Aprile 12th, 2018 Riccardo Fucile
IL FALLIMENTO DI CHI SI RITIENE L’UNICO POSSESSORE DEL DIRITTO MORALE SULLA TERRA
Livido, deluso e arrogante. Il gran fallimento della seconda giornata di consultazioni ci svela il vero volto di Di Maio.
Spettacolo ultraterreno vedere quel viso levigato, impassibile sotto ogni pressione, quella fronte senza mai una ruga di fatica, cedere sotto la umanissima mazzata della delusione.
Sembra un po’ di rivedere la stessa trasformazione che ha attraversato poche ore prima, oltreoceano, un altro trentenne di successo, Mark Zuckerberg, la cui immacolata immagine di sicurezza si è sciolta nelle gocce di sudore che hanno alla fine invaso la sua implacabile fronte, sotto lo sgarbato interrogatorio del Congresso americano.
Capita ai giovani leader quando escono dal terreno di sicurezza che si sono costruiti intorno. Nulla di male. Son giovani e si faranno. Le loro debolezze non gli fanno male sul piano personale.
Quello che ci riguarda è invece che il nuovo Di Maio, nell’ora della sua difficoltà , ci ha anche rivelato la debolezza e la supponenza etica che si celano dietro il teorema politico su cui si sono mossi i 5 Stelle in questo periodo.
Abbandonato da Salvini, irriso da Silvio Berlusconi, anche di fronte alle macerie in cui un anziano leader ha ridotto l’attento piano di arrivare a palazzo Chigi, Luigi Di Maio si presenta sulla tribuna del Quirinale e non fa un minimo di autocritica. Ripropone i propri mirabili sforzi, la propria giustezza, e ancora ha la forza di dare ordini e condanne a tutti. “Berlusconi deve fare un passo di lato”, “la posizione di Salvini non la comprendo”, “il Pd è fermo su posizioni che non aiutano”.
A che titolo gli altri debbano fare quello che lui dice loro si fa finalmente chiaro nell’affanno del momento. I pentastellati sono i possessori unici del diritto morale nella terra della politica. Per cui ognuno deve fare quello che loro vogliono, se vogliono essere salvati.
Che è poi il vero pensiero accuratamente nascosto della presenza politica dei 5 Stelle. È proprio infatti con la stizza da predicatore stufo dei suoi peccatori che Di Maio chiude con secchezza il discorso e se ne va.
Lasciando il povero elettore che lo segue da casa senza un straccio di proposta per la sua resurrezione, per non parlare del futuro prossimo.
Eppure, bastava che Di Maio, o chi per lui, facesse meno giochi, avesse un minor alto senso di sè, e forse avrebbe capito che è difficile mettere qualcuno nel sacco in politica.
La politica essendo il posto dove si scaricano, in generale, tutti i più competitivi e furbi del pianeta. In politica valgono reti di rapporti seri, costruzioni di relazioni non strumentali, e concretezza.
Ma i pentastellati si sentono al di sopra di queste cose. In questo senso sembrano già Renzi senza nemmeno essere andati a palazzo Chigi.
E infatti alla fine sono stati messi nel sacco proprio da colui che è il più resistente inquilino della politica, nonchè il più furbo dei furbi, Silvio Berlusconi.
Un Silvio doc che esercitando la sua forza di trattativa in privato e accennando qualche mossa da cabaret in pubblico ha in un colpo solo distrutto il piano “dei due vincitori”, ha sminuito Di Maio, ha convinto Salvini a stare nel centrodestra, dandogli il diritto all’incarico, e si è intestato una leadership moderata e rassicurante sulla politica estera in un momento in cui il Quirinale ha bisogno di ogni possibile aiuto per formare un governo che appaia solido a sufficienza da reggere i tremori delle esplosioni in Siria.
Anche questa nel centrodestra è stata una molto dovuta operazione chiarezza.
Sul Pd invece non c’era da far chiarezza perchè la inadeguatezza dell’organizzazione è stata alla luce del sole per tutto questo mese post elettorale: oggi alle consultazioni questa assenza di iniziativa è stata solo confermata dalla catatonica fibra delle dichiarazioni della delegazione.
L’unica verità che luccicava, dietro le solite parole di ragionevole necessità di “dare al più presto un governo al paese” è che il Pd oggi ha un’unica speranza: quello di essere la plastilina in mano a Mattarella.
A sei settimane dal voto possiamo dire che un giro vero di vincitori e vinti cominciamo a vederlo.
(da “Huffingtonpost”)
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Aprile 12th, 2018 Riccardo Fucile
I RETROSCENA DEL VERTICE, IL TESTO SCRITTO DA GIANNI LETTA… DOPO BELPIETRO E DEL DEBBIO TOCCA A GIORDANO: MEDIASET FA PULIZIA DEGLI ISTIGATORI ALL’ODIO…MATTARELLA SPINGE PER UN GOVERNO IN TEMPO BREVI… SI FA IL NOME DELLA CASELLATI
La zampata arriva alla fine, come è nello stile dell’uomo, esondante a incapace di interpretare il ruolo del secondo. Incapace solo di vincere, ma con la tendenza a stravincere e a strabordare.
Silvio Berlusconi, appena Matteo Salvini ha terminato la sua comunicazione a nome di tutto il centrodestra approfondisce, a modo suo, il solco con i Cinque Stelle: “Mi raccomando — dice ai giornalisti — fate i bravi e sappiate distinguere i veri democratici da chi non conosce l’abc della democrazia”.
Parole impreviste, che irritano gli alleati, visibilmente contrariati all’uscita dal Quirinale. Perchè, come un dito negli occhi dopo uno schiaffo politico, rendono impossibile il confronto già incrinato dal grande ritorno in scena del leader del centrodestra.
A fine giornata la fotografia scattata al Quirinale è lapidaria.
È franato, al secondo giro di consultazioni, quel “quasi patto” che sembrava a un passo solo 24 ore fa, fondato sull’asse tra Salvini e Di Maio.
E la situazione è tornata di nuovo ingarbugliata, tale da rendere necessaria al Quirinale una riflessione approfondita. Perchè l’unica certezza, per il capo dello Stato, è che ci vuole un governo in tempi ragionevoli e lo stallo non può protrarsi ancora a lungo nè è immaginabile un nuovo giro di consultazioni.
Ma ogni schema immaginato e pensato nei giorni scorsi, dal pre-incarico al conferimento di un mandato esplorativo, è da rivalutare alla luce della situazione nuova che si è creata.
Situazione nuova creata innanzitutto dalla crisi siriana, perchè l’annunciata escalation rende necessario un governo in tempi brevi e non consente di procedere per tentativi con pre-incarichi o incarichi esplorativi. Ma spinge a individuare una figura, istituzionale o meno, a cui conferire un mandato pieno.
Ed è chiaro che non si può tener conto del cambio radicale di schema che è maturato: al netto dello show finale del Cavaliere e di qualche presa di distanza leghista, la verità è quell’asse — tra Salvini e i Cinque Stelle – è franato sulla posizione, per una volta granitica, assunta dal centrodestra nel suo insieme nel corso delle consultazioni. È stato Silvio Berlusconi assieme a Giorgia Meloni a chiedere a Salvini di parlare a nome della coalizione proprio per “inchiodarlo” al ruolo di “leader” dell’intero centrodestra e non solo del suo partito.
E il comunicato letto alla Vetrata è stato vergato da Gianni Letta per poi essere condiviso da tutti.
Nelle sue parole essenziali non si discosta da quello letto dall’ex premier nel corso del primo giro di consultazioni, al netto della sparata su “populisti, giustizialisti, pauperisti”.
Gli assi politici di fondo sono tre, non irrilevanti: 1) una chiara scelta atlantica nella collocazione internazionale dell’Italia, evocando il celebre spirito di Pratica di Mare del governo Berlusconi, scelta su cui lo stesso Salvini ha dato assicurazioni al capo dello Stato nel corso del colloquio; 2) l’invito a trattare con la coalizione di centrodestra, arrivata prima alle elezioni, rivolto — e questo è un dettaglio fondamentale – “a tutte le forze politiche responsabili, a partire dai Cinque Stelle”; a partire, ma evidentemente rivolto a tutti, anche all’innominato Pd, qualora decidesse di abbandonare l’Aventino; 3) l’indicazione di un governo di “alto profilo”, con un candidato premier, che spetta alla Lega, come da patti elettorali della coalizione.
Nel corso del colloquio con Mattarella più volte Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni hanno sottolineato come il candidato premier sia Matteo Salvini, ma in parecchi iniziano a sussurrare, per un eventuale pre-incarico il nome di Giancarlo Giorgetti.
La svolta nel centrodestra, come spesso accade, matura a un passo dalla rottura.
E un indicatore molto importante è ciò che sta accadendo nel mondo Mediaset, dove, proprio nelle ultime ore, sta cambiando l’intero asseto di Videonews — la super-testata trasversale che opera sui tre canali dell’azienda — con la cancellazione dal palinsesto, in tempi rapidissimi, di alcuni dei volti più popolari, Belpietro, Del Debbio ma anche Mario Giordano, rei di aver intrepretato una sorta di salvinismo televisivo.
Una fonte degna di questo nome spiega, a microfoni spenti: “La linea dura di Berlusconi ha avuto la benedizione di Letta e delle aziende”.
La linea dura consiste nel rifiuto categorico del passo di lato, per favorire la nascita di un governo: “Lo schema di Salvini — prosegue la fonte — era: un passo di lato di Berlusconi, chiedendogli di favorire la nascita del governo, in nome della tutela delle aziende. La risposta è stata: noi o siamo dentro a pieno titolo o stiamo fuori, ma se stiamo fuori faremo un’opposizione dura contro di te. E diremo che sei tu ad aver tradito il centrodestra”.
Ecco. E chissà se è un caso che a fine giornata sembra rovesciato lo schema seguito fin qui, con la Lega che non minaccia più il ritorno alle urne e, per la prima volta, evoca un governo istituzionale: “Casellati? — dice Giorgetti a Porta a Porta — potrebbe muovere le acque”. È la seconda carica dello Stato, votata anche dai Cinque Stelle che però, nella sostanza politica, rappresenta una tomba per le ambizioni di Luigi Di Maio.
È cambiato tutto.
(da “Huffingtonpost”)
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Aprile 12th, 2018 Riccardo Fucile
SI SIEDE ACCANTO A MATTARELLA, TIENE IL CONTO DEI PARAGRAFI, ATTACCA FRONTALMENTE I CINQUESTELLE PRIMA DI ANDAR VIA… LA LEGA SI DISSOCIA
A un certo punto, nel bel mezzo dello show, tutti si aspettano il gesto delle corna, come nel celeberrimo vertice Ue del febbraio del 2002. Non ostentate, ma nemmeno troppo nascoste, arrivano anche quelle.
Quando Salvini legge il decimo punto del programma del centrodestra per il governo che verrà , lui, Silvio Berlusconi, invece che indicare il numero dieci con entrambe le mani aperte, fa proprio quello. Pollice e mignolo della mano destra. Il gesto delle corna.
È l’ennesimo effetto speciale della «prima» di Silvio Berlusconi da secondo. Un inedito storico, il leader per antonomasia che cede lo scettro a uno che, semplicemente, ha preso più voti di lui.
Ma visto che, nella testa dell’ex Cavaliere, un paio di punti percentuali alle elezioni non possono eguagliare Milano Due, Milano Tre, il colosso Mediaset, le case editrici, gli scudetti, le coppe dei campioni, nove anni a Palazzo Chigi e altro ancora, ecco che il leader di Forza Italia estende il perimetro scenico del «numero due» come la pasta della pizza, arrivando a farlo più grande di quello di Salvini.
Si siede accanto al capo dello Stato. È il primo entrare nell’uscita della Vetrata e l’ultimo ad andarsene. Tiene il conteggio dei paragrafi concordati nel comunicato congiunto. E attacca frontalmente i Cinquestelle, senza mai citarli, prima di andare via.
Tutta l’irritazione di Salvini, sulle prime viaggia di bocca in bocca tra le voci di corridoio dei leghisti. Ma pochi minuti prima delle 20 prende corpo in una dichiarazione ufficiale del capogruppo a Palazzo Madama Gianmarco Centinaio che si dissocia dalle parole del Cavaliere: «I veti non ci piacciono a prescindere dalla provenienza. Non era condiviso e non lo sarà mai da parte nostra un no al dialogo con il Movimento 5 Stelle, seconda forza politica in Parlamento. Le parole finali di Berlusconi oggi al Colle non rispecchiano la posizione della Lega, nè quella del centrodestra che oggi si è espresso in maniera unitaria e concordata».
(da “Il Corriere della Sera”)
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Aprile 12th, 2018 Riccardo Fucile
L’EX MINISTRO, CANDIDATO CON UNA LISTA CIVICA, SI DIVERTE A PUNZECCHIARE “IL MODELLO LIGURIA” DI TOTI… IL CENTRODESTRA PUNTA SU NUOVO ACQUISTO DELLA LEGA CHE TRE ANNI FA ERA IN LISTA CON IL PD
“Credo che i simboli, se non corrispondono alle facce, non significhino nulla. Questo simbolo è un surrogato pietito e ottenuto come una piccola patacca, ma non mi interessa, perchè la strada che ho voluto intraprendere è che la mia candidatura è aperta a tutti e contro nessuno”.
Così l’ex ministro Claudio Scajola, già fondatore di Forza Italia e candidato indipendente alle amministrative di Imperia, ha commentato la scelta di Forza Italia di scegliere il simbolo Forza Imperia per il candidato del centrodestra Luca Lanteri suo sfidante.
Scajola ha sempre sostenuto che “Forza Italia, sono io”. Alla domanda, se si sente tradito da Berlusconi, Scajola ha risposto: “Assolutamente, no. Anche se c’è qualcuno che cerca di mettere delle zeppe, dando false informazioni, il rapporto è di stima e di amicizia. Ma questa è un’altra partita, le patacche qui non contano, la mia candidatura è aperta a tutti, contro nessuno, e con uno spirito altamente civico e cioè comunità , ripartire dalla comunità . Le polemiche non mi interessano, mi interessa parlare dei problemi della gente, sono qui per questo.”
Scajola malattia del centrodestra secondo Toti?
Viva il patto generazionale, sono contro il giovanilismo qualunquista. Sono per le intelligenze e per le esperienze. Se sono giovani meglio, ma mettiamo insieme giovani, genitori e nonni, c’è bisogno Ritengo che la storia della mia famiglia, da mio nonno, a mio papà , a me, è una storia si rifà alla storia del popolarismo italiano, che si rifà a una Europa popolare gioisca, non sovranista e non populista. Ognuno la interpreta come vuole”.
Alla fine, a reggere la bandiera del “modello Liguria” di Toti e leghisti sarà invece un ticket composto dall’architetto Luca Lanteri e il commercialista Antonio Parolini. Il primo è un nome spinto dalla Lega ma dal passato ingombrante: ex assessore all’urbanistica a Imperia ed ex candidato alle ultime regionali, ma in una lista che sosteneva la Pd Raffaella Paita, contro Toti.
Tout est pardonnè, nella nuova versione affaristica del centrodestra leghista.
(da agenzie)
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Aprile 12th, 2018 Riccardo Fucile
“ARRESTIAMO OGNI SETTIMANA DIECI PERSONE PER MAFIA, E’ UN POSTO DI GUERRA, BISOGNA VENIRE QUI CON UNA MENTALITA’ DI GUERRA”
“La signora spiega il suo stato d’animo”. Da Rotterdam, dove la Dea e il procuratore nazionale olandese lo hanno invitato all’International Drug Enforcement Conference (la conferenza internazionale antidroga), il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri non ha nessuna intenzione di parlare dell’inchiesta sull’autobomba esplosa a Limbadi, in provincia di Vibo Valentia, dove è stato ucciso il quarantaduenne Matteo Vinci ed è stato ferito il padre Francesco, ancora ricoverato all’ospedale di Palermo. “Ci sono indagini in corso e non posso fare nessun commento sull’inchiesta che il mio ufficio sta coordinando per fare luce sull’attentato”.
Il magistrato ha ascoltato le parole di Rosaria Scarpulla, la madre di Matteo Vinci che, intervistata poche ore dopo l’esplosione della Ford Fiesta, ha puntato il dito contro la famiglia di Rosaria Mancuso, parente dei boss di Limbadi, con la quale da anni si scontra per questioni di vicinato.
Soprusi, angherie, denunce, aggressioni e pestaggi. Tutto per un pezzo di terra che, stando a quanto raccontato dalla signora Scarpulla, la sua famiglia non ha mai voluto cedere ai parenti dei boss. Si è arrivati addirittura ad arresti per rissa (dei Vinci), ricoveri in ospedale e a procedimenti civili con i Mancuso sempre a piede libero. “Eravamo noi i galeotti” è stato lo sfogo della donna davanti alla telecamera de ilfattoquotidiano.it.
“Sono parole forti ma ci sono tante cose che non posso dire perchè ci sono indagini in corso”. Il procuratore Nicola Gratteri parla solo in generale.
Se ci sono state omissioni da parte delle forze dell’ordine o collusioni da parte degli enti preposti a far rispettare le leggi, lo stabilirà l’inchiesta sulla quale, al momento, c’è il massimo riserbo. Se le omissioni sono state della magistratura, invece, non sarà la Dda di Catanzaro a occuparsene ma quella di Salerno per competenza.
Una cosa è certa per Gratteri: “Se siamo a questo stadio ad oggi è perchè non tutti si sono impegnati a fare il loro dovere. E questo riguarda la magistratura, le forze dell’ordine, il giornalismo e tutte le istituzioni”.
Un concetto che poche ore fa il magistrato calabrese ha spiegato anche a Rai Radio1. Durante la trasmissione La radio ne parla ha tirato in mezzo anche la politica: “La gente — dice Gratteri — non si fida perchè negli anni molti di noi e delle forze dell’ordine non sono stati degni di essere uomini delle istituzioni. La ‘ndrangheta sta sul territorio, la politica no. Si fa vedere solo 20 giorni prima del voto. E invece la politica dovrebbe avere il coraggio e la libertà di creare un sistema giudiziario proporzionato alla gravità della situazione italiana. Quindi cambiare le regole del gioco al punto che non dovrebbe essere più conveniente delinquere”.
“Da quando sono alla Dda di Catanzao — aggiunge Gratteri — ogni settimana arrestiamo almeno 10 persone indagate per mafia. In un anno e mezzo ho ricostruito questo ufficio, dal punto di vista numerico e motivazionale. Qui non è un posto di pace, ma un posto di guerra. Bisogna venire qui con la mentalità di guerra. La gente si preoccupa dei migranti e di lavoro ma non capisce quanto la mafia impedisca lo sviluppo delle imprese. Si calcola che la presenza della mafia in Calabria incida sulla mancata crescita del pil regionale per il 9%”.
Parole che, nonostante non facciano riferimento alle indagini sulla morte di suo figlio, Rosaria Scarpulla si aspettava di sentire. E torna in mente l’appello della “mamma coraggio” a margine dell’intervista fatta l’indomani dell’autobomba che le ha ucciso il figlio: “Ho fiducia in questo giudice. Lo sento parlare molto al popolo. Lui è un combattente. Altri giudici non lo fanno perchè non si immedesimano nella popolazione”.
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Aprile 12th, 2018 Riccardo Fucile
NOTIFICATA LA CHIUSURA DELLE INDAGINI CHE PRELUDE ALLA RICHIESTA DI RINVIO A GIUDIZIO
“Ieri sera mi è stato notificato dalla Procura di Torino l’atto con la chiusura delle indagini per piazza San Carlo. Resto a disposizione della magistratura, come lo sono sempre stata”: in una nota la sindaca Chiara Appendino conferma di aver ricevuto l’atto di chiusura indagini dalla procura per i fatti di Piazza San Carlo.
Di solito l’atto prelude la richiesta di rinvio a giudizio. Un altro degli avvisi di chiusura indagine è stato notificato all’ex capo di gabinetto, Paolo Giordana, nel frattempo cacciato per una vicenda di multe da ritirare a un conoscente.
A Piazza San Carlo il 3 giugno 2017 in seguito a un’ondata di panico improvviso durante la proiezione della finale di Champions League Juventus-Real Madrid oltre 1500 persone rimasero ferite e una donna morì poi dopo 12 giorni di agonia in ospedale. I pubblici ministeri procedono per disastro, lesioni e omicidio colposo. Secondo indiscrezioni trapelate in ambienti giudiziari sarebbero stati operati degli stralci di alcune posizioni: questo di norma è il preludio per una richiesta di archiviazione.
Nell’accusa i pm sosterranno che gli indagati, violando l’obbligo di controllo, avrebbero cooperato a causare il disastro di piazza San Carlo pur senza volerlo.
A essere chiamati in causa saranno, quindi, i vertici istituzionali, dirigenti e funzionari che si sono occupati dell’organizzazione dell’evento, delle misure di sicurezza presenti in piazza e della gestione dell’emergenza, con particolare riferimento all’ordine pubblico.
Un’accusa che, se provata, una volta conclusi tutti i gradi di giudizio di un eventuale processo, comporterebbe un aggravamento delle pene fino anche a dodici anni di carcere nei casi più gravi, condanna massima prevista per il reato di omicidio colposo, oltre alla possibile interdizione dai pubblici uffici per gli amministratori coinvolti in quel disastro.
I magistrati devono individuare i responsabili dei vari aspetti della manifestazione e a chi toccavano i vari compiti nella gestione della piazza. Non basta aver firmato un documento con cui si delega a qualcuno un incarico: è necessario che la legge riconosca quella procedura, trasferendo la responsabilità da una persona all’altra
(da agenzie)
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Aprile 12th, 2018 Riccardo Fucile
PIGNORATA L’AREA DOVE SI SVOLGONO LE FESTE DEL PD PER UN DEBITO DI MEZZO MILIONE DI EURO
Guai per la fondazione Ds di Mantova che dopo la nascita del Pd custodisce gli immobili appartenuti prima al Pci, poi al Pds e quindi ai Ds valutati, nel 2008, 4 milioni di euro.
Banca Mps, con cui la fondazione aveva acceso un mutuo di mezzo milione di euro, ha pignorato il Parco La Quercia di Suzzara, l’area attrezzata dove si svolgono le feste provinciali del Pd e che da sola è stata valutata all’epoca poco meno di 2 milioni di euro.
MPS reclama dalla fondazione il saldo del mutuo, sceso nel frattempo a 233mila euro, dopo che molte rate non sono state pagate.
A provocare l’arretrato il calo degli iscritto al Pd e la diminuzione degli incassi delle varie feste provinciali, cosa che ha costretto il partito a girare meno soldi alla fondazione.
Addirittura, la festa provinciale dell’anno scorso è stata spostata da Suzzara a Mantova in seguito al contenzioso con i vicini che accusavano i dem di rumori molesti. Se la fondazione non salderà il suo debito, il Parco La Quercia andrà all’asta.
Più in generale, al 31 dicembre 2017, il gruppo Mps “vanta crediti nei confronti di 13 partiti politici per complessivi 10 milioni di euro, di cui 9,7 milioni non performing”. E’ quanto risponde per scritto la banca a una domanda posta da un azionista, in occasione dell’assemblea in corso a Siena per l’approvazione del bilancio 2017. Il gruppo, viene aggiunto, “vanta crediti per complessivi 67 milioni” di cui 61 performing, nei confronti di “persone fisiche che occupano o che hanno occupato importanti cariche pubbliche come pure i loro familiari diretti o coloro con i quali tali persone intrattengono notoriamente stretti legami”. Dei 9,7 milioni di crediti non performing nei confronti dei partiti, 8,2 milioni rientrano nell’operazione di cessione e cartolarizzazione di crediti in sofferenza.
(da “NextQuotidiano”)
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Aprile 12th, 2018 Riccardo Fucile
UN FILM SUL LEADER SOCIALISTA, FAVINO IN POLE PER IL RUOLO
Una sfida più spiazzante allo spirito del tempo sarebbe difficile immaginarla: un film su Bettino Craxi, che si cercherà il pubblico nei cinema e poi nelle case degli italiani, perchè a co-produrlo sarà Rai Cinema.
Sfida spiazzante perchè da almeno 30 anni, nell’immaginario di una parte del Paese, Craxi è stato – e resta – uno dei simboli della vecchia classe dirigente, un simbolo che nelle versioni più antipatizzanti, è passato alla storia come «il latitante», il «cinghialone» e via di questo passo.
Una parte del Paese – quella del cappio e del “sono tutti ladri” – che da circa un mese è maggioranza nel Paese e per la Rai co-produrre questo film è diventata a prima vista un’impresa ancor più controcorrente.
Ma anche un’impresa immaginata con tutti i crismi: per la regia si è pensato a Gianni Amelio, uno degli ultimi maestri del cinema italiano, autore di capolavori premiati a Cannes e Venezia e soprattutto un poeta del cinema che in tutti i suoi film si è sempre mosso su spunti drammaturgici non scontati.
Del progetto del film poco trapela, il segreto istruttorio è quasi impenetrabile: si sa soltanto che a ispirare Amelio, intellettuale che non è mai stato di simpatie socialiste, sia un nucleo drammaturgico che riguarda il potere e la sua perdita irrimediabile, lungo un filone che parte dal sofocleo Edipo a Colono, il re che aveva conosciuto una grande gloria e una sventura ancora più grande.
Da alcuni indizi, del film si può immaginare il titolo «Hammamet», mentre sugli interpreti ci si deve basare su voci che per ora non trovano conferme.
Come quella che indica in Pierfrancesco Favino il protagonista principale. Ieri mattina Paolo Del Brocco, amministratore delegato di Rai Cinema, parlando di bilanci e novità di Rai Cinema e 01 Distribution, ha fatto un fugace accenno ad Hammamet, la cittadina tunisina nella quale Craxi visse gli ultimi sette anni della sua vita, ogni anno più ammalato.
Alla fine a Tunisi nessuno se la sentiva di operarlo: arrivò un chirurgo da Milano, che operò Craxi in una sala operatoria dove due infermieri tenevano in braccio la lampada per fare luce. Portò via il rene, ma era tardi. Il tumore si era propagato.
E da quel poco che trapela il film si soffermerà soprattutto su quella drammatica stagione dell’ex leader socialista.
A dispetto dei famigliari che spingevano perchè tornasse in Italia, lui orgogliosamente tagliò la strada ad ogni ipotesi che passasse attraverso una sia pur momentanea perdita di libertà . Craxi sarebbe dovuto rientrare a Fiumicino, di lì sarebbe stato trasportato nel carcere di Viterbo, restando uno o due giorni, per accettare una domanda di arresti domiciliari.
Dopodichè sarebbe stato trasferito al San Raffaele di Milano. Craxi, oramai debilitato, telefonò ad un suo compagno, Donato Robilotta, che lavorava a palazzo Chigi e gli disse: «Dillo a quelli là , che io in Italia ci torno soltanto da uomo libero… Piuttosto muoio qui, in Tunisia…». E così accadde.
Il film, che è destinato ad uscire nel 2019, a ridosso del ventennale della morte di Craxi, non sarà l’unica produzione sul leader socialista.
In preparazione c’è anche un «Docufilm», con la regia di Ettore Pasculli, destinato all’emittenza satellitare Sky-Mediaset. Segnali che, uniti alla recente intitolazione di una strada a Craxi a Sesto San Giovanni, la ex Stalingrado d’Italia, dimostrano che dopo anni di ostracismo, pregiudizi e giudizi sul leader socialista stanno cambiando di segno: «Il tempo- racconta il figlio Bobo – stempera le asperità e restituisce in un’ottica più veritiera eventi che a caldo apparvero dolorosi e gravi solo ai simpatizzanti: la morte lontano dal proprio Paese, tante sue previsioni che si sono rivelate profezie e che corrono lungo la Rete, il garantismo, la posizione sul rapimento di Moro, l’internazionalismo a favore dei combattenti per la libertà e soprattutto la presa di coscienza che quei politici non erano perfetti ma erano una classe dirigente che lavorò per il proprio Paese».
(da agenzie)
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Aprile 12th, 2018 Riccardo Fucile
NON ESISTE UN DENOMINATORE COMUNE AL MODO IN CUI E’ STATO DECLINATO DA NORD A SUD IL PROVVEDIMENTO PATACCA DI MINNITI
A Sorrento, zona di Marina piccola, s’erano trasformati in bersaglio i classici butta-dentro, i ristoratori che spuntano dal locale calamitando l’attenzione dei viandanti per invitarli a consumare la cena da loro: multa da 100 a 500 euro al primo giro, una specie di cartellino giallo, Daspo urbano al secondo, cosicchè il rione in cui si è risultati assai molesti diventi off-limits.
Il sindaco Giuseppe Cuomo (lista civica di centrodestra) è un tipo effervescente – non più tardi d’un mese fa ha azzerato la giunta ribadendo che non riusciva ad amministrare – e sugli acchiappaturisti non ha avuto dubbi: «Sono insopportabili, vanno puniti e magari usando le nuove leggi».
Certo è difficile afferrare un denominatore comune nel modo in cui lo strumento introdotto dal ministro dell’Interno Marco Minniti è stato declinato da Nord a Sud. L’obiettivo prioritario era sanzionare i piccoli spacciatori, favoriti da alcune depenalizzazioni precedenti, e gli imbrattatori folli.
Ma soprattutto nel secondo frangente, ancorchè la ratio della legge sia condivisibile, bisognerebbe indagare per scoprire chi ha imbrattato, sbobinando filmati e interrogando testimoni e insomma: risulta piuttosto difficile arruolare investigatori pure per questo.
Un caso limite del cortocircuito arriva da Genova, dove la maggioranza guidata da Marco Bucci (centrodestra) ha sfoderato di fresco il Daspo, poi ridimensionato in un’ordinanza meno incalzante, per chi rovista nei cassonetti, innescando un florilegio di flash-mob e levate di scudi «contro la lotta ai poveri».
Il problema è che nelle medesime settimane la Procura locale ha cestinato le denunce dei carabinieri a carico d’un gruppo di disperati scoperti ad arraffare, appunto, rifiuti. Risultato: quello che per i magistrati si può fare, per chi amministra diventa un tabù e c’è qualcosa che non va.
È passato un anno abbondante dall’introduzione del Daspo urbano, che si materializza in tre varianti: «ordine di allontanamento da particolari luoghi della città », «divieto di accesso in specifiche aree urbane» o «in locali pubblici e nelle loro immediate vicinanze».
Il Viminale aveva fornito un sommario consuntivo degli interventi compiuti al 31 dicembre, 2104 complessivi: 1781 (quasi l’85%) sono ordini di allontanamento, 305 divieti di accesso in aree urbane, 18 in esercizi pubblici.
E però i numeri crudi non restituiscono il caravanserraglio alimentato dai sindaci.
Per dire: chi ricorda che a Savona rischiano grosso i giocolieri al semaforo? O che ad Aci Castello (Catania), a inizio maggio 2017, con gli albori della bella stagione e una serie di «assembramenti intollerabili» nella Riviera dei Ciclopi, Filippo Drago (ex senatore centrista alla guida della giunta) aveva vietato «qualsivoglia gioco di squadra», fosse calcio, basket, pallavolo o quant’altro?
È indubbio che le fantasiose trovate di chi amministra abbiano fatto da detonatore ad altrettanto mirabili proteste.
E proprio ad Aci Castello è andata in scena per ripicca forse la prima partita senza palla nella storia del calcio italiano, così da occupare la piazza privandola dell’oggetto del contendere.
Per dovere statistico va inoltre ribadito che il partito maggioritario resta quello del contrasto ad accattoni e senzatetto, con Bologna, Treviso e Bergamo nella top list, l’ex sindaco di Verona Flavio Tosi non pare attribuire alla neonata opzione poteri taumaturgici («Meglio la galera») mentre a meno di 60 chilometri, Comune di Vicenza, i contestatori se la sono cavata con una provocazione: «Anzichè ai poveracci, appioppiamolo ai militari americani perchè fanno casino in centro».
Altrettanto ben rappresentati sono i nemici degli abusivi, nelle loro variopinte alternative: Daspo contro i facchini improvvisati che affliggono i pendolari in stazione a Bologna; troppa timidezza sui Daspo lamentano invece da Siracusa, dove i parcheggiatori in nero sfornano persino il ticket autoprodotto, e un po’ di doppiopesismo si rileva nel sanzionare il sesso a pagamento.
Registriamo così Daspo per le prostitute a Reggio Calabria, mini-Daspo estemporaneo a Napoli – iniziativa degli agenti – per i transessuali rei di corteggiare con troppa foga potenziali amanti, Daspo per lucciole più clienti a Montesilvano (Pescara), di cui il sindaco Francesco Maragno (centrodestra) va fiero.
Gli unici che l’hanno fatta quasi sempre franca sono gli stupratori dei monumenti, in teoria le vittime designate.
(da “La Stampa”)
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