Aprile 17th, 2018 Riccardo Fucile
MATTARELLA HA ANNOTATO L’IMMOBILISMO DEI PARTITI ED E’ ORIENTATO AD AFFIDARE ALLA PRESIDENTE DEL SENATO UN MANDATO ESPLORATIVO
Al 43esimo giorno dallo stallo probabilmente uscirà il nome di Elisabetta Alberti Casellati per un mandato esplorativo, nella giornata di domani.
A meno di clamorose sorprese il capo dello Stato sarebbe sempre più orientato a conferire alla presidente del Senato un incarico per esplorare l’immobilismo dei partiti. È, al momento, l’ipotesi più accreditata nei Palazzi che contano.
Dettata quasi dalla necessità . Perchè al Quirinale si è preso atto che, anche il periodo di riflessione concesso dopo il secondo giro di consultazioni, non ha portato consiglio. E non sono arrivati segnali – degni di questo nome – che attestassero l’innesco di una trattativa convincente nè tra centrodestra e Cinque stelle, nè tra Lega e Cinque Stelle, ovvero quella maggioranza in grado di “maturare spontaneamente” nel “confronto” tra i partiti, come auspicato dal capo dello Stato.
Anzi sono arrivati segnali – degni di questo nome — che attestano l’esatto contrario: il collasso di una trattativa solo abbozzata tra Salvini e Di Maio, i timidi sussurri che arrivano dal Pd lontani dall’essere un inizio di una nuova strategia, il progressivo emergere di linee di frattura anche all’interno dei singoli schieramenti, con divergenze sostanziali, tanto per citare la più eclatante, tra la Lega e Forza Italia, su un tema cruciale e delicato come la politica estera e la collocazione geopolitica del paese, emersa anche nell’odierno dibattito parlamentare.
Ecco, al Quirinale è stato registrato un lungo elenco di puntigli, veti, personalismi e, con essi, gli echi di una campagna elettorale mai davvero finita in nome di un salutare e maturo bagno di realtà .
Toccherà a Mattarella l’onere di una prima mossa per sbloccare lo stallo.
Della prima, nella consapevolezza che potrebbe non essere quella risolutiva e che sarà necessario altro tempo per vedere se nei partiti emergerà un sussulto di responsabilità o se il capo dello Stato sarà costretto a scelte solitarie.
Il ragionamento circola nei Palazzi: “Di fronte a una situazione insostenibile, Mattarella sarà costretto a rivolgere ai partiti un appello alla responsabilità che suonerà come una denuncia di fronte al paese. E a quel punto a cacciare un suo nome, quello vero”.
I tempi non sono maturi per una scelta di questo tipo che va spiegata, metabolizzata, preparata, come ogni extrema ratio dopo una serie di tentativi falliti.
Adesso, alla luce della situazione che si è delineata, per fare un passo in avanti, il capo dello Stato, a meno di clamorose novità , giocherà la carta di un mandato esplorativo. Perchè non sembrano essere emerse, al momento, le condizioni per un incarico a uno dei due leader dimezzati, Di Maio e Salvini, soprattutto perchè i diretti interessati hanno lascianto intendere di non voler essere messi alla prova per paura di bruciarsi, e che dunque potrebbero anche rifiutarlo creando una situazione di singolare tensione.
Ecco dunque, la scelta di un mandato esplorativo.
È una sorta di consultazione supplementare, affidata a una figura di prestigio, a cui viene dato il compito di verificare, su indicazione del Colle, se tra i partiti ci sono spiragli per un’intesa, nel faticoso tentativo di avviare la legislatura.
I precedenti suggeriscono che tale incarico viene di solito affidato al presidente di uno dei due rami del Parlamento. È stato così quando furono fatti dei tentativi, in epoche diverse, con i presidenti del Senato Merzagora, Fanfani, Spadolini e Marini. O con Leone, Pertini e Iotti, che sedevano sullo scranno più alto di Montecitorio.
La scelta dovrebbe cadere sulla presidente del Senato Elisabetta Casellati, perchè è chiaro che conferire un incarico del genere al presidente della Camera Roberto Fico significherebbe spalancare le porte dell’inferno al suo amico-rivale Luigi Di Maio.
I precedenti storici non furono molto fortunati e tutto lascia intendere che anche questo tentativo difficilmente farà nascere il governo. Però l’esplorazione comunque serve a mettere un punto fermo.
In questo caso a certificare l’impraticabilità dello schema che ha occupato la discussione politica di questo mese, ovvero la trattativa tra centrodestra e Cinque Stelle.
È difficile immaginare che la presidente del Senato possa compiere il miracolo perchè è un po’ come se fosse Berlusconi a condurre le danze.
La presidente del Senato, sottosegretario alla Giustizia ai tempi della guerra santa contro le procure, non ha mai abiurato alla sua fede berlusconiana, neanche nelle sue esternazioni post voto. E non lo farà in questa occasione.
È come se l’ostacolo Berlusconi, invece di fare un passo indietro, ne fa uno in avanti. E chissà se è un caso che, a palazzo Grazioli, qualcuno già ha tolto i freni ai desideri, immaginando che l’esplorazione possa diventare un incarico vero, immaginando che qualche aiuto possa arrivare dal Pd e da “responsabili” che, al momento giusto potrebbero uscire dalle file dei Cinque Stelle.
Una settimana se ne andrà così, certificando che, partendo dal centrodestra, non nasce alcun governo.
(da “Huffingtonpost”)
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Aprile 17th, 2018 Riccardo Fucile
SI SPERA NEL FALLIMENTO DELL’ESPLORATORE
All’ora di pranzo arriva la benedizione finale: “Luigi, ci fidiamo di te, vai avanti”.
È Davide Casaleggio a dare l’imprimatur al tentativo del Movimento 5 stelle di trasformare in primario il forno finora tenuto in disparte.
Quello in cui dovrebbe cuocere il pane del governo tra il Movimento 5 stelle e il Partito democratico.
Un pranzo blindatissimo, nel caffè Illy, a qualche sampietrino di distanza dall’ingresso del palazzo di Montecitorio dove Luigi Di Maio ha stabilito il proprio quartier generale.
Presenti solo il capo politico della truppa stellata, il figlio del fondatore e Pietro Dettori, ormai vera e propria cinghia di trasmissione fra la sfera milanese e quella romana dell’universo a 5 stelle. Una tavola blindatissima. Dalla quale però filtra la benedizione per la linea seguita dai vertici romani.
Una mossa che acquisisce ancor più valore alla luce del fatto che sul calare della scorsa settimana Casaleggio ha avuto modo di confrontarsi a lungo con Beppe Grillo.
Il Movimento nelle sue figure apicali si stringe intorno all’uomo su cui ha investito tutto. La scommessa di Di Maio ha una posta molto alta. Virare sui Dem dopo settimane di canali privilegiati tenuti vivi con Matteo Salvini.
Lunedì una pelo e contropelo riservato alla Lega che aveva il sapore di un’exit strategy. Perchè non solo Di Maio ha battuto sul tasto del no a Silvio Berlusconi, as usual. Ma ha anche scavato un solco profondo sulla politica estera. Sulla Siria in particolare.
Quando il martello batte sulla sostanza delle cose — nello specifico il primo scenario di crisi che il nuovo esecutivo si terrà per le mani — colpisce molto più a fondo di qualche randellata sulle schermaglie da tattica di Palazzo.
Così oggi nel quartier generale si sono soppesate con profonda attenzione le parole di Maurizio Martina. Che ha rilanciato su tre punti specifici: reddito di inclusione, assegno universale per le famiglie con figli e salario minimo legale.
Nessuna novità , ma la tempistica con cui il segretario reggente del Nazareno è uscito è stato considerato un segnale. Così a metà pomeriggio i capigruppo Giulia Grillo e Danilo Toninelli diramano una nota di apprezzamento.
Eccola: “La proposta avanzata da Maurizio Martina rappresenta un’iniziativa utile ai fini del lavoro che sta svolgendo il comitato scientifico per l’analisi dei programmi presieduto dal professor Giacinto Della Cananea. Abbiamo sempre detto che ciò che vogliamo fare è partire dai temi che interessano ai cittadini”.
Si metta nel canestro di giornata anche una nota della delegazione grillina a Bruxelles nella quale ci si dice “pronti a collaborare con Emmanuel Macron per l’agenda europea” e mancherebbe solo un indizio per veder materializzarsi la classica prova.
Fonti 5 stelle accreditano un certo scambio sull’asse Di Maio — Martina.
E identificano in Roberto Giachetti, Matteo Richetti e Graziano Delrio i possibili pontieri con l’area che fa capo a Matteo Renzi, quella che di fatto sta gettando secchiate d’acqua sul fuocherello alimentato dal Movimento.
Ettore Rosato, già capogruppo e oggi vicepresidente della Camera, stronca con l’ironia le avances, prendendo a spunto un articolo del Foglio nel quale si evidenzia una sostituzione del programma M5s votato in rete con una copia edulcorata messa online qualche giorno dopo le votazioni.
E twitta: “Caro Di Maio, vorrei sapere quale programma valuterà il comitato Della Cananea: quello presentato ai cittadini o quello scritto dopo 4 marzo?”. Lo segue a ruota Andrea Romano, che con un editoriale su Democratica, l’organo di stampa del Pd, bolla come fallimentare l’esperienza di Di Maio, certificandone l’impossibilità di andare a Palazzo Chigi.
La pietra tombale sembra metterla il capogruppo al Senato Andrea Marcucci: “I 3 punti di Martina? Rivolti al futuro premier incaricato, non sono un’apertura ai 5 stelle”. E lo stesso segretario Dem, sia pur in maniera più sfumata e lasciando galoppare tutto il giorno il dibattito, ha marchiato di strumentalizzatori gli esegeti delle sue parole.
De profundis? Forse. Perchè nella war room stellata rimane la convinzione che Sergio Mattarella procederà con l’affidare un mandato esplorativo, cercando di fatto di prendere ulteriore tempo.
“E da qui a 10 giorni nel Pd tante cose possono cambiare”, è la speranza-convinzione di chi è a stretto contatto con Di Maio. Gli stessi che spiegano che, nonostante l’avvenuto sorpasso, l’ipotesi Lega non sia tramontata.
Se l’esploratore fosse la presidente del Senato Elisabetta Casellati, è il ragionamento, il fallimento di un suo tentativo potrebbe dare il là a Salvini per cambiare schema, sganciandosi dal centrodestra.
Strategie, progetti, speranze, illusioni. Il segretario della Lega a sera dai microfoni di Di Martedì è tornato a minacciare il voto in caso di mancato accordo politico, ha espresso apprezzamento per la Casellati ma anche per Roberto Fico come possibili incaricati dal Quirinale, ha chiuso la porta al Pd e aperto a un governo con il solo scopo di fare una legge elettorale.
Infine, ha risposto così a Di Maio: “Torni sulla terra, ci vediamo e si parte”. Distanze siderali.
(da “Huffingtonpost”)
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Aprile 17th, 2018 Riccardo Fucile
I DEM DIRANNO NO A UN GOVERNO CON LEGA E M5S ANCHE NELLE CONSULTAZIONI CON CASELLATI, SE AVRA’ UN MANDATO ESPLORATIVO
Mentre in aula scorre sonnacchioso il dibattito sulla Siria dopo l’informativa di Paolo Gentiloni, in Transatlantico al Senato i renziani si mostrano alquanto annoiati dalla mossa di Maurizio Martina di proporre tre punti programmatici per ribadire le idee del Pd.
Proprio oggi che Luigi Di Maio va promettendo nuove aperture al Pd, dichiarando chiusa la fase del dialogo con Matteo Salvini.
“Non era questo il giorno”, è il ragionamento degli uomini più vicini al segretario dimissionario e senatore Matteo Renzi che nel frattempo è in aula. “Ora i media penseranno che si trattava di un’apertura ai cinquestelle e siamo punto e a capo…”. Perchè per i renziani del Pd le nuove aperture di Luigi Di Maio non cambiano nulla: la risposta è no.
Semmai il partito scongelerà la sua linea di opposizione di fronte ad un appello alla responsabilità di Sergio Mattarella, quando arriverà .
Perchè arriverà ma non subito, si aspettano nel Pd e questa semmai è l’unica novità degli ultimi giorni.
In effetti intorno alle 18, proprio quando Gentiloni sta per prendere la parola in aula in Senato, Martina precisa: “Le prime tre proposte Pd presentate oggi sono per gli italiani, non per questo o quel partito. Noi andiamo oltre i tatticismi degli altri”.
Pure il ministro Andrea Orlando, capo della minoranza, sottolinea che il reggente non si riferiva al M5s. E anche per lui non se ne parla di aprire a Di Maio, spiega il Guardasigilli in Transatlantico alla Camera: “Non si pone nemmeno con dei punti programmatici, dei contenuti…”.
Siamo alle solite nel Pd. Pur ammettendo che i non-renziani siano tentati di andare a vedere le carte di Di Maio, dopo che avrà definitivamente chiuso il ‘forno’ con la Lega e aperto quello Democratico, sono i renziani che non ne vogliono sapere.
E siccome nessuno ha interesse a spaccare il Pd, anche i più dialoganti hanno le mani bloccate.
Tanto più che, se anche si convincessero tutti i parlamentari del Pd più quelli del M5s ne deriverebbe una maggioranza esile e questo lo sanno anche gli ‘aperturisti’, da Martina a Franceschini. Dunque la conclusione è che il ‘forno’ pentastellato nessuno tra i Dem vuole aprirlo.
Ci dice Matteo Orfini, uno dei più contrari: “Noi non facciamo pane con la farina della Casaleggio associati”. Quindi cosa resta? Perchè, se davvero Salvini e Di Maio resteranno in cagnesco lontani da un accordo, qualcosa resterà . Cosa? Una mossa del presidente Mattarella: ormai nel Pd se l’aspettano anche i renziani e di fronte a questa prospettiva preparano lo scongelamento.
Perchè in questo caso, vale a dire nel caso in cui il capo dello Stato dovesse fare un appello alla responsabilità di tutte le forze politiche per dare un governo al paese, anche il Pd sarà chiamato in causa e pure Renzi vorrà dire la sua, intestarsi lo scongelamento. A quel punto l’Aventino attuale sarà solo un ricordo.
L’iniziativa però – è la condizione essenziale – deve essere di Mattarella.
Nemmeno di Salvini, ragionano nel Pd, in riferimento alle aperture del leader della Lega su un “terzo nome” per la premiership.
Se scongelamento sarà , non succederà a stretto giro. Per domani, i Dem scommettono su un mandato esplorativo alla presidente del Senato Maria Alberti Casellati.
Se ne parla molto in Senato nei capannelli di Transatlantico, mentre in aula il dibattito sulla Siria cristallizza le distanze tra Lega e Cinquestelle e fotografa tante assenze nei banchi del Pd: abbastanza imbarazzante per un’informativa del Dem Gentiloni.
Seduto in aula di fianco alla senatrice Simona Malpezzi, Renzi si diverte a scrivere un elenco degli assenti e dei presenti: tra i primi, anche il nome dell’ex capogruppo Luigi Zanda, il più critico del segretario dimissionario.
Tornando alla Casellati, nessuno tra i Dem nutre molte speranze sul suo eventuale mandato esplorativo. Servirà però a prendere altro tempo. Nel giro di consultazioni che la seconda carica del Senato dovrebbe avviare con i partiti, il Pd andrà a dire no ad ipotesi di governo insieme alla Lega oppure insieme al M5s.
Oggi il vicepresidente della Camera Ettore Rosato lo ha spiegato anche a Renato Brunetta di Forza Italia in un colloquio in Transatlantico alla Camera.
Il succo: il Pd non ci sta nemmeno ad appoggiare un governo di centrodestra con un’astensione tecnica. Si tratta di un’ipotesi messa nel conto dai Dem subito dopo le elezioni, ora cade anche questa. “E poi quale centrodestra? Sulla Siria hanno tre linee…”, sono le parole di Rosato. Brunetta lo sa.
Troppe divisioni, solo Mattarella può rattopparle, è la sintesi che gira tra i parlamentari Dem. Non ora, tra un po’.
E a quel punto il film potrebbe essere diverso da quello visto finora.
(da “Huffingtonpost”)
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Aprile 17th, 2018 Riccardo Fucile
ALLE AMMINISTRATIVE DI VICENZA I LEGHISTI SCARICANO IL CANDIDATO UNITARIO DI FORZA ITALIA… E I FORZISTI RITIRANO L’APPOGGIO A QUELLO LEGHISTA A TREVISO
La Lega rompe l’alleanza a Vicenza e Forza Italia toglie l’appoggio al candidato leghista a Treviso. È l’effetto Vinitaly.
Se domenica è saltato l’incontro tra Salvini e Di Maio è invece andato in scena quello tra il segretario veneto leghista e il segretario federale del Carroccio.
Un brindisi, tra Gianantonio Da Re e Matteo Salvini, che ha fatto saltare gli accordi presi prima delle elezioni dello scorso quattro marzo e del sorpasso leghista sugli azzurri.
«La sezione di Vicenza – ha spiegato il segretario Veneto della Lega, Da Re – ha rilevato che il candidato scelto da Forza Italia, Fabio Mantovani è stato massacrato proprio dal partito che lo aveva proposto. A venti giorni dal deposito delle liste loro non avevano ancora le idee chiare e quindi noi abbiamo deciso di appoggiare Francesco Rucco, candidato delle liste civiche».
Un cambio di alfiere tutto interno al centrodestra che ha azzerato tre mesi di campagna elettorale.
Se lo strappo vicentino avrà ripercussioni nazionali sulla partita per la nascita del nuovo governo è presto per dirlo. Ciò che è certo è che la faglia aperta da questo terremoto ha già spaccato la terra su cui basa la coalizione trevigiana, presentata dai maggiorenti di Forza Italia e Lega lo scorso gennaio. «Al primo turno andremo divisi, al secondo vedremo», aggiunge Da Re.
Nel resto del Veneto il summit di oggi a Padova tra i due partiti del centrodestra ha visto sul tavolo una sola eccezione: Villafranca Veronese dove il partito di Salvini e quello di Berlusconi saranno assieme dal primo turno.
Da San Donà di Piave a Adria quindi al primo turno i due partiti sosterranno candidati diversi.
Se il brindisi del Vinitaly sarà solo un piccolo aperitivo da bere in terra veneta o se diventerà il bicchiere dell’addio a livello nazionale a questo punto lo diranno i fatti.
(da “La Stampa”)
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Aprile 17th, 2018 Riccardo Fucile
I VERTICI DELL’ARMA AVREBBERO COPERTO I CINQUE MILITARI SOTTO PROCESSO PER OMICIDIO, FALSO E CALUNNIA
C’è un nuovo inedito capitolo nella storia della morte di Stefano Cucchi. Arriva dal processo ai cinque carabinieri accusati, a vario titolo, di omicidio preterintenzionale, falso e calunnia, grazie alle testimonianza di due militari.
L’Arma era informata, forse preoccupata, della vicenda dell’arresto e la successiva morte del geometra romano arrestato per droga, tanto che, dopo il decesso e l’apertura dell’indagine, vennero chieste due relazioni su quanto accaduto e i due documenti, datati 26 ottobre 2009 (Cucchi era morto in ospedale il 22 ndr), vennero fatti modificare il giorno stesso, forse perchè alcuni dettagli potevano creare problemi.
Relazione modificata su richiesta dei superiori
Nella prima relazione si legge che Cucchi, la mattina dopo l’arresto “riferiva di avere dei dolori al costato e tremore dovuto al freddo e di non poter camminare” tanto da dover “essere aiutato” dai carabinieri a salire le scale per andare in tribunale dove era fissata l’udienza di convalida.
Dalla seconda versione, spariscono i dolori al costato e il fatto che il giovane non riuscisse a camminare il giorno dopo l’arresto: Cucchi, vi si legge, “era dolorante alle ossa sia per la temperatura freddo/umida che per la rigidità della tavola del letto”.
Il documento viene redatto dal carabiniere Francesco Di Sano che, chiamato a testimoniare al processo, in merito a tali anomalie dichiara che gli fu chiesto di modificare la relazione dai superiori.
Anomalie anche in altre due relazioni, quasi identiche, firmate sempre il 26 ottobre, dal piantone di Tor Sapienza Gianluca Colicchio: anche in questo caso, solo nella seconda relazione, che Colicchio dice di non aver mai redatto, i dolori di Cucchi vengono attribuiti alla “branda scomoda”.
Cinque carabinieri a processo, per procura fu “pestaggio
Cinque carabinieri a processo Sono cinque i carabinieri coinvolti nel processo sulla morte del geometra romano in corso davanti alla prima Corte d’Assise del tribunale di Roma: Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro, Francesco Tedesco, rispondono di omicidio preterintenzionale.
Tedesco risponde anche di falso nella compilazione del verbale di arresto di Cucchi e calunnia insieme al maresciallo Roberto Mandolini, all’epoca dei fatti a capo della stazione Appia, dove venne eseguito l’arresto. Vincenzo Nicolardi, anche lui carabiniere, è accusato di calunnia con gli altri due, nei confronti degli agenti di polizia penitenziaria che vennero accusati nel corso della prima inchiesta sul caso.
Il pestaggio, per la procura di Roma, causò tra l’altro “una rovinosa caduta con impatto al suolo in regione sacrale” provocando sul giovane “lesioni personali che sarebbero state guaribili in almeno 180 giorni e in parte con esiti permanenti, ma che nel caso in specie, unitamente alla condotta omissiva dei sanitari che avevano in cura Cucchi presso la struttura protetta dell’ospedale Sandro Pertini, ne determinavano la morte”, il 22 ottobre del 2009.
Nel procedimento sono parte civile, oltre ai familiari del giovane, il Comune di Roma, Cittadinanzattiva e gli agenti della penitenziaria accusati nella prima inchiesta sulla morte del giovane.
Nell’udienza del 20 marzo un testimone, Luigi Lainà , aveva ribadito un racconto parzialmente noto, ma ripetuto in una aula di Tribunale davanti ai giudici della corte d’Assise:
“Quando ho visto Stefano la prima volta stava ‘acciaccato’, era gonfio come una zampogna, aveva ematomi sul viso e sugli zigomi, era viola, perdeva sangue da un orecchio, non parlava bene e non riusciva neanche a deglutire. Quando gli ho visto la schiena sembrava uno scheletro, un cane bastonato, roba che neanche ad Auschwitz”.
La storia: dall’arresto alle prime indagini
Stefano Cucchi venne arrestato 15 ottobre del 2009 in via Lemonia, a Roma, a ridosso del parco degli Acquedotti, perchè sorpreso con 28 grammi di hashish e qualche grammo di cocaina. Secondo l’accusa, il giovane fu colpito la notte del suo arresto, dai tre carabinieri imputati con “schiaffi, pugni e calci”.
Quella notte, i carabinieri lo accompagnarono a casa per perquisire la sua stanza. Non trovando altra droga lo riportano in caserma con loro e lo rinchiudono in una cella di sicurezza della caserma Appio-Claudio. La mattina successiva, nell’udienza del processo per direttissima, Stefano ha difficoltà a camminare e parlare e mostra evidenti ematomi agli occhi e al volto che non erano presenti la sera prima. Il giudice, nonostante le condizioni di salute del giovane, convalida l’arresto e fissa una nuova udienza. Nell’attesa, Stefano Cucchi viene rinchiuso nel carcere di Regina Coeli.
Le sue condizioni di salute peggiorano rapidamente e, il 17, viene trasportato all’ospedale Fatebenefratelli per essere visitato.
Il referto è chiaro: lesioni ed ecchimosi alle gambe e al viso, frattura della mascella, emorragia alla vescica, lesioni al torace e due fratture alla colonna vertebrale.
Viene chiesto il ricovero, ma Stefano rifiuta insistentemente e viene rimandato in carcere per poi essere ricoverato di nuovo, presso l’ospedale Sandro Pertini, dove muore il 22 ottobre.
Solo a questo punto, dopo vani tentativi i suoi familiari riescono a ottenere l’autorizzazione per vederlo: il corpo pesa meno di 40 chili e presenta evidenti segni di percosse. Cominciano le indagini. Allo stato gli unici imputati definitivamente assolti sono gli agenti della polizia Penitenziaria. La Cassazione ha annullato con rinvio la sentenza sui medici ma ormai il reato contestato è prescritto.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Aprile 17th, 2018 Riccardo Fucile
IL 30 MAGGIO SARA’ IL GIORNO DELLA VERITA’ PER IL FUTURO DELL’ATAC CON I GIUDICI DEL TRIBUNALE FALLIMENTARE
Il servizio di trasporto pubblico di Roma Capitale è a rischio revoca. ATAC potrebbe vedersi ritirata la concessione, come ha avvertito la Motorizzazione di Roma (in capo al ministero dei Trasporti) se non torna a essere iscritta al Registro Elettronico Nazionale entro il 30 maggio con le garanzie finanziarie necessarie.
Che oggi mancano a causa della situazione tragica dei conti e della procedura di concordato voluta dall’amministrazione di Virginia Raggi.
Per ottenere l’iscrizione al Registro servono infatti le garanzie finanziarie che al momento non si trovano nella pancia di ATAC.
In alternativa, il Campidoglio, per conto della sua controllata, dovrebbe presentare una fideiussione bancaria da 10 milioni di euro.
Finora, però, il giro presso le banche non ha prodotto alcun tipo di risposta. Anche perchè gli istituti di credito non possono prestare soldi a un’azienda che è in questo momento in tribunale perchè non riesce a restituire i soldi ai creditori.
Fonti del Mit spiegano che “se il concordato va in porto il problema dell’iscrizione al Ren è risolto”.
La lettera del Mit è stata inviata dopo una proroga di sei mesi dell’iscrizione di Atac al Registro elettronico nazionale. Scaduto questo periodo, il Ministero ha informato “della possibilità di presentare gli atti e i documenti necessari entro i prossimi due mesi, quindi altri 60 giorni, al fine di mantenere l’iscrizione al Registro, necessaria per l’esercizio delle imprese di trasporto. Immotivato quindi qualsiasi allarme di interruzione del servizio“, precisano dal Dicastero.
Per riannodare i fili della vicenda bisogna fare un passo indietro.
All’epoca della richiesta di concordato preventivo il Campidoglio ha prolungato il contratto di servizio di ATAC fino al 2021, dribblando la gara in programma per il dicembre 2019.
Il prolungamento del contratto di servizio era una delle condizioni necessarie (ma non sufficiente) per fornire al tribunale di Roma un piano che prevedesse un credibile soddisfacimento dei creditori, altrimenti per la municipalizzata dei trasporti romana si sarebbe presto aperta la strada del fallimento.
Il tribunale però ha dichiarato inidoneo il concordato preventivo presentato da ATAC alla fine di marzo.
Illuminanti all’epoca i giudizi del pubblico ministero: «La proposta formulata pone problemi di legalità e non dà sufficienti garanzie sulla fattibilità del piano. In particolare, l’attestazione risulta carente o del tutto insufficiente».
A pagina 3 del decreto, il tribunale fallimentare parla di profili di possibile inammissibilità riferendosi al concordato presentato dalla municipalizzata; a pagina 4 il tribunale definisce “non conforme a legge” il rimborso dei crediti postergati e quelli chirografari insieme. In questa situazione, il tribunale ha convocato per il 30 maggio l’azienda per fornire una risposta ai tanti rilievi fatti dal tribunale al concordato.
Ecco perchè la data, che è anche quella della scadenza della proroga concessa dal ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, diventa adesso decisiva.
Quel giorno l’azienda dovrà convincere i giudici del tribunale fallimentare che la loro proposta di concordato ha superato tutte le problematiche indicate nel provvedimento della sezione fallimentare.
Se ci riuscirà , sarà poi facile risolvere il problema della fidejussione: già si pensa a una garanzia temporanea che potrebbero presentare le Assicurazioni di Roma, di proprietà del Campidoglio. Ma ci sono anche altre strade da percorrere per uscire dall’impasse.
La municipalizzata ha chiuso il 2016 con ricavi pari a 827 milioni di euro e un valore della produzione totale di 932 milioni.
Rispetto a questo dato, garantito per la quasi totalità dal contratto di servizio del Comune (i ricavi dalla vendita di titoli di viaggio valgono appena 379 milioni di euro), i costi del personale hanno raggiunto i 538 milioni di euro, e il risultato operativo è in perdita di 201 milioni.
Il tribunale ha respinto la prima proposta di concordato definendo il programma di risanamento «delineato solo nei contorni, senza alcun concreto riferimento alla effettiva modalità del suo compimento, ovvero senza alcun elemento cui riferirsi per un accertamento logico prognostico della validità dello strumento indicato».
La parte più amaramente umoristica della vicenda è che il Campidoglio ha dato l’ok a un piano approntato dai consulenti chiamati da Paolo Simioni, amministratore unico di ATAC, e dalla Giunta Raggi, remunerati con compensi che, fatti tutti i conti, arrivano alla incredibile cifra di dodici milioni di euro.
Il tutto per farsi alla fine bocciare il piano con richiami proprio all’attestazione di crediti e debiti, considerata dai giudici malfatta quando non addirittura tecnicamente carente.
L’unica possibilità di rinascita per l’azienda, spiega oggi Repubblica Roma, è legata alla disponibilità politica di continuare a immettere soldi nelle sue tasche.
Non potrebbe essere altrimenti rispetto a un debito accumulato di 1,3 miliardi di euro, quasi il doppio rispetto ai ricavi, all’interno del quale il debito nei confronti degli istituti di credito ha raggiunto i 182 milioni.
Nel frattempo, con una delibera di giunta il Campidoglio ha approvato la proroga dell’affidamento del servizio in house dal 2019 al 2021. Senza la proroga ATAC non sarebbe mai stata ammessa al concordato.
Ora il destino dell’azienda è in mano ai giudici. Che sono già stati molto chiari nel decreto sul ricorso riguardo la domanda ex art. 161 sul concordato preventivo.
E il 30 maggio hanno dato l’ennesimo ultimatum all’azienda e al Comune. Se le controdeduzioni di ATAC non dovessero soddisfare il tribunale l’azienda si avvierebbe verso il fallimento.
A meno che un governo amico, nel frattempo arrivato a Palazzo Chigi, non intervenga d’urgenza per salvare tutti. Compresa la Giunta Raggi.
(da “NextQuotidiano”)
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Aprile 17th, 2018 Riccardo Fucile
LA STORIA DI MARCO OMIZZOLO, IL SOCIOLOGO CHE GUIDA LA PROTESTA DEI LAVORATORI SFRUTTATI… MAI UNA VOLTA CHE LA SEDICENTE DESTRA SOVRANISTA MUOVA UN DITO CONTRO L’ILLEGALITA’
Ripiegata in quattro dentro la sua carta d’identità , tiene una vecchia busta paga.
È l’ultima busta paga di Zulfqar Ahmed, bracciante agricolo nato in Pakistan il 10 giugno 1961, codice fiscale HMDZFQ61…
«Lavorava tutti i giorni della settimana, compresa la domenica mattina. Ma il padrone lo pagava solo 20 ore al mese. Totale: 164 euro. Zulqfar era disperato. Ma non si lamentava. Pensava che qui fosse la regola. Solo che non riusciva letteralmente a vivere. Un giorno, durante il passaggio da un campo di lavoro all’altro, si è staccato dal gruppo e si è impiccato alla trave di una serra».
Negli ultimi due anni nelle campagne dell’Agro Pontino, fra cocomeri, meloni, stelle di Natale e mozzarelle di bufala, si sono suicidati dieci braccianti.
Ma nello stesso tempo, altri 150 lavoratori sono riusciti a denunciare le condizioni di sfruttamento nei campi e le violenze subite all’interno delle aziende agricole.
Hanno chiesto aiuto. Firmato verbali. Trovato più di 450 testimoni.
Se questo tentativo di alzare la testa è stato possibile, è grazie al lavoro di un sociologo italiano di 43 anni.
Il suo nome è Marco Omizzolo, origine venete, casa a Sabaudia. È lui ad aver organizzato il primo sciopero della storia dei braccianti sikh. Quattro mila persone radunate in Piazza della Libertà , davanti alla prefettura di Latina. Era il 18 aprile 2016. Una giornata mai vista.
Da quel momento, le condizioni dei braccianti dell’Agro Pontino forse sono un po’ migliorate. La vita di Marco Omizzolo, in compenso, è peggiorata. E molto.
Il 3 marzo 2018, per la quarta volta, ha ricevuto un avvertimento. La sua auto è stata presa a mazzate. «La cosa che mi ha inquietato di più, è che non avevo detto a nessuno del mio ritorno a casa», racconta adesso.
«Ero stato a Venezia per una lezione all’Università , sono rientrato di sera. Ho cenato dai miei genitori. Quando sono uscito, ho trovato la macchina con le quattro ruote squarciate, la carrozzeria completamente rigata e il parabrezza in frantumi».
C’erano già stati altri avvertimenti. Insulti per strada. Uno striscione allo stadio. Un volantino anonimo in cui lo accusavano di fare soldi sulla pelle degli indiani, perchè violenza e delegittimazione colpiscono sempre insieme.
«Non posso dire che la situazione mi lasci indifferente», dice Omizzolo. «Vivo un’ansia continua. Non so da chi devo guardarmi le spalle. Ma non saprei fare altro che questo lavoro. E voglio continuare a farlo».
A ben guardare, l’inizio di tutta questa storia era stata una semplice domanda.
Cosa sta succedendo, qui, davanti a casa mia? «Fra Terracina, Sabaudia e Latina, vedevo questi ragazzi in bicicletta al mattino presto, ricomparivano a sera inoltrata. Erano tutti di religione sikh. Un comunità di cui non sapevamo nulla. Mi sono detto che l’unico modo per conoscerli era stare un po’ con loro, vivere la loro vita».
Così il figlio di emigrati si cala nei panni dei migranti indiani. Si fa assumere da un caporale, inforca la bici. E quello che trova nei campi, non è soltanto sfruttamento. Tutti devono chiamare il datore di lavoro «padrone». Stanno in ginocchio nella terra anche per quattordici ore al giorno. Chi protesta, viene preso a bastonate e scaricato davanti al pronto soccorso con l’avvertimento di stare zitto. Il ricatto è sempre perdere il lavoro. Ci sono referti. Ossa spezzate. Silenzi.
La paga oscilla da un massimo di 4,50 euro l’ora a un minimo di 50 centesimi. Per sostenersi, soprattutto i braccianti più vecchi, fanno uso di sostanze dopanti: metanfetamina, scarti dell’oppio, farmaci antispastici.
E da poco, nei campi del Basso Lazio, è arrivata anche l’eroina.
Omizzolo scopre un’organizzazione internazionale che parte dal Punjab e finisce a 70 chilometri da Roma: «I braccianti vengono fatti arrivare da un intermediario che si occupa di tutto. Devono pagare 8 mila euro prima del viaggio, altri 4 mila euro al caporale. Vengono arruolati sulla base di un racconto totalmente falsato della realtà . Pensano di venire a lavorare nel Paese del Bengodi. Il datore di lavoro li chiama attraverso il sistema delle quote, quindi hanno anche un permesso di soggiorno. Sono in regola, apparentemente. Ma appena atterrano, precipitano all’inferno».
Aver denunciato tutto questo non porta amici.
«Restano in pochi», dice Omizzolo. Il Gruppo Abele di Don Ciotti si è schierato dalla sua parte. Come l’ex procuratore Giancarlo Caselli, che gli ha scritto una lettera in qualità di presidente dell’Osservatorio sulle agromafie: «Conosciamo molto bene, e da sempre apprezziamo, il coraggio e la serietà assoluta con cui Ella si dedica ad un problema rischioso, complesso e difficile come quello del caporalato. Ora, nel modo peggiore ma al tempo stesso perversamente significativo, ne abbiamo avuto conferma attraverso la prepotenza e protervia di chi vorrebbe continuare a vivere nell’illegalità sfruttando i più deboli».
Tremila braccianti abitano al «Residence Bella Farnia Mare». Costruito negli Anni Ottanta, doveva essere un gioiello turistico ma è fallito. Un posto letto costa 150 euro al mese. È una piccola città indiana nel Lazio.
Sono loro che domani mattina andranno ancora ad inginocchiarsi nei campi. «Il problema è l’indifferenza delle istituzioni e della politica», dice Marco Omizzolo.
«Su 21 comuni della zona, solo tre hanno preso posizione contro il caporalato. Il fatto è che qui lavorano 10 mila aziende. È un sistema che fa comodo a molti. Parliamo di guadagni enormi. Ecco perchè tengo nel portafoglio l’ultima busta paga di Zulfqar. Come poteva sopravvivere, lui, da solo, con 164 euro al mese?».
(da “La Stampa”)
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Aprile 17th, 2018 Riccardo Fucile
POLEMICHE PER IL “CREDITO” A RENATO BALESTRA… IL CATTIVO GUSTO DI SPECIFICARE LA MARCA DELL’ABITO
“Innamorati di Virginia Raggi“. E’ il nome di una pagina Facebook dedicata alla sindaca di Roma e che in queste ore celebra più di sempre la bellezza della prima cittadina in versione “abito da sera”.
Perchè la Raggi ha partecipato al Dinner Gala a Villa Miani e, come lei stessa scrive su Instagram, lo ha fatto indossando un abito della maison Balestra.
Un post, quello della sindaca, degno di una fashion blogger, con tanto di “caption” (didascalia con spiegazione e brand) e tag.
E proprio sul “credito” alla casa di moda ci sono state non poche polemiche: in molti sostengono infatti che questo atteggiamento sia adeguato magari a Chiara Ferragni ma non alla sindaca di Roma.
Che può, anche secondo chi la critica, indossare il vestito che vuole ma senza sottolinearlo nelle didascalie di Instagram.
E il Comune di Roma ha fatto sapere che la sindaca “veste ogni volta con un abito diverso di una firma romana. Comunque non commentiamo”.
L’abito, blu, con corpetto e mantello e fiori tono su tono, fa assomigliare la sindaca a un personaggio Disney che sta Zelda e Elsa di Frozen.
In molti hanno apprezzato il look, ma sono tanti anche i commentatori che invece non hanno gradito l’abito e si sono divertiti a sfornare dei meme con protagonista la “principessa Virginia”.
“Sei bellissima”, scrivono in tanti. “Con rispetto… Inguardabile”, rilancia un altro utente Instagram.
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Aprile 17th, 2018 Riccardo Fucile
GABRIELE ERA ANDATO AL LICEO DI ALGHERO PER INFORMARSI SU ALCUNI CORSI CON IL CANE GUIDA “PASTA”: “I SUOI OCCHI SONO I MIEI”… CHE BELLA LEZIONE DI EDUCAZIONE DA UNA SCUOLA PUBBLICA
L’unica fortuna, dice Gabriele, è che in quel momento nessuno studente ha assistito alla scena: «Altrimenti sarebbe stata davvero la lezione più diseducativa che si potesse immaginare». E di certo il vicepreside del liceo scientifico di Alghero non potrà vantarsi di aver dato ai suoi ragazzi un gran bell’esempio.
Tutto succede sabato mattina: Gabriele Pittalis, un trentaquattrenne che ha perso la vista quando era ancora bambino, si è presentato a scuola per sapere se fosse attivo un corso d’informatica per disabili.
«Ero con il mio cane, si chiama Pasta ed è la mia guida per tutti gli spostamenti. I suoi occhi sono i miei, in tutto quello che faccio posso fidarmi solo di lei». §
Ma a un certo punto all’ingresso della scuola si sono sentite delle urla: «Era la voce del vicepreside, sembrava una furia – racconta Franco Santoro, anche lui cieco, che al liceo scientifico fa il centralinista – Gabriele parlava con me, mi stava chiedendo qualche informazione. All’improvviso siamo stati interrotti dalle urla. Il vicepreside ci ha imposto di portare il cane immediatamente fuori».
Sì, sembra assurdo, ma è successo davvero: «Mi ha detto che i peli del cane possono provocare allergie agli studenti. Pasta è sottoposta a continui controlli ed è dotata di un tesserino sanitario. Può entrare ovunque, tranne che in quella scuola. Chi fa del male al mio labrador è come se lo facesse a me, anzi è persino più grave».
Solidarietà dal sindaco
Ad Alghero c’è un regolamento comunale che vieta l’ingresso di cani e gatti negli istituti scolastici. Ma per il cane-guida di un cieco, è facile da comprendere, quel divieto non può valere. Eppure, il vicepreside della scuola non ha voluto sentire ragioni.
Peggio ancora, non ha saputo cogliere la gravità di quelle parole rivolte a Gabriele. «È stata l’umiliazione più grande che abbia mai subito, per di più nella mia città . Peggio ancora, in una scuola, dove la sensibilità e il rispetto verso le persone disabili e quelle meno fortunate dovrebbe essere una lezione da seguire a memoria. Gli insegnanti, e ancor di più il vicepreside, dovrebbero lanciare messaggi educativi ai ragazzi. Invece è stata scritta una brutta pagina di intolleranza».
Gli ospedali italiani fanno entrare i cani in corsia e il ministero della Salute promuove la pet therapy per alleviare le cure e rendere la degenza dei pazienti un po’ meno dolorosa. Ma nella scuola di Alghero un cane fa ancora paura.
Gabriele Pittalis ha ricevuto subito la solidarietà del sindaco e ora che è scoppiato il caso il vice preside Pietro Sanna si giustifica così: «Ho solo detto di spostarsi dall’androne, dove passano i ragazzi. Non sono un insensibile».
Lettera al ministero
Il caso, comunque, non è chiuso, perchè il centralinista della scuola, che è amico di Gabriele ma anche presidente della sezione di Sassari dell’Unione italiana ciechi, ha già scritto al Provveditorato agli studi, al ministro dell’Istruzione e alla Regione. «Non si possono accettare atti di sopraffazione nei confronti di una persona che non ha la fortuna di avere la vista». «Impedirmi di stare in un luogo pubblico col cane – dice Gabriele – è come rubare la stampella a una persona senza una gamba. Chi avrebbe il coraggio di farlo?».
(da “La Stampa”)
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