Aprile 13th, 2018 Riccardo Fucile
“SALVINI COME DUDU’, BERLUSCONI PARLAVA E LUI MUOVEVA A BOCCA”… COSI’ STA MINANDO L’INTESA CON LA LEGA
Se la situazione direzione governo non si fosse già abbastanza incartata ieri, ecco che nel tardo pomeriggio si materializza Alessando Di Battista.
A Perugia, al Festival del giornalismo. E tira una bordata pazzesca. “Matteo Salvini sembrava Dudù, Berlusconi parlava e lui muoveva la bocca”.
E ancora: “Spero che abbia il coraggio di staccarsi. Ma forse non può farlo. Forse ci sono cose che non sappiamo. SI parla di fideiussioni, di quattrini dati alla Lega…”.
Ce ne è anche direttamente per il leader azzurro: “È ineleggibile, incandidabile, condannato per frode fiscale, finanziatore di quelli che hanno fatto saltare in aria Falcone e Borsellino”.
Nel quartier generale di Luigi Di Maio si rimane basiti.
L’ex deputato non ha avvisato nessuno della sua uscita. E viene sottolineato proprio il fatto che si tratti delle parole di un non eletto, come a derubricarle a quelle di un simpatizzante qualunque. Ma è cercare di nascondere un elefante dietro un palo della luce.
Chi ha ottime entrature ad Arcore, come Alessandro Sallusti e Giorgio Mulè, assicura che sono state le parole di mercoledì del barricadero 5 stelle (“Berlusconi è il male assoluto”) a far saltare l’ipotesi del passo di lato dell’ex Cavaliere, che pure la war room stellata fino al pomeriggio dello stesso giorno lasciava prudentemente filtrare.
E quindi al di là del più classico dei “ha parlato a titolo personale”, lo sconcerto rimane. I telefoni iniziano ad impazzire.
C’è il tentativo di minimizzazione, che tuttavia viene accompagnato da due concetti che vengono ripetuti senza sosta. Uno: “Non sapevamo nulla di questa uscita”. Due: “Siamo in una fase delicatissima, di certo non aiuta”.
Chi ha accesso nella stanza dei bottoni spiega che “sicuramente incarna un Movimento di un certo tipo”.
E ammette: “Lui dice quello che pensa. Vede una situazione che non gli piace, e la affronta a suo modo”.
Chi ha seguito il suo tour in camper per le strade d’Italia può confermare. Ma oggi la situazione è profondamente diversa. E la più piccola delle palle di neve lanciate dalla sommità della montagna a valle può essersi trasformata in valanga.
Chi avrebbe detto che un post dell’ex deputato su Facebook avrebbe potuto contribuire a cambiare il mood politico del leader azzurro? Ed è successo solo due giorni fa.
Indirettamente Di Battista tira secchiate d’acqua anche dentro il secondo forno aperto dai 5 stelle. “Renzi e Berlusconi sono la stessa cosa — ha spiegato ai giornalisti che lo incalzavano a Perugia – Ma poi quante sono le parti del Pd? Se adesso dovessi chiamare uno del Pd per capire la sua linea, chi chiamerei? Non lo so. Io lo votavo, perchè credevo che fosse antitetico a Berlusconi, poi ho capito che sbagliavo io”. Quanto basta per dare il là al Dem Ettore Rosato per sprangare una porta che era già chiusa: “Se qualcuno aveva dubbi sull’apertura dei 5 stelle, oggi Di Battista ha chiarito la linea”.
Un disastro comunicativo. Sul quale si cerca di spargere il miele dell’irrilevanza in una trattativa così complessa e così ad alto livello.
Ma che difficilmente tiene in un quadro nel quale anche il semplice battere di due mani a Perugia può generare un cataclisma a Roma.
Il pensiero laterale, quello che sia una mossa concordata insieme a Beppe Grillo, che con l’ex deputato romano ha una buona consuetudine e comunione d’intenti, viene rigettata in blocco.
Sia dall’entourage di Di Maio che da quello dello stesso Di Battista. A sera, sul blog del comico, esce un post nel quale vengono elencati una serie di motivi per i quali il reddito di cittadinanza si potrebbe ben sposare con le politiche del Carroccio. Una direzione esattamente opposta. Ma anche qualora fosse un’iniziativa solitaria ed estemporanea, rischia di scavare un ulteriore e profondissimo solco nella strada che sta percorrendo Di Maio nel faticoso tentativo di ascendere a Palazzo Chigi.
(da “Huffingtonpost”)
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Aprile 13th, 2018 Riccardo Fucile
I VERTICI M5S SPERANO NELLA CASELLATI PER GUADAGNARE TEMPO, DEMORALIZZATI DAL MUTAMENTO DI SALVINI
La paura che si bruci Luigi Di Maio attraverso Roberto Fico.
È questa l’inquietudine che vivono ora i vertici del Movimento 5 Stelle. Considerato lo “stallo”, parola pronunciata dal Capo dello Stato per illustrare l’attuazione situazione politica, i grillini si possono trovare di fronte a uno scenario che non avevano minimamente previsto.
Nell’urgenza di formare un nuovo governo data la delicatezza del momento internazionale, al netto del fatto che il dialogo tra il capo politico 5Stelle e quello della Lega Nord Matteo Salvini non ha fatto passi in avanti, il terrore che in queste ore si sta diffondendo a macchia d’olio tra i big del Movimento riguarda il fatto che Sergio Mattarella possa affidare un incarico esplorativo alla terza carica dello Stato.
In questo caso il ruolo che Roberto Fico andrebbe a ricoprire in Parlamento si tradurrebbe nella nascita, o quantomeno nella possibilità di far nascere un governo istituzionale con dentro il Pd essendo l’attuale presidente della Camera, l’anima più ortodossa del Movimento, l’unico che un tempo ha sfidato Di Maio, quindi la personalità più gradita a sinistra.
Nei fatti si parlerebbe di un governo istituzionale proprio ora che i dem potrebbero aprire a un governo di tutti.
E un esempio del genere arriva proprio da sinistra, quando venne affidato da Francesco Cossiga l’incarico esplorativo a Nilde Iotti, la prima donna ad andare così vicina al governo.
“Ma Fico non è Nilde Iotti… Per carità , e Nilde Iotti non è Fico”, dice a taccuini chiusi, un po’ spaventato dall’idea e un po’ ironico, un big pentastallato tra coloro che in questi mesi stanno studiando ogni singola mossa.
Per questo, per tutto il pomeriggio, molti parlamentari M5s filo-Di Maio si sono affannati ribadendo il “no” a un governissimo e a qualsiasi governo che non abbia come premier il capo politico grillino.
Capo politico che questa mattina si è preso una pausa in maniche di camicia e giacca, senza cravatta, per andare a visitare i padiglioni della Formula E. Qui non ha voluto parlare di politica. Più tardi invece ha avuto un lungo colloquio con Rosario Aitala, ex consigliere di Pietro Grasso per gli Affari esteri.
L’aspirante premier sa che la crisi siriana gioca un ruolo fondamentale nella formazione del nuovo governo e non può sbagliare alcuna mossa. A riguardo le posizioni divergenti rispetto alla Lega complicano tutto ancora di più.
Tra l’altro l’interlocuzione con Salvini per ora appare congelata. Sono le ore del grande freddo tra i due.
Giovedì il leader leghista, dopo aver parlato con Mattarella, aveva ipotizzato che domenica al Vinitaly, dove sia lui sia Di Maio saranno presenti, qualcosa forse si sarebbe smossa davanti a un bicchiere di vino. “Macchè, non è aria. Beviamo su che è meglio”, ride un pentastellato un po’ demoralizzato dagli ultimi fatti.
Le parole di Silvio Berlusconi dal Molise “non sta certo al signor Di Maio dire a Berlusconi quel che deve fare” sono state lette come un’ulteriore sfida ed è stato registrato anche che il leader della Lega stia continuando a parlare di centrodestra uniti più M5s.
“Come si fa? — sbotto un deputato — sono pieni di contraddizioni. Ieri doveva parlare Salvini e poi è intervenuto Berlusconi. La Meloni si è arrabbiata. Litigano su tutto. Non possiamo fare un governo con tutti loro, passeremmo il tempo a risolvere i loro problemi interni e non quelli degli italiani”.
La speranza dei 5Stelle è che venga dato un incarico esplorativo alla presidente del Senato Elisabetta Casellati. “È così che si fa, è la prassi. Non si può tirare in ballo Fico”, ragionano i pentastellati senza pensare però che un’escalation della guerra in Siria comporterebbe anche una soluzione più veloce e tra i due presidenti potrebbe avere più possibilità di trovare la quadra politica la terza carico dello Stato e non la seconda.
La carta Casellati dunque, sempre secondo le tante e talvolta contraddittorie riflessioni in corso, andrebbe a vuoto.
Se la presidente del Senato dovesse ricevere l’incarico esplorativo mercoledì o giovedì “sarà possibile superare le elezioni regionali del Molise, a metà della settimana successiva va al Quirinale con un nulla di fatto e quindi — spiega una fonte grillini – arriviamo facilmente al 30 aprile, giorno dopo delle elezioni in Friuli Venezia Giulia”. È questa la data che i 5Stelle hanno cerchiato in rosso sul calendario.
Data che viene vista come l’ultima speranza affinchè Salvini abbandoni Berlusconi: “Siamo fiduciosi che prima o poi lo mollerà “. Ma forse il “poi” potrebbe essere troppo tardi.
E con un incarico esplorativo a Roberto Fico, le contraddizioni interne ai 5Stelle, in questi mesi tenute sotto il tappeto, emergerebbero con tutta la loro forza.
E per Luigi Di Maio sarebbe come mettere la parola fine su Palazzo Chigi.
(da “Huffingtonpost”)
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Aprile 13th, 2018 Riccardo Fucile
CONVINTI ANCHE MARTINA E FRANCESCHINI
Il colloquio di stamattina tra Matteo Renzi e Maurizio Martina è finito male.
Il reggente non ci sta: se l’assemblea nazionale convocata per il 21 aprile deve eleggerlo segretario, l’incarico sia pieno e non solo per qualche mese.
Respinta insomma al mittente la proposta renziana di eleggerlo segretario ma solo fino al massimo a febbraio, in tempo poi per celebrare congresso e primarie per le europee del maggio 2019.
Sono questi i termini sui quali è saltata tutta la trattativa nel Pd, all’ombra di un secondo giro di consultazioni al Quirinale che non ha dato alcuna certezza sul governo che verrà , anzi.
E allora Renzi rilancia. L’ex segretario chiede di rinviare l’assemblea del 21 perchè con le trattative sul governo ancora in corso il Pd non si può permettere di riunire un’assemblea che si annuncia molto divisiva.
Apriti cielo: tutte le altre aree del partito non ci stanno, insieme a Martina. Ma poi dopo una lunga trattativa con Lorenzo Guerini, sia il reggente del Pd che Dario Franceschini si convincono: assemblea da rinviare.
A sera Martina dice: “Ho chiesto al Presidente Matteo Orfini di posticipare l’Assemblea nazionale prevista per il 21 aprile, stante la nuova fase istituzionale determinata dall’incapacità delle forze che hanno prevalso il 4 marzo di dare al Paese una concreta ipotesi di Governo. A questo punto il Pd deve continuare a concentrare unitariamente tutte le proprie energie su questa situazione, nell’interesse generale del Paese, seguendo l’impegnativo lavoro del Presidente Mattarella”.
All’orizzonte c’è un cambio di linea, la possibile apertura di Renzi e del Pd a un governo di tutti, dall’opposizione alla disponibilità verso Sergio Mattarella se il presidente dovesse mettere in campo ipotesi di governi istituzionali, visto che al momento sembrano saltare le ipotesi di governo politico.
Nel Pd si aspettano un pre-incarico da parte del capo dello Stato ad una carica istituzionale (Casellati o Fico). Si preparano a partecipare dunque a queste nuove consultazioni, con una posizione iniziale: il Pd è alternativo alla Lega e al M5s.
Ma poi chissà cosa esce dall’iniziativa del Quirinale. La svolta di oggi dice di una flessibilità alle opzioni che verranno messe sul campo, in risposta ad un’eventuale richiesta di responsabilità da parte del Colle.
Ma c’è anche altro. C’è che Renzi non ci sta a mollare il partito a Martina, c’è un’insicurezza di fondo sui numeri in assemblea.
Se fino a ieri i renziani erano convinti di poter imporre il congresso entro le europee anche di fronte a un no delle altre aree, con l’affidamento temporaneo dei poteri al presidente Matteo Orfini, oggi ad una più attenta riflessione la granitica certezza di avere la maggioranza in assemblea non c’è più.
I delegati sono 600, ma bisognerebbe garantire che ci siano tutti e con un partito sconfitto e in crisi di identità non è facile.
Il punto però è che non è semplice nemmeno per i non-renziani: da Franceschini a Orlando tutti inizialmente si schierano con Martina, sono contrari al rinvio dell’assemblea ma nemmeno loro hanno la certezza di poter vincere un’eventuale sfida in assemblea.
Ecco perchè alla fine almeno Martina e Franceschini si convincono dell’idea di rinviare a quando il caos sul governo verrà ricomposto. Chissà quando.
Ma il caos è anche nel Pd. Su Facebook tocca al renziano Dario Parrini lanciare la richiesta di rinvio: “Il Paese è in stallo a causa dei poco decorosi balletti messi in atto dai vincitori delle elezioni – scrive – All’orizzonte si stagliano complicate sfide internazionali. Il capo dello Stato al termine del secondo giro di consultazioni ha sottolineato accoratamente la delicatezza di questo momento politico. In una situazione del genere la discussione se fare o no il congresso del Pd, e se sì quando, è del tutto fuori luogo. Per questo penso che dobbiamo rinviare l’assemblea in programma la prossima settimana. E che non farlo sarebbe poco responsabile”.
Dalla minoranza di Andrea Orlando e quella di Michele Emiliano fanno sapere di essere contrari. “Sono contrario al rinvio dell’assemblea. Non ha senso rinviare ancora. Serve l’assemblea proprio per rafforzare il partito in una fase così complessa”, dice Francesco Boccia dell’area Emiliano.
La prodiana Sandra Zampa pure si dice contraria: “I rinvii non sono utili a nessuno. Ma soprattutto che non sono necessari — dice all’Agenzia Dire – Non credo che l’assemblea confligga con il percorso di formazione del nuovo governo. O decidiamo se vogliamo avviare un percorso congressuale subito, oppure decidiamo di confermare Martina, per tempi che ovviamente non sono gli anni previsti per la durata del segretario. Una terza ipotesi da verificare sempre in assemblea è se ci sono quelli che vogliono avanzare una propria candidatura. Una cosa è certa: l’assemblea è il luogo più importante che noi abbiamo”.
Ma i renziani insistono. Per tutto il pomeriggio Guerini tiene le trattative con Martina e gli altri.
Il ragionamento è che non si può andare ad una conta interna devastante per il partito nel momento in cui la pentola a pressione del ‘governo post-elettorale’ ancora bolle.
E che se c’è da mettere in campo una mediazione proprio sul governo che verrà , lo deve fare l’attuale gestione collegiale: non solo Martina se dovesse essere eletto segretario da una parte del partito.
Dal canto loro, le minoranze rivendicano invece di aver detto per primi che la linea di opposizione “non deve essere un Aventino”.
Queste sono le parole usate da Franceschini, che fino alle elezioni era in maggioranza Pd con Renzi, ma è critico della linea renziana di opposizione. In lui i non-renziani hanno trovato il capofila della loro battaglia per liberarsi da Renzi. E ora rivendicano la scelta del dialogo chiedendo a maggior ragione: perchè si deve rinviare l’assemblea? Ma non è passata.
(da “Huffingtonpost”)
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Aprile 13th, 2018 Riccardo Fucile
DI FRONTE ALL’INCAPACITA’ DEI PARTITI A TROVARE UN ACCORDO E AI VETI INCROCIATI, DIVENTERA’ L’UNICA ALTERNATIVA (CHE PIACE A BERLUSCONI E AL PD)
L’ultimatum ai partiti è lanciato, al termine del secondo giorno di consultazioni.
Ora Mattarella sta per calare l’asso di una sua iniziativa per “uscire dallo stallo” e ridare al paese “un governo nel pieno delle sue funzioni”, dopo aver constatato con crescente insoddisfazione come “il confronto tra i partiti non abbia fatto progressi”. Alle forze politiche restano gli scampoli di qualche giorno ancora, per lanciare l’sos al Quirinale e compiere il miracolo di un’intesa.
In assenza, la scure di Mattarella calerà a metà della prossima settimana, fra mercoledì e giovedì (lunedì il presidente sarà a Forlì per la commemorazione di Ruffilli, martedì ancora pausa in attesa di qualche novità ).
“Dall’andamento delle consultazioni di questi giorni – dice il capo dello Stato al termine dei colloqui – emerge con evidenza che il confronto tra i partiti per dar vita in Parlamento a una maggioranza che sostenga un governo non ha fatto progressi”. Mattarella invece ha fatto presente la necessità che “con urgenza” un confronto per trovare una maggioranza in Parlamento “si sviluppi e si concluda positivamente”. E indica le emergenze, un programma da mettere in cantiere: “Le attese dei nostri concittadini, i contrasti nel commercio internazionale, le scadenze importanti e imminenti nella Unione europea, l’acuirsi di tensioni internazionali in aree non lontane dall’Italia”.
Ma queste urgenze restano lì, in attesa di un governo che non arriva. Per cui ha deciso di prendere lui l’iniziativa.
In che modo? Ci sono due scenari immediati, quotati al cinquanta per cento ciascuno: preincarico a Salvini o mandato esplorativo a Casellati (o a Fico).
E una ipotesi sullo sfondo, che può maturare invece nelle prossime settimane: il governo del presidente.
Con una certezza intanto: Mattarella ha lasciato chiaramente intendere che non darà un terzo giro di consultazioni.
Primo scenario.
Il preincarico, politico, che in prima battuta può andare a Matteo Salvini, ovvero il candidato che la coalizione più forte, cioè il centrodestra, ha indicato unitariamente ieri nelle consultazioni al presidente della Repubblica.
Non ci sono subordinate, in questo contesto, tipo un’altra figura della Lega come Giorgetti.
Salvini rinuncia perchè teme di restare bruciato, in assenza di una maggioranza? Il leader leghista ha già messo le mano avanti, “non andiamo a cercare i voti in Parlamento ad uno ad uno, la caccia al tesoro la faccio con i miei bambini”.
Allora, dica chiaramente di no al presidente della Repubblica. A quel punto, avanti il prossimo.
Cioè secondo preincarico, a Di Maio. Si chiama fuori o fallisce pure lui? Ecco che, dopo un paio di settimane di fiaschi politici e fumate nere, a Sergio Mattarella non resterebbe altro da fare che mettere in pista un “classico” dei casi disperati: il governo del presidente.
Guidato da una figura terza – il suo identikit però resta ancora avvolto nel mistero – basato su pochi punti di programma se possibile condivisi dalle forze politiche, e aperto a chi ci sta. Berlusconi non aspetta altro, il Pd uscirebbe giocoforza dall’Aventino, meno contenti 5Stelle e Salvini, ma a quel punto comunque si accoderebbero all’appello istituzionale del capo dello Stato, con la speranza di ritrovarsi con un governo a tempo che sfocerebbe prima possibile nel ritorno al voto. Una strada, questa del preincarico, per inchiodare i partiti alle loro responsabilità . I temi ruoterebbero attorno ai quattro punti che proprio Mattarella ha citato oggi nella sua dichiarazione.
Secondo scenario.
Un’esplorazione, di carattere istituzionale, da affidare al presidente del Senato o a quello della Camera, che dopo aver sentito i partiti tornano dal capo dello Stato a riferire sullo stato dell’arte.
Quindi solo con il compito di un supplemento di indagine, destinati a uscire dal grande gioco per Palazzo Chigi – almeno così è la prassi – una volta esaurita la ricognizione. Favorita Casellati ma un mandato a Fico forse potrebbe avviare un disgelo col Pd.
E se l’esploratore torna a mani vuote, anche in questo caso ecco che fa capolino il governo del presidente.
(da “La Repubblica”)
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Aprile 13th, 2018 Riccardo Fucile
UNA FONDAZIONE DI BENEFICIENZA, PRESIEDUTA DA UN LEGHISTA, HA INVESTITO MILIONI A MALTA SUI TITOLI DI PICCOLE SOCIETA’, COMPRESA UNA COMPAGNIA DI ASSICURAZIONE AMMINISTRATA DALLO STESSO ESPONENTE DELLA LEGA, SOTTO INCHIESTA DELLA MAGISTRATURA
Milioni di euro investiti in titoli di piccole società maltesi.
Un dirigente della Lega che presiede una fondazione legata a Cariplo e gestisce affari in conflitto d’interessi.
Un castello medievale acquistato da un miliardario con base nel paradiso vacanziero di Mauritius, nell’Oceano Indiano.
Sono questi gli ingredienti della storia svelata dall’inchiesta dell’Espresso. Una trama in cui si intrecciano politica e affari, con un ente di beneficenza che finisce per trovarsi coinvolto in operazioni finanziarie ad alto rischio.
La vicenda ruota attorno alla Fondazione comunitaria del Varesotto, nata 20 anni fa per iniziativa di Cariplo che ha voce in capitolo nelle nomine degli amministratori dell’ente, di cui è anche di gran lunga il principale finanziatore.
Dal 2007 al 2017 la fondazione è stata presieduta da Luca Galli, importante esponente della Lega in provincia di Varese, roccaforte del movimento sin dai tempi di Umberto Bossi.
Ebbene, come confermano i documenti che L’Espresso ha potuto visionare, tra il 2015 e il 2016 la onlus varesina ha investito una fetta importante del proprio patrimonio in titoli di aziende a vario titolo riconducibili al presidente Galli.
In particolare, circa 1,8 miioni sono stati utilizzati per comprare obbligazioni di Investar, una holding di Malta con un patrimonio netto, a fine 2016, di soli 139 mila euro.
Questa società è controllata dal finanziere Paolo Catalfamo e possiede la partecipazione di maggioranza nella compagnia di assicurazioni maltese Global Capital, di cui sono amministratori lo stesso Catalfamo (presidente) e anche il leghista Galli, insieme ad Andrea Gemma, avvocato con studio a Roma che siede, tra l’altro, nel board dell’Eni.
La Fondazione comunitaria del Varesotto ha investito circa 700 mila euro anche nelle obbligazioni di Global Capital, proprietaria, tra l’altro, del castello medievale di Collalto Sabino, sul confine tra Lazio e Abruzzo.
Fino a due anni fa, la compagnia maltese era controllata da Dawood Rawat, miliardario con base a Mauritius nell’Oceano Indiano, accusato di una truffa da 600 milioni di dollari.
Nel 2016 il controllo della società è passato a Catalfamo, grazie anche ai finanziamenti della Fondazione comunitaria del Varesotto.
Nell’inchiesta dell’Espresso vengono ricostruiti anche gli altri investimenti dell’ente benefico presieduto da Galli, coinvolto nel 2017 in un’indagine della procura di Varese.
(da “L’Espresso”)
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Aprile 13th, 2018 Riccardo Fucile
SOPRAVVISSUTO AL DECLINO DI BOSSI, STA IN PARLAMENTO DA VENT’ANNI: PACATO, MAI POLEMICO, CON TANTI AMICI IMPORTANTI
L’ospitata da Bruno Vespa a Porta a Porta. Di prima mattina su Raitre ad Agorà . Il faccia a faccia con Giovanni Minoli per La7. Una lunga intervista in solitaria nella seconda serata di Rai Due.
Da un mese la faccia di Giancarlo Giorgetti, il numero due della Lega, rimbalza da un talk show all’altro come mai prima d’ora. E poi ci sono i giornali: anche qui dichiarazioni a raffica e interviste.
Una faticaccia per lui, tipo schivo, riflessivo. Uno che non ha mai smesso di giocare da portiere anche dopo aver abbandonato scarpette e guantoni tra i cimeli di gioventù. Nel senso che il vice di Matteo Salvini sta sempre sulla difensiva, para le domande dell’interlocutore di turno e non si lascia mai sfuggire una sillaba di troppo. Niente polemiche. Mai una provocazione.
Insomma, l’esatto contrario del leader leghista, di cui Giorgetti una volta disse di apprezzare soprattutto «la genuina sfrontatezza». Due parole buttate lì, giusto per marcare la distanza caratteriale da Salvini e dal suo modo di fare politica.
Non è più tempo di comizi, adesso. Ora che la Lega ha fatto il pieno di voti, e punta al governo, i toni forti da campagna elettorale lasciano spazio alla manovre di corridoio. Basta slogan, si naviga a vista alla ricerca di un compromesso.
Ecco Giorgetti, allora. La faccia pacata e dialogante del partito che fu di Umberto Bossi.
Tanto pacato e dialogante che a Roma, nei palazzi del potere, c’è chi lo vede addirittura a Palazzo Chigi, frutto di una mediazione tra Cinque Stelle e leghisti che taglierebbe fuori i due capipartito, Di Maio e Salvini.
«Ma figurarsi, non mi conosce nessuno», si è schermito il diretto interessato in una recente intervista. Una risposta quasi scontata, in linea con l’immagine di se stesso che il numero due della Lega cerca da sempre di accreditare. Quella del politico che studia e lavora dietro le quinte.
Uno serio e preparato che però, quando parla in pubblico, rischia di sembrare noioso per via di quell’argomentare piatto, senza fronzoli.
Il peso di una candidatura non si misura solo sulla bilancia della popolarità . Da più di vent’anni in Parlamento, eletto per la prima volta alla Camera nel 1996, Giorgetti, diploma da perito aziendale, laurea alla Bocconi, commercialista e revisore dei conti è diventato il pontiere della Lega verso i poteri dell’economia e della finanza.
La biografia ufficiale racconta delle sue umili origini: nato nel 1966 in un paesino sul lago di Varese (Cazzago Brabbia, 800 abitanti), padre pescatore e madre operaia. Nessun salotto buono, quindi. Ma l’ascesa del giovane leghista, in parallelo con i primi passi nella partito di Bossi, è stata favorita da parentele altolocate.
Non tanto quella, da più parti citata, con il cugino banchiere Massimo Ponzellini, peraltro caduto in disgrazia nel 2011, con tanto di condanna penale, dopo l’ascesa alla presidenza della Popolare di Milano.
In famiglia c’è un altro Ponzellini, di nome Gianluca, che vanta rapporti di altissimo livello, in un sistema di porte girevoli che porta direttamente ai piani più elevati dell’establishment italiano: banche, grandi imprese di Stato, grandi famiglie del capitalismo nazionale.
Gianluca Ponzellini, varesino, 71 anni, commercialista di grande esperienza, in quasi mezzo secolo di carriera ha collezionato incarichi, molto spesso come membro del collegio sindacale, in grandi gruppi come Telecom Italia, Intesa SanPaolo, Alitalia, Benetton.
Il suo percorso professionale corre parallelo a quello del collega e socio Angelo Provasoli, un altro peso massimo, forte di uno sterminato curriculum accademico e professionale.
Rettore dell’Università Bocconi tra il 2004 e il 2008, Provasoli, per citare solo gli incarichi più recenti, è stato presidente del collegio sindacale della Cassa depositi e prestiti, dell’Enel e di Expo, presidente di Rcs-Corriere della Sera, consigliere di Telecom Italia.
Fresco di laurea in economia e commercio, Giorgetti è andato a farsi le ossa alla Metodo, società di consulenza e revisione dei conti fondata da Provasoli e Ponzellini quasi 40 anni fa. Per il giovane bocconiano quel primo lavoro nelle stanze dei suoi maestri è stata un’occasione d’oro per vedere da vicino come funziona il mondo degli affari e per collezionare contatti che potevano tornare utili in futuro.
Siamo nei primi anni Novanta e in quella fase storica la Lega cresce grazie al fiuto politico del leader Bossi, sull’onda della retorica del federalismo e di Roma ladrona.
Il partito nordista fatica però a reclutare dirigenti esperti in economia e Giorgetti, che era già stato sindaco del suo paese natale, non fa molta fatica a farsi notare dall’Umberto, il padre fondatore del movimento che abita a una quindicina di chilometri da Cazzago Brabbia.
E così nel 1996, quando non ha ancora compiuto trent’anni, il bocconiano della Lega diventa deputato. Nel 2000 il suo nome compare già tra i 15 dirigenti scelti da Bossi per la cosiddetta segreteria federale, con il ruolo di responsabile del settore economia. A meno di un ventennio di distanza Giorgetti è l’unico ancora in pista in quel gruppo di fedelissimi del senatur.
Nel frattempo, dentro la Lega è successo di tutto. Tra cambi di linea politica, regolamenti di conti interni e inchieste giudiziarie, ai piani alti del partito è andato in scena un ribaltone dopo l’altro.
Tramontata la stella di Bossi, per via della salute malferma e delle condanne in tribunale, nel 2012 è salito al vertice Roberto Maroni, che davanti ai militanti brandiva una ramazza per fare piazza pulita dei dirigenti inetti e corrotti. Alla fine è stato Salvini a chiudere la partita, cavalcando la ribellione sovranista e la paura per la presunta invasione dei migranti.
Nell’arco di vent’anni sono cambiati facce e slogan, perfino il marchio del partito, che ha abbandonato ogni riferimento al Nord.
Giorgetti invece è rimasto Giorgetti. Ha coltivato con grande abilità la sua immagine di politico alla mano, dai gusti semplici, lontano dalla ribalta mediatica.
È ancora, per esempio, un grande tifoso del Varese calcio, nonostante i guai societari che ne hanno provocato a più riprese il fallimento. E mentre deputati e senatori di ogni schieramento amano farsi vedere in tribuna d’onore per le partite dei grandi club, lui, il leghista di lotta e di governo, è stato segnalato in qualche campo di provincia per tifare in trasferta la sua squadra del cuore precipitata nel campionato di Eccellenza, tra i dilettanti.
Con il passare degli anni, Giorgetti ha saputo mettere a frutto nel migliore dei modi la sua fama di sgobbone. È stato capace di trasformare i fulmini delle tempeste interne della Lega in energia per continuare la sua personale scalata al potere.
Del resto non è un caso se già nel 2009, come si legge nei dispacci diplomatici segreti rivelati da WikiLeaks, il consolato americano a Milano pronosticava un futuro da leader per il deputato varesotto, descritto come “sharp” e “well respected”, cioè scaltro e molto stimato.
Da presidente della commissione Bilancio della Camera (2001-2006 e 2008-20013) e poi come ufficiale di collegamento con i poteri forti della finanza, l’ex fedelissimo di Bossi ha messo mano a tutti i dossier più delicati di politica economica, compresa la manovra correttiva dei conti pubblici che nella convulsa estate del 2011 finì nel mirino dell’Unione Europea e della Bce.
Di lì a poco il governo Berlusconi, con Giulio Tremonti ministro dell’Economia, arrivò a fine corsa aprendo la stagione dei tagli con il marchio di Mario Monti.
Giusto il tempo di una sosta ai box e nel 2013 Giorgetti viene chiamato dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel gruppo ristretto di dieci saggi, tutti accademici e politici di lungo corso, incaricati di elaborare un piano di riforme istituzionali ed economiche.
Nel frattempo la Lega, chiusa la breve parentesi di Maroni, dal 2014 diventa il partito di Salvini. Un partito contro: contro l’euro, contro Bruxelles, contro la Bce, contro i poteri forti della finanza. È una battaglia a suon di slogan e il nuovo leader si affida a generali come Claudio Borghi e Armando Siri, propagandisti in servizio permanente effettivo contro la moneta unica e il fisco oppressore.
A prima vista il clima sembra congeniale a Giorgetti come la savana a un orso bianco. E invece no. La politica è fatta di compromessi. L’hanno imparato perfino i Cinque Stelle duri e puri. E Salvini, in vista dell’assalto finale al governo del Paese, non può fare a meno dell’esperienza e della capacità manovriera del leghista varesotto, nel frattempo promosso vicesegretario del partito.
È stato Giorgetti, giovedì 5 aprile, ad accompagnare al Quirinale il capo della Lega per il primo giro di consultazioni per il nuovo governo. Due settimane prima, il 21 marzo, la coppia era stata ricevuta all’ambasciata americana a Roma.
Il Le Pen de noantri con il Gianni Letta lumbard.
(da “L’Espresso”)
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Aprile 13th, 2018 Riccardo Fucile
ENTRATA IN VIGORE LA NUOVA DELIBERA DEL COMUNE
La storia la racconta Giovanna Vitale oggi su Repubblica: una donna, Fabiana Ranzani, ha portato la madre dopo il decesso al cimitero Flaminio: è il più grande d’Italia, 140 ettari percorsi da 37 chilometri di strade interne, sulle quali si circola in auto e bus.
Ha dovuto attendere alcuni giorni per la cremazione e allora ha chiesto di vedere il feretro. E qui la sorpresa:
«Dopo circa una settimana, sabato 7 aprile, sono tornata a Prima Porta per avere notizie di quando sarebbe avvenuta la cremazione», prosegue.
«Gli addetti al cimitero mi hanno detto che non si sapeva ancora. Ho chiesto allora di poter vedere, per una volta ancora, il feretro di mia madre. E con mia grande sorpresa mi sono sentita rispondere che per farlo dovevo pagare».
Ma pagare chi? – domanda basita Fabiana.
«Il Comune, signora. Esiste un tariffario» replica il custode mostrandole la tabella descrittiva di servizi e prezzi: “Commiato effettuato in giornate successive all’entrata della salma in cimitero, euro 202 più Iva” c’è scritto alla voce che interessa a lei.
«Ma fa 250 euro! E per quanto tempo la potrei vedere?» esclama. «Circa 30 minuti», le tre parole che la fanno sobbalzare. La figlia non riesce a crederci: «C’è da vergognarsi!» esplode. «È vero, signora. Noi ci vergogniamo a chiedere questi soldi. Ma così ci ordinano di fare e dobbiamo eseguire», si mortifica il necroforo
A prescriverlo è la delibera allegata al bilancio di previsione 2017, varata dall’assemblea capitolina il 25 gennaio dell’anno scorso.
Funziona così: il feretro viene trasferito in una delle tre Sale del Commiato allestite nei cimiteri del Verano e Prima Porta, dove i congiunti – nei giorni che separano le esequie dalla sepoltura o dalla cremazione – possono far visita al defunto.
In 15 mesi solo una decina di persone ne hanno fatto richiesta e pagato la tassa sull’ultimo saluto.
(da “NextQuotidiano”)
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Aprile 13th, 2018 Riccardo Fucile
ERA STATO TRASFERITO A PARIGI PER UN TUMORE AL CERVELLO, ORA I CLAN DELLA CIRENAICA RISCHIANO DI ANDARE IN COLLISIONE
Dopo le notizie incerte degli ultimi giorni, ormai siti di informazione arabi e uomini politici libici diffondono apertamente la notizia che il generale Khalifa Haftar è morto. L’uomo forte della Cirenaica dal 10 aprile veniva dato in serie condizioni a causa di un infarto o di un ictus senza che nessuno riuscisse a confermare seriamente la malattia.
Repubblica ha avuto conferma della morte da una fonte del Consiglio presidenziale di Tripoli, il governo riconosciuto dalle Nazioni Unite.
La notizia diffusa da alcuni media libici, tra cui il Libyan Observer, il Libyan Express e la Tv AL Nabaa, è stata data anche dalla Ria Novosti, che cita una fonte di Tripoli. “Abbiamo avuto notizie della sia morte”, ha affermato la fonte. Fonti diplomatiche al momento però non confermano la notizia, che era stata data e poi smentita anche da un noto parlamentare egiziano, Mostafa Bakry.
L’ex ufficiale gheddafiano era da tempo malato di un tumore al cervello, per il quale veniva curato ad Amman in Giordania.
L’ultimo controllo aveva portato i medici giordani a suggerire un ricovero a Parigi, dove era giunto il 5 aprile.
Le prime voci del ricovero in Francia erano state diffuse dal giornalista francese Hugeux Vincent e riprese anche dal sito di Le Monde. Oltre a Doustour.net e Libya al Ahrar anche il sito informativo egiziano al Watan ha annunciato la morte di Haftar, confermata dal deputato egiziano Mostafa Bakri.
Haftar è stato un ex compagno d’armi del colonnello Muhammar Gheddafi. Con lui partecipò al colpo di Stato che nel 1969 spodestò il re Idris. E con i giovani ufficiali che sostennero Gheddafi partecipò alla guerra che il colonnello decise di fare in Ciad. Durante il conflitto con i ciadiani, Haftar venne catturato, tenuto in prigione per alcuni mesi dai ciadiani e liberato poi grazie a una mediazione della Cia americana.
Gheddafi lo rinegò assieme a tutti gli ufficiali che avevano partecipato alla disastrosa spedizione in Ciad.
Trasferito negli Usa, per anni il generale ha poi vissuto proprio in Virginia nell’area di Langley dove ha sede la Cia.
Allo scoppiò della rivoluzione in Libia, Haftar era rientrato nel paese. Prima a Tripoli, dove non ha trovato sostegno alla sua idea di avere un ruolo nella guida delle forze armate.
Successivamente si era spostato a Bengasi, dove con il sostegno dell’Egitto e degli Emirati Arabi Uniti ha formato una milizia, “Esercito nazionale libico”, che per mesi ha combattuto gli integralisti islamici che avevano preso il controllo di buona parte di Bengasi e di molte aree della Cirenaica.
Salutato per questo suo impegno come un liberatore, Haftar da mesi accarezzava l’idea di diventare il leader unico della Libia.
Per questo non aveva mai negoziato seriamente con il governo riconosciuto dall’Onu di Tripoli e con il suo presidente Fajez Serraj. Il generale aveva a incontrato Serraj tre volte, l’ultima con la mediazione del presidente francese Emmanuel Macron.
Ma la sua capacità di coagulare attorno a sè il consenso dei leader politici della Tripolitania, ovvero dell’Ovest della Libia, è sempre stata assolutamente insufficiente.
Nelle ultime settimane il suo principale sponsor, l’Egitto di Abdel Fatah al Sisi, ha mostrato di essersi allontanato dal generale e di essere pronto ad aprire al governo di Tripoli e al presidente Serraj.
La notizia della morte di Haftar aprirà una fase nuova in Libia, non necessariamente positiva perchè il generale comunque garantiva il controllo perlomeno di una zona abbastanza ampia del paese.
Negli ultimi giorni era già state segnalate riunioni caotiche fra gli ufficiali vicini all’uomo, compresi i figli che aveva fatto promuovere nell’esercito senza che avessero fatto una vera carriera militare.
Molte tribù sono in rotta di collisione con la famigilia allargata del generale (che tra l’altro è originaria della Cirenaica) è questo ha procurato voci di profondi dissidi in Cirenaica prima ancora della notizia della morte del generale.
(da agenzie)
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Aprile 13th, 2018 Riccardo Fucile
SI INDAGA SU 431 MILITARI, MA CRESCONO LE DENUNCE… I SOLDATI APPARTENGONO A GRUPPI DI ESTREMA DESTRA
«Adesso ci facciamo vaccinare contro la febbre gialla e poi andiamo in Mali e spariamo ai negri fino a fargli saltare le teste».
La conversazione telefonica fra due soldati della Bundeswehr è stata intercettata dagli agenti del Mad – i servizi segreti dell’esercito tedesco – pochi giorni prima della partenza delle reclute alla volta dell’Africa dove avrebbero dovuto prendere parte alla Missione internazionale di sostegno al Mali.
È solo uno dei tanti episodi di devianza xenofoba scoperti all’interno delle forze armate tedesche dal servizio di controspionaggio militare interno.
Rispondendo a un’interpellanza parlamentare presentata dal partito della Die Linke, il Ministero della difesa ha confermato ieri l’avvio di ben 431 inchieste nei confronti di altrettanti soldati sospettati di appartenere a gruppi dell’estrema destra o di condividere le loro ideologie razziste, antisemite e totalitarie.
Un fenomeno in aumento visto che nell’arco di appena un anno il numero delle inchieste avviate dal Mad è aumentato di oltre il 50%.
Svastiche disegnate sulle pareti delle caserme, inni nazisti cantati dai soldati nel corso di piccole feste, slogan che inneggiavano ad Adolf Hitler gridati durante marce d’addestramento, lugubri riti d’iniziazione di stampo razzista per le reclute.
«I responsabili dell’esercito e il governo devono reagire con più determinazione contro simili episodi» esige la deputata della Die Linke, Ulla Jelpke. «L’esercito non può e non deve tollerare simili episodi».
Molti dei casi scoperti dal Mad sono stati poi denunciati alle procure che hanno provveduto all’avvio di inchieste formali. Solo in pochissimi casi tuttavia le indagini hanno portato a risultati concreti e all’allontanamento dei sospettati dall’esercito.
Secondo la Ministra della difesa Ursula von der Leyen (Cdu), il drastico aumento degli episodi d’intolleranza e di razzismo all’interno della Bundeswehr dimostra in primo luogo la crescente sensibilizzazione dei vertici militari nei confronti del problema.
Dopo il caso venuto alla luce nell’aprile del 2017, quando l’ufficiale della Bundeswehr Franco A. fu arrestato dagli inquirenti per aver preparato un attentato dinamitardo contro immigrati stranieri, la Ministra avviò una campagna di epurazione tra le fila dell’esercito volta a neutralizzare gli elementi neonazisti ed estremisti.
La Ministra criticò in quell’occasione anche alcuni generali che secondo lei avevano contribuito a minimizzare e insabbiare il fenomeno.
Ursula von Der Leyen ordinò un’inchiesta interna e incaricò i servizi segreti militari a tenere sotto controllo le attività dell’estrema destra neonazista.
Nel caso dei due soldati che nel corso di una conversazione telefonica avevano dichiarato di voler decapitare i «negri» nel Mali, l’inchiesta è stata però messa agli atti per mancanza di prove. I due militari sono ora in Africa nel contingente internazionale.
(da “Huffingtonpost”)
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