Agosto 5th, 2016 Riccardo Fucile
NESSUN RILIEVO PENALE, MA LA PROVA DEL RUOLO CHIAVE DELL’ASSESSORA CINQUESTELLE IN AMA
Buzzi chiama l’assessora all’Ambiente di Roma, allora solo consulente della azienda rifiuti, Paola Muraro.
A registrare la telefonata, che spunta tra le carte di Mafia Capitale e che rivela un inedito rapporto diretto con il ras delle coop Salvatore Buzzi, sono i carabinieri del secondo reparto del Ros.
È il tardo pomeriggio del 20 settembre del 2013 e il ras delle coop ha bisogno di sapere se una pratica di una sua coop è a posto.
“Salvatore Buzzi chiamava Paola Muraro di Ama spa – scrivono i magistrati nell’ordinanza di 88mila pagine sugli intrecci del “Mondo di Mezzo” – la quale gli riferiva che la richiesta di chiarimenti era stata inviata dal Cns di Bologna, ed entro il giorno dopo, alle 12, sarebbero dovuti arrivare i chiarimenti, dal momento che la busta “B” sarebbe stata aperta alle ore 13. Buzzi confermava dicendo che avrebbe avvisato subito”.
Così tre minuti dopo, chiusa la telefonata con la Muraro invia 2 sms per rassicurare: uno al suo collaboratore Lucci, l’altro a uno dei big di Legacoop Lazio, Salvatore Forlenza.
Il “chiarimento” dato serve per poter partecipare a una gara d’appalto da 21,5 milioni, per la raccolta dei rifiuti, indetta da Ama e alla quale partecipò il consorzio bolognese Cns di cui Buzzi era consigliere.
Ma lui aveva anche un interesse diretto: una volta aggiudicato l’appalto, la gestione dei servizi sarebbe andata alle sigle del suo circuito.
Per conoscere i dettagli dell’aggiudicazione e informarsi sullo stato della pratica, ma soprattutto per ribattere in tempo ai chiarimenti chiesti da Ama, Buzzi chiama direttamente proprio Paola Muraro, che non si sottrae e pare fornire le informazioni richieste.
Nulla di penalmente rilevante, ma è un dato che l’assessora, per conoscere e fornire dettagli non di sua stretta competenza, in Ama fosse molto più di una consulente.
(da agenzie)
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Agosto 5th, 2016 Riccardo Fucile
UCOII: “COMUNI NON CI CHIEDONO I BILANCI, NOI LI DIAMO SENZA PROBLEMI”
“Pioggia abbondante” in arabo Ghaith, l’equivalente coranico della manna biblica. Così si chiama
l’operazione lanciata nel 2015 dalla Qatar Charity Foundation (QC), ente caritatevole governativo saudita, per realizzare nuove moschee o rendere più dignitose quelle esistenti.
Un’operazione senza precedenti, una specie di Piano Marshall per l’Islam in Europa che coinvolge 23 Paesi tra cui Francia, Belgio, Kosovo e Bosnia.
Anche in Italia la “ghaith” ha portato molta acqua: la sola l’Ucoii (Unione delle comunità islamiche d’Italia), la più rappresentativa delle associazioni dell’Islam in Italia con oltre 150 associazioni che amministrano più di 200 luoghi di culto e associazioni, ha ricevuto attraverso QC 25 milioni di euro in tre anni.
Un risultato straordinario, difficile da ripetersi, ammette la stessa associazione.
Il denaro arriva direttamente dal fondo sovrano Qatar investiment authority, lo stesso che ha fatto shopping a Milano, acquistando i grattacieli dell’area di Porta Nuova o l’hotel Gallia e ha comprato Meridiana e Valentino.
Ma un asset viaggia con il culto del Profeta e marcia a pieno regime.
L’ultimo viaggio della delegazione guidata dall’imprenditore qatariota Ahmad al-Hammadi, è passata tra il 24 e il 28 maggio da Piacenza, Brescia, Vicenza e Mirandola (Modena), con al seguito il presidente e il tesoriere dell’Ucoii.
Sono almeno tre anni in realtà che Doha investe molto denaro a sud delle Alpi. Il sito del gruppo di analisti americani Consortium against terrorist finance riporta che nel 2013 QC ha portato in Sicilia 2,4 milioni di euro da investire in otto strutture, l’anno seguente è toccato ad altre dodici località , tra cui Milano, Torino, Roma e Verona.
Il presidente dell’Ucoii Izzedin Eldir, contattato da IlFattoQuotidiano.it, conferma le cifre ma resta vago sulla destinazione: “Sono servite per aiutare 40-43 moschee e sale di preghiera”.
Quali, dove, come non lo dice esattamente. Sono associazioni federate Ucoii che hanno presentato progetti “per rendere più dignitoso il luogo di preghiera”.
Tra queste, la più importante è l’associazione di Sesto San Giovanni, che ha ottenuto il finanziamento per una nuova moschea. Un progetto da 2.450 metri quadrati e 5 milioni di euro.
Altri aiuti, minori, arrivano dai sauditi e dai turchi, in particolare con l’associazione Milli Gorus, un network di associazioni, molto radicato in Germania, il cui fondatore Necmettin Erbakan è stato uno dei principali ispiratori del partito Akp del presidente turco Erdogan.
Non proprio moderati. E qui sta il punto. La trasparenza, la tracciabilità dei flussi non è più un dettaglio ma una questione di sicurezza nazionale.
L’ultimo Rapporto Annuale dell’Unità di Informazione Finanziaria (UIF) della Banca d’Italia indica che nella galassia di segnalazioni scaturite da anomalie finanziarie ce ne sono diverse “rilevate su rapporti intestati a organizzazioni senza scopo di lucro, di matrice religiosa e/o caritatevole (centri culturali islamici, associazioni, fondazioni, Onlus, etc.)”.
“Il Qatar, rispetto agli altri Paesi del Golfo, è il primo finanziatore dei Fratelli Musulmani, anche dopo le primavere arabe — rincara l’islamista Paolo Branca, docente all’Università Cattolica di Milano -. Non è un aspetto che si può prendere sotto gamba”.
Queste opacità , non senza operazioni sospette, durano da almeno 30 anni, ossia da quando sono cominciate a nascere le prime sale di preghiera e le prime organizzazioni islamiche.
Essendo associazioni private, non sono obbligate per legge a pubblicare i bilanci, nè a fornire gli elenchi completi dei donatori. “Se i Comuni ci chiedono i bilanci, li forniamo senza problemi, ma da quanto mi risulta sono loro che non li chiedono”, sostiene sempre Izzedin Eldir.
Tra i metodi attraverso cui le associazioni si finanziano c’è uno dei quattro pilastri dell’Islam: lo zakat, ossia il “supporto ai bisognosi”.
Si tratta di una tassa minimo del 2,5% che ci si autoimpone sulla propria ricchezza. Va donata alla comunità , per compiere opere di bene. Ad oggi, non è possibile tracciare nè l’origine di questo denaro, nè per che cosa venga investito.
Galassia Islam. Il Viminale non sa quante sono le moschee
Se i conti delle associazioni islamiche sono opachi, il loro status giuridico non è da meno. E la responsabilità di questo grava sulle spalle del Ministero dell’Interno e delle diverse consulte o comitati per l’Islam italiano sotto i ministri Pisanu, Amato, Maroni e ora Alfano.
Si brancola talmente nel buio che il Viminale non fornisce dati chiari nemmeno su quante siano le moschee in Italia: a dicembre 2015 uno studio ne nominava sei (Roma, Segrate, Colle Val d’Elsa, Ravenna, Palermo e Catania), scese poi a quattro nelle dichiarazioni di aprile del ministero dell’Interno Angelino Alfano.
I cantieri aperti sono almeno altrettanti: ce ne sono due previste nel bando del 2014 del Comune di Milano per i nuovi luoghi di culto, una a Sesto San Giovanni, un’altra a Brescia, più altre due a Torino e Bergamo, ferme perchè le casse sono rimaste all’asciutto.
A ben vedere l’unica moschea d’Italia giuridicamente riconosciuta tale è la Grande Moschea di Roma, la prima e l’unica che ha un ente gestore – il Centro Islamico Culturale d’Italia – registrato con lo status giuridico di ente morale, nel 1974.
Le altre hanno invece solo le caratteristiche architettoniche della moschea (primo tra tutti almeno un minareto), ma come status giuridico vivono ancora in un limbo.
“La Grande moschea di Roma è una moschea delle elitè, una moschea della politica e del dialogo ufficiale con la Chiesa Cattolica”, puntualizza l’islamista Branca. Non certo un luogo di popolo: i fedeli di Roma frequentano maggiormente lo scantinato di Centocelle piuttosto che il luogo di culto ufficiale.
Bergamo, 2 anni fa 5 milioni per la moschea. Mai costruita
Le ultime grandi moschee, quelle in procinto di essere realizzate, sono ferme.
Neppure iniziate sono diventate oggetto della discordia, sia per motivi politici che per le divisioni che da sempre caratterizzano la galassia delle comunità radicate in Italia. Oltre al caso arcinoto di Milano, dove la guerra per la moschea è finita a carte bollate paralizzando il progetto, tiene banco quello di Bergamo dove la fondazione del Qatar ha fatto arrivare cinque milioni di euro, un quinto di tutto il denaro destinato ai progetti italiani.
Doveva diventare uno dei luoghi di culto più grandi e importanti del Paese. I soldi sono arrivati due anni fa ma della moschea non c’è traccia.
Erano affidati al Centro Culturale Islamico, l’associazione fondata dal medico giordano Imad El Joulani, sede dell’unica moschea al momento riconosciuta in città . Che viene però denunciato dal suo vice e dai vertici dell’Ucoii per appropriazione indebita. Sulla vicenda indagano la locale Procura e la Digos, anche per chiarire l’esatta origine dei fondi depositati su conti ora sequestrati.
Ipotesi concordato
Come coniugare il diritto di culto con le esigenze di sicurezza?
Il dibattito recentemente si è concentrato sulla possibilità di arrivare a un concordato con i rappresentanti delle comunità islamiche in Italia che consentirebbe allo Stato di pretendere il rispetto di requisiti di trasparenza e controllo che finora hanno incontrato resistenza, come la predicazione in lingua italiana o criteri selettivi per gli imam per scongiurare il rischio dell’indottrinamento radicale.
E le comunità , una volta riconosciute come confessioni dallo Stato, potrebbero accedere ai fondi dell’8Xmille potendo così finanziare i propri centri senza dipendere dalla generosità , non sempre disinteressata, di qualche Paese “benefattore”.
Un dialogo che stenta a partire e potrebbe invece iniziare proprio dalla trasparenza che a ben vedere è tema comune.
Da noi passa per leggi e norme ma mille anni fa Tirmidhi, un grande imam, studioso tradizionalista del Corano raccomandava: “Nessuno passa il giorno del giudizio prima di rispondere sulla propria ricchezza da dove se l’è procurata e come l’ha spesa”. Anche per i musulmani è dunque un valore scritto nel Corano.
Ma il precetto non sempre è applicato.
Lorenzo Bagnoli
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Agosto 5th, 2016 Riccardo Fucile
IL SUO NOME SPUNTA IN DIVERSE INDAGINI DAL 2011
Uno strumento nelle mani della ‘ndrangheta. Questo sarebbe stato il senatore calabrese Antonio Caridi secondo le accuse che gli vengono mosse dalla Dda di Reggio Calabria.
L’intera sua carriera politica dai primi passi nel consiglio comunale di Reggio Calabria fino allo scranno di Palazzo Madama sarebbe stata costruita dalla Santa, la cupola che comanda e coordina i clan calabresi.
Quarantasette anni, figlio dell’ex vicesindaco democristiano di Reggio Calabria, di professione audiometrista, Caridi entra ufficialmente nell’agone politico nel 1997 quando viene eletto consigliere comunale nelle file dell’Udc con oltre 1500 voti. Resterà in Comune per oltre dieci anni, fino al 2010 quando con oltre 11mila voti viene eletto consigliere regionale.
Un record di preferenze che gli varranno la poltrona di assessore alle Attività produttive nella giunta di centrodestra guidata da Giuseppe Scopelliti.
Tre anni dopo il salto di qualità con l’elezione in Senato con il Popolo delle libertà . Seguirà il ministro Angelino Alfano nel Nuovo centrodestra fino alla fine del 2014 quando aderirà al gruppo Gal. Una carriera politica su cui adesso splende una luce sinistra.
Già nel 2011 il nome dell’allora assessore regionale era finito negli atti della Dda di Genova sulle infiltrazioni delle cosche calabresi in Liguria.
Sospetti che avevano fatto saltare la nomina del senatore nella Commissione parlamentare antimafia.
A mettere nero su bianco accuse pesantissime sarà però la Procura di Reggio Calabria. È il 15 luglio quando gli inquirenti della Dda fanno scattare l’operazione “Mammasantissima”.
In manette finiscono l’ex deputato del Psdi Paolo Romeo, già in carcere dal 9 maggio scorso, l’ex consigliere regionale e sottosegretario della Giunta regionale di centrodestra Alberto Sarra, l’avvocato Giorgio De Stefano e il dirigente regionale Francesco Chirico.
Per Caridi invece parte la richiesta di autorizzazione al Senato.
Per il Ros dei Carabinieri gli indagati farebbero parte di una «struttura segreta di vertice della ‘ndrangheta in grado di dettare le linee strategiche di tutta l’organizzazione e di interagire sistematicamente e riservatamente con gli ambienti politici, istituzionali ed imprenditoriali». È la Santa, luogo di incontro tra massoni e ‘ndranghetisti.
Questa direzione strategica della criminalità organizzata a partire dalla fine degli anni Novanta avrebbe puntato proprio sul futuro senatore Caridi.
Secondo la ricostruzione della Dda i clan avrebbero garantito i voti e il politico una volta dentro le istituzioni avrebbe ricambiato il favore.
Per i magistrati reggini Caridi avrebbe avuto un ruolo centrale nel favorire l’ingresso di ditte in odor di ‘ndrangheta nelle società partecipate del Comune di Reggio.
E poi ancora assunzioni negli enti sub regionali e negli ospedali. Il senatore avrebbe addirittura procurato un medico per curare un latitante della famiglia De Stefano.
Un quadro pesantissimo che viene ribadito il 19 luglio quando vengono arrestate 42 persone per le infiltrazioni della ‘ndrangheta nei lavori del Terzo Valico.
La Dda chiede di nuovo l’arresto del senatore, ma il gip questa volta rigetta ritenendo le accuse già assorbite dalla precedente ordinanza.
Ma anche in questo caso sarebbe emerso lo strettissimo legame tra il politico e gli uomini dei clan.
Addirittura gli affiliati nelle elezioni regionali del 2010 sarebbero arrivati a minacciare i dipendenti delle loro imprese di licenziamento se loro e le loro famiglie non avessero votato Caridi.
«E lui – ha sottolineato il procuratore aggiunto Gaetano Paci – lo sapeva».
Dopo vent’anni in politica da oggi pomeriggio Antonio Caridi occupa una cella del carcere di Rebibbia.
Gaetano Mazzucca
(da “La Stampa“)
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Agosto 5th, 2016 Riccardo Fucile
L’INVESTIMENTO DA 70 MILIONI APERTO NEL 2013, POI BLOCCATO E ORA NUOVO VIA LIBERA TRA LE POLEMICHE
La Procura di Lecce riaccende i riflettori sul progetto di resort extralusso nell’uliveto
monumentale Sarparea di Nardò. E inevitabilmente sotto la lente finisce anche l’operato della Regione Puglia.
Il fascicolo sull’investimento da 70 milioni di euro fu aperto nel 2013 con l’ipotesi di danneggiamento e poi congelato a causa dello stop imposto all’iter dall’allora assessora all’Urbanistica, Angela Barbanente.
Nei giorni scorsi la Regione Puglia ha rilasciato parere paesaggistico favorevole al nuovo progetto dell’Oasi Sarparea, ridimensionato rispetto al precedente in quanto a volumetrie (96mila metri cubi al posto dei 150mila) e a numero di villette previste (30 anzichè 60).
“Un cambiamento totale – ha spiegato l’assessora regionale all’Urbanistica, Anna Maria Curcuruto – che ha trasformato un progetto scandaloso in proposta compatibile con l’ambiente”.
Cambiamento che la Procura di Lecce dovrà valutare in ogni dettaglio. Per questo motivo il parere paesaggistico rilasciato dalla Regione nei prossimi giorni sarà acquisito insieme col progetto dagli uomini del Corpo forestale su disposizione del procuratore aggiunto Elsa Valeria Mignone, che coordina anche l’inchiesta sulla lottizzazione parallela di Soviva (sempre nell’uliveto Sarparea).
Fu proprio la Mignone, tre anni fa, a scoprire durante un sopralluogo che non tutti gli ulivi risultano censiti.
Per verificarlo basta fare una passeggiata nell’area a un paio di chilometri dal mare di Sant’Isidoro e contare le targhette apposte agli ulivi: sono pochissime, mentre gli alberi millenari sono centinaia.
L’inghippo del conteggio lo spiega l’ambientalista neretino Massimo Vaglio: “L’uliveto fu impiantato nel 1.500 su uno preesistente, fatto di alberi classificati come monumentali in base alla grandezza e di altri che sono altrettanto secolari anche se più piccoli”.
Di sicuro sono tutti splendide sculture, tra le quali dovrebbero sorgere 30 villette a compendio di un corpo principale del resort che nascerebbe dalla ristrutturazione di una masseria.
In alcuni punti i giganti sono vicinissimi tra loro, tanto che è difficile immaginare come le case – e soprattutto le opere a servizio – possano inserirsi tra essi senza danneggiarli.
Sui rischi che corrono gli alberi, però, c’è ancora poca chiarezza e forse i numeri precisi emergeranno quando il progetto sarà depositato al Comune di Nardò, che deve approvare il Piano attuativo e poi rilasciare i permessi a costruire.
Nelle intenzioni dichiarate neanche un albero sarà sacrificato. Ma c’è da considerare anche il fattore xylella, visto che molte piante presentano segni di disseccamento e non sono state curate: anche su questo il Comune dovrà vigilare.
(da “La Repubblica“)
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