Aprile 18th, 2018 Riccardo Fucile
LA STRAGE DIMENTICATA, 45 ANNI DOPO: I DUE FIGLI DEL “FASCISTA MATTEI” UCCISO UNA SECONDA VOLTA DALL’INDIFFERENZA CON CUI L’OMICIDIO FU TRATTATO… LA FAMIGLIA “FASCISTA” ABITAVA IN OTTO IN 40 MQ DI UNA CASA POPOLARE, I TRE ASSASSINI COMUNISTI VENIVANO DAI QUARTIERI BENE, RAMPOLLI DELLA RICCA BORGHESIA
Oggi Stefano Mattei, arso vivo in un delitto politico che si consumò la notte del 16 aprile 1973, avrebbe 55 anni. Suo fratello Virgilio, invece, ne avrebbe 67.
Morirono tutti e due nell’incendio che, appiccato da un manipolo di delinquenti politici, stava divorando la piccola casa popolare in cui vivevano con tutta la famiglia. Una fotografia scattata quella notte di esattamente quarantacinque anni fa, dalla strada ritrae Virgilio carbonizzato dalle ustioni, che cerca inutilmente di gettarsi dalla finestra.
Nella foto non si vede invece il piccolo Stefano, che in quel momento se ne sta avvinghiato alle gambe del fratello grande che non era riuscito a salvarlo.
Due morti vittime dell’odio politico.
Due vittime dell’indifferenza con cui la cultura democratica e progressista aveva reagito all’assassinio così orrendo che aveva colpito dei ragazzi colpevoli solo di essere figli di un fascista.
I responsabili
La vicenda giudiziaria è stata lunga, complessa, ma ormai nessuno più dubita dell’identità dei responsabili. Achille Lollo, Manlio Grillo e Marino Clavo, militanti di Potere Operaio, sono stati condannati come esecutori materiali di quel delitto.
Sono riparati all’estero anche grazie all’aiuto di una sinistra che è stata talmente trascinata dall’odio ideologico contraffatto con le parole dell’antifascismo da considerare veniale la morte di un bambino e di un ragazzo nel rogo di Primavalle, il luogo dove la giovane sinistra uscita dal Sessantotto perse la sua innocenza.
La casa dove abitavano i fratelli Mattei, era un appartamento a Primavalle di appena 40 metri quadri, al terzo piano della Scala D, lotto 15, in uno dei più famosi quartieri proletari di Roma.
Ci abitavano in otto in quella casa di 40 metri quadri del «fascista Mattei», che poi era Mario Mattei, segretario della sezione «Giarabub» del Movimento Sociale Italiano: i genitori e sei figli, Stefano, Virgilio, Giampaolo, Antonella, Lucia e Silvia.
L’incendio
Quella notte terribile, mentre tutta la famiglia dormiva, gli assassini si misero in fretta a cospargere di benzina il pianerottolo al terzo piano, davanti alla porta e a far filtrare il combustibile con un piano inclinato, lasciare l’innesco e scappare.
Probabile che quel gesto criminale volesse essere un irresponsabile gesto dimostrativo, i rampolli della borghesia di sinistra romana forse non avevano nemmeno idea di cosa fosse una casa di appena 40 metri quadri abitata da otto persone.
Fatto sta che l’innesco esplose, la benzina prese fuoco e in un battibaleno bruciò l’intero appartamento del «fascista Mattei», i mobili, i letti, l’armadio, i vestiti, persino i pigiami dei bambini.
Mario e la moglie spaccarono i vetri delle finestre e aiutarono i ragazzi a buttarsi nel vuoto. Ce la fecero tutti, sia pur con ustioni e fratture.
Tranne due: Virgilio, 22 anni, che si era attardato per salvare il fratellino, e appunto Stefano, 10 anni, bruciato vivo in quello che passerà alla storia come il «rogo di Primavalle».
Disinformazione
Ma l’Italia non rimase sgomenta e interdetta per la fine così orribile di un bambino, il figlio di un fascista non meritevole di pietà e cordoglio sincero.
Cominciò invece una campagna di disinformazione e di depistaggio, partita dall’estrema sinistra ma appoggiata dagli organi tradizionali della stampa e della televisione, per cancellare la vera matrice politica di quel misfatto.
Stefano e Virgilio furono uccisi una seconda volta da titoli oltraggiosi e insensati che servivano a colpevolizzare le vittime e a scagionare politicamente e materialmente i responsabili del delitto.
Si urlò al «regolamento dei conti tra i neri», si delirava di una «faida tra fascisti», si farneticava di una «provocazione fascista che arriva al punto di uccidere i propri figli»: ma a queste farneticazioni vollero credere in tanti, purtroppo non solo nell’estremismo di sinistra, ma anche negli ambienti rispettabili dell’establishment antifascista.
Si faceva pure dell’ironia sulla fiamma «assassina» che sarebbe stata una «fiamma tricolore», come il simbolo del Msi in cui militava il «fascista Mattei».
Partirono i cortei con gli slogan per «Lollo libero». Il padre di uno dei tre indagati venne raggiunto da una lettera aperta scritta da alcuni dei più accreditati esponenti della sinistra in cui si suggeriva il blasfemo paragone tra il carcere in cui era rinchiuso il figlio e un campo di concentramento nazista.
Odio ideologico
Per questa velenosa campagna di disinformazione, di odio ideologico, di disprezzo per le vittime, di cinica indifferenza per la morte di un bambino bruciato vivo nessuno ha chiesto veramente scusa.
E in quella assurda campagna di autoinnocentizzazione insincera davvero una parte della sinistra ha perduto la sua innocenza morale e politica.
Sono passati quarantacinque anni e quella vicenda terribile è quasi dimenticata, derubricata a uno dei tanti episodi di cieca violenza politica degli anni Settanta.
Ma fu molto peggio. E a distanza di tanto tempo facciamo ancora fatica a rendercene conto.
(da “il Corriere della Sera”)
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Aprile 18th, 2018 Riccardo Fucile
LA FOTO CHE SALVINI SI E’ BEN GUARDATO DA PUBBLICARE SUL SUO PROFILO: QUELLO CON LE DONNE ROM IN MOLISE, A SANTA CROCE DI MAGLIANO
In questo scatto pubblicato su Facebook dal giornalista del Fatto Antonello Caporale possiamo ammirare Matteo Salvini in posa con alcune donne rom molisane mentre è in pieno svolgimento la campagna elettorale di quello che è stato soprannominato l’«Ohio d’Italia» visto che il risultato delle elezioni potrebbe essere importante ai fini della formazione del nuovo governo.
La foto è stata scattata a Santa Croce di Magliano .
Lo scatto, che “casualmente” non è finito sulle numerose risorse social del Capitano della Lega, fa parte del grande dispiegamento di forze che la Lega ha mostrato in Molise: “Qualcuno in casa di Grillo e Casaleggio — ha rimarcato qualche sera fa a Campobasso — pensava di avere già vinto. Dipende dai molisani se tornare indietro o essere usati come cavia da qualcuno che vuole tornare indietro”.
Capito, servono anche i voti dei rom.
Il MoVimento 5 Stelle è il grande favorito per le elezioni in Molise, dove ha raccolto un mese fa alle elezioni politiche percentuali vicine al 45%.
La Lega ha portato nella regione tutti i suoi parlamentari per un viaggio in ogni cittadina. Alle ultime elezioni in questa regione il centrodestra prese il 30%, e Forza Italia doppiò la Lega, 16 a 8.
Giorni fa Salvini ha mandato una mail a tutti i suoi parlamentari per chiedere la disponibilità a lavorare pancia a terra per raccogliere ogni consenso possibile setacciando in lungo e in largo il Molise. Ottanta di loro hanno risposto alla ‘chiamata alle armi’. “Ho detto loro che è arrivato il momento di muovere le chiappe e andare in giro…”, ha raccontato Salvini.
A coordinare questa ‘task force’ il fedelissimo deputato Paolo Arrigoni: “Già da due giorni e fino alla chiusura di venerdì battiamo palmo a palmo tutta la Regione, dalle città ai villaggi più sperduti per far vincere la Lega. E’ già venuto Calderoli, poi Bagnai e tanti altri”.
Saranno andati anche loro per campi nomadi, la ruspa può attendere.
(da agenzie)
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Aprile 18th, 2018 Riccardo Fucile
CONTINUA LA CONTESA TRA I DUE POLTRONISTI CHE VIVONO DI POLITICA… E PENSARE CHE SI CREDEVA DI AVER TOCCATO IL FONDO CON RENZI
Con Silvio Berlusconi mai. E il tentativo di Elisabetta Casellati sembra destinato a morire sul nascere.
Il Movimento 5 stelle ribadirà alla presidente del Senato quel che ha già sbandierato in lungo e in largo in questi giorni: gli interlocutori possibili per la formazione di un governo sono il Partito democratico e la Lega depurata dal resto della coalizione. Stop. Il perimetro non cambia di un millimetro.
Dopo la nota del Quirinale, dalla comunicazione parte un ordine di scuderia ai peones che gironzolano per la Camera, dove sono convocati deputati e senatori per votare alcune nomine su Consulta e Csm: non commentate in alcun modo.
Troppo tardi. Perchè prima dell’ufficializzazione del mandato esplorativo all’esponente di Forza Italia, le artiglierie 5 stelle avevano già martellato la battigia di palazzo Giustiniani.
Vito Crimi: “Il veto su Silvio Berlusconi resterà , perchè rappresenta il non-cambiamento”. Danilo Toninelli: “Escludo categoricamente l’ipotesi di un governo senza Di Maio premier”. Stefano Buffagni: “Tentativo che serve a prendere tempo”.
Una stroncatura per un nome che solo un paio di settimane fa si è issato sullo scranno più alto di Palazzo Madama proprio con i voti del Movimento. “Ma era tutta un’altra partita”, spiega la war room del capo politico.
Un match dove ha prevalso la logica del do-ut-des fra Movimento e Lega.
Gli stessi due vincitori che avranno bisogno di sbattere sui veti contrapposti, costretti dalla mossa del Quirinale, per certificare il fallimento di sei settimane di una (non) trattativa del tutto inconcludente.
I vertici 5 stelle sono rimasti spiazzati dal perimetro del mandato, definito chiaramente dal Colle nella verifica della sussistenza di una maggioranza M5s-centrodestra.
Non se l’aspettavano declinato in questi termini, in una chiamata così specifica a responsabilità che non hanno alcuna intenzione di assumersi.
Non con Forza Italia nello schema, per lo meno. Ecco la prudenza. E la cauta sottolineatura che il passaggio non sarà inutile, ma servirà a mettere chiarezza nel quadro delle possibili alleanze.
È quel che dice lo stesso Di Maio in un breve video postato su Facebook: “Sarà un’occasione preziosa per fare chiarezza”. La chiarezza del no all’ex Cavaliere.
Il leader stellato spiega che quel che dirà alla Casellati sarà “coerente con quanto abbiamo affermato negli ultimi giorni”. E se questo non bastasse a certificare il fallimento, Di Maio declassa il giro di consultazioni con l’esploratrice quirinalizia solo come “il primo dei passaggi per arrivare a un governo del cambiamento”.
Alla nettezza della posizione (dal giro stretto dell’ex vicepresidente della Camera più volte riecheggia la parola “schianto” riferita al tentativo della seconda carica dello Stato) corrisponde un improvviso ammorbidimento dei toni.
Perchè nel Movimento si è diffusa la convinzione che, a partire da lunedì, al Quirinale possa essere vagliata un’altra geometria: quella che include i 5 stelle e il Pd.
Una speranza, più che una certezza. Da non far evaporare però per l’incandescenza dei toni. Finchè non si chiuderà anche il più piccolo spiraglio per Di Maio premier, quel momento dovrà essere rinviato.
(da “Huffingtonpost”)
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Aprile 18th, 2018 Riccardo Fucile
“ANNI DI UMILIAZIONI SUBITE PER RENDERE GIUSTIZIA A MIO FRATELLO, IN UNO STATO DI DIRITTO E’ NORMALE MANIPOLARE LE PROVE E COPRIRE I RESPONSABILI?”
All’udienza di ieri hanno testimoniato i Carabinieri che videro Stefano la prima notte dopo il suo arresto e lo accompagnarono poi in Tribunale la mattina in cui si tenne l’udienza di convalida.
Stefano Cucchi stava male. Gli faceva male la testa, l’addome, e camminava con difficoltà . Tremava tutto. Coloro che lo accompagnarono in Tribunale, Mollica e Schirone, rimasero turbati dalle condizioni in cui stava mio fratello.
Schirone ne aveva chiesto spiegazione a Tedesco, quando si erano incontrati a piazzale Clodio
“Ma hai visto come sta messo questo?”
“È stato poco collaborativo al foto segnalamento “, gli aveva risposto Tedesco.
Ma anche i piantoni della caserma di Tor Sapienza avevano notato le precarie condizioni di quell’arrestato.
“Il Cucchi suonava il campanello – aveva scritto il cc Colicchio Gianluca nella sua annotazione di servizio del 26 ottobre 2009 – e dichiarava di aver forti dolori al capo, giramenti di testa, tremore e di soffrire di epilessia”.
Il cc Di Sano così scriveva nella sua, sempre il 26 ottobre 2009:
” …Riferiva di avere dolori al costato e tremore dovuto al freddo e di non poter camminare”.
Poi, inspiegabilmente venivano redatte altre due annotazioni con stessa data e stesso numero di protocollo informatico regolarmente sottoscritte dai due stessi Carabinieri. Ma in queste ultime scomparivano magicamente i forti dolori al capo, al torace, i giramenti di testa di mio fratello.
Più nessuna traccia della sua difficoltà a camminare.
“Il signor Cucchi denunciava un malessere generale per la sua tossicodipendenza, per la sua magrezza e per la scomodità della branda in acciaio”.
“Riferiva di essere dolorante alle ossa sia per la temperatura freddo/umida che per la tavola del letto (priva di materasso e cuscino) ove comunque aveva dormito per poco tempo, dolenzia accusata per la sua accentuata magrezza”.
Ieri Colicchio non ha saputo spiegare il perchè di queste strane correzioni affermando comunque che pur essendo sua la firma anche nella relazione “corretta”, quelle scritte non erano parole sue.
Di Sano invece ha candidamente ammesso di averla fatta (quella nuova e corretta) su esplicita richiesta dei suoi superiori che lo avevano invitato a essere meno “specifico” nella descrizione di Stefano Cucchi per come lo avevano visto quella notte nella caserma di Tor Sapienza.
Alcune delle telefonate partite da quella caserma quella notte non sono state trovate dalla Polizia che ha esaminato le registrazioni acquisite dalla Procura.
Che posso dire di più?
Tutti i carabinieri coinvolti nella vicenda di mio fratello sono stati chiamati dal comando provinciale per riferire quanto avevano visto e sentito. Alcuni prima ancora di essere sentiti dai magistrati inquirenti. Non vi è nessun verbale di quella riunione e non si sa nulla di ciò che è stato detto.
Ora, come cittadina mi chiedo: ma è normale tutto questo?
Ripenso a quegli anni di processi sbagliati e di umiliazioni subite mentre tutto questo accadeva alle nostre spalle, sulle nostre teste.
Eravamo come Davide contro Golia. Ma Golia non era lo Stato, era l’anti Stato.
Ilaria Cucchi
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Aprile 18th, 2018 Riccardo Fucile
PER MOGLIE E FIGLI DI CIONTOLI APPENA 3 ANNI CONTRO I 14 RICHIESTI… URLA DI “VERGOGNA” IN AULA CONTRO LA CORTE
Quattordici anni di carcere. È la condanna inflitta da giudici della prima corte d’Assise di Roma ad Antonio Ciontoli per la morte di Marco Vannini.
Il giovane morì il 18 maggio del 2015, a Ladispoli, in provincia di Roma, dopo un colpo sparatogli da Ciontoli, padre della fidanzata Martina.
La procura di Civitavecchia chiedeva per lui una condanna a 21 anni per omicidio volontario in concorso con la moglie Maria Pezzillo e i due figli.
Tre anni la condanna per Pezzillo e i due figli Martina e Federico. Per i tre l’accusa chiedeva 14 anni di carcere.
“Vergogna, vergogna, è uno schifo come posso credere ancora nella giustizia. Mi hanno ammazzato un figlio a vent’anni. Vergogna!”
Queste le parole gridate da Marina, madre di Marco Vannini, contro i giudici subito dopo la sentenza di condanna ad Antonio Ciontoli, la moglie e i due figli.
La donna si è allontanata in lacrime dal tribunale seguita da amici e parenti che con lei gridavano contro la sentenza.
(da agenzie)
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Aprile 18th, 2018 Riccardo Fucile
ENTRO VENERDI’ LA RISPOSTA, PRIMA DELLE ELEZIONI IN MOLISE… IN CASO INSUCCESSO, TOCCHERA’ A DI MAIO O A FICO
Esplorazione per vedere se “esiste una maggioranza parlamentare fra centrodestra e 5Stelle, e se c’è un’indicazione per un premier condiviso”.
Poi, in tempi brevissimi, tornare entro venerdì al Colle per riferire.
Chi, come Salvini e anche lo stesso Berlusconi, si aspettava una verifica al rallentatore, per prendere ancora tempo, è rimasto deluso.
E’ questo il mandato esplorativo che il presidente Mattarella ha conferito al presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati. Un compito che il neoesploratore, dopo un incontro stamattina di una ventina di minuti con il capo dello Stato, ha accettato spiegando che intende affrontare il compito con “lo stesso spirito di servizio che ha animato in queste settimane il ruolo di presidente del Senato”.
La Casellati ha spiegato, nella sua breve dichiarazione nella Loggia d’Onore, che terrà “costantemente aggiornato il presidente della Repubblica”, che ha ringraziato per la fiducia, e che preparerà in tempi rapidi il calendario dei suoi incontri con i partiti. Dunque, prima delle regionali in Molise di domenica, il suo giro sarà concluso.
Esplorazione difficile.
Il capogruppo 5Stelle al Senato, Toninelli, conferma già i veti: “Alla Casellati ripeteremo che il nostro candidato premier è Di Maio, escludo categoricamente altri nomi, anche quello di Roberto Fico. E nessun rapporto con Berlusconi e Forza Italia”. La Casellati, nei giorni scorsi, aveva però definito “una ferita per la democrazia” un no alla presenza in maggioranza del leader di Forza Italia. Nella storia della Repubblica è la seconda volta che una donna assume questo incarico, dopo Nilde Jotti nel 1987 per la crisi del governo Craxi.
Il presidente Mattarella ha scelto la via del mandato esplorativo, e di una figura istituzionale, per tentare di uscire da questo stallo di governo.
Con un compito preciso: verificare se ci sono margini per una maggioranza centrodestra-M5S, divisi dalla guerra dei veti incrociati. Dopo il colloquio con il capo dello Stato, è stato il segretario generale Ugo Zampetti a chiarire appunto natura e perimetro della “verifica” affidata dal presidente della Repubblica alla Casellati.
La presidente del Senato comincerà subito il suo lavoro negli uffici di Palazzo Giustiniani. Il primo passo: preparare l’agenda dei colloqui con tutte le forze politiche, sulla falsariga di quelli che si sono già svolti al Colle nelle consultazioni. In calendario due giorni di incontri, che a questo punto potrebbero cominciare già in giornata. Mattarella ha fissato tempi stretti, mentre alcuni partiti — Forza Italia e la Lega in particolare — avrebbero voluto attendere l’esito delle regionali in Molise, che si svolgono domenica prossima.
Lo scontro dei veti incrociati ha finito per convincere Mattarella a lasciare fuori dalla corsa per Palazzo Chigi — almeno per il momento — Salvini e Di Maio, i due che rivendicano la poltrona di premier.
Se il presidente del Senato fa il miracolo, in pratica riesce a rimuovere il veto dei pentastellati nei confronti di Berlusconi, strada spianata al varo del nuovo esecutivo.
E come premier tornano in pista il leader della Lega e quello dei grillini. Se la Casellati fallisce, probabilmente Mattarella metterà in campo un altro tentativo per verificare stavolta l’esistenza in vita di una maggioranza M5S-Lega: potrebbe chiamare al Colle per un preincarico Di Maio o assegnare un mandato esplorativo al presidente della Camera Fico, il quale avrebbe il compito di rivolgere lo sguardo anche al Pd.
(da agenzie)
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Aprile 18th, 2018 Riccardo Fucile
LE PREVISIONI DI D’ALIMONTE: MAGGIORANZA LONTANA ANCHE CON LE NUOVE URNE… UNICA STRADA E’ CAMBIARE LA LEGGE ELETTORALE, MA CHI HA INTERESSE A FARLO NON HA I NUMERI
Luigi Di Maio non ha paura delle elezioni anticipate. Matteo Salvini non ha paura delle elezioni anticipate. Persino il Partito Democratico non ha paura delle elezioni anticipate.
A parole, nessuno degli schieramenti esclude la possibilità che lo stallo alla messicana porti di nuovo il paese alle urne in tempi brevi, magari con la stessa legge elettorale (che non è responsabile dei risultati, a differenza di quello che cercano di far credere alcuni).
Il professor Roberto D’Alimonte sul Sole 24 Ore spiega che le nuove elezioni riconsegnerebbero il paese alla fase di stallo odierna.
Prima delle elezioni l’opinione corrente era che sarebbe bastato il 40% dei voti perchè una forza politica potesse ottenere la maggioranza assoluta dei seggi.
Salvini e altri forse lo pensano ancora. In fondo il centro-destra il 4 marzo è arrivato al 37%. Un altro piccolo sforzo e sarebbe fatta.
Ma non è così. È più complicato. Con il 37% dei voti alla Camera il centro-destra ha ottenuto il 42,1 % dei seggi totali.
Da qui al 50% più uno ce ne corre.
Se non cambia la distribuzione delle preferenze partitiche degli italiani non basta ottenere un 3% di voti in più per arrivare alla meta.
La formula per riuscirci resta la stessa di quando ne abbiamo parlato tempo fa sulle pagine di questo giornale: occorre mettere insieme il 40% dei seggi proporzionali e il 70% dei seggi maggioritari oppure il 45% dei primi e il 60% dei secondi.
E anche così si arriverebbe a maggioranze risicate: 322 seggi nel primo caso e 318 nel secondo. Solo con la formula 45-65 si otterrebbe una maggioranza più solida.
Per riuscire a ottenere una maggioranza solida il centrodestra dovrebbe cercare di vincere nelle regioni del Sud dove il MoVimento 5 Stelle ha fatto il pieno o quasi.
Al contrario il MoVimento 5 Stelle per arrivare a una maggioranza autonoma dovrebbe vincere i collegi delle regioni del Nord, dove è andato male il 4 marzo.
Tutte e due le ipotesi ad oggi sembrano alquanto improbabili. E rischiamo di trovarci dopo un nuovo voto nelle stesse condizioni di prima e con gli stessi veti di partenza (quello della Lega sul PD nel centrodestra e quello del M5S su Berlusconi). Per D’Alimonte l’unica strada è quella di cambiare il sistema elettorale.
E allora, vale la pena di correre il rischio di un nuovo stallo dopo nuove elezioni?
In Spagna tra il 2015 e il 2016 si è votato due volte. Il risultato è stato più o meno lo stesso e dopo la seconda votazione si è fatto il governo.
Lì è successo che il maggior partito di opposizione ha consentito la nascita di un governo senza maggioranza guidato dal partito che aveva preso più voti. Così è nato il governo Rajoy.
Il resto lo ha fatto il meccanismo della sfiducia costruttiva che noi non abbiamo.
In parole chiare, ammesso che il centro-destra risulti di nuovo come il 4 marzo lo schieramento con più voti, Pd e/o M5s sarebbero disposti a far decollare un governo Salvini o chi per lui? Chissà .
A noi sembra cosa molto complicata e poco probabile. Per questo c’è da chiedersi — a malincuore — se la soluzione meno peggio non sia un nuovo sistema elettorale che metta nelle mani degli italiani la scelta del governo, visto che i partiti non riescono a mettersi d’accordo. Non un sistema qualunque però, ma uno che consenta agli elettori di esprimere non solo le loro prime preferenze ma anche le seconde.
Ovvero, un sistema con un ballottaggio. Come l’Italicum.
(da “NextQuotidiano”)
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Aprile 18th, 2018 Riccardo Fucile
AGGRAPPATO PATETICAMENTE ALLA POLTRONA: “TRA UNA SETTIMANA SPENGO IL FORNO CON LA LEGA”
Una settimana, su per giù. È quanto Luigi Di Maio è disposto a concedere ancora a Matteo Salvini.
Una tagliola temporale che i leader dei 5 Stelle ha l’esigenza di fissare per rendere più credibile la sua minaccia: «Aspettiamo che Casellati consumi il suo mandato, poi se Salvini non rompe con Berlusconi, spegniamo il forno della Lega».
Una settimana, dunque, perchè è il tempo che i 5 Stelle calcolano servirà alla presidente forzista del Senato per onorare il suo impegno. E dopo?
Fino al tardo pomeriggio di ieri i grillini non escludevano nemmeno un pre-incarico al leghista Giancarlo Giorgetti. «Ancora meglio per noi», spiegavano, perchè anche il suo tentativo a vuoto certificherebbe l’impossibilità di formare un governo a partire dal centrodestra unito.
«Capiranno che non possono fare nulla senza di noi» ragionava ieri Di Maio incredibilmente senza cravatta persino in aula, prima di dare il mandato di riprendere i contatti con gli emissari del Carroccio.
A una condizione: che capiscano che il tempo sta scadendo. Il capo politico del M5S sente di avere un’arma in più, che è l’arma dell’alternativa: «Salvini non ne ha. Non può dire, come noi, che se non va bene uno, si punta sull’altro».
L’altro è il Pd, che ieri, attraverso il reggente Maurizio Martina, ha fatto il primo passo nella direzione indicata dal M5S, facendo quello che non ha fatto il M5S.
Fare un’offerta che entra nel vivo dei contenuti: reddito di inclusione, famiglia, occupazione.
«Un’iniziativa utile» si sono limitati a commentare in una nota i capigruppo dei 5 Stelle Danilo Toninelli e Giulia Grillo, senza tradire troppo entusiasmo.
In realtà ai vertici del M5S, in primis a Di Maio, la mossa di Martina torna davvero utile, ma prima di tutto sul tavolo con Salvini.
Per ridurgli ancor di più i margini di trattativa, costringerlo nell’angolo di una scelta: «O restare all’opposizione con Berlusconi o partecipare al governo del cambiamento». Di Maio, per ora, non ha proprio intenzione di scansarsi. Resta fermo, cocciuto nell’insistere che non si farà nulla senza di lui premier e che «Salvini non può dettare condizioni, con il 17%, a un partito del 32%».
Se invece continuerà a farlo, Di Maio dovrà essere conseguente alle sue parole: spegnerà un forno, e terrà acceso solo quello con il Pd.
Dovrà farlo anche perchè è quanto gli chiedono di fare Martina e Andrea Orlando, i due più attivi in queste ore a non indietreggiare sulla sfida dei temi lanciata dai grillini.
Poco, invece, preoccupano le intenzioni degli ex 5 Stelle, guidati alla Camera dal presidente del Potenza Calcio, Salvatore Caiata, che ieri affermava di voler «sentire le proposte di tutti», compreso il centrodestra, «senza pregiudizi».
Ma solo se e quando il centrodestra fallirà , solo quando Di Maio capirà che davvero Salvini non vuole rompere con Berlusconi, il corteggiamento a distanza con il Pd potrebbe diventare una vera trattativa.
Scenario che non dispiacerebbe a Sergio Mattarella, come tutti dicono a mezza bocca. Ma alla strategia del Capo dello Stato il M5S affida anche le ultime speranze di siglare il patto con la Lega sulle ceneri del centrodestra.
E non si augurano di meglio che Casellati come nome per il primo mandato esplorativo. Costringe il centrodestra a girare in cerca di voti, sapendo che alla fine si dovrà rassegnare di fronte ai no dei grillini.
Ma soprattutto è l’opzione giusta perchè scaccia (per il momento) l’altra, quella che Luigi Di Maio teme ancora: un mandato al presidente della Camera Roberto Fico, che potrebbe essere sfruttato dal Pd per rientrare in gioco, spiazzando il leader del M5S. «So che a molti, soprattutto tra i nostri ministri, piacerebbe di più il Pd…» ha confidato ai suoi collaboratori Di Maio, che invece in cuor suo sembra preferire Salvini.
Nè a lui nè ad altri del M5S è sfuggito l’assist di Fico al Pd sulla riforma delle carceri che necessita di un parere obbligatorio del Parlamento e che il presidente della Camera ha chiesto di trattare in commissione speciale come provvedimento d’urgenza, contrariamente a quello che avevano chiesto i 5 Stelle durante la capigruppo, votando con la Lega e contro il Pd.
Il primo a dichiarare apprezzamento è stato Orlando. Il primo a spaventarsi è stato Di Maio, convinto che i dem vogliano puntare su Fico per fargli rinunciare alla premiership.
(da “La Stampa”)
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Aprile 18th, 2018 Riccardo Fucile
DEPUTATO DEL PCI, ALLIEVO DI NILDE IOTTI, FECE RIAPRIRE IL CASO DI DON PESSINA
Ha fatto in tempo a vivere abbastanza perchè gli venissero riconosciute le sue ragioni e perchè l’Anpi lo riabilitasse a pieno titolo, Otello Montanari.
Ex partigiano comunista ferito gravemente in uno scontro a fuoco con le SS italiane nel 1945, ex deputato del Pci, allievo di Nilde Iotti, nel 1990 ruppe il silenzio sui delitti politici dell’immediato Dopoguerra nel “triangolo rosso”, con una clamorosa intervista che si concludeva con l’appello «chi sa parli».
Montanari è morto la notte scorsa a 91 anni nella sua Reggio Emilia.
Da quando sollevò il velo di ipocrisia sull’uccisione del parroco di Correggio don Umberto Pessina, nell’estate del ’46, un omicidio per cui si era mosso Togliatti in persona per porre fine alle spedizioni punitive nel Reggiano, l’ex partigiano ha lottato contro le accuse di tradimento e l’ostracismo subìto dall’Anpi, di cui era stato un dirigente.
Eppure, come Montanari ci raccontò due anni fa in un’intervista, l’allora Pds era con lui, almeno all’inizio: «Fassino mi disse che avevo ragione e che avevo fatto bene a parlare».
In un primo tempo Montanari aveva rivangato il caso della soppressione del direttore delle Officine Reggiane, Armando Vischi, da parte di una formazione paramilitare.
La tempesta vera però si scatenò quando Montanari rivelò prove decisive sull’omicidio Pessina, per cui erano finiti in carcere due innocenti, Germano Nicolini (“diavolo” il suo nome di battaglia durante la Resistenza) ed Egidio Baraldi: «L’ex archivista del Pci Rangoni ritrovò la registrazione di una conversazione con l’allora responsabile della federazione Pci di Reggio, Nizzoli, in cui risultava che si era deciso di tacere sui veri colpevoli, così ci siamo rivolti al magistrato ed è stato possibile avviare il processo di revisione».
L’assoluzione di Nicolini, nel ’94, sancì l’inizio del periodo più difficile, segnato da telefonate anonime ed esclusione: «Sono stati anni duri, amari, in cui ho sofferto io e ha sofferto molto anche la mia famiglia: non sono stato più chiamato a parlare a cerimonie pubbliche nè dall’Anpi nè dal partito».
Nel 2011 l’ultimo schizzo di veleno, cioè l’accusa del presidente dell’Anpi Giacomo Notari a Montanari di non aver detto tutto quel che sapeva sulla morte di don Pessina con qualche decennio di anticipo, evitando così anni di detenzione ai due innocenti: «Per quelle frasi l’ho querelato: non potevo certo sapere cos’era successo, perchè fino al ’46 sono rimasto in ospedale per le ferite di guerra, e della registrazione ho saputo solo nel ’91».
Le scuse piene e incondizionate dell’Anpi all’ex partigiano — «Otello agì con tempestività , fornendo un decisivo contributo alla verità » – sono arrivate solo due anni prima della scomparsa di Montanari, e sono state accolte dal diretto interessato come un risarcimento morale lungamente atteso: «È un fatto straordinario che dopo 26 anni vissuti in croce ci sia stata questa dichiarazione».
(da “La Stampa”)
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