Aprile 27th, 2018 Riccardo Fucile
IL NODO DI MAIO PREMIER E CHI GESTISCE LA TRATTATIVA
Obiettivo: sedersi al tavolo con i Cinquestelle ma senza umiliarsi, con una posizione di forza, con la delegazione giusta per trattare al meglio (cioè senza Maurizio Martina).
Matteo Renzi vuole giocarla fino in fondo questa partita: è la sua occasione per riabilitarsi in politica, di nuovo da leader dopo la sconfitta elettorale.
E allora oggi, archiviato il mandato esplorativo al presidente della Camera Roberto Fico, il segretario dimissionario del Pd tiene a freno la parte ortodossa tra i suoi, contrari al dialogo con i 5s. E si mette al lavoro per pianificare per bene la direzione Dem di giovedì prossimo. Domenica, dopo un lungo silenzio, torna in tv, da Fabio Fazio su Raiuno.
Oggi intanto è tornato a Roma dopo aver passato i giorni a cavallo della festività del 25 aprile a Firenze. Uno stop in libreria, a comprare testi che immortala e posta su Facebook: ‘Era di maggio, cronache di uno psicodramma’ di Mughini, ‘Con i piedi nel fango’ di Carofiglio, titoli che non a caso evocano la tormentata condizione del Pd e dei suoi dirigenti, a partire da Renzi stesso.
Poi è a pranzo con il tesoriere Francesco Bonifazi e il fedelissimo ex portavoce Filippo Sensi. Inizia una settimana di fuoco, quella più importante per il futuro politico del Pd.
“Se ci giochiamo male questa partita, non lo avremo più un futuro”, ci dice un dirigente Dem, mettendo l’accento “non tanto sul sì o sul no ai cinquestelle, ma sul come ci si arriva. Il punto non è cosa si fa alla fine, ma come si arriva a quel punto: forti o deboli?”.
Ecco spiegato il perchè delle parole grosse volate fino a ieri. Non è escluso che ritornino da qui a giovedì, se servirà allo scopo.
Cioè costruirsi una corazza per arrivare ‘armati’ al confronto con i pentastellati. Di certo, ora il Pd renziano sta soppesando tutte le mosse per potersi sedere al tavolo di confronto sul programma e sul governo con i cinquestelle da una condizione di forza. Spiega il Dem Ettore Rosato, vicepresidente della Camera: “Ci sono due precondizioni” nel confronto con i 5 Stelle, “la prima è quella che loro considerino chiuso il dialogo con la Lega e la seconda è che considerino la stagione delle riforme del Pd un elemento positivo per questo Paese. Se ciò non fosse per noi non sarebbe possibile fare un governo con chi considera quei 5 anni” in modo negativo e “vuole smontare le cose fatte dal centrosinistra”.
Ma questi sono i preamboli. Come pure la questione ‘Di Maio premier’: nel Pd e tra gli stessi renziani ci sono approcci diversi sul tema: c’è chi lo accetterebbe, chi invece è convinto che debba fare un passo indietro per aprire il dialogo. Il fatto è che a monte di tutto, ci sono altri problemi. Interni al Pd.
Il primo si chiama Maurizio Martina, il reggente. Nella cerchia del segretario dimissionario ormai hanno sciolto le riserve su di lui dopo un periodo di attenta osservazione: pollice verso, lo giudicano inadatto alla trattativa.
“Ieri dopo aver incontrato Fico – si sfoga un renziano — Martina ha esordito con un ‘Ci sono passi in avanti…’! Poi è uscito Di Maio a criticare l’operato dei governi Renzi e Gentiloni… Insomma il Pd ne è uscito umiliato! Non è così che si fa una trattativa. Lo dico per il bene del partito, non per una sua parte… Martina è capace di uscire dall’incontro con Di Maio dicendo che la Tav non si deve fare!”.
Battute al veleno. Insomma, il primo problema da risolvere è a chi affidare un confronto così delicato.
E’ escluso che sia Renzi stesso ad assumersi direttamente l’onere della trattativa, nonostante che nel partito più di qualcuno gli stia chiedendo di ritirare le dimissioni e tornare alla guida. “Non lo bruciamo così”, dicono i suoi.
“Non si può abdicare dall’essere un leader, Renzi è in campo senza se e senza ma. Ma non è nei suoi programmi tornare segretario: è nel programma di tanti nostri militanti, non di Renzi”, dice Rosato.
Problema aperto, ma giovedì il nodo dovrà essere sciolto se davvero si riuscirà ad approvare un documento che dà l’ok all’avvio del tavolo con i cinquestelle per verificare se esistono le condizioni per parlarsi. Di più non potrà esserci, per ora.
“Anche solo per tattica, non possiamo non sederci al tavolo con il M5s — ragiona un altro renziano — Nel 2013 i Cinquestelle si sono seduti al nostro tavolo, prima con Bersani, poi con Renzi. E’ finita come è finita, Renzi ha detto a Grillo ‘esci da questo blog!’, ma ci sono venuti. Dobbiamo farlo anche noi”.
Naturalmente per ora il punto è fare bella figura nel confronto con Di Maio, non è farci un governo insieme a ogni condizione. Ovvio. Anche perchè una volta partito il tavolo, la sua riuscita dipende anche dalle condizioni esterne. E cioè dal rapporto che ci sarà e se ci sarà tra Di Maio e Salvini dopo le elezioni in Friuli.
“E’ chiaro che se il M5s perde definitivamente la sponda leghista, perchè Salvini non strappa con Berlusconi, sono costretti a trattare solo con noi e possiamo ottenere di più”, sono i calcoli di casa Pd.
Salvini e Berlusconi per ora smentiscono prospettive di rottura. E il leader leghista oggi rinnova l’invito a Di Maio, ma soprattutto parla molto di voto anticipato prima dell’estate. “Bastano 15 giorni per fare una nuova legge elettorale” con una maggioranza Lega-M5s, dice.
Una cornice esterna che spinge il M5s spalle al muro, vero, ma non migliora la condizione del Pd, partito sconfitto che certo non punta al voto anticipato. Si incontreranno nel mezzo?
Su entrambi ci sono le pressioni del Quirinale. Sergio Mattarella di fatto aspetta la direzione del Pd prima della sua prossima mossa.
Soprattutto per i Dem sta diventando difficile reggere la pressione esterna e interna. Renzi dal canto suo comincia a mettere a fuoco l’occasione per rientrare in partita. Fino a qualche settimana fa, non aveva un ruolo in campo: ora sì, non lo molla facilmente, ma lo tiene solo a certe condizioni. Obiettivo: riabilitazione politica. Quella che la parte cosiddetta ‘dialogante’ del partito, da Martina a Franceschini, non vuole dargli. Ecco: il punto è che la trattativa-non-trattativa con il M5s si incrocia con lo scontro interno sul congresso, non un dettaglio.
Ma d’altronde, senza Renzi un accordo tra Pd e M5s è impossibile. Perchè se anche i renziani finissero in minoranza in direzione, se vincessero Martina e Franceschini, a Di Maio non converrebbe siglare un’intesa solo con loro, senza Renzi.
Si tradurrebbe in un “Gigino stai sereno”. A Enrico Letta, si sa come è finita.
(da “Huffingtonpost”)
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Aprile 27th, 2018 Riccardo Fucile
ANCHE LA RIFORMA DELLA LEGGE FORNERO SARA’ SMUSSATA… IL CAPO POLITICO DEL M5S EVITA DI ANDARE IN FRIULI PER NON ALZARE I TONI CON I DEM
La testa M5s non è al Friuli Venezia Giulia. Luigi Di Maio non ci ha messo piede nel giorno di chiusura della campagna elettorale, non vede il successo e non può alzare i toni contro Debora Serracchiani essendo il governatore uscente del Pd.
Il cortocircuito sarebbe totale poichè in queste ore il capo politico grillino pensa solo al “contratto” di governo da siglare proprio con i dem.
Un contratto che potrebbe essere purificato dalle tante battaglie, come quelle contro il Jobs Act o la Buona scuola. In cambio però i pentastellati vogliono mettere per iscritto l’introduzione del reddito di cittadinanza, mentre i dem in queste ore insistono sull’ampliamento del reddito di inclusione.
Il punto di caduta è ancora da trovare. Ma la notizia è che la trattativa è partita.
Per sbrogliare la matassa non basterà quindi il consiglio dei saggi nominato dall’aspirante premier. La via maestra è una sola, sulla quale si ragiona negli uffici pentastellati: le divergenze non dovranno avere spazio.
I 5Stelle fanno già capire che, per arrivare alla chiusura del cerchio con Di Maio a palazzo Chigi, sono pronti a rivedere anche quelli che sono sempre stati i punti cardine delle loro battaglie nonchè dell’ultima campagna elettorale, compresa l’abolizione della legge Fornero.
Il tavolo deve ancora partire ma i primi messaggi sia da un lato sia dall’altro vengono già lanciati attraverso gli sherpa per capire, prima del via libera della Direzione dem del 3 maggio, i margini della trattativa e fino a che punto si è disposti a cedere.
Gli abboccamenti tra gli emissari si fanno strada. Nel contratto, al netto del fatto che ancora ci si deve sedere attorno al tavolo, con ogni probabilità non si parlerà per esempio di abolizione della riforma della Buona scuola.
“Metteremo giusto qualche ritocco”, viene spiegato da chi lavora per trovare una soluzione al complicato puzzle. E il Jobs Act? “Sarà impossibile chiedere la reintroduzione dell’articolo 18”.
Azzardo quest’ultimo speso nello sprint finale prima del voto del 4 marzo. Piuttosto si parlerà di taglio permanente del costo del lavoro a tempo indeterminato per dare più soldi in busta paga ai lavoratori e abbattere i costi per le imprese.
Rinunce e trattative, quindi.
“Siamo fiduciosi. Quello con i dem è un percorso serio”. Il capo politico va ripentendo queste parole per rassicurare il Movimento, la base in subbuglio e gli interlocutori. Questi ultimi sempre più propensi a sedersi al tavolo per iniziare una trattativa sul programma e sulla squadra di governo.
Danilo Toninelli, il capogruppo M5s a Palazzo Madama, scrive quando tanti parlamentari, che fanno seguito agli attivisti, avanzano dubbi sull’incompatibilità tra i due mondi: “Certamente con il Pd restano distanze e differenze ed è per questo che non proponiamo un’alleanza, ma un contratto vincolante per dare ai cittadini risposte concrete”. Poco cambia.
L’ammissione arriva dal deputato Andrea Colletti, voce che esce allo scoperto in queste ore di forti perplessità . “Io mi sento un pò male al pensiero di fare un contratto di governo con il Pd, sono onesto – sostiene – ed è quasi impossibile… diciamo che c’è il 20% di possibilità che questa interlocuzione vada a buon fine; e il 20% è una percentuale molto alta che fa capire la difficoltà di riuscire a concordare con questo partito che abbiamo combattuto in questi 5 anni”.
Poi avverte lo stato maggiore grillino che sta trattando in queste ore: “Non può essere un accordo al ribasso. Sappiamo che non possiamo ottenere 100 ma visti i risultati possiamo puntare al 70”.
A correggere il tiro ci pensa Alfonso Bonafede, aspirante ministro e sempre misurato nelle dichiarazioni: “Siamo gli unici che stanno cercando di costruire un dialogo finalizzato non più alle vecchie alleanze a cui siamo abituati, ma a qualcosa di nuovo: un contratto di governo”.
Il Pd, dopo che il segretario Maurizio Martina aveva lanciato le tre macroaree su cui intervenire, ovvero lavoro, povertà e famiglie, adesso fa trapelare più dettagli che rientrano sempre nei messaggi inviati al Pd per aprire una trattiva.
Chiederà che venga fatta una chiara scelta di campo europeista, per confermare l’Italia nel gruppo di testa dei paesi che vogliono una svolta politica e sociale di Bruxelles. Poi un atto d’impegno per rafforzare la democrazia rappresentativa, dando piena attuazione prima di tutto all’articolo 49 della Costituzione, quello sui partiti che non è mai stato regolamentato e attuato. Un tema su cui Pd e 5Stelle si sono scontrati duramente.
Per quanto riguarda l’agenda economica e sociale il Pd chiederà di non parlare di reddito di cittadinanza, ma di assegno universale per le famiglie con figli ed estensione del Reddito di inclusione voluto dai dem durante i governi passati.
Per i grillini sarà importante però rivendicare la vittoria su quello che è il principio chiave di tutta la politica pentastellati. Su tutto il resto sono pronti a cedere.
(da “Huffingtonpost”)
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Aprile 27th, 2018 Riccardo Fucile
MA ANCHE TRA GLI ELETTORI DEM IL 40% E’ FAVOREVOLE
Elettori M5s spaccati su possibile accordo di governo tra Luigi Di Maio e il partito dell’ex segretario Matteo Renzi.
La domanda rivolta a 300 persone che hanno votato per i grillini è secca: “Se M5s decidesse di fare il governo con il Pd, lei sarebbe d’accordo?”. Il 49% ha risposto di sì, il 51% di no.
Lo rivela un sondaggio realizzato il 27 aprile da Swg e commissionato da La7 che fa capire come la base pentastellata sia spaccata.
Stessa domanda, ma al contrario, è stata rivolta agli elettori Pd. In questo caso l’ipotesi viene bocciata: “Se il Pd dovesse fare il governo con M5s, lei sarebbe d’accordo?”. Il 40% ha detto di essere d’accordo mentre il 60% ha respinto l’idea di un esecutivo insieme.
Nel dettaglio, tra gli elettori M5s l’11% si è detto del tutto d’accordo, il 38% più tiepido ha detto solamente di essere d’accordo. Mentre il 29% è in disaccordo, il 22% del tutto in disaccordo.
Dall’altra parte del campo, quello dem, il 9% è del tutto d’accordo a un’intesa, mentre il 31% solo d’accordo. Infine il 27% in disaccordo e il 33% del tutto in disaccordo.
Va comunque sottolineato che i favorevoli sono in crescita anche considerando che si tratta di due partiti in polemica feroce da anni
(da agenzie)
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Aprile 27th, 2018 Riccardo Fucile
“ASCOLTARE SEMPRE E COMUNQUE, NON COMPORTARSI COME FECERO I CINQUESTELLE CON BERSANI”
La ragione deve prevalere sul sentimento, sull’irritazione per una campagna elettorale condotta su fronti opposti dove Pd e Cinquye stelle si sono combattuti aspramente.
“Comprendo bene le resistenze di chi si è sentito insultato e mandato a quel paese per anni – osserva Farinetti. Tuttavia occorre tenere conto della loro svolta. Proverei a buttare giù le 4 o 5 cose da fare di sicuro, di cui la prima una nuova legge elettorale, in 6/12 mesi. E poi si torna a votare con un sistema che assicuri la governabilità . Non credo sia possibile governare insieme per 5 anni, troppo diversi. I 5 stelle hanno compiuto una svolta epocale: dichiarano disponibilità al compromesso, a collaborare, a rinunciare a parte del proprio programma annunciato, a sentire le ragioni altrui”.
Farinetti fa il saggio e sul Pd chiosa:
“A forza di comportarsi per il bene del Paese e non del proprio partito prima o poi il Pd sarà compreso. La vita è un film a lieto fine… con in mezzo tante sconfitte”.
(da “Huffingtonpost”)
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Aprile 27th, 2018 Riccardo Fucile
IN TOSCANA IL PD RESTA IL PRIMO PARTITO, MA NON CI SONO PIU’ GARANZIE PER NESSUNO
La Toscana, Firenze.
Il “centro di gravità permanente” di Matteo Renzi direbbe Franco Battiato, che nel 1981 incluse questo famoso brano nell’album “La voce del padrone”.
E la voce del padrone l’ex premier è andato a farla sentire ai fiorentini il 25 aprile, in piazza Santa Croce a chiedere un’opinione su un governo con il Movimento 5 Stelle.
I no ai grillini si sono sprecati, e il segretario dimissionario li ha offerti ai giornalisti come prova che l’accordo non s’ha da fare.
Nel merito si pronuncerà la direzione convocata per il 3 maggio e in Toscana, come nel resto d’Italia, la divisione tra “aperturisti” e “aventiniani” c’è e si sente.
Nella terra del “Giglio magico” il partito non è contendibile. Il fronte renziano si mostra compatto sul no ai 5 Stelle, mentre chi fa riferimento ad Andrea Orlando vorrebbe andare a vedere le carte in mano a Luigi Di Maio.
Alle scorse elezioni politiche il Pd toscano è riuscito a rimanere in piedi.
Il 4 marzo è stato il primo partito con quasi il 30 per cento dei voti e il centrosinistra ha superato il centrodestra nella sfida tra coalizioni.
Ciò nonostante il segretario regionale dem, il renziano Dario Parrini, ha dato le dimissioni. A Firenze il Pd ha trionfato superando il 35 per cento e lo stesso Renzi ha conquistato senza problemi un seggio al Senato.
La città è governata da Dario Nardella, vice di Renzi ai tempi di Palazzo Vecchio.
Nel 2017 il partito cittadino aveva 3500 iscritti, quello regionale oltre 40 mila. C’è una cosa sulla quale a Firenze non si transige. Prima di sedersi al tavolo, i 5 Stelle dovrebbero rimangiarsi le critiche sui governi a guida dem.
“Dicano che la riforma costituzionale era giusta e che oggi paghiamo il conto del no al referendum”, dice il segretario del Pd fiorentino, Massimiliano Piccioli. Piccioli ha scritto una nota nella quale dice di aver trovato “un popolo unito nel respingere ogni forma di accordo con il Movimento 5 Stelle”.
Lui però non chiude a priori al negoziato: “Ma se non si passerà da una consultazione degli iscritti allora mi dimetterò”, sottolinea.
Poi aggiunge: “La politica è fatta di fasi. Quello che inizialmente sembrava impossibile può sembrare possibile”. Sabato scorso a Firenze c’era Andrea Orlando, che ha partecipato a un’iniziativa della minoranza. Chi fa parte dell’area del ministro della Giustizia non chiude ai grillini. “Nessuno ci ha mandati all’opposizione, il sistema elettorale non lo prevede. Abbiamo il dovere di capire se ci sono dei margini, anche se i Cinque stelle sono molto lontani dalla nostra politica”, dice la consigliera comunale Cecilia Pezza.
La compattezza della roccaforte toscana è essenziale per Renzi. Non a caso “ha annunciato la Leopolda di ottobre in largo anticipo. E lo ha fatto per lanciare un messaggio, come a dire: io sono sempre qui”, spiega un esponente regionale del Pd. Fino all’apparizione di Renzi a Firenze, nelle conversazioni private tra i dem toscani non si registrava un accanimento sulla linea del no. Poi è cambiato tutto.
Antonello Giacomelli, vicino a Luca Lotti, ha invitato il segretario dimissionario a riprendere le redini del partito. Anche il capogruppo Pd al Senato Andrea Marcucci, originario della provincia di Lucca, continua a dire no al governo con Di Maio.
In Regione Toscana non si registrano cedimenti rispetto alla linea di chiusura: “Veniamo da una campagna elettorale e da anni nei quali il Movimento 5 Stelle identificava il Partito democratico come il partito della casta”, dice il presidente del Consiglio regionale, Eugenio Giani. Adesso, aggiunge il consigliere di area renziana, “non si può cambiare perchè il Movimento non ha raggiunto la maggioranza e ha bisogno di qualcuno che gli faccia un po’ da ruota di scorta”.
Per il no si è schierato anche il governatore Enrico Rossi, tra i protagonisti della scissione che ha dato vita a Liberi e uguali: “A sinistra decidano gli iscritti. Io sono contrario e penso che alla fine non si farà “, ha scritto su Facebook a proposito dell’accordo con i grillini.
Da quando Parrini ha dato le dimissioni, il partito regionale è retto da cinque persone. Tre sono espressione della maggioranza e due della minoranza interna. Tra i reggenti c’è l’orlandiano Valerio Fabiani: “Io sono a favore del negoziato, perchè nelle condizioni date porterebbe al miglior governo possibile”.
La priorità , spiega, è “rovesciare lo schema populisti- anti populisti, spazzato via da elettori il 4 di marzo. Non ci siamo accorti che sotto la voce populisti c’è un pezzo del nostro elettorato”. Serve “ragionare su uno schema esclusi-inclusi, e pensare a come far tornare gli esclusi dalla nostra parte”. È su posizioni opposte un altro dei reggenti, il sindaco di Prato Matteo Biffoni: “Pur facendo lo sforzo di mettere da parte le offese anche aggressive che in questi anni ci hanno rivolto, io faccio fatica a vedere i punti di un accordo”.
C’è un abisso tra 5 Stelle e Pd: “Vorrei fare un ragionamento politico su Jobs act, Europa, vaccini, diritti civili, euro, politica internazionale. Mi sembra che le posizioni siano enormemente distanti”.
A giugno si elegge il sindaco a Massa, Pisa e Siena. “Non ci sono più garanzie per nessuno”, sintetizza Biffoni. Livorno è già passata ai 5 Stelle, e tutti nel Pd si aspettano che anche Massa diventi città grillina. Pistoia, Arezzo e Grosseto sono in mano al centrodestra.
Tutta la zona costiera, nella quale i renziani sono più deboli, è diventata terra di conquista per avversari che un tempo non avevano speranze di vittoria. “E l’anno prossimo rischiamo di perdere anche la Regione”, commentano preoccupati dal partito.
Ai dem piacerebbe gridare “No Pasarà¡n”, ma i nemici sono già passati.
(da “Huffingtonpost“)
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Aprile 27th, 2018 Riccardo Fucile
LO STRANO CASO DI UN ASSISTENTE PARLAMENTARE CHE VIENE ASSUNTO PER 55.000 EURO DAL COMUNE DI ROMA MA LAVORA CON L’EX PROVINCIA
Sulla “bio” del suo profilo Facebook Angelo Capobianco ha scritto «avendo tante cose da fare a volte dimentico dei pezzi, ma giuro che le faccio tutte con amore».
E che di cose ne abbia parecchie da fare non c’è dubbio.
Capobianco infatti oltre ad essere, dal 2014, consigliere comunale per il MoVimento 5 Stelle nel comune di Monterotondo dal 2013 è assistente parlamentare del deputato Alberto Zolezzi (sempre M5S) che il 4 marzo è stato rieletto alla Camera al proporzionale nel collegio elettorale di Mantova.
Ma non finisce qui, perchè il poliedrico architetto Capobianco è stato nominato nell’ottobre 2017 (quindi quando era già consigliere comunale e assistente parlamentare) dalla sindaca di Roma Virginia Raggi addetto ai rapporti con la Città Metropolitana, con la Regione Lazio e con il Parlamento, con enti pubblici e società private.
Nel 2015 inoltre Capobianco era subentrato ad Enrico Stefà no in qualità di consigliere della città metropolitana (l’ex provincia di Roma) incarico che ha esercitato a titolo gratuito fino al 2016.
Attualmente Capobianco non fa più parte del consiglio metropolitano che è stato rinnovato in seguito alle amministrative del Comune di Roma Capitale.
Capobianco, denuncia il consigliere metropolitano Carlo Passacantilli, continua ad aggirarsi per Palazzo Valentini (la sede dell’ex Provincia).
Eppure a nominare Capobianco non è stata Virginia Raggi in qualità di Sindaco della Città Metropolitana ma Virginia Raggi sindaco di Roma Capitale.
L’atto di nomina di Capobianco infatti è contenuto nella delibera 226 della giutna capitolina (16 ottobre 2017).
Nell’atto di nomina si legge che Capobianco è addetto: «alla cura dei rapporti con la Città Metropolitana di Roma Capitale e tutti i Comuni facenti parte del territorio metropolitano, con le istituzioni Provinciali e Metropolitane del territorio nazionale, con la Regione Lazio ed il Parlamento, nonchè con i portatori di interessi collettivi, quali Enti pubblici, società private, organismi rappresentativi di cittadini; al raccordo istituzionale con gli Organi e gli Uffici della Città Metropolitana di Roma Capitale». Per uno stipendio lordo pari a poco più di 55mila euro l’anno (55.158,83 euro).
Si dirà che visto il ruolo di Capobianco è perfettamente normale che abbia acceso alla sede della Città Metropolitana. Ma secondo Passacantilli Capobianco esercita — per conto della Raggi Sindaca Metropolitana — l’attività e la convocazione dei dirigenti della Città Metropolitana.
Ruolo che però spetta esclusivamente ai vertici dell’amministrazione metropolitana mentre l’architetto Capobianco è assunto (a tempo determinato) dal Comune di Roma e fa parte dell’Ufficio di diretta collaborazione della Sindaca, ovvero dello staff, della Raggi.
Nel frattempo però la Raggi non ha ancora provveduto a nominare il vicesindaco metropolitano (ruolo che era ricoperto dal sindaco di Pomezia Fabio Fucci) nè ha conferito gli incarichi di Capo di Gabinetto e di Direttore Generale.
Quindi riassumendo: un assistente parlamentare prima ottiene un posto in lista alle elezioni comunali poi — contemporaneamente al suo incarico alla Camera — viene assunto nello staff della sindaca di Roma e finisce per lavorare alla Città Metropolitana.
E poi dicono che il M5S non è in grado di risolvere il problema della disoccupazione.
(da “NextQuotidiano”)
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Aprile 27th, 2018 Riccardo Fucile
LE STORIE DEI QUATTRO INSERITI DA POETS & QUANTS TRA I MIGLIORI DOCENTI DI ECONOMIA AL MONDO: “NOI ALL’ESTERO PER LIBERA SCELTA, NON SIAMO CERVELLI IN FUGA”
Giovani, talentuosi e sconosciuti. Paolo Aversa, Ileana Stigliani, Paolo Taticchi e Stefano Tasselli sono stati inseriti nella lista dei 40 migliori professori del mondo di business dalla rivista americana Poets & Quants, considerata la «Bibbia» del settore. Ma in Italia non li conosce nessuno.
Non chiamateli «cervelli in fuga» perchè hanno scelto loro di studiare, fare ricerca e insegnare nelle migliori università del mondo. Segnatevi questi nomi, perchè ne sentiremo parlare in futuro.
PAOLO AVERSA
“Studio la Formula 1 per capire quando è il momento di innovare”
Cosa c’entra la Formula 1 con l’innovazione?
«Alla Cass Business School, dove tuttora insegno ho scoperto che quando c’è un cambiamento nel mercato del lavoro importante, non sono le innovazioni radicali a dare più benefici, ma quelle più semplici e meno ambiziose. Tante imprese innovative hanno fallito per questo motivo. Si ricorda il Concorde, considerato il più veloce degli aerei? O il Betamax che all’epoca era molto più avanzato come tecnologia del vhs?».
E la Formula 1?
«Ogni anno in Formula 1 gli ingegneri adattano la macchina dell’anno prima in base al nuovo regolamento: dall’elettronica al design, fino al motore. Nel 2009 diedero la possibilità a tutte le squadre di mettere un motore ibrido. Ferrari e McLaren lo fecero, mentre la povera Brawn cambiò solo il diffusore. Risultato? Quei team ebbero la monoposto in panne una gara sì e l’altra pure. Mentre la Brawn del modesto Jenson Button riuscì a vincere il mondiale. Ma quando l’ambiente di mercato è più stabile, le innovazioni radicali sono quelle più giuste».
Tornerebbe in Italia?
«Sto bene qui. Prenderei in considerazione un ritorno solo se ci fossero le condizioni giuste e l’opportunità di fare bene».
ILEANA STIGLIANI
“Insegno ai futuri manager come risolvere i problemi. Le soluzioni sono nel design”
Ileana Stigliani, dopo la Bocconi e un anno al Mit di Boston ha iniziato a insegnare il «Design thinking» all’Imperial College di Londra.
Di cosa si tratta?
«Insegno le migliori pratiche usate dai designer per sviluppare nuovi prodotti e servizi di successo. Modi di pensare applicabili anche ai manager quando devono risolvere dei problemi delle aziende, come il calo delle vendite».
In teoria quello dei designer è un altro lavoro.
«Siamo abituati al problem solving analitico: uno parte da un problema, sviluppa delle ipotesi, le testa, le conferma o le confuta. Invece i designer hanno un altro approccio: passano molto tempo nell’esplorare la radice del problema».
E come si fa?
«Mettendosi nei panni del consumatore. Oggi tutto cambia continuamente, così come i gusti e le richieste delle persone, ormai sempre più sofisticati. Andando a fondo nelle cose, si capiscono quali sono i veri bisogni che magari gli stessi consumatori nemmeno conoscono».
Come fa a insegnarlo ai suoi studenti?
Li mando nei musei di Londra, chiedendo di mettersi nei panni di visitatori ciechi e di riprogettare l’esperienza museale per loro. Se crei un’esperienza soddisfacente per una categoria particolare, lo farai anche per tutti gli altri».
STEFANO TASSELLI
“Ho osservato che in ufficio la personalità cambia in base ai vicini di scrivania”
Da poco Stefano Tasselli è stato nominato «Alumnus» del mese dall’Università di Cambridge. Di solito si conferisce a ex studenti anziani, mentre lui ha solo 35 anni.
Perchè?
«Forse qualcosa di buono l’ho fatto qui all’Università di Rotterdam studiando il comportamento personale e delle organizzazioni nei luoghi di lavoro».
Cioè?
«Studio come l’interazione tra le nostre personalità , motivazioni e percezioni contribuiscono a sviluppare relazioni con gli altri e come queste hanno un impatto su quello che facciamo. Ovvero se avremo successo o meno, ma non solo questo».
Qual è stato l’aspetto più originale della ricerca?
«Siamo abituati a pensare che la nostra personalità sia immutabile, ma non è così. Le esperienze all’interno dell’organizzazione e le relazioni con i colleghi possono cambiare la nostra personalità . Se per esempio lavori con persone depresse è più probabile che tu abbia sintomi di depressione, se hai invece un capo carismatico è più probabile che tu stesso possa mostrare comportamenti carismatici».
Perchè ha scelto Rotterdam e non l’Italia?
«Non è una questione di fuga di cervelli, anzi. L’ambito di cui mi occupo è di natura internazionale. Per questo ho scelto una soluzione che mi consentisse di coniugare il tempo per sviluppare la mia ricerca con l’insegnamento».
PAOLO TATICCHI
“Creo modelli per le imprese che rispettino l’ambiente facendo quadrare i conti”
Paolo Taticchi, è stato il più giovane direttore di MBA al mondo, a soli 29 anni.
Perchè ha deciso di lasciare l’Italia?
«Da semplice ricercatore nel 2009 ho lanciato un master MBA a Spoleto, in Umbria, con la prestigiosa Bradford School of Management e l’Università di Perugia. Per problemi amministrativi e politici dalla sera alla mattina mi sono sentito dire «Ti dobbiamo staccare l’email perchè non hai più il contratto da ricercatore». Ma non mi considero un cervello in fuga, all’epoca avevo un incarico a New York. Ora sono contento di essere qui all’Imperial College di Londra»
Dove insegna Management e sostenibilità d’impresa. Di cosa si tratta?
«Dal 2008 sviluppo e insegno modelli di business più sostenibili affinchè le aziende possano cambiare le proprie strategie ed essere più sostenibili dal punto di vista economico, ambientale e sociale. Ma sono sempre rimasto legato all’Italia. In questi anni ho fatto anche studi e progetti nella mia regione, l’Umbria».
Quali?
«Per esempio ho aiutato una piccola e media impresa umbra che si trovava ad affrontare la tremenda crisi del settore costruzioni a diversificare il proprio business e sviluppare un nuovo ramo di impresa caratterizzato da prodotti sostenibili e un modello di business legato all’economia circolare. Il progetto è diventato un caso di studio internazionale».
(da “La Stampa”)
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Aprile 27th, 2018 Riccardo Fucile
INTERVISTA ALL’ESPERTO DELL’IAI LORENZO MARIANI: “SIA KIM CHE MOON HANNO GIOCATO SULLA VANITA’ DI TRUMP”
“Kim ha dato prova di razionalità : attraversando la linea di demarcazione militare, ha contribuito a sfatare il mito che la Corea del Nord sia un paese irrazionale guidato da un pazzo che non persegue nessun tipo di strategia”.
Lorenzo Mariani, ricercatore esperto di relazioni intercoreane all’Istituto Affari Internazionali (IAI), non si sbilancia sui possibili esiti del vertice odierno tra il presidente sudcoreano Moon Jae-in e il leader di Pyongyang Kim Jong-un, ma è convinto che si tratti di un primo passo fondamentale per comprendere la Corea del Nord e avviare un vero dialogo.
“È ancora presto per capire bene quali siano le reali intenzioni di Kim Jong-un. Non è la prima volta che la Corea del Nord si siede al tavolo dei negoziati. E non è neanche la prima volta per Kim: già nel 2012 c’era stato un rilassamento, anche nel rapporto con gli Stati Uniti, che poi è sfumato in pochi mesi. Quello che possiamo fare è individuare i fattori che ci hanno portato fin qui, e quindi da un lato le motivazioni di Kim, dall’altro lo sforzo diplomatico di Moon Jae-in”.
Partiamo dal primo punto. Quali sono le motivazioni del leader nordcoreano?
“Innanzitutto, Kim potrebbe ritenere di aver raggiunto i suoi obiettivi nel processo di sviluppo militare e nucleare, facendo diventare la Corea del Nord — come da lui stesso dichiarato a novembre dello scorso anno — una potenza nucleare, in grado di negoziare da un punto di forza. In secondo luogo, Kim potrebbe aver intrapreso la via del dialogo per anticipare l’effetto delle sanzioni sull’economia nordcoreana. Di certo ha influito il fatto che la Cina stia diligentemente seguendo lo sforzo internazionale per mettere la massima pressione al regime di Pyongyang, anche se gli effetti di queste sanzioni si manifesteranno solo verso la fine dell’anno. In questo senso Kim potrebbe aver deciso di giocare d’anticipo per evitare pesanti ripercussioni sull’economia”.
Entrambe sembrano motivazioni reali. Dobbiamo quindi desumere che Kim fa sul serio?
“C’è anche una terza ipotesi che non possiamo escludere… A guidare le mosse di Kim potrebbe essere la cosiddetta strategia del rischio calcolato, una tattica che la Corea del Nord utilizza da anni e che Kim ha ereditato dal padre e dal nonno. È una strategia che prevede l’alternarsi di picchi di pensione — con provocazioni, test, lancio di missili — a fasi di apertura e diplomazia in cui la Corea del Nord cerca di estorcere aiuti o favori internazionali”.
Cosa dire invece dello sforzo diplomatico d Moon Jae-in?
“Il presidente sudcoreano ha saputo aprire alla Corea del Nord senza concedere nulla o facendo minime concessioni. E lo ha fatto continuando a supportare gli Usa nella loro politica della massima pressione, senza creare una rottura tra Seul e Washington. Moon è protagonista della svolta almeno quanto Kim”.
Torniamo sull’altro protagonista allora. Cosa ha guadagnato Kim da questo summit?
“Kim ha dato prova di razionalità : attraversando la linea di demarcazione militare, ha contribuito a sfatare il mito che la Corea del Nord sia un paese irrazionale guidato da un pazzo che non persegue nessun tipo di strategia. Kim ha dimostrato di saper sfruttare abilmente anche la carta diplomatica. Ha visto nell’inizio di quest’anno un momento propizio per aprire i negoziati. Sapeva che prospettando un miglioramento dei rapporti con Seul, Moon non si sarebbe tirato indietro. Come sapeva che anche Trump difficilmente avrebbe rifiutato in prima istanza un’apertura al dialogo”.
Come cambia dopo oggi l’immagine della Corea del Nord?
“Sfatare il mito che la Corea del Nord sia un attore irrazionale ci aiuta a sviluppare una strategia per comunicare, per rispondere a quelle che sono le sue azioni. Ferma restando la condanna per le violazioni dei diritti umani, è anche vero che bisogna conoscere il proprio ‘nemico’ per poter agire. Se non conosciamo la persona con cui stiamo dialogando, e pensiamo che prenda decisioni in base a come si sveglia la mattina, finiamo nella trappola della sua strategia. Bisogna capire la Corea del Nord, il suo funzionamento, i suoi valori (per quanto possano essere non condivisibili). Additare Kim, il padre e il nonno come dei pazzi non ci aiuta certo a stabilire una strategia per avere a che fare con loro. Tra l’altro, semmai, oggi è il presidente Usa a decidere cosa fare in base a come si sveglia al mattino… Ci troviamo nella situazione paradossale in cui la Corea del Nord ha una strategia, mentre sono gli Usa ad arrancare”.
Si può dire che Kim abbia giocato con la vanità del presidente Usa?
“In un certo senso lo hanno fatto entrambi, sia Kim che Moon. Il leader nordcoreano sa bene che a Trump, in questo momento, fa gola una vittoria in ambito internazionale, soprattutto su un nodo irrisolto da 65 anni come la Corea del Nord. Moon, dal canto suo, è stato abile nello sforzo diplomatico ad attribuire parte del successo anche a Trump, in modo da riconoscergli una parte di merito. Entrambi hanno giocato sulla vanità di Trump, ma per un fine pacifico, quindi ben venga”.
Kim ne esce quasi come uno statista…
“È ovvio che non dobbiamo e non possiamo dimenticare il comportamento della Corea del Nord. Ma è sbagliato anche attribuire a Pyongyang tutta la colpa per il fallimento dei negoziati passati. Ci sono stati altri fattori – come l’avvento di Bush e la decisione di inserire la Corea del Nord tra gli Stati canaglia — che certamente non hanno contribuito al dialogo.
La Corea del Nord deve riconquistare la fiducia, ma bisogna darle questa opportunità . Si tratta di una soluzione diplomatica che scongiura altri tipi di confronti. Abbiamo passato tutto lo scorso anno a parlare di missili e attacchi preventivi, ora la situazione appare molto diversa. Tenendo sempre un certo grado di diffidenza verso la Corea del Nord, sarà compito di Kim e Moon dare gradualmente prova delle loro reali intenzioni”.
Nella dichiarazione si indica come obiettivo una “penisola coreana completamente denuclearizzata”? Quanto è credibile?
“Questa dichiarazione congiunta deve essere vista come un primo passo, avremo bisogno di altri incontri e altri negoziati più specifici per entrare nel dettaglio. La parte sul nucleare non è ben chiara, è stata scritta così appositamente per accomodare le due parti. È difficile pensare che la Corea del Nord intenda la denuclearizzazione nello stesso modo in cui la intendono gli Usa. È difficile pensare che Kim voglia cedere il suo arsenale dopo tutta la fatica fatta per averlo, e soprattutto è difficile credere che sia disposto a rinunciare al significato che quell’arsenale ha. Il valore aggiunto di questa dichiarazione è che delinea le regole di ingaggio tra la Corea del Nord e del Sud e apre vari tavoli negoziali a cui bisognerà dare seguito: si parla di cooperazione economica, cooperazione umanitaria, demilitarizzazione di entrambe le Coree, per poter arrivare a sostituire l’armistizio con un trattato di pace a cui dovranno per forza di cose partecipare anche gli Usa e la Cina”.
Cosa ci dobbiamo aspettare dall’incontro tra Kim e Trump?
“Prima di tutto bisognerà vedere se questo incontro ci sarà oppure no. La cerimonia di oggi ha spianato la strada, ma non possiamo esserne certi finchè non li vedremo stringersi la mano. Ci sono alcune premesse non favorevoli, a cominciare da quello che pensano Bolton e Pompeo sulla Corea del Nord, come anche sull’Iran. Bolton ha più volte detto di essere favorevole a un cambio di regime e/o a un attacco preventivo contro la Corea del Nord; nella sua prospettiva, l’incontro tra Trump e Kim è l’occasione per gli Usa di smascherare il leader nordcoreano e svelare le sue vere intenzioni (che, secondo lui, sono solo un altro modo per contrarre tempo e cercare di essere alleviati dalle sanzioni). Bisognerà vedere quanto Trump si farà influenzare da questi giudizi”.
(da “Huffingtonpost”)
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Aprile 27th, 2018 Riccardo Fucile
IL LEADER LEGHISTA DOVRA’ TORNARE ALLE FELPE… E’ VENUTO MENO L’ASSE DA STIRO, MIRACOLI DELLA RAI
Ha dato prova di saper stirare. E, in tutte queste settimane, di saper stare nell’ombra. Quella cinquantina di scatti che sono scappati dalle mani del suo compagno e sono finiti su Instagram e sui rotocalchi rappresentano il frutto della distrazione più che della esibizione.
Una coppia normale, come tante, con mille cose da sbrigare. E i pochi istanti di intima conversazione, lui in poltrona e lei in dècolletè davanti al ferro da stiro, lui in camicia e lei pure, lui al mare e lei di lato, lui avanti e lei dietro, è il pedaggio che lei paga a Matteo e alla sua ossessione di fotografare ogni cosa che gli si muove intorno: una camicia, una ruspa, un immigrato o anche lei, Elisa batticuore.
Nonostante tutto Elisa Isoardi sta resistendo nell’ombra anche se gli sfregi alla sua decisione non si contano.
L’ultimo quello della Rai di trascinarla sotto il cono di luce della Prova del cuoco, trasmissione alla quale Antonella Clerici ha donato 18 anni di fila.
Elisa dovrà condurre, lei che vorrebbe essere condotta, e dovrà stare alla luce, lei che è nata nell’ombra e lì vorrebbe essere lasciata.
Sembra una vendetta, una ritorsione, l’ultima provocazione del sistema, del potere pubblico contro Matteo Salvini, il leader contro, colui che sta col popolo, tra il popolo sovrano.
Matteo non avrà più le camicie stirate dall’adorata Elisa, impegnata con i bucatini all’amatriciana.
Fortuna che gli restano le felpe.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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