Giugno 29th, 2014 Riccardo Fucile
LA FIDANZATA DI SILVIO BERLUSCONI SI ERA GIA’ ESPRESSA A FAVORE DELLE UNIONI CIVILI, ESORTANDO IL CENTRODESTRA A FAR SUA LA BATTAGLIA PER I “DIRITTI DELLE COPPIE OMOSESSUALI”
“Francesca Pascale e Vittorio Feltri annunciano la loro iscrizione all’Arcigay poichè ne condividono le
battaglie in favore dell’estensione massima dei diritti civili e della libertà ”.
L’annuncio è stato dato con una nota dalla segreteria di redazione de Il Giornale, nel giorno in cui in Italia si tiene l’Onda pride, la manifestazione che celebra la giornata dell’orgoglio gay, lesbico, bisessuale, trans, queer e intersessuale.
Un “gesto simbolico” per “affermare al massimo la necessità di estendere al massimo i diritti civili”. Vittorio Feltri spiega così all’Adnkronos la decisione di iscriversi, insieme a Francesca Pascale, all’Arcigay.
“Noi — rileva l’editorialista del Il Giornale — siamo per la libertà , senza discriminazioni, convinti che sia necessario superare i pregiudizi che generano equivoci, banalità , insulti noiosi e stupidi. Quando si tratta di trasformare i diritti in fatti concreti si trovano tutti in difficoltà . Renzi ha fatto tanti annunci e poi è finito in un sistema istituzionale che rende difficile qualsiasi iniziativa. Ogni volta che ci ha provato Berlusconi si è trovato il mondo addosso. Finchè si tratta di chiacchiere — dice — sono tutti d’accordo, quando è l’ora di trasformarle in fatti concreti si incontrano gli ostacoli”.
Per Feltri non è un problema l’iscrizione a un’organizzazione da sempre schierata a sinistra: “quando si tratta di diritti civili non esistono destra o sinistra. Il nostro — conclude — è un gesto simbolico, speriamo che contribuisca ad ottenere qualche risultato”.
Una notizia che segue l’intervista, rilasciata il 13 giugno al Corriere della Sera, in cui la fidanzata di Silvio Berlusconi aveva dichiarato il suo “sì” alle unioni civili.
“Cristo ha detto: ama il prossimo tuo come te stesso. Non ha insegnato a fare differenza tra gay ed etero“, aveva spiegato Francesca Pascale.
Che aveva esortato il centrodestra a fare la sua parte per difendere la libertà “di tante coppie omosessuali che vogliono vivere in pace”.
Da credente, aveva spiegato “ho rispetto per il matrimonio, soprattutto per quello cristiano: credo nella famiglia tradizionale, ma, da liberale, sono convinta che lo Stato debba rispettare le scelte e gli stili di vita di ciascuno. Questo significa che se due persone, per scelta o per necessità , non possono o non vogliono formare una famiglia, non per questo lo Stato può negare loro il diritto di vedersi riconosciuto il loro legame. Anzi, alla destra vorrei dire — e non appaia come una esortazione cinica – approfittiamone ora che c’è un Papa liberale, che ha mostrato significative aperture verso divorziati e omosessuali”.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Giugno 29th, 2014 Riccardo Fucile
PER LA FLESSIBILITA’ C’E’ TEMPO, TORNA DI MODA IL RIGORE
La flessibilità sui conti magari arriverà , ma per ora regna il rigore: mentre il premier Matteo Renzi celebrava il presunto successo italiano di aver ottenuto la promessa di qualche margine di manovra in cambio di riforme, il Consiglio europeo approvava le raccomandazioni della Commissione all’Italia rendendole ancora più dure.
“Nel 2015 il Consiglio raccomanda all’Italia di garantire le esigenze di riduzione del debito così da rispettare l’obiettivo di medio termine”, cioè il pareggio di bilancio strutturale (deficit a zero dopo aver tolto dal calcolo le componenti dovute all’effetto della recessione).
E l’Italia deve “assicurare il progresso” verso il pareggio già nel 2014. Queste le pesanti indicazioni del documento rivelato ieri da Federico Fubini su Repubblica.
Nelle sue raccomandazioni, a inizio giugno, la Commissione era stata chiara: il governo italiano non sta facendo la riduzione del debito da 4-5 miliardi nel 2014 promessa e ha deciso di rinviare il pareggio di bilancio dal 2015 al 2016.
Bruxelles non chiede nessuna manovra correttiva, per ora.
Se però in autunno non si dovessero materializzare i miracolosi impatti delle riforme sulla crescita, allora il governo dovrà intervenire già con la legge di Stabilità per ridurre debito e deficit
La situazione è questa: secondo Confindustria il Pil nel 2014 salirà dello 0,2 per cento invece che dello 0,8 indicato dal governo.
Stando così le cose bisognerebbe intervenire di sicuro, non si vede da dove possa arrivare questo impulso alla crescita nei prossimi due-tre mesi.
Si capisce a questo punto meglio l’esigenza di Renzi di ottenere qualche apertura dalla Commissione e da Berlino, il premier vuole dimostrare di essere sulla strada giusta delle riforme ed evitare che in autunno gli venga imposta la manovra per qualche zero virgola mancante: con i nuovi poteri dei regolamenti noti come two pack, la Commissione può anche bocciare la legge di Stabilità se non rispetta i numeri concordati.
C’è anche la possibilità che venga aperta una procedura di infrazione per debito eccessivo.
E tutto questo Renzi non può permetterselo perchè, in base a come andranno i negoziati col Parlamento sulle riforme, il premier potrebbe voler andare al voto nel 2015 ed è meglio non farlo mentre salgono le tasse o ci sono pesanti tagli di spesa (aggiuntivi a quelli sicuri per garantire gli 80 euro in busta paga anche l’anno prossimo e trovare i 32 miliardi di risparmi previsti dal commissario alla spending review Carlo Cotrarelli).
Stefano Feltri
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Giugno 29th, 2014 Riccardo Fucile
NONOSTANTE GLI ANNUNCI, DOMANI IN CONSIGLIO DEI MINISTRI SI DISCUTERANNO SOLO “LINEE GUIDA”… PER I PROVVEDIMENTI CI SI AFFIDERà€ A DISEGNI DI LEGGE NON ANCORA IN CALENDARIO
“Alla fine l’immunità resterà così come è prevista nel testo emendato dai relatori, Finocchiaro e
Calderoli”, ragionava qualche giorno fa un senatore democratico che sta seguendo molto da vicino le riforme costituzionali.
Prevedendo che nessuna cancellazione dello “scudo” ci sarebbe stata.
Guardando ai fatti, sembra proprio che abbia ragione. Non solo il governo ha dato il suo assenso alla norma sull’immunità durante il vertice a Palazzo Chigi del 17 giugno, non solo il premier si è assunto in proprio la responsabilità di averla approvata.
Ma c’è un altro dato di fatto: venerdì è scaduto il termine in commissione Affari costituzionali per i sub emendamenti al testo consegnato da Finocchiaro & Calderoli.
E non ce n’è uno di iniziativa governativa e neanche degli stessi relatori che cancelli la norma in questione.
Domani inizia il voto in commissione Affari Costituzionali e i sub emendamenti che vogliono l’abrogazione dell’immunità sono firmati dai Cinque Stelle o dai “ribelli” Pd, in testa Vannino Chiti.
Anna Finocchiaro aveva annunciato che avrebbe presentato lei stessa una modifica per affidare alla Consulta la decisione (soluzione questa che ha fatto registrare perplessità sia dal Quirinale, che dalla stessa Consulta).
Ma, a conti fatti, ha preferito non fare niente e lasciare il cerino nelle mani del governo.
Che per ora ha lasciato tutto com’era. I renziani meglio informati sono certi che lo scudo non verrà tolto: potrebbe essere riformulato, prevedendo che valga per i membri della nuova Camera delle autonomie solo nell’esercizio delle loro funzioni da senatori e non da amministratori. Ma tutto sta a vedere come andrà il dibattito in Aula.
Perchè poi le riforme si accavallano, le esigenze si incrociano.
E quando si parla di giustizia il tema diventa incandescente. Domani in Consiglio dei ministri non ci sarà la riforma annunciata dal premier, già durante il discorso per la fiducia, per giugno, termine ribadito più volte nei mesi.
Alla fine dell’ultimo Cdm era stato il ministro Boschi ad annunciare che nel prossimo (quello di domani appunto) si sarebbe discussa la riforma.
Ma il dibattito si limiterà alle linee guida, che verranno illustrate ai ministri dal Guardasigilli, Andrea Orlando.
Da via Arenula la raccontano così: il ministro e il premier si sono sentiti giovedì mattina, prima della partenza di Renzi per il Consiglio Ue, e non avendo di fatto mai avuto il tempo di discutere a fondo hanno deciso che sarebbe stato necessario un ulteriore approfondimento, prima di entrare nel merito di provvedimenti molto delicati, magari rischiando dissensi dai titolari degli altri dicasteri.
Fino a quando? Non è chiaro. Ci sarà , di certo, un decreto che affronterà il sistema della giustizia civile per fare fronte all’arretrato pesantissimo rappresentato da milioni di cause.
I tecnici di Palazzo Chigi stanno decidendo quando vararlo: stanno valutando bene le questioni legate all’iter parlamentare. Tradotto: se si fa a inizio luglio si rischia di non riuscire a convertirlo entro i tempi a disposizione, ovvero fineagosto.
Quindi si potrebbe spostare in là , magari alla fine del mese.
E il resto? Sarà tutto affidato a disegni di legge, che saranno presentati in momenti successivi, anche qui difficilmente prevedibili.
Se si prende il caso Pa, il Cdm con “le linee guida” si è fatto il 30 aprile, quello con i provvedimenti (in bozza) il 13 giugno, e i decreti effettivi sono stati scritti solo dopo e firmati dal Quirinale martedì 24.
Se è per la riforma del Senato, il ddl costituzionale è stato approvato il 31 marzo, il voto in Commissione inizia domani, con un testo che è stato quasi riscritto.
A proposito di ddl, a Palazzo Chigi ne esiste già uno sull’autoriclaggio, predisposto dal ministero della Giustizia, e consegnato oltre un mese fa, al quale lo stesso dicastero ha ipotizzato di aggiungere alcune norme sul falso in bilancio.
Ma, a meno di sorprese dell’ultimo secondo, domani non verrà tirato fuori.
I tempi si dilatano. E a occhio e croce l’iter parlamentare dei provvedimenti in questione non comincerà che dopo l’estate.
Il metodo Renzi — ormai s’è capito — è quello di spingere l’annuncio oltre l’ostacolo. Però trattandosi di materia incandescente come la giustizia ogni sospetto è lecito. Anche perchè il governo ha chiesto in Senato un rinvio della legge sull’anticorruzione proprio in attesa dei provvedimenti di fine giugno. Che non ci saranno.
Tra le voci che si rincorrono a Palazzo Madama ce n’è una insistente secondo la quale Forza Italia starebbe facendo pressione perchè l’accertamento del falso in bilancio abbia il via solo su querela di parte (come adesso), e non diventi automatico.
Renzi ha bisogno dei voti di Forza Italia per portare a casa le riforme costituzionali, tanto più la fronda di Palazzo Madama si allarga. E l’“ombra” dello scambio si allunga soprattutto quando trattativa su alcuni temi e temporeggiamento su altri vanno di pari passo.
Ieri il presidente del Consiglio ha annunciato che questa settimana è “decisiva” e quindi vedrà tutti: Pd, Forza Italia e Cinque Stelle.
“Le polemiche non devono frenarci, neanche quelle interne”, ha detto ai fedelissimi.
I suoi lavorano ad allargare la maggioranza, ma le falle restano.
Wanda Marra
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Giugno 29th, 2014 Riccardo Fucile
MA NON ERA STATO RENZI A PROMETTERE MENO TASSE?
La reggia di Arcore, residenza del Cavaliere, paga: per le ville, categoria catastale A8, il Comune ha stabilito che, oltre all’Imu (4 per mille, con una detrazione di 200 euro), c’è da versare anche la Tasi del 2,8, per un totale del 6,8 per mille.
A Capalbio, il buen retiro di tanta gauche, zero Tasi sia per le prime che per le seconde case, le quali però sono colpite da un’Imu ben più salata del 10 per mille.
In due topos dei ricchi e famosi come la Costa Smeralda (Comune di Arzachena) e Capri, pericolo scampato: nella località sarda niente Tasi, e Imu ferma; in quella campana non si è deciso, mentre ad Anacapri sì alla Tasi, pagata non sulle prime case dei residenti, bensì solo su quelle di villeggiatura.
E che sarà successo alla tenuta di Massimo D’Alema nelle campagne di Terni? Anche lì, niente Tasi, e solo l’Imu, che è al 9 per mille se “La Madeleine” (che formalmente appartiene ai figli) viene intesa come seconda casa, ma scende a zero se intesa come attività agricola.
Stranezze della nuova tassa sui servizi “indivisibili” dei Comuni, che al suo primo anno di applicazione sta già dipingendo il territorio nazionale con i mille colori del vestito di Arlecchino e scivolando nella commedia dell’arte.
Perchè le differenze non sono soltanto tra chi l’ha deliberata (circa un quarto dei Comuni) e chi no in tempo per il primo appuntamento di giugno, ma anche tra i sindaci che la applicano e quelli che vi hanno rinunciato, tra chi la mette solo sulla prima casa (la Tasi è nata per rimpiazzare l’Imu cancellata) e chi la spalma sulla prima ma anche sulla seconda casa, oppure la carica tutta sui non residenti.
C’è poi chi ha deciso di farne uno strumento di welfare, a volte con l’effetto di accentuare enormi disparità di trattamento tra famiglie a pochi metri di distanza l’una dall’altra, divise dal confine esile del territorio comunale.
Qualche esempio? Sesto San Giovanni mette l’aliquota Tasi al 3,3, ma per i suoi disoccupati la sconta del 70 per cento. San Canzian d’Isonzo promette la riduzione del 98 per cento a chi ha meno di 8.931 euro di reddito. Sasso Marconi concede le detrazioni solo ai cittadini in grado di risolvere il seguente rompicapo: «Sconto di 20 euro per ogni figlio minorenne dopo il primo inserito in nuclei famigliari formati da minimo tre persone con almeno due figli minori».
A Isili, in Sardegna, è prevista una tabella con 70 detrazioni diverse a seconda del reddito. Livorno decide per una Tasi secca al 2,5 per mille per tutti, con il risultato che pagherà anche chi l’anno scorso non pagava l’Imu.
A Firenze nessun versamento per la seconda casa fino a ottobre, e per la prima rinvio a fine anno.
A Venezia, con un bel 3,3 per mille di Tasi, si paga a luglio, come a Roma (al 2,5 per mille). Milano (2,5 per mille sulla prima casa e lo 0,8 sulla seconda) ha scelto di venire incontro a chi dà in affitto: abbuona la quota Tasi dell’inquilino se è inferiore ai 12 euro e di fatto riduce del 10 per cento la Tasi ai proprietari nel 60 per cento dei casi.
Insomma, una babele. Che ha messo a dura prova i cittadini, costretti a chiedere soccorso a Caf e commercialisti per dipanare istruzioni complicate come mai, storditi da detrazioni variabili in base a rendita catastale, reddito, numero dei figli in un mix da settimana enigmistica.
«Semplificate, standardizzate, evitate delibere chilometriche piene di “visto che…”», implora Franco Galvanini della Consulta dei Caf, in preallarme per la mole di delibere pazze che deve ancora arrivare.
La rabbia potrebbe deflagrare a ottobre, quando scadrà il turno per le amministrazioni ritardatarie, cioè per la maggioranza dei cittadini, e sarà la prima stazione di una dolorosa via crucis tributaria: Tasi (prima rata per seimila Comuni) appunto a ottobre, poi tassa sui rifiuti a novembre (secondo acconto per tutti), infine a dicembre ancora Tasi (seconda rata per tutti), più Imu (seconda rata).
Un filotto che renderà nero l’autunno delle famiglie, ma che potrebbe guastarlo anche al governo.
Per Matteo Renzi sarà il primo esame sul terreno minato delle tasse sulla casa.
Certo, ha dalla sua l’Europa, che benedice la stretta del fisco sul mattone, ma deve guardarsi da un potenziale effetto boomerang: il bonus degli 80 euro, che politicamente gli è valso l’ondata montante di consenso, potrebbe essere divorato dagli appuntamenti con l’erario, e rovesciare l’umore del Paese, così come degli alleati.
«Un pasticcio, un errore, un favore fatto a Forza Italia», all’ex ministro delle Finanze Vincenzo Visco ancora non va giù la decisione di cancellare l’Imu sulla prima casa, presa dal governo Letta.
Un pedaggio reso al centro-destra, con l’obiettivo politico di rendere più agevole la gestazione dell’Ncd di Angelino Alfano.
«La Tasi è stata presentata come una service tax per finanziare i servizi indivisibili forniti dai comuni», dice l’economista Alberto Zanardi, «ma di fatto è proprio una patrimoniale». In effetti l’illusione ha giocato in pieno: esentati dall’Imu, ritassati con la Tasi, che ha la stessa base imponibile, cioè il valore della casa. Ma sull’effetto finale della nuova tassa le sorprese non sono poche.
Secondo la fotografia d’insieme scattata dal Tesoro, i proprietari di prima casa che — al netto della quota trasferita allo Stato centrale — finanziavano la propria amministrazione con un’Imu di 3,8 miliardi, pagheranno ora ai Comuni una Tasi di 1,7 miliardi; i proprietari di seconde case su cui gravavano 12 miliardi di Imu, ora ne pagheranno più o meno lo stesso, 11,9, a cui si aggiunge però un assegno di 2 miliardi di nuova Tasi.
Se quest’ultima categoria di proprietari immobiliari viene dunque penalizzata, non è detto che tutti i proprietari della sola casa di abitazione pagheranno di meno. Anzi.
Perchè la previsione del Tesoro si basa sull’assunto che tutti utilizzeranno l’aliquota standard dell’1 per mille, mentre nella realtà questo non sta accadendo.
Nei duemila Comuni che hanno già deliberato, le aliquote si assestano piuttosto sui valori massimi del 2,5 per mille o addirittura del 3,3, consentito per quest’anno grazie all’addizionale dello 0,8 aggiunta in corsa dal governo (sempre Letta) dopo essersi accorto che i conti non tornavano.
L’Anci, che associa i Comuni, fa infatti tutt’altro calcolo: la prima casa produrrà una Tasi di 4, 2 miliardi, altro che gli 1,7 stimati dal Tesoro, e addirittura più dell’Imu orginale.
Come è possibile questo risultato?
Intanto non ci sono più isole felici: la no tax area, che prima riguardava le rendite catastali sotto i 370 euro e le famiglie con un figlio (grazie alla detrazione fissa di 200 euro e 50 per figlio), e salvava dall’Imu il 30 percento delle prime case, ora non esiste più.
Le detrazioni c’è chi le accorda — e con criteri assai diversi — e chi no. Il fatto è che oggi i Comuni si trovano di fronte a una doppia tagliola: primo, la Tasi ha aliquote inferiori a quelle per l’Imu prima casa, e quindi se si vuole incassare lo stesso bisogna andarci piano con gli sconti; secondo, scaricare tutto il gettito sulle seconde case spesso non è possibile, perchè il livello di tassazione esistente è già quasi al massimo.
Stando ai dati dell’Anci, per circa 6.200 comuni (dove vive la metà della popolazione) non sarà necessario spremere i propri cittadini: con un’aggiunta dell’un per mille sia sulle prime case che sulle seconde, sarà possibile recuperare l’introito dell’Imu cancellata.
Ma è tutt’altra musica per un’altra fetta consistente di comuni, tra i quali ci sono tutte le grandi città .
Per circa 1.600 municipi, stima l’Anci, impresa sarà più complicata perchè hanno già spinto al massimo l’aliquota Imu sulle seconde case, e per questo non possono caricarle più di tanto, ma devono invece utilizzare la Tasi massima sulla prima casa, evitando di largheggiare con le detrazioni.
E in questo gruppo c’è un sottogruppo di circa 300 comuni davvero nei guai. Il motivo è semplice: con l’Imu ci sono andati giù pesanti, applicando le aliquote top (oltre il 5 e oltre il 10 per mille per prima e seconda casa) e ora non riusciranno a replicare lo stesso gettito.
Chi sono? Tutte le città capoluogo oltre i 250 mila abitanti: Roma e Milano, ma anche Torino, Genova, Catania, Napoli, Torino, Bologna, Verona, Brescia, Parma, Perugia, Ravenna, Reggio Emilia.
Infine c’è un gruppo di circa 300 comuni (sotto i 156 mila abitanti), che si erano abituati ad un gettito elevato dell’Imu prima casa (oltre il 5 per mille), e che avrebbero la possibilità di torchiare le seconde case (perchè sono sotto il 9,6 per mille), ma non hanno abbastanza seconde residenze nel proprio territorio per rifarsi. Tra loro ci sono Andria, Avellino, Caltanissetta, Livorno, Terni, Vigevano, Gallarate.
Per chi non riesce a incassare quanto prendeva con l’Imu, quest’anno c’è il salvagente del Fondo da 625 milioni messo a disposizione dal Tesoro per tappare i buchi.
Ma nel 2015? «Abbiamo ridotto la pressione fiscale sulla casa riportandola al livello del 2012», spiega l’assessore al Bilancio di Milano, Francesca Balzani, «e ciò ha prodotto una perdita di gettito di 100 milioni. Quest’anno attingeremo al Fondo, ma in futuro porremo il tema di trattenere anche la quota Imu che trasferiamo allo Stato: è una questione di trasparenza con i cittadini».
Si profila dunque una nuova partita, nell’eterno cantiere delle tasse sulla casa. In cui non mancano i costruttori: per le case invendute erano riusciti a farsi cancellare l’Imu, ma ora vengono colpiti dalla Tasi.
E non ci vogliono stare.
Paola Pilati
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Giugno 29th, 2014 Riccardo Fucile
HA GUADAGNATO CENTO MILIONI, LAVORA ANCHE PER I DITTATORI
Un vecchio amico come Robert Harris lo ha ripudiato. «Non lo riconosco più».
Il giornalista che scrisse «The Ghost», il libro fra realtà e finzione che narra la storia di un premier britannico chiamato a rispondere di crimini di guerra (poi divenuto film di Roman Polanski, «L’uomo nell’ombra»), era un fedele «partigiano» di Tony Blair. Il sodalizio si è rotto da tempo
Qualche giorno fa, sul Guardian , Robert Harris ha scaricato addosso all’ex leader britannico nuovo veleno: «È un narcisista con il complesso del Messia e ha commesso un peccato mortale voltando le spalle alla politica per cui si è battuto per abbracciare la causa dei ricchi».
Può essere che fra i due vi sia qualche questione personale rimasta in sospeso ma le parole di Robert Harris riassumono il pensiero di molti laburisti
Il problema non è soltanto che Tony Blair appoggiò Bush nella guerra in Iraq, passando sopra la maggioranza pacifista del partito: un capo di partito e di governo ha il diritto, assumendosene poi la responsabilità , di decidere per propria intima convinzione che i despoti vadano eliminati con la forza, congelando le diplomazie.
Il problema è anche che Tony Blair ha costruito un piccolo impero economico che si alimenta di ricche consulenze a governi che democratici non sono, a banche d’investimento, a fondi sovrani.
Dov’è finito il Blair di una volta?
È destino che i grandi leader spacchino le platee. Il coraggio di prendere posizione, che piaccia o non piaccia, si paga a caro prezzo.
A Tony Blair questa virtù non è mai mancata. Anzi. Ma oggi le critiche più pesanti che gli arrivano sono di altra natura e riguardano quei milioni di sterline che entrano nella fondazione, la «Tony Blair Associates», e nelle società a essa collegate.
Tutto alla luce del sole. Fin troppo.
Perchè con sicura baldanza (e se la può permettere) Tony Blair gira il mondo dando consulenze agli arabi, ai palestinesi, alle potenze asiatiche, alle capitali europee.
Gli affari vanno a gonfie vele, a tal punto che ha deciso di aprire un ufficio ad Abu Dhabi per rafforzare il suo ruolo nel Medio Oriente.
«C’è una chimica speciale e particolare fra Tony e lo sceicco Mohammed bin Zayed», ha spiegato un collaboratore di Blair. I due condividono una forte opposizione all’islamismo integralista. Ma condividono pure le poltrone in uno degli scrigni del piccolo Stato, il Mubadala, ovvero uno dei fondi d’investimento controllati dall’emirato.
Abu Dhabi è l’ultimo capitolo della saga. A cavallo fra politica e affari, Tony Blair si destreggia con indiscutibile cinismo.
La lista ufficiale dei contratti è di tutto rispetto. Il Financial Times ha scoperchiato l’altarino dei due milioni e mezzo di sterline annui versati dalla banca d’affari JP Morgan.
Poi ci sono le collaborazioni con il governo brasiliano, con i governi africani (Ruanda, Liberia, Sierra Leone), con gli esecutivi di Albania e Romania, con il dittatore kazako Nazarbaev, con la Mongolia, con il Kuwait, con gli Emirati Arabi Uniti.
L’uomo che fu l’architetto del nuovo laburismo è un consigliere fidato per le riforme politiche ed economiche, per gli investimenti, per i megacontratti petroliferi.
Una rete capillare di lavori e commissioni.
L’esperienza, l’intelligenza, l’abilità dell’ex premier laburista si acquistano a peso d’oro. Chi ha provato a fare i conti in casa Blair sostiene che le entrate sfiorino i 100 milioni di sterline.
Sparare a zero contro Tony Blair è diventato uno sport nazionale nel Regno Unito. Non c’è riconoscenza. È però sicuro che dal 2007 (l’addio a Downing Street) a oggi le sue finanze si siano gonfiate. Non è una colpa.
Quanti prima lo vedevano come un condottiero invincibile, forse ne invidiano la scaltrezza e non tollerano il «tradimento».
Ma, al di là delle polemiche sul tesoro accumulato, il vero punto debole di Tony Blair è il conflitto d’interessi.
Lui ha ricevuto il mandato dal «Quartetto» (Unione Europea, Russia, Nazioni Unite, Stati Uniti) di mediatore in Medio Oriente.
Delicato incarico politico e diplomatico. La domanda è semplice: può il consulente di una delle parti in causa (i governi arabi) essere equidistante leader capace di comporre il conflitto più lungo della storia?
C’è chi spinge per il «licenziamento» di Tony Blair da quel ruolo affidatogli dal «Quartetto». Frettolose suggestioni. Ma Tony Blair dovrà scegliere.
O fa il lobbista-consulente privato. O resta una risorsa per la diplomazia e la politica internazionale.
L’ambiguità è il virus dell’ultimo Tony Blair.
Fabio Cavaler
(da “il Corriere della Sera”)
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Giugno 29th, 2014 Riccardo Fucile
COME IL ROTTAMATORE DIVENTA RESTAURATORE
Dopo due settimane di inseguimenti, il giallo dell’immunità ai senatori non più eletti è dunque risolto: nel progetto originario del governo Renzi non c’era; poi il 17 giugno — fa sapere Palazzo Chigi, dopo le nostre ripetute insistenze — il premier incontrò una delegazione di senatori Pd che la chiesero a gran voce; allora il Rottamatore divenne Restauratore e diede l’ok al ripristino dello scudo impunitario.
Che infatti si tramutò immantinente in emendamento firmato da Finocchiaro & Calderoli, relatori in commissione Affari costituzionali, che intanto avevano raccolto l’unanime analoga richiesta degli altri partiti favorevoli al Senato non elettivo (Ncd, FI, Lega e centrini).
Emendamento approvato per ben due volte via email il giorno 19 dal ministero delle Riforme guidato da Maria Elena Boschi.
Il 21 giugno il lieto evento apparve sui giornali. E il 22 la bella addormentata nei Boschi dichiarò a Repubblica che era tutta colpa dei partiti, mentre lei e il governo tutto erano contrari.
Una bugia bella a buona, visto che sia Renzi sia lei avevano avallato il ripristino dell’immunità . Finocchiaro e Calderoli, rimasti col cerino acceso in mano, si ribellarono e dissero che erano tutti d’accordo — partiti e governo —, precisando di essersi limitati a fare i notai della suprema volontà della maggioranza delle riforme, cioè della somma di quella del governo più FI e Lega (esclusi una dozzina di dissidenti del Pd).
Apriti cielo, fuggi-fuggi generale: a parole, tutti i partiti favorevoli divennero contrari. Nei fatti, pur potendo cancellare l’emendamento Calderoli-Finocchiaro, si guardarono bene dal farlo. La solita fiera del tartufo.
Tant’è l’immunità rimane scritta a caratteri aurei nel testo che il Senato inizierà a votare a metà luglio. L’unica differenza rispetto all’attuale articolo 68 della Costituzione è l’annuncio che a votare l’autorizzazione agli arresti, alle intercettazioni e alle perquisizioni dei parlamentari non saranno più Camera e Senato, ma la Corte costituzionale.
Vedremo se questa bizzarra innovazione, che affida al giudice delle leggi la responsabilità di esprimersi su un’indagine giudiziaria in corso, resterà affidata alla tradizione orale tipica dell’èra renziana, o si tradurrà in qualcosa di scritto.
La sostanza è che i senatori, anche se non verranno più eletti ma nominati dalla Casta, resteranno cittadini più uguali degli altri. Come i maiali di Orwell.
Infatti di questa porcata nessuno vuole assumersi la paternità , come se l’avesse portata la cicogna all’insaputa di tutti.
Da ieri, grazie al nostro giornale, sappiamo invece che: a chiederla è stato il Pd, a volerla è stato Renzi in persona e a dire le bugie è stata anche la Boschi.
Sarà bene tenerlo a mente in vista del voto al Senato, perchè lì la questione tornerà d’attualità e ripartiranno le supercazzole e gli scaricabarile.
La principale scusa per giustificare l’ingiustificabile è questa: l’immunità non è un privilegio per gli eletti, ma una garanzia per la carica. Lo scrive il giurista Michele Ainis sul Corriere di ieri, rammentando che sono immuni anche i giudici costituzionali, che nessuno elegge.
Vero, ma il giudice costituzionale fa solo il giudice costituzionale. Il nuovo senatore invece è un cittadino eletto per fare il sindaco o il consigliere regionale, dopodichè il consiglio regionale gli mette pure il pennacchio di senatore: il fatto che sia anzitutto un amministratore locale è dimostrato dal fatto che scade da senatore non al termine della legislatura senatoriale, ma quando chiude il mandato nel suo comune o nella sua regione, o quando la sua giunta cade in anticipo.
Il nuovo Senato non esercita più il potere legislativo (non vota le leggi, a parte quelle costituzionali, ma esprime solo pareri non vincolanti alla Camera): è una sorta di dopolavoro gratuito e part-time per amministratori locali, che non si vede perchè mai dovrebbero essere immuni full-time.
O meglio, si vede benissimo: i partiti già pensano di mandarci i loro compagnucci nei guai con la giustizia per salvarli dalla galera.
In fondo il Senato è sempre meglio della latitanza.
Marco Travaglio
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Giugno 28th, 2014 Riccardo Fucile
IL TESORO MINIMIZZA, MA ORA CI SONO DA TROVARE DUE MILIARDI
La questione è più politica che strettamente contabile. 
La bocciatura del rinvio del pareggio di bilancio decisa dall’Ecofin a metà giugno e ratificata nel vertice del Consiglio europeo appena concluso di cui parla oggi Repubblica peserà poco nella lista della spesa che il premier si prepara ad affrontare al ritorno della vacanze a settembre in vista del varo della legge di stabilità .
Meno di due miliardi, sempre ammesso che le stime di crescita su cui si regge tutto l’impianto previsionale del governo non si rivelino poi infondate.
Ma non passa comunque inosservata la coincidenza dei tempi: mentre il presidente del Consiglio era a Bruxelles per negoziare, a parole, maggiori margini di flessibilità all’interno del rispetto dei trattati esistenti, contemporaneamente lo stesso vertice sanciva nero su bianco la bocciatura alla prima e unica richiesta formale fatta dal governo di deroga ai patti europei.
E dire che, mentre si discute di ben più consistenti spazi di manovra da poter sfruttare all’interno delle strettissime maglie dei trattati comunitari, la richiesta formalizzata ad aprile dal ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan era stata — pur dovuta —piuttosto esigua.
Vale a dire uno slittamento minimo rispetto al pareggio di bilancio in termini strutturali: dal 2015 chiesto dall’Europa al 2016 fissato nel Documento di Economia e Finanza, arrivando comunque a un passo (-0,1%) già il prossimo anno.
“Il governo — aveva scritto il ministro nella sua missiva a Bruxelles – si impegna a rispettare il piano di rientro del debito con il raggiungimento dell’ obiettivo pieno nel 2016 e sostanziale nel 2015”.
Anche per questo dal Tesoro trapela serenità . Un po’ perchè le raccomandazioni erano note almeno dalla metà di giugno, quando l’Ecofin ha corretto, in peggio, il testo uscito dalla Commissione all’inizio di giugno.
Il via libera di qualche giorno fa, si spiega, è un atto di normale prassi istituzionale. Ma il punto più importante sta proprio nelle parole utilizzate dal ministro Padoan.
Le nuove raccomandazioni, pur irrigidite rispetto al testo uscito dalla Commissione, non impongono nè manovre correttive nè interventi straordinari per il prossimo anno, fanno sapere da via XX settembre.
Il pareggio di bilancio verrà “sostanzialmente” raggiunto già il prossimo anno, rispettando così anche le richieste formulate dal Consiglio. Anzi, quello 0,1% di differenza tra l’obiettivo europeo e la tabella di marcia italiana potrebbe costituire un primo banco di prova in Europa della flessibilità di cui tanto si parla in questi giorni.
Diversamente, la correzione nella legge di bilancio per il prossimo anno sarebbe stata ancora più robusta di quanto già non sia destinata ad essere.
Già ora ci sono 20 miliardi da trovare. A partire dai 10 miliardi per rendere strutturale il taglio dell’Irpef che solo in una minima parte, circa 3 miliardi, sono già stati trovati in modo permanente nel decreto varato ad aprile.
Senza contare il fatto che l’estensione della platea per la concessione del bonus, promessa tanto da Renzi quanto da Padoan, rischia di far lievitare sensibilmente la cifra.
A questi — ed altri 5 miliardi che il governo dovrà trovare per spese indispensabili come il rifinanziamento delle missioni internazionali o la cassa in deroga — si aggiungono i 4,9 miliardi con cui il governo sa già di dovere fare i conti per abbassare il deficit strutturale.
La previsione era di dovere scendere di “0,5 punti percentuali” dallo 0,6 del 2014 fino allo 0,1 “grazie ad una manovra di consolidamento interamente finanziata da riduzioni di spesa pari a 0,3 punti percentuali di pil sul primario”. I 4,9 miliardi.
Aggiustamento che, a questo punto, potrebbe essere eventualmente leggermente più caro.
(da “Huffingtonpost”)
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Giugno 28th, 2014 Riccardo Fucile
IL CENTROSINISTRA SI ATTESTA AL 45,8%, IL CENTRODESTRA AL 32,7%
Il Partito democratico vola nei sondaggi: se dovesse votare oggi, il 42,6% degli italiani voterebbe per il Pd.
E’ quanto emerge da un’indagine di SWG, che rileva una percentuale in crescita per il Pd rispetto alle intenzioni di voto rilevate una settimana fa (41% il 19 giugno) e rispetto alle europee del 25 maggio (40,8%).
Scende invece al 2% Sinistra Ecologia e Libertà (3,1% il 19 giugno e 4% alle europee).
Complessivamente il centrosinistra si attesta al 45,8% (46% una settimana fa e 45,4% alle europee), mentre il centrodestra al 32,7% (31,4% il 19 giugno e 31,1% alle europee).
Forza Italia nelle intenzioni di voto recupera, salendo al 18,1% (16,7% il 19 giugno, 16,8% alle europee), Ncd è al 4,4% (4% il 19 giugno e 4,4% alle europee), Fratelli d’Italia al 3,3% (3,8% il 19 giugno, 3,7% alle europee), Lega al 6,6% (6,6% il 19 giugno, 6,2% alle europee).
M5S in leggero calo al 19% (20,6% il 19 giugno, 21,2% alle europee), Scelta Civica all’1% (0,7% sia il 19 giugno che alle europee).
Una percentuale consistente invece non si esprime sulle proprie intenzioni, il 39,6%.
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Giugno 28th, 2014 Riccardo Fucile
DALLE SLIDE AI PROCLAMI: IL METODO DEL RENZISMO SPOPOLA IN TV E ARRIVA IN EUROPA… E I FATTI SONO COME LA NEBBIA MILANESE DI TOTà’ E PEPPINO, CHE C’È MA NON SI VEDE
Il renzismo c’è ma non si vede. Esattamente come la mitica nebbia milanese nella mala-femmina di
Totò e Peppino.
L’ultimo sviluppo della tradizione orale imposta dalla nuova era di Matteo Renzi ingloba adesso anche la delicatissima materia della giustizia, al centro dello scontro politico nel ventennio breve berlusconiano.
Il dibattito sulla presunta riforma, annunciata dal Guardasigilli in un’intervistona a Repubblica, ferve da due giorni ma si basa appunto su proclami e intenti.
Di scritto, nulla. Falso in bilancio, stretta o meno sulle intercettazioni, prescrizione, giustizia civile, responsabilità dei magistrati sono questioni tornate d’attualità solo in pagine di giornali e dichiarazioni d’agenzia.
Qualcosa di concreto dovrebbe arrivare lunedì prossimo ma attenzione: nel Consiglio dei ministri la Grande Riforma della giustizia sarà truccata sotto forma di linee guida.
Tutto il renzismo è impregnato di linee guida: la riforma della Pubblica amministrazione (sfociata poi in due decreti), quella del terzo settore, la presidenza del semestre europeo e ora la giustizia.
Le linee guida sono un caposaldo della tradizione orale del governo (già raccontata da Salvatore Cannavò sul Fatto del 19 giugno scorso) e rischiano di trasformare il Pd non solo nel PdR, cioè il Partito di Renzi, ma anche nel nuovo Pnf, secondo la strepitosa battuta di Pietrangelo Buttafuoco: Pnf come Partito nazionale della fuffa.
Di questo passo il renzismo postideologico del Terzo millennio porrà un serio problema agli storici di domani.
Lo stesso che ha assillato generazioni di studiosi dell’Africa. La storia del continente nero è infatti definita come “civiltà della parola” per mancanza di fonti scritte e stabili. Tutto deriva della tradizione orale, appunto.
Oltre alla maschera delle linee guida, resa più sexy dal culto delle slide, un altro concetto chiave della propaganda delpremier è il fatidico metodo.
Il “metodo” si sta affermando in questi giorni europei molto intensi. Ancora non si sa cosa porterà a casa di fattuale Renzi, ma i suoi aedi girano di trasmissione in trasmissione ad annunciare che il “metodo di Matteo” ha spopolato in Europa. Esemplare, in merito, il sottosegretario Sandro Gozi, ex prodiano, che ha una faccia da secchione pignolo.
L’altra mattina, a Omnibus, i giornalisti lo incalzavano sulla natura dei risultati raggiunti da Renzi nell’Ue.
Lui, con ossessiva ripetitività , ha opposto sempre “la vittoria del metodo”. In che cosa consista il metodo non è però ben chiaro. Si torna alla metafora della nebbia di Totò e Peppino. Il metodo c’è ma non si vede.
Sulle promesse e sulle linee guida Renzi ha messo la faccia centinaia di volte. Memorabile il suo duetto con Bruno Vespa nel marzo scorso, a Porta a Porta, sul pagamento dei debiti alle aziende da parte della Pubblica amministrazione.
Il premier annunciò, sicurissimo di sè, l’azzeramento delle richieste entro la fine dell’estate.
Il conduttore si mostrò scettico e lui rilanciò: “Al 21 settembre, ultimo giorno d’estate, se noi abbiamo pagato tutti i debiti della pubblica amministrazione Bruno Vespa fa un pellegrinaggio a piedi da Firenze e Monte Senario”.
Il 21 settembre si avvicina, mancano meno di tre mesi, ma l’unica certezza è che l’Italia è stata colpita da una procedura di infrazione europea. Non solo. Tutti i pagamenti fatti sinora, 23,5 miliardi di euro su un totale di 68, sono merito soprattutto dei soldi stanziati dai precedenti governi di Mario Monti ed Enrico Letta.
Archiviato il tormentone degli 80 euro, approvati per decreto quasi un mese dopo le elezioni europee (la specialità del Pnf è l’azzardo), il premier ha puntato tantissimo anche sulle riforme istituzionali, ridottesi alla fine nella querelle sul Senato non elettivo e di fatto congelando l’Italicum, la nuova legge elettorale.
Qui, sul Senato, il renzismo delle linee guida e del metodo dovrà fare i conti con una variabile impazzita che ha già ingannato molti a sinistra: Silvio Berlusconi.
Il Cavaliere, in vista della sentenza d’Appello del processo Ruby, sembra sempre più intenzionato a legare i suoi guai giudiziari al patto del Nazareno, sottoscritto con “Matteo”.
Senza dimenticare i mal di pancia trasversali sul nuovo Senato, cosa succederà quando l’ennesima Grande Riforma resterà sulla carta per la marcia indietro dell’ex Cavaliere, gravato da una nuova condanna definitiva sulle spalle?
Giustizia, Pubblica amministrazione, riforme istituzionali.
Il renzismo, a parole, non si è risparmiato nulla. Un altro grandioso annuncio è stato il Jobs Act, il piano per il lavoro.
Ma tra spacchettamenti e legge-delega bisognerà attendere almeno il 2015 per vedere qualcosa di concreto.
È la conferma ulteriore che siamo precipitati in una civiltà della parola.
E quando gli storici rinverranno le slide renziane come fonti storiografiche, aggiorneranno il catalogo delle forme della tradizione orale.
Fabrizio d’Esposito
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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