Settembre 22nd, 2020 Riccardo Fucile
NELLA CITTA’ SCOSSA DALL’OMICIDIO DI WILLY PESANTE SCONFITTA DEI SOVRANISTI, APPENA 13,5% PER IL CANDIDATO DI LEGA E FDI
Nella Colleferro che dopo l’omicidio di Willy Monteiro Duarte è stata sommersa di accuse, tra chi definiva la città in provincia di Roma un avamposto del neo-fascismo e chi auspicava una svolta a destra nell’amministrazione, alle elezioni comunali è arrivata una risposta nettissima da parte dei cittadini: a vincere, con una larghissima maggioranza, è stata la sinistra.
Quando siamo arrivati a circa metà dello spoglio, infatti, i dati forniti dal ministero dell’Interno non lasciano spazio a dubbi: il candidato di centrosinistra e sindaco uscente Pierluigi Sanna, appoggiato dal Pd e da altre liste civiche, ha ottenuto il 77,04 per cento dei consensi. Sarà lui, dunque, il “nuovo” primo cittadino di Colleferro.
Staccati, di molto, tutti gli avversari. Il candidato del centrodestra Rocco Sofi, appoggiato da Lega e Fratelli d’Italia, ha ottenuto infatti solo il 13,5 per cento.
Forza Italia, invece, ha dato il suo sostegno a Mario Cacciotti, che al momento è fermo al 5,64 per cento. “Se questo risultato dovesse essere confermato — ha dichiarato Sanna nel corso dello spoglio — si tratterebbe di un risultato storico. E’ la prova che la fiducia delle persone non si conquista solo con i vecchi metodi, ma anche con l’ascolto e l’impegno costante verso un miglioramento della vita dei cittadini”
(da agenzie)
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Settembre 22nd, 2020 Riccardo Fucile
UN DIRITTO NON PUO’ ESSERE ACCESSIBILE SOLO A CHI PUO’ PERMETTERSELO
È la fotografia della distorsione di un paese e, per questo, la vicenda del calciatore del Barcellona Luis Suarez va raccontata per bene e va tenuta a memoria.
Non tanto per le dimensione di un’indagine, quella della Procura di Perugia, che forse ha scovato i soliti furbi fare i furbi per mettersi a disposizione del luccicante mondo dei ricchi, ma perchè le disuguaglianze sono talmente evidenti che basta mettere in fila i fatti per comprendere come in Italia ci siano diverse velocità (e forse anche regolarità ) di procedura per ottenere un diritto.
E cosa c’è di più schifoso di un diritto che dovrebbe universale e invece è accessibile solo a chi può permetterselo?
Un calciatore del Barcellona nato in Uruguay briga per ottenere la cittadinanza italiana (ha sposato un’italiana) in poche settimane. È la stessa cittadinanza che, lo dicono le statistiche, tanti attendono in media in quattro anni. Anni contro settimane, tanto per rendere l’idea.
Suarez doveva ottenere la cittadinanza per firmare per venire a giocare in Italia e sostiene, come tutti, un esame di italiano.
Secondo le intercettazioni Suarez “non coniuga i verbi”, “parla all’infinito” e quindi concordano l’esame “perchè con 10 milioni a stagione di stipendio non glieli puoi far saltare”, dicono gli esaminatori e quindi il calciatore “sta memorizzando le varie parti d’esame” e addirittura il voto finale è stato comunicato in anticipo al candidato. Prima di un esame che è durato una manciata di minuti quando di solito dura circa due ore e mezza.
Così ora la Procura di Perugia indaga, tra gli altri, il Rettore dell’Università per Stranieri di Perugia, Giuliana Grego Bolli, e il direttore Generale dell’università , Simone Olivieri.
Ma in fondo, se ci pensate bene, Suarez ha dimostrato di avere tutte le carte in regola per diventare un italiano, un italiano di quelli che sono convinti che questo Paese appartenga ai furbi, ai ricchi, agli amici degli amici, alle raccomandazioni, al servilismo di certi funzionari, al seguire gli interessi prima ancora delle regole e alla prepotenza di chi può permettersi di comprare risultati che andrebbero conseguiti per merito.
In questa sua predisposizione Suarez ha dimostrato di essere perfetto per diventare un italiano di quelli.
Resta solo da spiegare ai tanti che sono italiani di fatto, ma che lottano per anni per vedersi riconosciuti, che gli immigrati qui pesano in base al loro reddito. Si accolgono i ricchi e si odiano i poveri, semplice semplice. E così quella che era già una farsa ora diventa ancora più vergognosa.
(da TPI)
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Settembre 22nd, 2020 Riccardo Fucile
DA’ IL BENSERVITO AI NOSTALGICI DI RENZI E ALLA DESTRA GRILLINA
Per capire cosa significhi questo voto nel Pd, bisogna riavvolgere il nastro a dieci giorni fa. Tutti i grandi opinionisti avevano già (anticipatamente) proclamato la sconfitta del suo segretario, già individuato il suo sostituto (Stefano Bonaccini), già spiegato per filo e per segno che dopo una sconfitta così terribile come quella che si profilava (5 a 1) nelle regionali non c’era altra via che questa: dimettersi e consegnare la leadership al suo erede naturale. Ed era così suggestivo, questo coro, che lo stesso erede designato, Bonaccini a questa favola ci aveva pure aveva creduto, lasciandosi sfuggire una risposta che era un manifesto programmatico: facciamo rientrare gli esuli che sono fuori dal partito (a suo dire Matteo Renzi e Pierluigi Bersani) restauriamo l’immagine del Pd per tornare a “prima” di Zingaretti. Cioè al Renzismo, magari senza Renzi. Facciamo cadere questo governo innaturale che gli elettori non vogliono.
Che il segretario corresse dei rischi enormi era vero: giocava “fuori casa”, ovvero con candidati che (per ovvi motivi cronologici) nella maggior parte dei casi non aveva scelto lui, e aveva una doppia minaccia che lo stringeva a tenaglia: da un lato quella alla sua destra, con la nascita di liste, promosse da Italia Viva, che avevano l’obiettivo proclamato non di vincere loro, ma di far perdere il Pd.
Dall’altro alla sua sinistra, dove gli alleati del M5s si baloccavano ancora in una illusione “autonomista”, nell’idea, cioè, che se avessero fatto da soli avrebbero potuto fare meglio. Il Pd di Zingaretti, dunque, si ritrovava in campo con una linea di prospettiva (far crescere l’alleanza di governo), ma — per dirla con Goffredo Bettini — sostanzialmente si ritrovava anche solo, a difenderla, dalle tentazioni “restauratrici” dei suoi alleati.
Bastava un passo falso, dunque, e la tenaglia rischiava di chiudersi: le regionali potevano diventare il successo di chi nel M5s sognava un ritorno al tripolarismo contro i suoi stessi compagni al governo, e potevano diventare un successo di chi dentro e fuori dal PD sognava uno spostamento dell’asse a destra, ma potevano addirittura dare una doppia indicazione in queste due direzioni, premiando sia gli autonomisti grillini, sia i guastatori di Italia Viva. Invece, il segnale è stato tutto diverso: anche se abbandonato quasi ovunque dal suo alleato, il Pd ha tenuto dappertutto (con la sola eccezione delle Marche).
E anche se, come abbiamo visto, era già pronto il piano per far rientrare i renziani, ci hanno pensato gli elettori ad azzerare quella opzione politica.
Il disegno di Renzi era a geometria variabile e prevedeva tre diverse scommesse in un solo voto: 1) in alcune regioni, vedi la Puglia e la Liguria, come abbiamo visto, far perdere Emiliano e Sansa. 2) In altre regioni — vedi la Campania — essere determinanti per la vittoria. In altre 3) vedi la Toscana, mostrare i muscoli e costruire un successo vetrina da usare a livello nazionale per dire: quando giochiamo sul serio andiamo a due cifre.
È andata esattamente nel modo opposto: dove il centrosinistra perde non è certo per l’effetto di un successo di Italia viva (vedi Liguria), dove vince (vedi Campania) il partito di Renzi è poco più che un orpello che prende più o meno come una lista civica di politiconi del sud.
Dove vince a sorpresa — vedi Puglia — il povero Scalfarotto prende un risultato (1.1% la lista, 1,5% il candidato) che avrebbe esaminato con il microscopio elettronico. Dove vince respingendo il tentativo spallata di Salvini (vedi la Toscana) Italia viva rappresenta un ottavo dei voti del Pd.
Ecco perchè dopo questi verdetti politici, Zingaretti incassa la doppia sconfitta dei due progetti alternativi al suo.
Anche dentro il M5s questo voto rappresenta una dura lezione, simboleggiata dal voto sulla candidata pugliese: si diceva che sarebbe arrivata al 15-20% (e così la vittoria di Raffaele Fitto sarebbe stata matematica), e si è fermata al 10, con il suo serbatoio elettorale completamente “svuotato” da Emiliano.
Non dal voto disgiunto, su cui i dirigenti “autonomisti” avevano lanciato l’allarme, ma direttamente dal voto utile: per non non far vincere la destra — cioè — cambio anche il mio voto di lista. Era quindi, come si vede, la prova più difficile per la segreteria del Pd, il primo grande test dopo la nascita del governo giallorosso, l’ultima battaglia in difesa.
Forse si può dire che Zingaretti abbia finito ieri la sua “fase uno”. Ma adesso, forte di questi risultati, deve aprire la sua fare due.
Il che significa mettere in prima linea quelli che sono andato a votarlo fin dalle primarie, aprire alla società civile, liberarsi dai veti cadaverici delle correnti, e anche dal peso di condizionamento dei renziani che sono rimasti acquattati nella sua maggioranza, ma che erano pronti a pugnalarlo alla prima occasione. à
Adesso che ha sconfitto i nemici esterni, il leader del Pd deve usare questo risultato per passare alla sua fase due, cambiare lo stanco corpaccione, azzerare le rendite dei vecchi notabili, costruire un partito che sia più periferie, Greta e Ocasio-Cortez, e meno Ztl, Guerini, Lotti e Hillary Clinton.
(da TPI)
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Settembre 22nd, 2020 Riccardo Fucile
L’ATTACCO IN UN POST: “DOVE AVEVAMO IL 45% ABBIAMO IL 10%, DOVE AVEVAMO IL 15% ABBIAMO IL 3%, EPPUR SI RIDE
Attacco frontale di Massimo Bugani ai vertici del Movimento Cinque Stelle. In un lungo post pubblicato su Facebook all’indomani delle elezioni regionali, il consigliere comunale M5s a Bologna ed ex vice capo segreteria di Luigi Di Maio ha scritto: «Non sfugge il tracollo del M5S in ogni tornata elettorale, dalle europee del 2019 ad oggi».
Le responsabilità , secondo Bugani, sono da attribuire «a chi da allora non ha mai voluto avviare un momento di riflessione interna, non ha avuto il coraggio di convocare stati generali, non ha minimamente gestito le precedenti regionali in Calabria e in Emilia lasciando i gruppi allo sbando, non ha mai preso alcuna posizione per costruire progetti seri nei territori».
«Vedere i selfini gaudenti mentre i nostri candidati di queste regionali sono stati mandati alla carneficina mi dispiace e mi addolora», ha scritto Bugani. «In Regioni dove avevamo il 45% abbiamo il 10%, in Regioni dove avevamo il 15 abbiamo il 3%. Eppur si ride».
(da Open)
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Settembre 22nd, 2020 Riccardo Fucile
VOTI DIMEZZATI OVUNQUE
Vito Crimi e Luigi Di Maio gioiscono della vittoria del referendum, ma minimizzano sul problema che sta vivendo da qualche anno il partito/movimento
«Ad ogni tornata elettorale si parla sempre di canto funebre per il M5S» ha commentato alla Camera il deputato Vito Crimi, successore di Luigi Di Maio nel ruolo di capo politico del partito. Non solo, avrebbero dimostrato di essere il «motore del cambiamento» citando in parte lo slogan che li aveva portati al governo nel 2018. La modifica costituzionale approvata da questo referendum è senz’altro uno dei cambiamenti epocali della storia repubblicana, ma non può negare che il Movimento 5 Stelle abbia un problema: la sfiducia dei cittadini.
Il Movimento nato grazie a Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio aveva toccato il suo massimo storico durante le elezioni nazionali del 2018, quando erano ancora duri e puri. Qualcosa è cambiato poco tempo dopo, quando si resero conto di doversi «sporcare le mani» e allearsi con chi in passato definivano il male della politica del Paese: gli altri partiti. Prima con la Lega «smontata in 5 minuti» da Alessandro Di Battista, poi con il Partito Democratico definito «Partito di Bibbiano» da Luigi Di Maio.
Hanno vinto il referendum? Di sicuro insieme alla Lega e al Partito Democratico, entrambi sostenitori del «Sì» con i loro leader in prima linea.
Potrebbero dire che questi sono «saliti sul carro del vincitore», ma per un partito nato dai Meetup e radicato nel territorio attraverso Liste Civiche a 5 Stelle una sconfitta come quella subita in queste elezioni regionali dovrebbe far riflettere.
Soprattutto coloro che prima indossavano la maglietta del VDay per poi sostituirla con la giacca e cravatta (o lo smoking).
Tenendo conto dei risultati più aggiornati, ormai prossimi ad essere definitivi, in Campania, la terra del Presidente della Camera Roberto Fico, il Movimento passa dal 17% del 2015 al 10% del 2020, una caduta di 7 punti percentuali.
Nella Liguria di Beppe Grillo è andata peggio, dal 22,29% del 2015, per il candidato grillino Alice, il partito ha perso il 14,46% dei voti toccando il 7,83% nel 2020, appoggiando la coalizione di Ferruccio Sansa.
Altro duro colpo in Toscana dove dal 15% si è passati al 6,4%, perdendo oltre la metà dei voti del 2015.
L’unica alleanza con il PD — quella in Liguria — ha portato a una sconfitta, ma non è detto che nelle altre regioni avrebbero fatto di meglio appoggiando i candidati di centrosinistra.
Il Movimento 5 Stelle in questo momento dovrebbe riflettere sulla propria identità , quella che l’aveva reso forte nel 2018 sempre se non è troppo tardi. Se dovessimo fare un paragone calcistico, per gli amanti dello sport, è inutile vincere un campionato, gioire per la vittoria di una Champions League dovendo però lottare per non retrocedere.
(da Open)
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Settembre 22nd, 2020 Riccardo Fucile
LA FRECCIATA A SALVINI
“Perchè vinco? Io governo, non vado in giro a fare comizi”: non usa mezzi termini il confermatissimo presidente della Regione Veneto, Luca Zaia, nel rispondere a chi gli chiede i motivi del suo larghissimo consenso dopo le elezioni Regionali.
Zaia è stato rieletto governatore per la terza volta, sfiorando il 76 per cento dei voti: un gradimento costruito anche e soprattutto nei mesi dell’emergenza Coronavirus, durante i quali ha scalato la classifica del suo partito, la Lega, attraverso un’ottima gestione della pandemia, nettamente in contrasto con quello che succedeva poco più in là , in Lombardia. Al punto che oggi, dopo il risultato del voto nelle 7 Regioni e del referendum sul taglio di parlamentari, da più parti nel Carroccio indicano proprio in Zaia un’alternativa possibile e credibile al segretario Matteo Salvini.
C’è un dato in particolare, in Veneto, che sottolinea quanto la vittoria di Zaia sia frutto dei voti degli elettori diretti del governatore e non di quelli leghisti.
La lista civica a sostegno del presidente, infatti, ha raccolto il 46 per cento delle preferenze, contro il 16 per cento della lista della Lega, sempre in suo appoggio.
Zaia, dunque, ha quasi triplicato i voti ottenuti dal suo stesso partito in Veneto. Un consenso trasversale che gli ha fatto guadagnare posizioni all’interno del Carroccio, nonostante le smentite di sorta.
“Non ho ambizioni nazionali o partitiche — ha dichiarato infatti ieri il presidente del Veneto dopo la sua rielezione -, ho sempre fatto l’amministratore. I veneti si fidano di me perchè sto dietro alle cose concrete, non vado in giro a far comizi”. Una frase che sembra proprio una frecciatina nei confronti di Salvini, che sui comizi e sui tour elettorali fonda gran parte del suo successo politico.
Anche Lorenzo Fontana, vicesegretario federale della Lega e a capo del partito in Veneto, si è affrettato a smentire qualsiasi possibile avvicendamento alla guida del Carroccio: “Nessun dualismo tra Zaia e Salvini — ha dichiarato — e comunque la lista Zaia è espressione della Lega, gli eletti sono tutti di partito”. Su una cosa, però, Zaia e la Lega targata Salvini sembrano essere molto diversi: i toni.
“Starò qui altri cinque anni — ha detto ieri il neo-governatore — grazie a quei veneti che vivono qui da generazioni e a quelli che sono arrivati da poco e hanno un progetto di vita in questa terra. Grazie alla stampa per il lavoro fatto in questi mesi. Sarò il presidente di tutti, anche di chi non la pensa come noi”. Frasi che, forse, da Salvini non sarebbero arrivate.
(da agenzie)
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Settembre 22nd, 2020 Riccardo Fucile
IL DECLINO DEL LEADER LEGHISTA
Bacioni, Salvini. Il leader leghista continua il suo filotto di sconfitte che rivende come vittorie e esce con le ossa rotte dalle elezioni regionali.
Torniamo indietro di qualche ora: Matteo Salvini non riesce a non smargiassare e per mesi continua a urlacciare dappertutto che queste elezioni sarebbero state quelle che avrebbero “mandato a casa Conte e il suo governo” e che avrebbero dimostrato che la gente non ne poteva più del Partito Democratico e del Movimento 5 Stelle.
Rendere delle elezioni regionali come cartina di tornasole del quadro nazionale è sempre un rischio ma il leader leghista ha questa grande, invidiabile caratteristica: le sbaglia tutte.
Così nonostante i suoi soliti messaggi che solleticano i soliti stomaci (riuscire a parlare solo di migranti in occasione di elezioni locali è una banalità da fuoriclasse) Salvini riesce a uscirne male in Toscana (dove la candidata Ceccardi era una “sua” creatura) e riesce a farsi sconfiggere perfino dal legista Zaia che in Veneto con la sua lista personale prende il triplo dei voti della lista ufficiale della Lega.
Dalle parti della Lega minimizzano ma proprio in Veneto Salvini pretese che tutti gli assessori uscenti fossero capilista della lista del partito e proprio in Veneto Salvini scrisse ai 400 segretari locali del Carroccio per invitarli a votare la lista ufficiale del partito e non quella di Zaia: missione fallita, evidentemente, lo dicono i numeri.
“La lista del presidente intercetta il consenso che non va al partito”, ha detto ieri Zaia in conferenza stampa: chi ha orecchie per intendere intenda. I numeri, si sa, non mentono e i numeri dicono che i consensi della Lega sono in calo in tutti i territori e solo l’enorme ascesa di Giorgia Meloni è riuscita a tamponare una sconfitta di proporzioni maggiori.
Matteo Salvini politicamente negli ultimi 13 mesi, dal famoso pomeriggio del Papeete, è riuscito a sbagliarle tutte e se serve una fotografia di queste sue elezioni basta andare a Lesina, provincia di Foggia dove l’unico candidato sindaco era proprio un leghista: “Un sindaco pugliese lo abbiamo già eletto ancor prima del confronto elettorale”, disse Salvini il 23 agosto. Sbagliata anche questa: il candidato sindaco è riuscito nella mirabile impresa di non raggiungere nemmeno il quorum. Niente da fare.
Se, come diceva Salvini, queste elezioni sarebbero state la spallata definitiva del governo Conte e il primo passo per il suo ritorno al governo…Beh, Conte può dormire sonni tranquilli.
Bacioni, Salvini.
(da TPI)
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Settembre 22nd, 2020 Riccardo Fucile
E SALVA IL PD E CONTE
L’uomo del giorno, il “man of the match” è Michele Emiliano, l’uomo che ha vinto la partita più sofferta e più importante di queste regionali, quella giocata nelle urne pugliesi. È vero sono in tanti a cantar vittoria oggi. Zingaretti ne esce alla grande, la sua strategia ha pagato, la sua pazienza lo ha premiato e ha tenuto la barra dell’alleanza dritta nonostante insulti e minacce e ora, alla luce dei risultati, si trova ad essere il segretario del partito più forte dell’alleanza di governo.
Anche Giuseppe Conte può tirare un sospiro di sollievo, il suo governo tiene e la sua maggioranza non ha bisogno di tagliandi, il premier può continuare sereno la progettazione delle riforme necessarie ad incassare i soldi del recovery fund.
Persino Di Maio gongola, il suo partito è ormai ridotto a percentuali minime in tutta Italia ma lui ha portato a casa il suo risultato, ha vinto il referendum e ha impresso il suo nome su una riforma storica, sull’unica vera vittoria della governance populista (il reddito di cittadinanza non sopravviverà a lungo dopo questa maggioranza).
Luca Zaia ha stravinto, il Veneto lo incorona supergovernatore e la sua lista sorpassa la Lega stessa, a Napoli gli fa specchio De Luca che grazie ai lanciafiamme alle feste di laurea si conferma il decision-maker della Campania. Pure Giorgia Meloni se la ride, ha sfiorato il jackpot ma porta a casa comunque un governatore e strappato una regione alla sinistra, il sorpasso su Matteo Salvini è dietro l’angolo.
Però l’uomo della serata è Michele Emiliano perchè vince dove non era scontato, perchè si getta nel corpo a corpo con il suo avversario e lotta voto per voto, perchè ha contro anche gli alleati di governo del suo partito, perchè il Movimento Cinque Stelle e Italia Viva avevano scommesso sulla sua sconfitta e perchè a sinistra tutto sommato anche un 4-2, salvata la Toscana, era un risultato che andava bene a tutti.
Ma il governatore pugliese ha battuto la sua regione in lungo e largo senza sosta per settimane, ha scolpito dal Gargano al Salento la sua idea di Puglia nelle piazze della sua regione e alla fine ha portato a casa la partita.
Se Nicola Zingaretti ride e Giuseppe Conte può guardare oggi sereno e fiducioso al futuro del suo governo è soprattutto grazie ad un governatore che non si è dato per vinto, che non ha ascoltato chi, anche nel suo partito, gli ha chiesto di farsi da parte e che testardamente ha combattuto fino alla fine e si è riconfermato alla guida della sua regione.
(da TPI)
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Settembre 22nd, 2020 Riccardo Fucile
LUI: “MELONI O ZAIA LEADER? NON HO COMPETITOR INTERNI”… E ACCUSA LA MELONI DI AVER CANDIDATO FITTO
Che per Matteo Salvini non fosse un periodo semplice lo si era capito da tempo, ma i risultati delle elezioni regionali e del referendum sul taglio dei parlamentari dicono che il leader della Lega è il grande sconfitto di questa tornata elettorale.
Non soltanto perchè, nelle Regioni, è arrivato un inaspettato 3-3 con il Pd (per settimane Salvini ha annunciato che avrebbe vinto 7-0), ma anche e soprattutto perchè adesso la leadership del segretario leghista all’interno del centrodestra inizia a vacillare. A vantaggio di Giorgia Meloni, che continua a rosicchiare voti alla Lega grazie al successo di Francesco Acquaroli nelle Marche (dopo 50 anni di amministrazione di centrosinistra) e nonostante la sconfitta di Raffaele Fitto in Puglia.
Ma anche a vantaggio di Luca Zaia, il confermatissimo governatore del Veneto che che con la propria lista civica ha triplicato i voti della Lega e che in tanti vorrebbero come futuro leader della coalizione, proprio al posto di Salvini.
Sono proprio le redini del centrodestra quelle che il segretario della Lega rischia di perdere.
Il dissenso contro Salvini, all’interno della coalizione, inizia a essere più palese. Meloni, ieri ad Ancora per festeggiare Acquaroli, non ha fatto mistero delle proprie ambizioni personali: “Se i dati venissero confermati, potremmo dire con grande orgoglio che FdI è l’unico partito che cresce su tutto il territorio nazionale”, ha detto. Secca, a questo proposito, la replica di Salvini: “Io non ho competitor interni alla coalizione. Le leadership le decidono i cittadini, non altri a tavolino, e la Lega è il primo partito del centrodestra in tutte le regioni in cui si è votato. Mi aspettavo invece un distacco minore in Puglia”.
Ai suoi, secondo Repubblica, il leader leghista avrebbe poi aggiunto: “Ci avevano assicurato con tanto di sondaggi, nonostante le nostre perplessità su Fitto, che avremmo stravinto. È finita con una decina di punti ma per Emiliano, chi si prende la responsabilità politica di una sconfitta così?”.
Tuttavia una situazione analoga si è verificata anche in Toscana, dove la Lega aveva promesso la “spallata” al centrosinistra, trovandosi però alla fine a leccarsi le ferite per la vittoria di Eugenio Giani su Susanna Ceccardi.
La sconfitta in Toscana è quella che fa più rumore per Salvini, visto che un successo leghista avrebbe reso più accessibile il suo grande sogno: la “spallata” al Governo Conte, il ritorno alle urne e la corsa al ruolo di premier. Dopo la crisi di Governo dell’estate scorsa e le elezioni in Emilia-Romagna, per la terza volta Salvini ha fallito l’affondo definitivo.
Da oggi, l’obiettivo della Lega e di Salvini sarà quello di ricostruire il consenso perso rispetto alle ultime elezioni europee. Un compito non facilissimo, visto che il partito deve affrontare una fase difficile non solo dal punto di vista elettorale, ma anche giudiziario.
Vanno ancora chiarite, infatti, le responsabilità oggettive della Lega rispetto al comportamento dei tre commercialisti vicini al Carroccio, arrestati nell’ambito dell’inchiesta sulla Lombardia Film Commission.
(da agenzie)
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