Agosto 12th, 2016 Riccardo Fucile
AMNESTY INTERNATIONAL FORNISCE LE PROVE: 40 BIMBI RICOVERATI CON CHIARI SINTOMI DI ATTACCO CHIMICO… E’ MORTO A CAUSA DELLE BOMBE SIRIANE L’EROE DEI CASCHI BLU CHE SALVO’ UN BIMBO DALLE MACERIE
“Per anni ha salvato la gente dalle macerie di Aleppo e in mezzo all’orrore ha donato momenti di
speranza. Ha dedicato la sua vita alle persone giovani e meno giovani della Siria. Le vittime più indifese della guerra”, con queste parole è stato ricordato Khaled Omar, un volontario della protezione civile che era stato definito “l’eroe d’Aleppo” per il suo impegno instancabile. È morto ieri, durante un raid. Aveva 30 anni.
Mentre chi poteva è fuggito dalla Siria, Omar è rimasto lì, a scavare a mani nudi tra le macerie, con gli altri caschi bianchi, un gruppo di volontari formato da 2.600 membri, tra cui più di 50 donne.
Nel 2014 è diventato noto agli occidentali per un video caricato su YouTube.
Nelle immagine si vede il giovane volontario che salva un bambino, a mani nude, scavando tra le macerie di una casa di Aleppo.
Un palazzo era stato bombardato e una donna cercava di ritrovare suo figlio, neonato tra le macerie.
Dopo ore di ricerca, Omar era esausto e anche gli altri volontari erano pronti a rinunciare, quando sentirono un grido, come racconta la Cnn. Khaled Omar seguì il pianto del neonato e per tutta la notte spostò i detriti.
Il bambino fu tirato fuori ancora vivo, tra le lacrime dei presenti.
Khaled Omar era sposato e aveva una figlia di 3 anni, ma aveva deciso ugualmente di partire volontario. Ieri l’annuncio della sua morte ha destato profonda commozione.
Intanto, la città di Aleppo è stata colpita da un nuovo attacco chimico.
Lo ha denunciato Amnesty International: almeno 60 persone, tra cui 40 bambini, sarebbero stati ricoverati con sintomi caratteristici di un attacco col cloro.
Un medico di Aleppo ha riferito ad Amnesty International che tutti i ricoverati presentavano gli stessi sintomi (difficoltà di respirazione e tosse) e che l’odore di cloro sui loro vestiti era evidente.
Secondo il medico, se gli attacchi proseguiranno le scorte di medicinali sono destinate a esaurirsi rapidamente.
“Se confermato – scrive l’ong – costituirebbe un crimine di guerra oltre che un allarmante segnale dell’intensificato uso, da parte del governo siriano, delle armi chimiche contro la popolazione civile”.
L’attacco, avvenuto ad al-Zibdiye, un quartiere controllato dai gruppi armati che si oppongono al governo di Damasco, è il terzo portato a termine nel giro di due settimane nel nord della Siria.
Le persone morte sono almeno quattro.
(da “Huffingtonpost”)
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Agosto 12th, 2016 Riccardo Fucile
IL PIANO B SE IL CONFINE E’ SORVEGLIATO
«Io non li carico più, però nei nostri Paesi si trova sempre gente disponibile. In queste settimane è sicuramente più difficile, ma anche oggi chi vive da queste parti saprebbe come farli passare».
L’uomo che conosce ogni angolo del confine fra la provincia di Como e il Canton Ticino, una condanna alle spalle per traffico di esseri umani e un processo in corso per vicende analoghe, accetta di spiegarci – sotto la garanzia dell’anonimato – come i migranti riescono a entrare in Svizzera.
Il «passeur» è una persona che non dà nell’occhio: un operaio disoccupato, un pensionato che fa sempre avanti e indietro per fare benzina o per fare un giro con la famiglia negli outlet di Mendrisio.
«Il metodo è sempre quello. E la prima regola è passare inosservati – racconta l’ex passatore -. In questi giorni di emergenza con poliziotti e telecamere di mezzo, c’è solo bisogno di fare più attenzione».
La rotta è quella fra Milano e Chiasso, il sogno proibito dei 500 che in queste settimane sostano davanti alla stazione ferroviaria di Como o degli oltre tremila che affollano i centri d’accoglienza del capoluogo lombardo.
«Quindici minuti di paura e di tensione, ma si guadagnavano un sacco di soldi: fino a 250 euro a persona, un migliaio di euro a viaggio» spiega.
Sono briciole rispetto alle migliaia di euro che un ragazzino eritreo paga da quando lascia il suo villaggio fino a quando riesce a riabbracciare suo fratello in Germania o in Norvegia.
«Può sembrare immorale chiedere soldi a quei disperati, ma per loro è l’unico modo per raggiungere le loro famiglie» sottolinea senza quasi rendersi conto della gravità di questi reati. Tanti in queste zone hanno approfittato della vicinanza con il confine per fare guadagni facili.
Con i migranti il business è cominciato negli Anni Novanta: prima i bosniaci in fuga dalla ex Jugoslavia, poi gli albanesi e i kosovari.
Ma qui la tradizione degli «spalloni» è vecchia come il lago: una volta si contrabbandavano sigarette e medicinali passando con le gerle di vimini sui sentieri di montagna, poi ci sono state la stagione dei contanti nascosti nei doppifondi delle auto truccate e quella della cannabis acquistata nei coffe shop (legali in Ticino fino ai primi anni 2000) e smerciata nelle piazze del Nord Italia.
Oggi la merce più pregiata sono gli esseri umani. Infatti dal settembre 2015 le autorità elvetiche, insieme a quelle italiane e tedesche, hanno creato una forza speciale ad hoc: il Gruppo Interforze per la repressione dei passatori.
Nel solo Canton Ticino sono stati individuati sei diversi gruppi criminali con due diverse filiere: africana e siriana.
Gli italiani servono solo per gli ultimi metri, dove chi non è «del posto», non sa come muoversi. E soprattutto non sarebbe in grado di gestire gli imprevisti.
«Si comincia per caso – prosegue il passeur comasco -. Può capitare di essere avvicinati in un bar, di fare due chiacchiere. Quando capiscono che sei la persona giusta arriva l’offerta. Il compito è semplice: parcheggiare davanti alla stazione e aspettare. I migranti arrivavano in treno da Milano insieme a un intermediario, spesso di origini centrafricane. Il mediatore consegna i soldi e sparisce. L’autista parte verso la frontiera, quasi sempre con una macchina civetta che lo precede. Si scelgono i valichi minori, Ronago o Drezzo, che da sempre sono anche quelli meno controllati. Chi va in avanscoperta avverte di eventuali posti di blocco. Se arriva il via libera l’autista procede fino a Mendrisio o Lugano, dove li scarica in stazione».
Da qui i migranti possono proseguire verso Nord.
Se quel giorno la dogana è presidiata invece scatta il piano B.
L’auto devia dal percorso stabilito e viene parcheggiata in una strada laterale. Il gruppo raggiunge un punto in cui la rete è tagliata e sbuca in Svizzera a piedi.
Dopo pochi minuti l’auto civetta, che nel frattempo è entrata in Svizzera senza problemi, li carica e li porta a destinazione.
Se tutto è filato liscio e ci sono altre richieste si può provare a fare un altro viaggio. «Ho sentito di gente che è riuscita a portare di là anche 30 persone in un giorno, guadagnando migliaia di euro – conclude il passatore pentito -. Io ho ceduto alla tentazione ma quando al processo mi hanno definito “trafficante di carne umana” mi sono reso conto di essere stato la pedina di un gioco terrificante».
(da “La Stampa”)
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Agosto 12th, 2016 Riccardo Fucile
COSI’ I CLAN CALABRESI HANNO SCONFITTO LA MAFIA NEL CONTROLLO DEL NARCOTRAFFICO
Laval, sobborgo a nord di Montreal, Canada. Primo marzo. 
Lorenzo Giordano ferma il Suv Kia blu sull’asfalto innevato del parcheggio del Carrefour Multisport, vicino alla highway 440. Spegne il motore, il crocifisso legato allo specchietto retrovisore sta dondolando. Sono le 8.45, la mattinata è gelida.
Un killer sbuca a lato della macchina e gli spara alla testa e alla gola, frantumando il vetro del finestrino. Lorenzo “Skunk” Giordano, 52 anni, muore poco dopo, in ospedale.
Carlton, quartiere italiano di Melbourne, Australia. 15 marzo. Un signore abbronzato con i capelli ben pettinati esce dal Gelobar, la sua gelateria. Sta camminando, è da poco passata la mezzanotte. È solo, e la strada è buia. Lo freddano alle spalle sparandogli da un’auto in corsa, senza neanche fermarsi.
Tre ore dopo un netturbino scende dal camioncino e si avvicina al cassonetto. Accanto c’è il cadavere di Joseph “Pino” Acquaro, 50 anni, famoso avvocato.
Ancora Laval, 27 maggio. Alla fermata dell’autobus su boulevard St. Elzèar è seduto un uomo, sui trent’anni, vestito completamente di nero. Scarpe nere, pantaloni neri, giacca nera, occhiali neri. Sono le 8.30.
La Bmw bianca di Rocco Sollecito, come previsto, passa sul boulevard. Il semaforo è rosso, si ferma. L’uomo nero si alza, e punta la pistola contro il finestrino della macchina. Rocco “Sauce” Sollecito, 62 anni, scivola sul sedile imbrattato del suo sangue, colpito a morte.
Italiani che parlano inglese e sparano. Altri italiani che parlano inglese e muoiono. Canada, Australia, Stati Uniti. Reggio Calabria.
Il terremoto di sangue ha un epicentro silente, New York. E nuovi clan emergenti che hanno preso troppo potere, come gli Ursino, ‘ndranghetisti di Gioiosa Ionica. L’onda d’urto si è propagata su tutto il pianeta. Le vite affogate nel piombo di “Skunk”, “Pino” e “Sauce” sono scosse di assestamento. La chiamano la “guerra mondiale della mafia”.
LA SESTA FAMIGLIA
New York, quindi. Niente è come prima. Le cinque grandi famiglie di Cosa Nostra, Gambino, Bonanno, Lucchese, Genovese e Colombo non sono più quelle che erano. Lo documentano le ultime inchieste del Federal bureau of investigation (Fbi), condotte insieme agli investigatori del Servizio centrale operativo (Sco) della polizia italiana. Giovedì scorso l’Fbi ne ha catturati altri 46, tra la Florida, il Massachusetts, il New Jersey, New York e il Connecticut: capi, mezzi capi e paranza dei Gambino, dei Genovese, dei Bonanno.
È finito dentro anche il 23enne John Gotti jr, nipote dell’ultimo grande boss di Cosa Nostra americana. Assediati dalle indagini e indebolite da un ricambio generazionale difficoltoso, i siciliani stanno cedendo spazio, in maniera apparentemente quasi del tutto incruenta, alla mafia calabrese.
Nella Grande Mela i clan dei Commisso e degli Aquino-Coluccio si sono insediati da anni, ma chi sta rivendicando per sè il ruolo di “sesta famiglia” sono gli Ursino di Gioiosa Ionica. E questo è un problema, per tutti.
Una sesta famiglia, infatti, c’è già . Pur non ammessa nel gotha criminale di New York, i Rizzuto di Montreal, in Canada, hanno storicamente un legame stretto con i Bonanno.
Se c’è da mettere in piedi un affare di un certo peso – partite di cocaina, armi clandestine, riciclaggio – i referenti sono loro. Un rapporto che da un po’ di tempo non è più così solido.
Tra il 2012 e il 2013 una fonte confidenziale dell’Fbi rivela che Francesco Ursino, il boss della omonima cosca storica alleata dei Cataldo di Locri, ha chiesto ai Gambino di poter lavorare sulla piazza di New York “proprio come una sesta famiglia”.
Chiesto per modo di dire. A questo giro sono i siciliani di Cosa Nostra a trovarsi di fronte a un’offerta che non si può rifiutare, perchè quando ha bussato alla porta dei Gambino, Francesco Ursino in realtà si era già preso tutto: le rotte del narcotraffico, i contatti con i cartelli messicani e colombiani, il controllo dei porti e dei cargo.
Il boss parlava a nome non di una famiglia sola, ma di quello che gli investigatori nell’indagine New Bridge (che porterà alla cattura del capoclan) definiscono “un consorzio” di clan della Locride.
Rifiutare avrebbe voluto dire per i Gambino ingaggiare una guerra senza senso, e dall’esito incerto. Meglio mettersi d’accordo e accettare il dato di fatto. Sul mercato mondiale della cocaina, ‘ndrangheta rules, comanda.
I BROKER E I CARTELLI SUDAMERICANI
Da anni i calabresi lavorano nell’ombra a New York, negli scantinati delle loro pizzerie e nei retrobottega dei loro “italian restaurant”.
Volano a Bogotà e San Josè nel weekend, fingendosi turisti. “Se volete sapere cosa succede a New York, cercate in Centro America; se volete sapere cosa succede tra i Cartelli del Golfo guardate chi comanda a New York”, spiega Anna Sergi, criminologa dell’Università dell’Essex, studiosa delle proiezioni dell”ndrangheta all’estero.
E in Centro-Sud America succede che i calabresi comandano. Marcano il territorio. Agganciano intermediari. Sparano il meno possibile. Più finanza meno casini.
La gola profonda che ha spiegato alla Dea e all’Fbi cosa si stava muovendo nel ventre criminale della Grande Mela si chiama Cristopher Castellano.
È proprietario di una discoteca nel Queens, il Kristal’s, che usa per nascondere quello che in realtà è: un broker dei Los Zetas, il pericolosissimo cartello messicano paramilitare dei disertori dell’esercito che si avvale di lui per commerciare stupefacenti negli States e in Europa. Con i narcotrafficanti, Cristopher ha fatto una montagna di soldi.
La festa dura poco, però. Lo arrestano nel 2008, e lui, pur di uscire dalla galera, canta. Si vende ai poliziotti due calabresi: Giulio Schirripa e tale “Greg”.
Racconta di questi due italiani che, usando le pizzerie come copertura e i soldi della ‘ndrangheta come garanzia, stanno muovendo tonnellate di cocaina nascosta nei barattoli di frutta trasportati dalle navi portacontainer.
“Hanno una pipeline attraverso gli oceani”, sostiene Castellano. Se girano grosse partite di polvere bianca che dal Co-globale starica raggiungono gli Usa, il Canada, il Vecchio Continente e l’Australia, è roba loro.
Distribuiscono, smistano, organizzano i viaggi delle navi, aprono società fittizie di import-export, corrompono doganieri. A New York vanno a cena con i Genovese. A San Josè si incontrano con gli uomini di Arnoldo de Jesus Guzman Rojas, il capo del cartello di Alajuela.
A Reggio Calabria riferiscono al clan Alvaro. Sono dei “facilitatori”, insospettabili perchè incensurati: creano le condizioni per portare la polvere bianca dai laboratori nella giungla del Costarica al naso dei consumatori. Schirripa, arrestato insieme a Castellano, è l’archetipo dell’emigrato calabrese alla conquista di New York. Gregorio “Greg” Gigliotti, l’epigono.
Cristopher Castellano è diventato carne morta nel momento stesso in cui ha aperto bocca con gli agenti federali.
Quattro luglio del 2010, negli Stati Uniti si festeggia il giorno dell’Indipendenza. Ad Howard Beach, nel Queens, lo spettacolo di fuochi d’artificio è iniziato poco prima di mezzanotte. Castellano però non ha gli occhi al cielo, sta frugandosi le tasche per cercare le chiavi della macchina. Un colpo solo, alla nuca. Nessuno si accorge di niente. Castellano non soffierà più all’orecchio dell’Fbi.
L’UOMO CHE MANGIAVA IL CUORE
Intanto, però, gli investigatori hanno messo sotto controllo i telefonini e riempito di cimici i ristoranti di Gigliotti nel Queens, tra cui il famoso ‘Cucino a modo mio’ citato nelle riviste specializzate di tendenza.
“Non c’è un grammo di cocaina in Europa che non sia passata tra le mani di Gregorio”, ripetono spesso i complici dell’italiano, terrorizzati dalle escandescenze di Gigliotti. Quando si arrabbia, col suo dialetto calabrese impastato di slang americano può dire cose terribili: “Una volta mi sono mangiato un pezzo di rene e un pezzo di cuore”, sbraita con la moglie, irritato da un altro calabrese che sta provando a inserirsi nel suo business.
Il centro dei suoi affari è il Costa Rica, dove ha contatti diretti con i narcotrafficanti grazie a una fitta rete di broker e fiduciari.
“E digli che non facciano troppo i furbi…”, ripete loro, quando li spedisce a trattare in Sudamerica. Lui accumula denaro, i poliziotti dello Sco e dell’Fbi ascoltano e anticipano qualcuna delle sue mosse.
Porto di Anversa, 16 chili di cocaina sequestrati. Porto di Valencia 40 chili, Wilmington 44 chili. Porto di Rotterdam 3 tonnellate. Poi l’8 maggio scorso lo arrestano. Finisce dentro anche suo figlio, Angelo.
Ma poche settimane dopo torna in libertà grazie a una cauzione da cinque milioni di dollari. Pagata in contanti.
LA MATTANZA CANADESE.
Fuori gioco i referenti degli Alvaro, New York se la sono presa gli Ursino. Compresi i contatti con i sudamericani. Le scosse del terremoto si riverberano in Canada, dove le gerarchie si sgretolano. E con esse la pax mafiosa.
Dagli anni Ottanta i criminali italiani emigrati lì si erano divisi gli affari, tra Toronto e Montreal. Ai siciliani del clan Rizzuto la droga, ai calabresi arrivati da Siderno il gambling, il gioco d’azzardo, e l’usura. La mappa l’hanno disegnata nel 2010 gli investigatori italiani che hanno lavorato alla maxi inchiesta ‘Crimine’ (che per la prima volta individuò i vertici dell”ndrangheta) ed è ancora valida. Tre anni fa Vito Rizzuto, il capo, muore di tumore.
Nei mesi successivi, in coincidenza con l’ascesa degli Ursino nel quadrante nordamericano, quattro dei sei membri del “Consiglio” dei Rizzuto vengono uccisi. Gli altri due si salvano soltanto perchè sono in galera.
L’ultimo a cadere è stato Rocco “Sauce” Sollecito. Poche settimane fa a Montreal stava per finire in una bara Marco Pizzi, 46 anni, importatore di cocaina per il clan secondo la polizia, sfuggito per un soffio ai suoi sicari che lo avevano tamponato con una macchina rubata. Erano mascherati e armati. “I calabresi hanno attaccato i vecchi poteri”, ragiona un investigatore. “È ‘ndrangheta contro mafia”. La guerra mondiale, quindi.
LA FAIDA AUSTRALIANA
La scia di sangue si allunga fino all’Australia, dove il golpe calabrese sulle rotte della cocaina ha destabilizzato equilibri che si reggevano dalla fine degli anni Settanta.
La famiglia Barbaro sembra aver perso il passo, e i contatti con i nuovi importatori sarebbero passati nelle mani di Tony e Frank Madafferi.
A Melbourne i calabresi combattono contro i calabresi. Frank Madafferi e Pasquale “Pat” Barbaro furono indagati nel 2008 nel processo per il più grande carico di metanfetamine mai intercettato nella storia della lotta al narcotraffico: 4,4 tonnellate di ecstasy, per un controvalore di 500 milioni di dollari australiani (340 milioni di euro) in pasticche stivate in una nave che trasportava lattine di pomodori pelati. Ma quel processo non è l’unica cosa che Tony Madafferi e Pat Barbaro, poi condannato all’ergastolo, hanno in comune.
A unirli, come spesso accade, anche la scelta dell’avvocato: il professionista italo- americano Joseph Acquaro.
L’uomo trovato morto dal netturbino davanti alla gelateria, lo scorso marzo. Le indagini sono ferme al palo anche se un paio di elementi hanno attirato l’attenzione su Madafferi: in particolare alcune intercettazioni in cui si dichiara proprietario di Melbourne (“È mia, non di Pasquale”) e si dice pronto ad uccidere il rivale (“gli mangio la gola”).
Ma soprattutto il racconto di un pentito che ha spiegato alla polizia come nel sottobosco malavitoso di Melbourne tutti sapessero della taglia che Tony aveva da poco messo sulla testa dell’avvocato, colpevole a quanto pare di aver cominciato a parlare un po’ troppo con giornalisti e investigatori: 200mila dollari australiani.
UN ARRESTO A FIUMICINO
Chi li abbia incassati non si sa. Quello che si sa è che pochi giorni prima di quell’omicidio, all’aeroporto di Fiumicino i carabinieri di Locri avevano arrestato Antonio Vottari, 31 anni, accusato di gestire i traffici di droga tra il Sudamerica e l’Europa per conto delle cosche di San Luca.
Rientrava da Melbourne, dove da anni trascorreva la sua latitanza, con un visto da studente. Le sorti della guerra mondiale della mafia le decidono in Calabria.
Tutto parte da là . E tutto, prima o poi, là ritorna.
(da “La Repubblica“)
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Agosto 12th, 2016 Riccardo Fucile
BOOM DI RICHIESTE DI RIENTRO DAL REGNO UNITO: TEMONO DI AVERE UN FUTURO INCERTO… UNIVERSITA’ DI BOLOGNA: “DECINE DI DOMANDE, PER NOI E’ UN’OPPORTUNITA'”
“Le domande sono arrivate una dopo l’altra non appena Brexit è diventata una realtà . Ci hanno scritto professori e ricercatori italiani da tutte le università del Regno Unito. Come se, all’improvviso, la possibilità di “tornare a casa” fosse diventata urgente, soprattutto per chi è espatriato anni fa, e si è ritrovato oggi non soltanto lontano dall’Italia, ma anche fuori dall’Europa”.
È passato poco più di un mese e mezzo dall’addio della Gran Bretagna alla Ue, ma Giorgio Bellettini, direttore del dipartimento di Economia dell’università di Bologna, spiega che l’effetto Brexit sul mondo accademico non solo è già evidente, ma si è manifestato fin da subito.
“Ad aprile scorso avevamo lanciato sul sito “Inomics” una call of interest per alcune cattedre di professore ordinario e associato nel nostro dipartimento. Si tratta di un annuncio che viene pubblicato su siti specializzati, per capire se a livello internazionale esistono studiosi interessati e adatti a quegli incarichi. In due mesi e mezzo avevamo avuto soltanto 38 domande. Poi, già dalla stessa sera del referendum, il 23 giugno, un’impennata di richieste, 35 in una settimana, e gran parte da docenti italiani con contratti in università inglesi, ma anche da professori di altre nazioni emigrati nel Regno Unito”.
La prova, cioè, di un imprevisto controesodo. Cervelli che tornano. Nonostante tutto. Perchè fare ricerca ed essere tagliati fuori dall’Europa può rivelarsi, alla lunga, pericoloso e penalizzante. Nelle università ma non solo.
In un rimescolamento di flussi di vita, di studio e di lavoro nelle pieghe dei quali, dice Bellettini “l’Italia può avere delle occasioni, anche colleghi di altri atenei mi hanno segnalato una ripresa di interesse verso il nostro paese”.
Europa infatti significa fondi europei.
“Ossia budget ricchi, milioni di euro destinati alla ricerca che rappresentano l’ossigeno per le università , comprese quelle inglesi. Ma dopo lo “strappo” – sottolinea Giorgio Bellettini – gli atenei britannici potranno ancora avere i fondi per il loro progetti?”.
In realtà la risposta della Ue non si è fatta attendere, così ha scritto nei giorni scorsi su “Nature” il fisico britannico Paul Crowtther, raccontando come il suo gruppo di ricerca fosse stato escluso da un consorzio europeo, proprio a causa di Brexit.
“È evidente che in questa incertezza – aggiunge Bellettini – gli stranieri, in questo caso gli italiani, provano a guardarsi intorno, e forse a tornare indietro”.
Se davvero dunque siamo alla vigilia di un controesodo di cervelli, almeno dal Regno Unito, c’è da chiedersi se l’Italia è pronta.
Perchè spesso, nonostante tutte le promesse, questo ritorno è assai poco favorito dalle università , che privilegiano chi è cresciuto dentro i dipartimenti piuttosto di chi arriva da fuori.
In realtà l’effetto Brexit potrebbe trovare una rete nelle “cattedre Natta”, così chiamate in onore di Giulio Natta, Nobel per la Chimica nel 1975.
“Se davvero ci sarà questo flusso di ritorno – dice Filippo Taddei, responsabile economico del Pd – le cattedre Natta, previste dalla legge di stabilità 2016, saranno un’opportunità per molti. Il senso è quello di far arrivare nelle nostre università studiosi di alto profilo, ma senza gravare sui bilanci degli atenei. Ognuno di questi posti infatti è già finanziato a tempo indeterminato, e il professore che viene assunto con questa modalità non sarà legato per sempre ad una determinata università , ma finita la ricerca potrà andare altrove. I fondi della cattedra Natta, infatti, “seguono” il docente”.
In realtà per l’istituzione di queste cattedre mancano ancora i decreti attuativi. “I decreti sono in fase di attuazione – aggiunge Filippo Taddei – del resto Brexit ci impone una accelerazione. È stato uno strappo che nessuno avrebbe voluto, ma per l’Italia si aprono possibilità che non dobbiamo lasciarci sfuggire”.
(da “la Repubblica”)
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Agosto 12th, 2016 Riccardo Fucile
DOVEVA ESSERE L’ANNO DEL CAMBIAMENTO, SIAMO A UNA FICTION DI SOPRAVISSUTI CON PALINSESTI SCONTATI
Gli esseri umani sono ridotti a quello che mai avrebbero pensato di diventare, cioè una micro
collettività che in un anfratto di provincia americana lotta per non estinguersi.
Il quadro storico-fantascientifico è quello del 4032, e l’evento cardine è la mutazione genetica che ha creato la genìa degli Abbie: mostri devastatori del pianeta intero, ora all’assalto della cittadina-fortezza di “Wayward Pines” (da cui il titolo della serie in onda in questi giorni su Fox con la prima stagione, e dal 29 agosto ogni lunedì alle 21 con la seconda).
Dopodichè il discorso frena per assumere doppia forma e sostanza, visto il parallelismo tra quanto accade nel video-dramma scritto da M. Night Shyamalan e le vicende horror che quest’estate ingombrano i corridoi di viale Mazzini.
In Rai, di fatto, la situazione è emergenziale almeno quanto nell’urbe immaginaria dell’Idaho dove i resti della nostra civiltà oppongono resistenza ad antagonisti feroci. Soltanto che qui, nella sede romana della tv di Stato, all’ombra del celebre cavallo ormai esausto, si assiste a un day after senza che ci sia stato il day before.
Doveva essere la stagione del cambiamento, questa, l’apoteosi della meritocrazia e della conversione alle ragioni del Mondo Nuovo (devoto alla multimedialità e al ripensamento del verbo generalista nel rispetto di un pubblico sempre più anziano), ma a fronte di un passato logoro sta arrivando un ulteriore passato: quello riassunto, ad esempio, da Fabio Fazio e il suo “Rischiatutto” zombie.
O dalla riproposta del duo Cuccarini-Parisi come sintesi di un presente in letargo.
O ancora, dal ricollocamento dell’ottantenne Pippo Baudo a “Domenica in” in sostituzione del semi coetaneo Maurizio Costanzo (l’anno scorso a capo della direzione artistica).
Come giustificare il peso delle retribuzioni apicali con le modeste ambizioni dei prossimi palinsesti?
Evitando la noia del dibattito socio-culturale, si può passare direttamente alla constatazione che il modello “Wayward-Rai-Pines” lancia un allarme rosso: ovvero la fatica di costruire un’identità catodica che non sia frutto di schegge e schemi di ieri. Deriva non casuale.
Se nell’accerchiata cittadina su Fox a comandare è la Prima Generazione, costituita da un gruppo di giovani oligarchi, in Rai governa una bella squadra di amici: che se da un lato – ed era ora- non ha la macchia della lottizzazione, dall’altro rischia di finire imbrigliata dalla sua matrice iper omogenea.
Difficile a questo punto prevedere quale sarà il finale: sia della fiction che della Rai. Riusciranno gli uomini di “Wayward Pines” a sconfiggere i mostri sanguinari?
E riuscirà Viale Mazzini a debellare una volta per tutte la mediocrità , stroncando il ciclo dei ricicli e dei format cari e sciapi?
Molto dipenderà dalla capacità di visione del direttore generale Antonio Campo Dall’Orto.
Che, sarà certo un caso, ha lo sguardo più sfuggente d’Italia.
Riccardo Bocca
(da “L’Espresso”)
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