Giugno 17th, 2014 Riccardo Fucile
LE FREDDE PAROLE DI CARLO LITTI DOPO AVER UCCISO LA MOGLIE E I DUE FIGLI DI 5 ANNI E 20 MESI… LA RICOSTRUZIONE DELL’OMICIDIO DI MOTTA VISCONTI
C’è un piccolo pianoforte di legno scuro. Sopra, ordinatamente allineate, foto dentro cornici d’argento: c’è Giulia, cinque anni, capelli lunghi a caschetto.
C’è Gabriele, venti mesi, il ciuccio in bocca, un cappellino a righe in testa.
Poi i bimbi con i genitori. E sopra sul muro la gigantografia di loro due: Maria Cristina e Carlo, 38 anni lei, 32 lui. Sposati da sei.
Cristina che lavora in un’agenzia di assicurazione, Carlo che è impiegato in una società di software, va in moto, tifa Juventus, gioca a basket con gli amici dell’oratorio e ha il culto del corpo.
Sono abbracciati. Sullo sfondo il mare. Ricordo di una vacanza felice. Ricordo ora distante come mai.
Perchè lì sotto, sul pavimento, tra il pianoforte e il divano, c’è il corpo di Maria Cristina Omes. Volto a terra e tanto sangue.
C’è silenzio nella villetta di via Ungaretti 20 a Motta Visconti, ricco comune a cavallo tra Milano e Pavia.
Due piani e intonaco rosa. Il portico, il giardino curato, i giochi riordinati.
È sabato sera. L’Italia resta sveglia per vedere l’esordio della nazionale di Prandelli al mundial brasiliano. C’è da battere l’Inghilterra. Manca un’ora al fischio d’inizio.
In casa adesso si sente l’acqua scorrere. Il bagno è oltre un tinello con un tavolo in legno e la palla del cartone animato Peppa Pig accanto alla sedia.
Lissi è sotto la doccia. In testa un solo pensiero: la libertà e la fuga da quella famiglia che per lui è ormai una disperazione, una gabbia, un intralcio alla sua nuova vita sognata con una donna conosciuta sul lavoro, alla Wolters Kluver di Assago.
Passione non corrisposta. Lui ci prova, lei rifiuta. Lo stress aumenta, la paranoia anche.
Carlo si mette in testa che l’unico ostacolo a quella relazione è la sua famiglia. Ci pensa per giorni. Poi uccide moglie e figli.
In modo premeditato, simulando una rapina, aprendo la cassaforte e contando sull’alibi della partita. Ma alla fine crolla, confessa e chiede di essere condannato al massimo della pena.
I vicini pensavano: “Soliti schiamazzi”
Quasi le 11 di sera nella villetta. Lissi ha appena ucciso la moglie. Sette coltellate a gola e corpo. Dopo aver fatto l’amore. Dopo averle sussurato parole dolci. Carlo si è alzato. In cucina ha preso un coltello. Maria Cristina ha urlato “perchè, aiuto”.
I vicini hanno pensato ai “soliti schiamazzi”. Al piano di sopra, intanto, i bimbi dormono. Gabriele nel lettone matrimoniale. Giulia nella sua cameretta. Carlo indossa solo un paio di mutande. Si è lavato del sangue.
Uccide ancora: prima la figlia e poi Gabriele. Un colpo a testa. Alla gola.
Tanto netto che i bambini non si svegliano. Muoiono nel sonno.
Che succede adesso? Carlo si veste: jeans, maglietta blu e giubbotto. Prende l’auto e in una manciata di minuti percorre i pochi chilometri che lo separano dalla casa di un amico dove vedrà la partita dell’Italia, senza far intravedere niente, senza tradirsi e anzi partecipando al match da tifoso, esultando per i gol di Marchisio e Balotelli.
L’appuntamento al bar Zimè con l’amico
Inizialmente aveva l’appuntamento al bar Zimè di Motta, ma la cosa salta. Alle 21,30, ben prima del massacro, invia un sms a un amico: “Il Maffi mi ha paccato per andare allo Zimè a vedere la partita, Valè mi ha detto che vengono da te, posso fare lo sfacciato e aggregarmi a voi?”. L’Italia vince e poco dopo le 2, Carlo rientra in casa. Inizia la recita del killer. L’allarme scatta subito.
Alle 4,30 arriva la scientifica, alle 5 il nucleo investigativo dei carabinieri di Milano. Si pensa a un omicidio-sucidio. Ipotesi scartata: manca l’arma del delitto.
Esclusa anche la rapina. La casa è sottosopra, ma sembra una messa in scena.
Carlo Lissi viene portato nella caserma di Motta verso le sei. Racconta come ha trovato i corpi. Poi si chiude nel silenzio. Non protesta. Gli viene chiesto di spogliarsi. Indossa la tuta bianca dei Ris.
A mezzogiorno chiede di mangiare: pizza ai funghi. Poi si assopisce.
Alle 18 scatta il fermo. I carabinieri ritengono la sua prima versione contraddittoria. Dice di essersi sporcato di sangue quando ha visto la moglie e poi di essere corso al primo piano accendendo le luci. Gli interruttori però sono puliti.
L’arma ancora non si trova. I carabinieri lavorano veloci. Sentono i vicini e gli amici. Ma sono i colleghi di lavoro di Carlo a metterli sulla pista giusta.
“Per quella ragazza aveva perso la testa”
Parlano di quella donna per la quale Lissi aveva perso la testa. Raggiunta al telefono, la ragazza conferma tutto. È la carta vincente che gli investigatori calano davanti a Carlo Lissi. È l’attimo decisivo.
Il momento di lucidità arriva a mezzanotte di domenica. Carlo tiene il volto nascosto nelle mani, il corpo è rilassato.
“Sono stato io a uccidere mia moglie e i miei due figli, voglio il massimo della pena”.
La storia del triplice omicidio di Motta Visconti si chiude così. Con una confessione piena. Carlo Lissi in venti minuti mette a verbale tutto e fa ritrovare l’arma gettata in un tombino.
“Sono tornato in salotto e mia moglie era seduta sul divano. Da dietro l’ho colpita alla gola. Inizialmente ha detto no e poi ha solo continuato a gridarmi: perchè. Dopo che si è accasciata a terra sono andato in camera di mia figlia. Era a pancia in su. Ricordo solo che le ho dato una coltellata alla gola. Dopo che ho estratto la lama lei si è girata di lato e così è rimasta. Non ha detto nulla. Poi sono entrato in camera da letto dove c’era mio figlio Gabriele. Anche lui dormiva e anche a lui ho dato un’unica coltellata alla gola”.
Il pm Giovanni Benelli chiede: “Non era meglio divorziare?”.
Glaciale la risposta di Carlo: “Il divorzio non avrebbe risolto, perchè i figli sarebbero comunque rimasti”.
Davide Milosa
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Giugno 17th, 2014 Riccardo Fucile
TUTTI DISPOSTI A TRATTARE MA OGNUNO COI SUOI FINI PIU’ O MENO NON DICHIARATI
Bisogna vedere se andrà a buon fine; e i dubbi già crescono. Ma sarebbe riduttivo considerare l’apertura del Movimento 5 stelle un’iniziativa limitata alla riforma elettorale. Se, come pare, Beppe Grillo ha capito che lo splendido isolamento dell’ultimo anno alla fine si è rivelato sterile e controproducente, c’è da aspettarsi altre mosse in direzione della maggioranza di governo; e soprattutto di Matteo Renzi, visto come un vincente col quale trattare: sebbene sia difficile pensare che l’obiettivo finale di Grillo sia diverso da quelle di sempre, e cioè la destabilizzazione del sistema o almeno dell’asse Pd-FI.
Per questo, lo scetticismo per il momento prevale sulla voglia di accettare l’offerta.
E, al di là di una trattativa sul cosiddetto Italicum, si intravede l’elezione per il nuovo presidente della Repubblica.
Probabilmente non ci sarà prima di un anno o giù di lì. Giorgio Napolitano ha fatto capire più volte di voler lasciare prima del termine naturale del settennato.
E la fine del semestre di presidenza europea dell’Italia, a dicembre, lascia pensare che nei mesi successivi il Quirinale possa cambiare inquilino.
Il tentativo grillino sembra quello di riproporre il sistema proporzionale contro l’ipotesi maggioritaria del governo, per calamitare gli scontenti del Pd e del centrodestra; e per giocare di sponda in Parlamento adesso su legge elettorale e riforma del Senato, domani sul prossimo presidente della Repubblica.
La cautela renziana e l’ostilità del Nuovo centrodestra e dei berlusconiani nascono da questa sensazione.
Che Grillo abbia bisogno dell’incontro col Pd molto più che il contrario, è dimostrato dalla disponibilità a incontrare una delegazione del partito con o senza il premier. «Non ci impicchiamo alle persone», assicura Luigi Di Maio, vicepresidente della Camera e volto istituzionale del movimento.
«La nostra non è una proposta a scatola chiusa». «Prima eravamo convinti di far cadere il governo. Ora vogliamo evitare il limbo», dialogando su legge elettorale e giustizia. Il cambio di tono di un partito solitamente sprezzante con gli avversari, è significativo.
È legittimo chiedersi se dipenda dall’esigenza di tacitare quanti, nel M5S, disapprovano l’autoesclusione decisa dal vertice.
Ma anche rientrare in gioco comporta dei rischi. Gli ex grillini espulsi mesi fa proprio per avere accettato di discutere col Pd si offrono loro, come interlocutori.
E puntano il dito contro Grillo e Gian Roberto Casaleggio che allora li inchiodarono a una sorta di gogna politica.
Ma proprio per questo è palpabile il timore di una strategia tesa, all’interno del movimento, solo a dimostrare disponibilità ; e all’esterno, a fare una «melina» al solo scopo di allungare i tempi in Parlamento nella speranza di vedere emergere la fronda antigovernativa.
Simona Bonafè, neoeletta del Pd alle europee, lo dice apertamente.
«Non mollo di mezzo centimetro. Andiamo avanti a testa alta», ha detto ieri il presidente del Consiglio. Parlava di riforme. E si rivolgeva naturalmente in primo luogo alla sua coalizione. Ma il messaggio è anche per Grillo.
Si avverte una evidente soddisfazione, nella corsa alle riforme che sia Grillo, sia la Lega di Matteo Salvini adesso hanno deciso.
E pensare che «un mese fa sembrava io avessi la peste», sottolinea Renzi.
Si tratta di una corsa che le opposizioni scelgono per difendere se stesse e creare problemi al governo, sapendo quanto sia l’Italicum, sia il nuovo Senato incontrino resistenze trasversali.
Lorenzo Guerrini, vicesegretario del Pd, anticipa che il proporzionale «non dà governabilità ».
E il coordinatore del Ncd, Gaetano Quagliariello, pone la questione di metodo di sempre. «Le decisioni», avverte, «vanno prese prima nella maggioranza».
Per il premier, che ieri è stato ricevuto dal capo dello Stato alla vigilia del semestre italiano al vertice dell’Ue, i segnali positivi prevalgono.
Massimo Franco
(da “il Corriere della Sera“)
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Giugno 17th, 2014 Riccardo Fucile
TRA UNA SETTIMANA L’INCONTRO COL M5S
Al momento «il “contratto” con Berlusconi resta in vigore ».
Per Renzi è ancora quella «la via maestra» per le riforme, nonostante l’improvvisa inversione a U dei 5Stelle.
Certo, complice anche il colloquio mattutino con il capo dello Stato, il premier non può chiudere la porta a chi si offre di dialogare. Per questo da palazzo Chigi filtra una valutazione di Renzi che non collima con quella maggioritaria nel Pd.
Nel senso che il presidente del Consiglio semmai proverà a ingaggiare i grillini, senza considerare preventivamente «un bluff» o «un espediente per uscire dall’angolo » la richiesta di un incontro sulla legge elettorale.
Ma da qui a mollare l’accordo con Forza Italia sull’Italicum ce ne corre.
Anzi, benchè non ancora fissato, sembra che l’ora di un nuovo faccia a faccia con Berlusconi stia per scoccare.
Ci sono infatti alcune cose da mettere definitivamente a punto, prima tra tutte il nuovo sistema di elezione/ designazione dei futuri senatori.
Anna Finocchiaro e Roberto Calderoli ci hanno lavorato, hanno buttato giù un ventaglio di soluzioni possibili in vista dell’inizio delle votazioni in commissione. «Ferma restando l’elezione di secondo grado – spiega il senatore renziano Andrea Marcucci – c’è da parte del governo e del Pd un’ampia disponibilità a trovare la formula che raccolga la maggiore adesione tra le forze politiche».
Insomma, a Renzi basta che sia scritta la parola «fine» sul Senato elettivo, i dettagli tecnici contano meno. «Però è giunta l’ora che Berlusconi si decida», ammoniscono i renziani, forti dell’accordo con la Lega.
In effetti, trovata l’intesa con il Carroccio sul Titolo V e sostituiti i senatori recalcitranti della maggioranza, Renzi oggi si gode «il clima mutato dopo aver spianato la strada in commissione».
Il patto con la Lega regge, a Vicenza lo stesso governatore Zaia l’ha confermato al premier a margine dell’assemblea di Confindustria, ma anche per il Carroccio molto dipende dall’atteggiamento di Berlusconi.
Il problema è che il leader forzista appare una sfinge impenetrabile da giorni, mentre i suoi spaziano tra i guastatori che vorrebbero far saltare tutto e chi scommette su un ingresso di Forza Italia nella maggioranza.
La gestione dell’incontro con i Cinquestelle è comunque la partita più delicata. Renzi, come anticipato ieri da Repubblica, non prenderà parte alla riunione che potrebbe tenersi la prossima settimana, forse mercoledì.
Il format è ancora da decidere, ma sembra che il quartetto designato sarà composto dal ministro Maria Elena Boschi, dal vicesegretario Guerini e dai capigruppo Zanda e Speranza.
Da parte grillina l’investimento politico è enorme: «Noi – confida Carlo Sibilia, un deputato tra i più ascoltati del gruppo – abbiamo preso atto del 40% conquistato da Renzi e quindi vogliamo entrare nel merito. Mi auguro comprendano tutti, renziani compresi, l’importanza della cosa».
E tuttavia, nonostante il premier voglia incoraggiare con il suo atteggiamento quella parte dei grillini che si spendono per il dialogo con il governo, il timore di un «trappolone» è forte.
La guardia resta alta. «Se la loro fosse un’effettiva volontà di concorrere alle riforme – riflette a voce alta il sottosegretario Angelo Rughetti, renziano di ferro – si sarebbero presentati dicendo: ecco le nostre proposte di modifica all’Italicum, discutiamone. Invece arrivano con un proporzionale puro con le preferenze, che è l’opposto della legge già approvata dalla Camera, e pretendono che sul tavolo ci sia solo la loro proposta».
E se invece fosse soltanto tattica? Se cioè la proposta del “democratellum” nascondesse la vera mossa da scacco matto?
Il sospetto che si sta facendo strada in queste ore tra i renziani è infatti quello di una manovra a sorpresa dei cinque stelle. Che una volta incassato il prevedibile rifiuto del Pd sul “democratellum”, sarebbero pronti a gettare sul tavolo la vera proposta avvelenata: il ritorno al Mattarellum.
«E a quel punto – ammette un renziano – per noi potrebbero essere dolori ».
La vecchia legge Mattarella – 75% maggioritario uninominale, 25% di proporzionale – è infatti molto rimpianta dai nostalgici dell’Ulivo e dalla stessa nuova leva renziana.
Nell’assemblea del gruppo Pd della Camera, al tempo della discussione sulla mozione Giachetti (che appunto prevedeva il Mattarellum come legge di salvaguardia nel caso si fosse tornati al voto anticipato), tutti i renziani si schierarono a favore, salvo poi votare “no” in aula in obbedienza all’ordine impartito dal governo Letta.
Cosa accadrebbe domani se Grillo e Casaleggio riesumassero il Mattarellum?
Il timore degli uomini del premier è che non solo potrebbe saltare l’Italicum, ma si riprodurrebbe una spaccatura interna alla maggioranza e allo stesso Pd.
Come avvenne appunto sulla mozione Giachetti. Per questo la regia della trattativa con i grillini è stata avocata dal premier in prima persona.
Non sono ammessi errori.
Francesco Bei
(da “La Repubblica“)
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Giugno 17th, 2014 Riccardo Fucile
FRATELLI D’ITALIA PRIMA LO NOMINA ORA NEGA QUASI TUTTO… L’EX DIRETTORE DE ANGELIS POLEMICO
Nuova puntata del “Grande fratellastro” sugli schermi degli stabilimenti balneari convenzionati alla catena “duri e puri”, tra venditori di meloni e vu cumpra’.
Dopo la nomina alla direzione del “Secolo d’Italia” di Italo Bocchino e le proteste di donna Assunta Almirante, nuovo colpo di scena che arriva attraverso la precisazione postuma di Fratelli d’Italia-Alleanza nazionale in affitto.
L’esordio del comunicato di FdI non è dei migliori: «Italo Bocchino non è iscritto a FdI e non ricopre alcun incarico nel movimento”. Ricorda tanto quei comunicati che, negli anni di piombo, stilava la federazione milanese (e non solo) del Msi per “scaricare” qualche camerata che, magari per difendersi, era finito nei guai.
Ma veniamo al dunque: “per quanto concerne il “Secolo d’Italia”, il consiglio di amministrazione della Fondazione Alleanza nazionale si è limitato a prendere atto di una lettera del comitato di redazione con la quale si comunicava “la disponibilità del collega Bocchino a realizzare un comparto marketing finalizzato al reperimento di risorse pubblicitarie”, conferendo allo stesso l’incarico di direttore del marketing e dei relativi aspetti editoriali».
Insomma Bocchino, tra un impegno con Romeo e un articolo sotto pseudonimo, passava da quelle parti, ha scritto due righe, il comitato di redazione le ha girate alla Fondazione che lo ha nominato ipso facto direttore del marketing.
Fratelli d’Italia precisa che “stabilire e dirigere la linea politica del “Secolo d’Italia” non rientra nelle competenze di Bocchino, ma è compito che rimane nelle mani del vicedirettore responsabile Girolamo Fragalà o in ipotesi di altro soggetto a cui venisse conferito esplicitamente tale incarico».
FdI-An conclude sottolineando che nessuno ha «assegnato a Bocchino il ruolo di “federatore” del centrodestra» e che «l’organizzazione della festa del Secolo d’Italia, qualora dovesse tornare, spetterebbe ad altri organismi».
A stretto giro arriva il primo commento dell’ex direttore Marcello De Angelis: «La Fondazione ha tutto il diritto di nominare un direttore editoriale che si occupi di reperire pubblicità , cosa che purtroppo non ha fatto quando a chiederlo sono stato io per sostenere economicamente il Secolo che dirigevo».
Il rapporto tra De Angelis e il «suo» Secolo si è concluso in modo burrascoso: «più di quanto detto non aggiungo perchè attualmente ho una vertenza in corso col Secolo e non sarebbe corretto…» dichiara a “il Tempo” di Roma.
Ma vediamo come stanno realmente le cose, al di là degli incarichi formali.
Intanto Bocchino ha rilasciato diverse interviste dalle quali emerge non solo un suo ruolo di addetto marketing ma anche quello prettamente politico di “unificatore” delle varie componenti del centrodestra.
Vi sono, è vero, aspetti di rilancio pubblicitario come il progetto di ritorno nelle edicole romane e quello della trasformazione della sede storica di via Della Scrofa in un caffè letterario.
Ma Bocchino vuole e ha necessità di guardare a tutta la galassia del centrodestra per raccogliere la pubblicità a trecentosessanta gradi e per evitare che i conti (già in rosso) subiscano un ulteriore trauma .
Per questo ha chiesto come condizione, per poter attrarre pubblicità , che Il Secolo abbia attenzione per tutte le componenti di An: da chi ha scelto Fi agli alfaniani, dai meloniani ai larussiani, ovvero “per tutti gli ex An ovunque siano finiti nel centrodestra”.
In sostanza o il Secolo trova pubblicità o chiude.
E per trovarla non può essere solo l’organo di partito di Fratelli d’Italia.
Un progetto peraltro condiviso dai vertici di FdI, ma che gli stessi, per convenienza e per non sputtanarsi con la base che non vuole sentir parlare di Bocchino, vorrebbero nascondere.
E Bocchino è funzionale a Fdi e a quel progetto, salvo il difetto di parlare troppo.
Quindi certi comunicati sono davvero un “tappullo peggior del buco”: chi ha approvato la nomina di Bocchino a direttore editoriale del Secolo?
Parlano i fatti.
A Bocchino è andato il voto unanime di tutto il CdA della Fondazione Alleanza Nazionale in cui figurano La Russa, Alemanno, Meloni (per Fratelli d’Italia), Gasparri, Matteoli, Martinelli (per Forza Italia) e i finiani Donato La Morte ed Egidio Digiglio (questi ultimi assenti al voto).
Se ne deduce che gli unici distinguo sono arrivati dai finiani, non certo dai cocuzzari.
Buon bagno a tutti.
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Giugno 17th, 2014 Riccardo Fucile
NEI PIANI DI RENZI, IL PATRIMONIO DOVREBBE SERVIRE A GARANZIA DELLE BANCHE, IN MODO DA COPRIRE I PRESTITI PER IL PARTITO
Ora che Matteo Renzi ha i voti e il controllo pieno sul Partito democratico gli manca solo una cosa: il patrimonio.
Quando è nato il Pd, nel 2007, il grosso dei beni (e dei debiti) sono rimasti alle formazioni che lo avevano fondato, cioè Democratici di Sinistra e Margherita.
Dei post-democristiani abbiamo saputo molto, di come i soldi dei rimborsi elettorali andavano a finanziare singoli dirigenti, il tesoriere Luigi Lusi è è finito in carcere.
I Ds erano ricchi e indebitati, lo storico tesoriere Ugo Sposetti e il presidente Piero Fassino hanno costruito un muro giuridico che ha tenuto il ricco patrimonio (eredità comunista) lontano dal Pd.
Perchè non si sa mai, meglio evitare di mettere in comune i beni in un matrimonio con durata incerta.
In questi anni Sposetti ha amministrato quel tesoro di oltre 2mila immobili (circolano anche leggende su azioni, obbligazioni e opere d’arte di cui si sono perse le tracce, valore da mezzo miliardo di euro) come se il Pd attuale non avesse alcun diritto a toccarlo.
Ma adesso qualcosa è cambiato
I segnali sono due: Renzi che dichiara di voler rilanciare il marchio delle Feste de l’Unità e la nomina a presidente di Matteo Orfini, esponente di una mai rottamata (per resistenze e convenienze reciproche) cultura diessina nel partito.
Dopo aver conquistato ed esposto in assemblea il 40,8 per cento, Renzi pare avere forza per fondere davvero le due anime democratiche.
E mettere le mani sulla cassa. L’attuale tesoriere Francesco Bonifazi ne avrebbe molto bisogno, avendo appena chiuso un bilancio con un rosso di oltre 10 milioni e parecchi dipendenti in cassa integrazione.
L’irriducibile Sposetti oppone resistenza: “So che puntano a questo, conosco le idee di Fassino, se vogliono discutere io sono pronto, ma devono ricordarsi che mi hanno lasciato una montagna di guai quando è nato il Pd”, dice al Fatto.
Ma l’altro erede legale dei Ds, l’ultimo segretario Piero Fassino, è uno dei maggiori sostenitori di Renzi (il premier è anche tentato di indicarlo come commissario europeo). E quindi in queste settimane è stato raggiunto un accordo, ancora segreto, tra il sindaco di Torino e il segretario del partito: gli immobili che furono dei Ds devono entrare nella disponibilità almeno formale del Pd che ha bisogno di usarli come garanzia per ottenere credito dalle banche (prestare soldi ai politici, in un’epoca di rimborsi elettorali in calo, è sempre meno allettante).
Contattato dal Fatto, il sindaco torinese non ha risposto.
Non è facile ma neppure impossibile: gli oltre 2mila immobili sono stati sparpagliati sul territorio, affidati a fondazioni locali imbottite di politici di un’altra epoca, spesso nominati a vita, che su carta tutelano la memoria storica del Pci e nei fatti tengono il suo patrimonio al riparo dai creditori (il metodo Sposetti è perfetto: i debiti in capo ai Ds nazionali e i beni affidati alle federazioni locali).
Fassino, Renzi e Bonifazi hanno una via abbastanza semplice: rifare il trucco di Sposetti in senso inverso.
Accorpare le fondazioni locali in un unico ente che poi possa, in qualche modo, mettere gli immobili nella disponibilità del Pd così da rassicurare le banche creditrici. Un’operazione complessa, ma l’intenzione politica non manca.
Complessa perchè i vecchi creditori tornerebbero alla carica.
A ottobre, per esempio, dovrebbe esserci il nuovo confronto tra presidenza del Consiglio e banche creditrici della vecchia Unità .
La storia è ingarbugliata: il quotidiano di partito, prima della liquidazione, era pieno di debiti.
Nel 1999 una provvidenziale norma del governo D’Alema (guidato, guarda caso, da un ex direttore dell’Unità ) istituisce una parziale garanzia pubblica su quel debito. Risultato: oggi c’è un contenzioso tra le banche creditrici (che vantano spettanze per quasi 200 milioni di euro) e palazzo Chigi.
“Abbiamo ottenuto tre decreti ingiuntivi dal tribunale di Roma, poi ovviamente l’avvocatura di Stato si è opposta”, spiega l’avvocato Girolamo Bongiorno che rappresenta il gruppo di banche. Se ne riparla a ottobre.
Ma nel frattempo potrebbe verificarsi una situazione paradossale: se Renzi riesce a mettere le mani sul patrimonio dei Ds, la presidenza del Consiglio potrà opporsi alle banche con maggiore efficacia suggerendo di rivalersi sugli immobili riemersi dalle nebbie locali.
Viceversa, il premier può cedere agli istituti di credito saldando i debiti pregressi — almeno in parte — con le fideiussioni a spese del contribuente italiano, lasciando intonsa la ricchezza del partito.
Renzi sta facendo leva sull’inchiesta Mose per dare il colpo definitivo all’intreccio tra imprese, coop rosse e lato sinistro del partito.
Grazie al lavoro dei pm, il segretario democratico ha la strada spianata e può puntare anche al tesoro degli ex comunisti, visto che i più autorevoli custodi di quella tradizione sono decaduti o nei guai con la giustizia.
Resta solo un ultimo reduce a difendere la trincea: Ugo Sposetti, col suo baffo sovietico.
E non è un ostacolo da poco.
Stefano Feltri e Carlo Tecce
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Giugno 17th, 2014 Riccardo Fucile
FORZA ITALIA, E’ L’ORA DEI LICENZIAMENTI PER 41 DIPENDENTI…NEL 2013 DEBITI PER 87 MILIONI, INTERAMENTE COPERTI DA BERLUSCONI CHE FINANZIA ANCHE FRATELLI D’ITALIA E GRANDE SUD
Gelida come una lama, la mail di licenziamento ha bussato ieri mattina alle caselle postali di 41 dipendenti di Forza Italia.
Neanche una telefonata annuncia il tornado, solo la prosa asettica e burocratica scelta per la pessima notizia:
«A tutti i dipendenti Pdl. La presente per comunicare che in data 11/06/2014 è stata avviata la procedura ai sensi dell’articolo 24 della legge 223 del 27/01/91».
Crolla così, sulla pelle dei lavoratori del partito, una delle colonne portanti della retorica berlusconiana.
E sotto le macerie resta pure uno degli slogan più abusati di Silvio Berlusconi: «Non ho mai licenziato i miei collaboratori».
Chi paga tutto e subito sono i dipendenti legati alla vecchia gestione del Popolo della Libertà , non riassorbiti in Forza Italia. Molti sono collaboratori dei dirigenti dell’ex An, parecchi altri sono entrati ai tempi della segreteria di Angelino Alfano, prima della scissione del Nuovo centrodestra.
Non si tratta di un fulmine al ciel sereno — negli scorsi mesi i contratti a termine non erano stati rinnovati — ma la batosta colpisce duramente lavoratori e famiglie.
Nè suonerà consolatorio riascoltare quanto sostenuto negli ultimi mesi dall’ex premier, pronto a scagliarsi contro le restrizioni imposte dalla legge sul finanziamento dei partiti. «Siamo con l’acqua alla gola — si era lamentato lo scorso 28 maggio durante un Comitato di presidenza — servono soldi»
Trenta milioni, secondo Denis Verdini. Di certo la crisi andava affrontata con tagli e sacrifici, aveva promesso la nuova tesoriera Maria Rosaria Rossi
I conti azzurri, comunque, restano pessimi. I debiti della rinata Forza Italia ammontano a ottantasette milioni di euro e secondo l’ultimo bilancio (quello del 2013) è sempre il Cavaliere a garantire.
Non si tratta solo degli 87milioni garantiti dalle fideiussioni del leader, ma anche del contributo di 15 milioni di euro erogato da Berlusconi per estinguere un debito iscritto nel rendiconto del 2012
I denari dell’ex premier, tra l’altro, sono ossigeno anche per i partitini che ruotano nell’orbita di Arcore.
E secondo il bilancio la lista dei beneficiati è lunga: più di un milione di euro a Grande Sud di Gianfranco Miccichè, cinquecento mila euro all’Mpa di Raffaele Lombardo, settecentocinquantamila euro a Fratelli d’Italia degli ex An Ignazio La Russa e Giorgia Meloni.
E ancora: più di trecentomila euro all’“Associazione nazionale Circolo della libertà ” di Michela Vittoria Brambilla.
In tutto, altri 2 milioni 805mila euro sganciati dal solito Cavaliere.
Tommaso Ciriaco
(da “La Repubblica“)
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Giugno 17th, 2014 Riccardo Fucile
DAL BONUS DI 80 EURO ALLA SPENDING REVIEW: I 113 GIORNI DEL GOVERNO RENZI
CUNEO FISCALE
Gli 80 euro sono arrivati, ma finanziati solo per il 2014
È tra le decisioni più importanti prese dal governo Renzi. Ottanta euro in più al mese, che dallo stipendio di maggio corrono nelle tasche di 10 milioni di lavoratori dipendenti con redditi compresi tra 8 mila e 24 mila euro lordi l’anno (tra 24 e 26 mila il bonus decresce rapidamente fino ad azzerarsi).
Il decreto legge, annunciato il 12 marzo nella discussa conferenza stampa delle slide col pesciolino, è stato approvato dal Consiglio dei ministri il 18 aprile ed è stato convertito col voto di fiducia il 5 giugno.
A questa manovra il governo affida le speranze di spingere i consumi e la crescita dell’economia.
Per capire se avrà funzionato bisognerà aspettare i dati sul Prodotto interno lordo del secondo trimestre.
Nel primo trimestre il Pil è di nuovo arretrato (- 0,1%), per il secondo l’Istat prevede una leggera ripresa, tra 0,1% e 0,4%.
Molto dipenderà dalla capacità del governo di convincere le famiglie che il bonus non è una tantum, cioè solo per il 2014, ma permanente.
Questo potrà avvenire solo con la legge di Stabilità che l’esecutivo presenterà entro il 15 ottobre.
Solo in questo caso, infatti, sarà più facile che il bonus venga speso anzichè risparmiato
È importante ricordare, infatti, che per ora il bonus è coperto solo per il 2014.
Per il 2015 il governo ha promesso di estenderlo anche a incapienti (redditi fino a 8 mila euro), pensionati e partite Iva, come sarebbe giusto.
Ma proprio ieri il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha frenato: si farà se verranno trovate le necessarie coperture
FATTO
LAVORO
Contratti a termine liberi, cassa in deroga senza risorse
L’occupazione è grande vittima della crisi internazionale. Negli ultimi 4 anni si sono persi più di un milione di posti di lavoro e gli ammortizzatori sociali (cassa integrazione, indennità di mobilità e di disoccupazione) hanno interessato, per periodi più o meno lunghi, circa 4 milioni di lavoratori l’anno. Il governo è intervenuto con due provvedimenti.
Un decreto legge che allunga da un anno a tre la durata massima dei contratti a termine senza causale e che elimina una serie di vincoli per le aziende sui contratti di apprendistato. Il provvedimento è stato convertito con la fiducia il 13 maggio.
Il secondo provvedimento è un disegno di legge delega che prevede, tra l’altro, la riforma degli ammortizzatori sociali (cassa integrazione, mobilità , ecc.) e l’introduzione del contratto di inserimento a tutele progressive.
Dopo l’approvazione del Parlamento il governo avrà circa un anno per emanare i decreti di attuazione della delega. Attualmente il ddl è all’esame della commissione Lavoro del Senato.
Nel frattempo, l’esecutivo non ha ancora risolto il problema delle risorse in più che servono nel 2014 per finanziare la cassa integrazione in deroga.
Secondo le Regioni serve con urgenza almeno un miliardo. Il governo non sa dove trovarlo. Per il momento ha sbloccato 400 milioni per pagare gli arretrati della cassa 2013.
Ma questo ha scoperto ancora di più il 2014, ha spiegato lo stesso ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, in attesa di una risposta dal collega dell’Economia, Pier Carlo Padoan, su come fronteggiare l’emergenza anche quest’anno.
IN ITINERE (FATTO SOLO AL 50%)
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
Permessi sindacali dimezzati Riforma dei dirigenti nel 201
Venerdì il Consiglio dei ministri ha approvato la riforma della Pubblica amministrazione, suddividendola in due provvedimenti, un decreto legge e un disegno di legge delega. I testi definitivi si conosceranno non prima di martedì.
La necessità di far passare il maggior numero di norme prima che il Parlamento chiuda per le ferie ha indotto il governo ad approvare due decreti omnibus, in uno dei quali appunto, c’è un pezzo della riforma della Pa.
Dovrebbero partire subito, tra l’altro, il dimezzamento dei distacchi sindacali, l’abolizione del trattenimento in servizio (possibilità di restare al lavoro oltre l’età di pensione) che aprirebbe lo spazio all’assunzione di 15 mila giovani nei prossimi anni, secondo il governo.
Nel decreto anche: le incompatibilità per i magistrati che, se nominati dirigenti (per esempio nei ministeri) dovranno mettersi in aspettativa; la mobilità obbligatoria entro 50 chilometri; il dimezzamento della tassa d’iscrizione alle Camere di commercio; l’unificazione delle scuole di formazione per dirigenti.
Con un decreto ministeriale si dà il via al pin per i cittadini per dialogare online con la Pa. Nella delega, che vedrà i decreti applicativi nel 2015, finiscono invece la riforma della dirigenza e il taglio delle prefetture.
Non ci sono alcune novità che erano state annunciate: la retribuzione dei dirigenti legata al Pil, i poteri sostitutivi di Palazzo Chigi verso i ministri che non fanno i decreti attuativi, la possibilità , anche per gli uomini, di andare in pensione a 57 anni con 35 di contributi, ma con l’assegno contributivo. E non c’è nemmeno l’accorpamento di Aci, Pubblico registro automobilistico e Motorizzazione civile.
IN ITINERE (FATTO SOLO AL 35%)
RIFORME ISTITUZIONALI
Legge elettorale e Senato, traguardo ancora lontano
Il tempo passa ma i due provvedimenti intorno a cui ruotano le riforme istituzionali, cioè la riforma elettorale e l’abolizione del Senato elettivo, non vedono ancora l’uscita dal tunnel. Su entrambi Renzi, ancor prima di entrare a Palazzo Chigi, aveva raggiunto, un accordo con il leader dell’opposizione Silvio Berlusconi (il cosiddetto patto del Nazareno).
La tabella di marcia iniziale prevedeva l’approvazione entro aprile dell’«Italicum », la nuova legge elettorale che introdurrebbe per la prima volta nelle elezioni politiche la possibilità del ballottaggio tra le prime due liste o coalizioni se nessuna supera il 37%. Sempre entro aprile, era ipotizzata l’approvazione in almeno uno dei due rami del Parlamento del disegno di legge costituzionale per l’abolizione del Senato elettivo.
Le cose sono andate diversamente.
L’Italicum, frutto dell’integrazione e correzione di progetti di legge già in discussione in Parlamento, approvato alla Camera, è sempre fermo in commissione al Senato.
La partita potrebbe riaprirsi dopo che Grillo e Casaleggio si sono fatti avanti chiedendo un incontro a Renzi.
Il disegno di legge costituzionale, che oltre al bicameralismo perfetto corregge anche il Titolo V della Costituzione (federalismo), è stato varato dal Consiglio dei ministri il 31 marzo. Attualmente è sommerso da 4.750 emendamenti in commissione Affari costituzionali del Senato.
Il Pd si è diviso. Il dissenziente Corradino Mineo è stato sostituito in commissione, provocando l’autosospensione di 14 senatori del Pd. Renzi è sicuro di farcela, ma il traguardo si è oggettivamente allontanato.
IN ITINERE (FATTO SOLO AL 20%)
PAGAMENTI ALLE IMPRESE
La garanzia della Cassa depositi per sbloccare i versamenti
Sui pagamenti dei debiti commerciali alle imprese l’obiettivo del presidente del Consiglio è ambizioso. «Entro luglio pagheremo 68 miliardi di debiti arretrati con le imprese», aveva annunciato Matteo Renzi il 12 marzo presentando il disegno di legge in materia approvato in Consiglio dei ministri.
Poi, con il decreto legge 66 del 24 aprile, il governo ha accelerato. Un nuovo meccanismo, attraverso la garanzia della Cassa depositi e prestiti, favorisce la cessione alle banche dei crediti vantati dalle imprese nei confronti della Pubblica amministrazione. Nei 68 miliardi, indicati da Renzi, erano compresi i 22 già pagati nel 2013 sui 47 miliardi messi a disposizione dai provvedimenti del governo Letta per il biennio 2013-2014.
A questi 47 miliardi Renzi ne ha aggiunti 13 con il decreto.
Il totale sale così a 61 miliardi, un po’ meno dei 68 annunciati. Ma il pagamento effettivo è fermo a 23,5 miliardi, secondo l’ultimo monitoraggio del ministero dell’Economia fermo al 28 marzo.
Il sito del Mef ha promette ancora: «Il prossimo aggiornamento è previsto per il 23 aprile 2014», ma ad oggi non è arrivato.
Anche ipotizzando un’accelerazione, l’obiettivo dei 61 miliardi resta lontano.
Misure importanti a favore delle imprese sono comunque arrivate venerdì con uno dei due decreti legge approvati: detassazione degli investimenti, taglio del 10% della bolletta elettrica, rafforzamento dell’Ace (sgravi sulla patrimonializzazione).
IN ITINERE (FATTO SOLO AL 50%)
NOMINE
Cambi di poltrona, molti in rosa Tetto agli stipendi dei manager
L’ultima infornata è arrivata con il Consiglio dei ministri di venerdì: cinque nomine di peso a partire dal nuovo direttore dell’Agenzia delle Entrate, con Rossella Orlandi che l’ha spuntata sul magistrato Francesco Greco e sul numero due dell’Agenzia Marco Di Capua.
Nella stessa seduta il governo ha indicato anche Anna Genovese alla Consob, Giorgio Alleva, presidente dell’Istat, e Cristiano Radaelli, commissario straordinario dell’Enit, l’Ente per il turismo.
Confermato, invece, il direttore dell’Agenzia del Demanio, Stefano Scalera. Un’eccezione, perchè nella partita delle nomine il governo ha scelto quasi sempre di cambiare uomini.
Nello stesso Consiglio dei ministri il governo ha anche formalizzato la scelta del magistrato Raffaele Cantone alla guida della nuova Autorità anticorruzione. Tutte le volte il governo ha tenuto conto del fattore rosa.
Anche quando ha cambiato i vertici delle società partecipate, dove però sono state dirottate verso la poltrona di presidente e non verso quella più importante di amministratore delegato.
All’Eni è andata Emma Marcegaglia con amministratore delegato Claudio Descalzi, alle Poste Luisa Todini con ad Francesco Caio, all’Enel Patrizia Grieco con ad Francesco Starace.
Solo per Finmeccanica una coppia di uomini: Mauro Moretti ad con la conferma di Gianni De Gennaro presidente.
Alle Ferrovie, al posto di Moretti, è arrivato l’interno Michele Elia. Per i manager pubblici, con l’eccezione delle società quotate, c’è il nuovo tetto agli stipendi: 240 mila euro lordi l’anno, come il capo dello Stato.
FATTO
SPENDING REVIEW
A rilento il taglio della spesa, servono risparmi per 14 miliardi
Alla revisione della spesa pubblica è legato il successo della politica economica del governo.
Alcuni tagli, per lo più di natura simbolica, avevano entusiasmato il premier. Per esempio la vendita all’asta online di 152 auto blu. Ma l’operazione, secondo un’inchiesta del settimanale Panorama, è stata un mezzo flop: a fine maggio erano state vendute solo 7 vetture per un incasso di 50 mila euro.
Un altro piccolo segnale, che non dovrebbe essere smentito dai fatti, è la chiusura di 4 ambasciate (Honduras, Islanda, Santo Domingo, Mauritania).
Più importante, invece, l’approvazione definitiva, con il voto di fiducia, della legge Delrio (presentata sotto il governo Letta) che abolisce le province elettive, anche se i risparmi possibili non sono forti (i 60 mila dipendenti delle Province passeranno infatti agli altri enti locali).
Più consistenti i tagli per 3,1 miliardi di spesa pubblica nel 2014 messi tra le coperture del decreto bonus: 2,1 dovrebbero venire da tagli a carico di ministeri, Regioni ed enti locali (700 milioni ciascuno).
Risparmi apprezzabili, dice il governo, dovrebbero arrivare anche dalla riforma della Pubblica amministrazione.
In particolare dalla riorganizzazione dello Stato sul territorio (riduzioni uffici e strutture) che però è prevista dalla delega ed è difficilmente quantificabile. E nessuno ha capito dove il governo troverà i 14 miliardi di euro di tagli di spesa annunciati per il 2015 e da decidere con la prossima legge di Stabilità per confermare il bonus di 80 euro.
Sarà questo anche il banco di prova del commissario Carlo Cottarelli, che, assicura il governo, non è stato emarginato.
IN ITINERE (FATTO SOLO AL 25%)
PRIVATIZZAZIONI
Avviata la cessione di Enav e Poste, ma gli immobili restano al palo
Il 16 maggio il Consiglio dei ministri con due Dpcm, decreti del presidente del Consiglio, ha dato il via alla privatizzazione di Poste italiane e dell’Enav, la società per l’assistenza al volo.
Per le Poste si prevede la vendita di una quota non superiore al 40% mentre per l’Enav massimo il 49%.
La maggioranza delle due società resterà quindi in mano pubblica. La cessione del 40% delle Poste potrà avvenire anche in più fasi attraverso un Opv, offerta pubblica di vendita, che potrà contenere forme di incentivazione all’acquisto per i dipendenti della società . Modalità simili sono previste per l’Enav.
Come ha detto il nuovo amministratore delegato di Poste, Francesco Caio, la privatizzazione entro l’anno, come vorrebbe il governo, rappresenta «una grande sfida». Sono stati selezionati gli advisor e si sta mettendo a punto il piano industriale.
Ancora non è stata conclusa la nuova convenzione con Cassa depositi e prestiti. Il Tesoro punta ad incassare 4-5 miliardi da Poste e circa un miliardo da Enav. Somme che, anche se arrivassero entro l’anno, non sarebbero in grado di soddisfare l’obiettivo complessivo del governo: incassi da privatizzazioni pari allo 0,7% del Pil all’anno (circa 11 miliardi di euro) nel periodo 2014-17, cioè 11 miliardi.
Una mano potrebbe venire dalle dismissioni immobiliari, ma su questo fronte, nonostante i ripetuti annunci del governo, non c’è ancora nulla da segnalare.
IN ITINERE (FATTO SOLO AL 20%)
Enrico Marro
(da “il Corriere della Sera“)
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Giugno 17th, 2014 Riccardo Fucile
DOPO GLI SCOOP E LE PASSERELLE DEI POLITICI, E’ CALATO UNO STRANO E PERICOLOSO SILENZIO SU UN DISASTRO AMBIENTALE CHE HA GENERATO UN’ELEVATO INCREMENTO DELLA MORTALITA’ PER TUMORI
Della “terra dei fuochi” non si parla più, soprattutto a livello nazionale.
Poche settimane fa il “premier” Renzi è stato in Campania ma sull’annoso dramma il silenzio più assoluto. Eppure la “terra dei fuochi” continua a bruciare ed a tutte le ore, soprattutto di notte
La sera, anche se sei assorto nei pensieri, mentre guidi, ti accorgi che sei quasi ritornato a casa perchè senti quel puzzo di fumo che non accenna a scomparire.
E poi, in rete, le news della nostra gente non mancano: pagine facebook e siti internet dedicati; foto, commenti, post, denunce di ogni tipo.
Ciò non di meno non se ne parla più, come se il problema non esistesse; come se tumori ed inquinamento ambientale non fossero reali; come se fosse tutto ormai passato..
E’ vero che questo Paese soffre della “politica di pancia”.
E’ vero che la politica si ha abituato al “vabbè, se ne parlerà per qualche giorno, poi ci sarà silenzio”, ma le cose non possono e non devono andare sempre così.
Dall’ultima mappatura completa dei 1.076 chilometri quadrati di terreni sospettati di essere contaminati da discariche abusive, sarebbe risultato un rischio contaminazione solo per il 2% del territorio totale.
Poco, troppo poco, sinceramente, anche perchè delle “tre l’una”: o i “pentiti” di camorra, nei mesi scorsi, hanno raccontato soltanto frottole, magari agendo come strumenti del “sistema” per la consumazione dell’ennesima speculazione da parte dello scellerato patto affaristico che ha mietuto vittime e sangue in questa terra (forse la strategia era quella di diffondere eccessivo allarmismo per far eseguire scavi e operazioni di bonifica anche quando non necessari per consumare l’ennesimo business?), o il fenomeno non è stato affrontato fino in fondo oppure ancora si è consumata la solita “necessità di conservazione del potere”, quella voglia di far finta di nulla, di far scemare l’allarmismo anche in carenza di certezze assolute.
Qualunque sia la verità , la terra dei fuochi continua a bruciare e i risultati diffusi dai vari centri specializzati continuano a dare atto della presenza di un’elevatissima mortalità per tumori in una terra della quale si parla solo quando conviene, magari per fare carriera politica o per diversamente speculare.
Al di là delle innegabili complessità degli accertamenti di specie, sull’intera vicenda è doveroso esigere che il Governo e le Istituzioni tutte consumino un pregnante approfondimento: dopo vent’anni di assenze e di collusioni non si può liquidare la questione con pochi mesi di verifiche tecniche, anche se svolte con ritrovato zelo e dedizione.
C’è necessità di certezze assolute per la salute della gente e per tutti gli operatori agroalimentari di riferimento.
E c’è assoluto bisogno di controllare il territorio riaffermando tutta l’autorità della Legge.
Le forze dell’Ordine del territorio sono già super-impegnate ed occorrono integrazioni: i mille soldati che sono stati mandati in Campania nei mesi scorsi sono pochi, sono troppo pochi per una terra che resta sempre in ascetica attesa che lo Stato affermi sè stesso fino in fondo.
Senza se e senza ma.
Salvatore Castello
www.rightblu.it
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Giugno 17th, 2014 Riccardo Fucile
LA SQUADRA DEGLI OTTO INVESTIGATORI “INVISIBILI” CHE HANNO DATO LA CACCIA ALL’ASSASSINO DI YARA: “O FAI O PARLI”
Otto detective invisibili. Mai un’intervista, mai un’apparizione in tv. “O fai o parli. E se fai non puoi parlare”
Ecco la squadra che per quasi quattro anni ha dato la caccia all’assassino. Inseguendo il suo profilo genetico.
Costellato per lunghi tratti da un’alta densità di frustrazioni. «O fai o parli, e se fai non puoi parlare: non ha nessun senso, avresti solo dato una mano a lui. Al narcisismo che il killer improvvisato – e questo qui, almeno all’inizio, lo è stato – sviluppa nel tempo. Prima di essere fermato.
“È passato un tempo lungo e bisogna ammettere che per essere uno alle prime armi ha resistito anche troppo. Ma non è stato merito suo. La sua fortuna, che è stata anche la sua sfortuna, si chiama genetica. Senza quell’ombra di Dna forse non l’avremmo mai beccato»
Il “cacciatore” è un uomo del Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri. Fa parte di una squadra che solo casualmente, fuori dall’ufficialità dei rapporti investigativi, si è chiamata “Squadra Yara”.
L’etichetta non è immune da una quota-affetto. Ha bucato anche la pellaccia dura degli 007 la storia di Yara Gambirasio. La cosa che si può dire è che sono un manipolo di detective di lungo corso, cinque o sei più un paio di aggiunti “col fiuto”. Fiuto e pazienza. Lombrosianesimo nei limiti del mestiere.
«Ma è inutile, adesso, fare considerazioni stupide su foto e messaggini Fb. Nel guardaroba di un assassino trovi tutti gli abiti che vuoi. Soprattutto se li cerchi dopo». Per di più se l’assassino è uno che, incastrato dal codice genetico, a sera dice al pm «sono sereno».
Come sono arrivati a stringere il cerchio intorno a Massimo Giuseppe Bossetti? Quanto è stato faticoso e quanto raffinato, soprattutto dal 18 settembre 2012 – la data «snodo» – il lavoro che ha permesso alle forze dell’ordine di scavare la pozza nella quale è rimasto impantanato il muratore tranquillo diventato un fantasma che ha seguito da vicino, vicinissimo, la caccia che gli dava la scienza? Quanto?
È pomeriggio e il “cacciatore” ha appena letto le agenzie con le dichiarazioni del ministro Alfano sul fermo di Bossetti.
Le commenta ad alta voce ma chiede di considerare privato il suo pensiero di «uomo di strada». «Lo era anche il killer, uno di strada. Regolare, normale, tranquillo, affettuoso coi tre figli, giusto?». Giusto.
Come fai a beccare uno così dopo tre anni e otto mesi di indagini?
«Possiamo partire da un passo prima? L’incastro è arrivato pochi giorni fa, ok. Trovata la madre, trovato il figlio. Ma tutto il lavoro fatto prima, anche quando qualcuno diceva che su Yara non si lavorava come richiedeva il caso, quello dove lo mettiamo?».
Parla a caldo il carabiniere, non dissimula l’emozione e la voce tradisce, oltre alla soddisfazione, anche la fatica snervante. Questa iniziata da Brembate Sopra il 26 novembre 2010 è la storia di una caccia al buio. Poi il buio diventa un’ombra. Prende forma con una micro traccia di sangue.
Spunta dagli slip di Yara, in mezzo a tracce di calce edile, un particolare che si rivelerà decisivo, quando la trovano cadavere, casualmente, tre mesi dopo: è il 26 febbraio 2011, nel campo di Chignolo d’Isola. Il Dna. L’assassino.
Ma chi è l’assassino? Dice il cacciatore: «Quando abbiamo finito di setacciare i cerchi stretti e anche quelli larghi – parlo di centinaia di persone – e nulla di interessante era venuto fuori, a quel punto davvero iniziavano a esserci motivi per non riuscire a essere fiduciosi. Ma Bossetti era uno di quelli che restavano, assieme ad altri, nel nostro occhio».
Fa il muratore, si sporca di calce. Ma soprattutto il suo telefonino aggancia la cella della zona dove Yara viene trovata cadavere nell’ora della scomparsa. Tracce.
Da una parte l’indagine tradizionale, dall’altra il responso della scienza. L’anticamera della prima curva che porta alla svolta si chiama «Sabbie Mobili” ed è una discoteca. Si balla a 100 metri dal cadavere di Yara, lì a Chignolo. Polizia e carabinieri sparano una raffica di tamponi alle centinaia di frequentatori del locale, giovani e giovanissimi. Fuochino.
Un Dna s’avvicina vagamente a quello rinvenuto sugli slip della ragazzina e cristallizzato dall’anatomopatologa Cristina Cattaneo. È un ragazzo, un lontano parente della famiglia Gambirasio di Gorno, in Val Seriana.
I detective in camice bianco partono da un residuo di saliva dietro una marca da bollo e fanno cinquina. La saliva è del padre del killer.
Il codice si incastra al 99% con quello del sangue dell’omicida. Eccolo il padre: Giuseppe Guerinoni, autista, morto nel ’99 a sessantuno anni dopo avere messo al mondo – forse a sua insaputa – il futuro assassino di Yara Gambirasio. Che si chiama Giuseppe come lui.
Ma resta un’idea. «Ignoto 1» lo chiamano.
Dov’è? Chi è sua madre? Quanti anni ha e, soprattutto, è ancora al mondo? «Prelevare 18mila Dna non è come dirlo – spiega l’investigatore – Per ognuno prima devi farci sopra uno studio. E dopo l’esito anche, per capire se e da dove è meglio proseguire le ricerche».
Padre certo, madre incerta. Fino alla fine. Quarantaquattro mesi al buio sulle autostrade A4 e A1; un van con le cellette frigorifere che trasporta i campioni prelevati nei paesi del mistero fino ai laboratori di medicina legale di Milano e poi nel cervellone molecolare del Ris di Parma.
Tre di 18mila erano quelli «giusti». Uno è lui, il killer in provetta. L’altro è il padre che oltre alla vita gli ha dato anche il nome (Giuseppe). L’altra è la madre che ha 80 anni.
Si rivela utile la testimonianza di Vincenzo Bigoni, vigile volontario a San Lorenzo di Rovetta ed ex collega di Guerinoni. «Mi disse che aveva messo nei guai una ragazza delle nostre parti con cui aveva una relazione», racconta il supertestimone, in scia con le «dritte» scientifiche.
Ne cercano migliaia di donne oggi 70-80enni della “zona”. Le cercano ovunque. Mentre il povero piastrellista marocchino Mohamed Fikri esce dall’indagine, c’è un’anziana madre che non salta fuori e un figlio assassino che si nasconde nella polvere depositata da mezzo secolo.
Anche in quella di cantiere che lascia sul cadavere di Yara. «Ci voleva un colpo di fortuna», chiosa il “cacciatore”. Arriva il 26 aprile scorso. I carabinieri prelevano il campione decisivo. Donna. Quasi ottantenne. Di Clusone. È la madre di Ignoto 1.
Il killer in provetta è incastrato.
Paolo Berizzi
(da “La Repubblica”)
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