anche a Renzi. Tutto inutile».
Rinuncia persino al reintegro, nella speranza di incassare almeno gli arretrati e la liquidazione.
Anche perchè se venisse reintegrato (e poi da chi, dai Ds che non esistono più o dal Pd?) potrebbe a quel punto scattare un licenziamento con tutti i crismi, che in base a un provvedimento del 1990 esclude i partiti dall’applicazione dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori.
Con il risultato di subire, oltre al danno, anche la beffa. Per tutta risposta la sentenza del giudice del lavoro viene impugnata dalle controparti.
Mentre scattano i pignoramenti alla sede tarantina del Pd. Alla domanda se abbia ancora la tessera del partito in tasca, De Guido risponde che non è riuscito a rompere del tutto, al punto che per sei mesi ha anche dato una mano alla presidente regionale Anna Rita Lemma.
Quanto a quella tessera, sostiene di non averla più rinnovata.
Dice di avere soltanto quella di un’associazione da lui fondata: «Le Belle città ». Inguaribile ottimista.
Sergio Rizzo
(da “il Corriere delle Sera”)
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Aprile 7th, 2014 Riccardo Fucile
L’ANALISI PER EVITARE CHE VENGA PRESENTATO UN TESTO IN CONTRASTO CON LA CARTA COSTITUZIONALE
Ne parlano tutti, si danno battaglia sui dettagli e i distinguo, costituzionalisti di rango s’accapigliano sui pro e i contro e i partiti si minacciano a vicenda di mandare all’aria tutto.
Su un testo che non c’è. Il ddl costituzionale di riforma del Senato su cui anche ieri il ministro delle Riforme e dei Rapporti con il Parlamento, Maria Elena Boschi, ha risposto in modo brusco a un Berlusconi incerto e deciso ad uscire dall’abbraccio mortale con Renzi sulle riforme, è — di fatto — un provvedimento che ancora non ha visto nessuno.
Lo conoscono solo i membri del governo e, soprattutto, non è ancora arrivato in Commissione Affari Costituzionali di Palazzo Madama, dove la presidente, Anna Finocchiaro, non vede invece l’ora di leggerlo per capire, nel dettaglio, come Renzi ha immaginato la trasformazione della Camera Alta della Repubblica.
Lei che con Renzi non parla da mesi.
Eppure il via libera al ddl è già stato dato dal Consiglio dei ministri del 31 marzo (quindi ormai una settimana fa), ma ancora il testo latita.
Si sa, a grandi linee, che il futuro Senato “si chiamerà Senato delle Autonomie” e sarà composto da 148 persone; 21 nominati dal Quirinale e 127 rappresentanti dei Consigli Regionali e dei sindaci, che è prevista una composizione paritaria di tutte le Regioni e tra Regioni e sindaci.
E che è messa in previsione anche “la disponibilità di esaminare una composizione proporzionale al numero degli abitanti di ciascuna Regione”.
E, in ultimo, che gli ex presidenti della Repubblica e gli attuali senatori a vita faranno parte del futuro Senato delle Autonomie, ma in quale veste non si è ancora capito.
Anche sul sito del governo, d’altra parte, l’articolato non c’è, c’è solo il comunicato del Consiglio dei Ministri che traccia a grandi linee la riforma, appunto quelle appena elencate. Nulla di più.
Insomma, al di là delle schermaglie tra Pd e una Forza Italia in forte difficoltà , il ddl costituzionale per il superamento del bicameralismo perfetto, al momento non è declinato in un articolato.
Perchè no? E, soprattutto, perchè questo ritardo nell’arrivo della “bozza”, in commissione a Palazzo Madama?
Semplice: perchè il “testo” è al vaglio del Quirinale.
A quanto si apprende, dopo il varo delle linee guida da parte del governo Renzi, Napolitano avrebbe chiamato i suoi collaboratori legislativi più fidati per cercare di dare concretezza alla “rivoluzione” costituzionale evitando che venga presentato in Senato un testo privo di sostanza, impossibile da attuare e, soprattutto, in contrasto con la Carta che si prefigge di superare in alcuni punti democratici sostanziali.
Il timore del Capo dello Stato, infatti, risiederebbe nel fatto che senza un’impalcatura a prova di bomba dal punto di vista costituzionale, il ddl finisca subito per essere impallinato in Commissione, dove il Pd, fedele e compatto agli ordini di scuderia del segretario, ha tuttavia già pronte una lunga serie di proposte per emendare, all’uopo, l’articolato in modo da renderlo quantomeno a norma di legge.
Se non addirittura qualcosina di più.
Insomma, sembra quasi che governo e Quirinale si siano dati compiti diversi e distinti tra loro, su questa materia; a Renzi la propaganda e l’immagine pubblica di accellerazione delle riforme, al Quirinale la limatura dei provvedimenti che, evidentemente, neppure Napolitano si fida troppo a lasciare nelle mani di debuttati assoluti come, appunto, la ministra Maria Elena Boschi.
Certo, il tempo passa. Ed ha buon gioco Forza Italia, in un momento tanto delicato della sua storia politica, ad alzare i toni, in senso sempre propagandistico, su un qualcosa che neppure Verdini, artefice di parte della trattativa, ha mai visto tradotto in commi e articoli.
Par di capire, tuttavia, che se neppure nella giornata di oggi il ddl arriverà in commissione Affari Costituzionali del Senato, si dovrà attendere ancora la prossima prima di poterlo avere fisicamente tra le mani.
Almeno stando a quello che suggeriscono i tecnici del Senato stesso, dove i provvedimenti da esaminare e smistare nelle commissioni arrivano quasi sempre di lunedì.
La questione, come si diceva, crea qualche dubbio anche al Pd, dove i senatori dem che avevano presentato proprie proposte di modifica costituzionale di palazzo Madama, le hanno ritirate in attesa — in alcuni casi — di trasformarle in eventuali emendamenti al ddl del governo.
Solo che, senza un testo, cosa si può mai pensare? Dubbi e incertezze che attanagliano molti, nel Pd, mentre Renzi produce annunci su annunci e la legge elettorale è a bagno maria, sempre al Senato, in attesa dello sblocco proprio della partita della riforma di palazzo Madama, che nelle intenzioni del governo, in virtù del patto con Berlusconi, dovrebbe viaggiare di pari passo.
Una partita intricatissima, dunque, dove anche il Quirinale gioca la sua delicatissima parte. Non senza forti preoccupazioni.
Sara Nicoli
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Aprile 7th, 2014 Riccardo Fucile
“SE RENZI NON HA I NUMERI NE TRAGGA LE CONSEGUENZE”… E LA BOSCHI REPLICA: “NON C’E’ IL TEMPO, MANCANO SOLO 10 GIORNI”
L’ultimatum è chiaro: «Il presidente del Consiglio mantenga gli impegni sull’Italicum prima di Pasqua e per noi si potrà andare avanti. Se invece non è in grado il patto salta e Renzi ne dovrà trarre le conseguenze su tutta la sua presenza di governo».
Renato Brunetta è, a dir poco, categorico.
E pare rivolgersi non solo al premier e al Pd ma anche ad una parte della stessa Forza Italia, partito in cui falchi e colombe si scontrano quotidianamente in attesa che si conosca il destino personale di Silvio Berlusconi.
Ma subito è arrivata la replica di Maria Elena Boschi, ministro delle Riforme, secondo cui l’ipotesi di approvare la legge elettorale entro Pasqua «è un’idea di Brunetta». L’esponente del Pd ricorda infatti che «il testo deve essere ancora esaminato in commissione in Senato e mancano solo 10 giorni a Pasqua».
Il capogruppo alla Camera, capofila dei primi, riprende le polemiche che ieri hanno visto il ministro per le riforme Boschi mettere in guardia: si va avanti con chi ci sta, tanto FI non è determinante.
«Se Renzi pensa di avere un rapporto leonino con i suoi contraenti, come siamo noi, si sbaglia e di grosso – ribatte oggi Brunetta – Non siamo mica D’Alema noi. Se non ha i numeri al Senato è inutile millantare».
Valga o meno il richiamo allo sfortunato precedente della Bicamerale, è certo che fin dalla mattina i renziani alla guida del Partito Democratico mettono le mani avanti, consci che da parte dei berlusconiani intransigenti si intende dare battaglia.
«Sulle riforme Renzi non farà la fine di d’Alema e della Bicamerale», pronostica , per l’appunto, Matteo Richetti.
«Quando Berlusconi e Forza Italia hanno preso un impegno davanti al Paese, sapevano bene quali fossero i destini giudiziari del loro leader», rintuzza Dario Nardella ricordando anche l’altra faccia del malessere forzitalista.
Il fatto che, fra appena tre giorni, un tribunale deciderà se il cittadino Berlusconi Silvio andrà ai servizi sociali o agli arresti domiciliari. Con tutte le conseguenza del caso.
Matteo Renzi ostenta indifferenza e si concentra sull’imminente Def, il documento che dovrebbe dare forma e concretezza alle promesse di queste settimane.
Oggi ha ricevuto a Palazzo Chigi Carlo Cottarelli, il responsabile della spending review. L’uomo dei tagli alla spesa pubblica, insomma.
Oggi pomeriggio toccherà al ministro dell’economia, Padoan.
(da “La Stampa“)
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Aprile 7th, 2014 Riccardo Fucile
E BRUNETTA GLI CHIEDE UFFICIALMENTE DI TIRARE FUORI L’ACCORDO DEL NAZARENO
E’ la nemesi dell’ex falco che, diventato colomba filorenziana, verrà impallinato se non porta a casa un’altra riforma del Senato.
Il suo nome è Denis Verdini e non avrebbe mai immaginato, quando volava con gli artigli sguainati, che un giorno avrebbe lavorato in tandem con il principe degli smussatori, Gianni Letta, per convincere Berlusconi a scendere dall’Aventino.
L’ex Cavaliere rampante deve far sentire la sua voce al popolo, che un po’ alla volta lo sta abbandonando.
Deve far capire che lui c’è e ci sarà , anche se il 10 aprile i magistrati gli dovessero mettere la mordacchia.
Il capo ammaccato e zoppicante non vuole un Senato Profondo Rosso pieno di sindaci di capoluoghi regionali del Pd (a lui è rimasto solo Campobasso).
E non vuole che le maggioranze dei consigli regionali (in prevalenza rosse) mandino le loro truppe a Palazzo Madama.
«Ci sta fregando, ci sta intortando, ci sta fregando voti», continuano a ripetergli all’orecchio Santanchè e pitonesse varie.
E’ lo stesso ritornello che gli ripetono anche consiglieri moderati ed equilibrati come Giovanni Toti, l’attiva coordinatrice della Lombardia Mariastella Gelmini, il capogruppo Paolo Romano, che dovrà gestire in prima linea questa vicenda della riforma del Senato.
Berlusconi si tira a fatica sulla stampella e risponde «sì, gli stiamo dando troppo sangue, ha ragione Toti quando parla di abbraccio mortale.
Ma se ci sfiliamo ora senza combattere passeremo dalla parte dei conservatori e finire associato a Rodotà e Zagrebelsky per me sarebbe peggio del 41 bis».
Allora vola, Denis: porta con te zio Letta, e vediamo cosa sei capace di fare perchè, in casa Forza Italia, cominciano a parlare male di te. Dicono che sei tu il vero responsabile di questo «abbraccio mortale», il paradossale novello andreottiano che sta facendo di tutto per non staccare la spina delle riforme per consentire a Berlusconi di passare alla storia patria.
Come oggi suggerisce Giuliano Ferrara sul Foglio.
Dentro Forza Italia guardano con crescente sospetto a Verdini e c’è perfino chi (Renato Brunetta) gli chiede ufficialmente, in qualità di capogruppo alla Camera di Fi, di tirare fuori l’accordo del Nazareno per dimostrare che il suo corregionario Renzi sta barando, che si è scritto la riforma nel tinello di palazzo Chigi con la Boschi.
Ma Denis questo accordo non lo tira fuori: non vuole mettere in imbarazzo Matteo. «Che affari hanno in comune, cosa li lega?».
Sono domande che prima si sentivano nel Pd, dentro Sel, si leggevano su giornali antiberlusconiani trinariciuti.
Adesso le stesse domande rimbombano assordanti in Forza Italia. Molti si danno una risposta (negativa e traffichina), e altrettanti hanno fatto breccia in Berlusconi: «Denis sta contribuendo a tenerti stretto nelle spire del pitone di Pontassieve. Basta dire “quanto è bravo Renzi, quanto è simpatico, sembra uno di noi, Berlusconi giovane”. Be’, allora perchè i nostri elettori non dovrebbero votarlo?».
Ora il fiorentino renziano dovrà dimostrare di essere sempre il fedelissimo di Silvio e non di Matteo.
A cominciare dagli imminenti incontri con il vicesegretario del Pd Lorenzo Guerini.
Amedeo La Mattina
(da “La Stampa“)
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Aprile 7th, 2014 Riccardo Fucile
NELLE CAMPAGNE OGNI ANNO SI RADUNANO 5.000 IMMIGRATI
«Io potrei accettare un salario minimo legale, ma qui il 90 per cento delle imprese agricole fallirebbe».
Mimmo Cannatà è un imprenditore nella campagne di Rosarno, dove ogni anno si radunano 5 mila immigrati.
Nei 35 ettari dei suoi agrumeti lavorano otto dipendenti fissi più gli stagionali, 40 nei picchi.
Metà stranieri (in maggioranza africani) «senza i quali dovremmo chiudere», soprattutto per la raccolta «perchè i giovani italiani disponibili sono pochi, preferiscono essere laureati disoccupati».
Perchè dice che il 90 per cento delle aziende fallirebbe?
«Un salario minimo esiste già nei contratti. Un operaio costa all’azienda, contributi compresi, 49 euro al giorno. Incide su ogni kg di arance per 6 centesimi, a cui bisogna aggiungerne 1,5 per potatura, irrigazione, concimi… Le industrie ce le pagano 7 centesimi al chilo. Dove vado a prendere i soldi per pagare il salario minimo?».
E quindi che cosa accade?
«Semplice: non raccolgo nemmeno. Basta girare nella piana per trovare arance sugli alberi. Abbandono totale».
C’è un’alternativa: il lavoro nero. Girando nella piana si vede anche quello, no?
«Quest’anno la polvere dell’Etna ci ha fatto perdere l’80 per cento del raccolto. Ho dovuto licenziare tutti. Dopo qualche giorno si presentavano in azienda chiedendo di lavorare anche per 10 euro al giorno in nero. Nessuno li prendeva».
Nega il lavoro nero?
«Non nego. L’80 per cento dei produttori qui non supera i 2 ettari. Non si tratta nemmeno di aziende. C’è un rapporto con gli immigrati che prescinde dalle regole: per lo più gli immigrati raccolgono e poi dividono l’incasso con i proprietari, oppure si paga in nero. Non c’è speculazione o arricchimento, è l’unico modo per farli lavorare. D’altronde se pensassero di avere a che fare con razzisti 8 africani su 10 non tornerebbero tutti gli anni»
Che effetti avrebbero salario minimo e minacce di arresto su questi produttori?
«Rinuncerebbero a raccogliere. Racconto la mia esperienza. Fino a un paio di anni fa avevo un aranceto e non stavo dentro con i costi. A me non interessava più raccogliere, ma vedendo questi ragazzi alla fame dicevo: raccogliete, vendete, guadagnate qualcosa. Da quando sono aumentati i controlli evito: se arrivano gli ispettori del lavoro non mi credono e finisco nei guai».
Quindi o nero o niente?
«No. Per questo dico che la mia azienda è in grado di sostenere un salario legale. Negli ultimi anni con i soldi della politica agricola europea anzichè comprare il suv ho girato il mondo: Spagna, Australia, California. Ho capito che il mercato richiede nuove varietà e le ho impiantate. Ora posso vendere le mie arance a 50 centesimi. I nostri agrumeti sono fermi a mezzo secolo fa, fuori mercato: questo è il problema, il lavoro nero è la conseguenza».
Si può fare qualcosa?
«Il piano di sviluppo rurale finanziato dall’Ue prevede il 40 per cento a fondo perduto per le riconversioni. Non le fa nessuno perchè il tecnico prende l’8 per cento solo per fare la domanda e la Regione impiega tre anni a valutarla. Io non voglio soldi a fondo perduto, ma prestiti a tasso agevolato: dal terzo anno vado in produzione e ripago anche il capitale».
Ne ha parlato alle istituzioni?
«Certo che ne ho parlato. Ma qui è come parlare a vuoto».
Giuseppe Salvaggiulo
(da “La Stampa“)
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Aprile 7th, 2014 Riccardo Fucile
SDEGNO DEI CITTADINI E DEI COLLEGHI DI TUTTI GLI SCHIERAMENTI POLITICI PER UNA POLEMICA MISERABILE
Gli attivisti del Movimento 5 stelle di Lecce attaccano un assessore regionale del Pd, Guglielmo Minervini, per le sue assenze in aula.
“Manca una volta su cinque e prende il cento per cento dello stipendio”.
L’accusa contro la casta questa volta è uno scivolone.
Minervini, come lui stesso ha raccontato, sta lottando da mesi contro un cancro. E quando non è in aula è a sottoporsi a sedute di chemioterapia.
Il manifesto del Movimento 5 Stelle, “Chi ha visto Minervini”, diventa così in poche ore un caso politico guadagnandosi lo sdegno dei cittadini e anche dei colleghi di tutti gli schieramenti.
“Un abbraccio a Guglielmo, ma il Pd pugliese si aspetta immediatamente le scuse del Movimento 5 Stelle” attacca su twitter il segretario regionale del partito, Michele Emiliano.
Poco dopo arriva anche il commento del Governatore, Nichi Vendola: “Guglielmo Minervini è un lavoratore instancabile, appassionato, generoso – dice – L’ho visto lavorare anche nei giorni del dolore e della malattia. L’ho visto trasformare una stanza d’ospedale in una succursale della Regione. Non c’è professionista della diffamazione o burocrate del fango che possa sporcare una persona così bella, così pulita”.
E Minervini? Anche in questo caso non abbandona il suo stile e, con un messaggio su Facebook, sintetizza così questo difficile lunedì mattina. “Silenzio. Oggi solo silenzio. E un pensiero. E’ molto più volgare l’insensibilità che il linguaggio. Questo degrada la politica molto più di quanto possa offendere una persona. Grazie per l’affetto e la stima”.
Poi, un post scriptum: “Per piacere non replicate con l’insulto. E’ questa la trappola: stimolare il basso ventre. Invece, lo stile è la forma dei migliori pensieri”.
Giuliano Foschini
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