Settembre 22nd, 2020 Riccardo Fucile
DI BATTISTA INCOLPA FICO E DI MAIO… I DUE VOGLIONO UN DIRETTORIO E UNA ALLEANZA CON IL PD… GLI STATI GENERALI SI INCENDIANO E QUALCUNO FINALMENTE DICE: “DI BATTISTA NON LO SEGUE PIU’ NESSUNO”
Le Regionali come innesco, gli Stati generali come esplosione della bomba atomica a 5Stelle.
La catastrofe sui territori si riflette direttamente nei piani alti del Movimento, dove l’effetto del voto di domenica e lunedì è quello di un “stringiamo le file intorno a Conte, dentro il governo, nei rapporti con Nicola Zingaretti”, il quale non aspettava altro. Ma questa è solo una parte del mondo pentastellato.
Ce ne è un’altra, che sbraccia, che si muove, quella dura e pura, guidata da Alessandro Di Battista, che del Pd non ne vuole sapere: “E’ la più grande sconfitta – dice – della storia M5s”.
E come da tradizione, la responsabilità della batosta è sempre di qualcun altro. I governisti guardano la Puglia: “Di Battista ha sostenuto Antonella Laricchia, è andato a fare campagna elettorale e ci siamo fermati al 10%”. Come a dire che il Dibba non è più capace di aizzare le folle come un tempo. E quindi ecco l’ex deputato combat che non resta certo in silenzio: “In Campania due anni fa alle politiche abbiamo sfiorato il 50%. E’ campano il ministro degli Esteri, il presidente della Camera, il ministro dell’Ambiente, il ministro dello Sport eppure abbiamo preso il 10%”. E’ tempo di recriminazioni. È tempo di accuse. È tempo di Stati generali che si avvicinano.
La kermesse dovrebbe dare un nuovo assetto al grillismo, una nuova guida, ma avanza anche l’ombra della scissione in un Movimento diviso tra chi vuole un’alleanza organica con i dem, si parla di campo progressista, e chi come Di Battista dice che “parlare ora di alleanze è del tutto sbagliato, sia per chi è estremamente contrario sia per chi è a favore”.
Roberto Fico, il presidente della Camera chiamato in causa, interviene ed è come se riconoscesse che ormai nel Movimento è in atto “una guerra tra bande”. Chiede che gli Stati generali siano qualcosa di più alto e vero”. E poi ancora “non c’è una guerra tra governisti e puristi”.
Involontariamente si colloca però tra i governisti: “E’ chiaro che per una forza che arriva qui nel 2013 e che tutti abbiamo definito antiestablishment, nel momento in cui entra in questi luoghi e inizia a governare delle cose cambiano, si modificano, abbiamo avuto anche le alleanze che per noi erano impensabili ma hanno portato risultati importanti come il Redito di cittadinanza, quota 100, il reddito per le pensioni dei cittadini, anche assunzioni nella scuola. Il punto fondamentale è che abbiamo dovuto modificarci e la modifica può essere non compresa”.
Un cambiamento così profondo da azzardare una suggestione un tempo impensabile per i 5 stelle “nè di destra nè di sinistra”: oggi, butta lì Fico, potrebbe “non essere più un tabù definirsi ideologici” di fronte al mondo che cambia.
La diversità di vedute è palese, così profonda che ormai è nelle dichiarazioni di tutti. Anche Luigi Di Maio, come Fico, sostiene a più riprese che bisogna rimanere ancorati nell’alveo del campo progressista, mentre i ribelli frenano.
Frenano in ogni modo. Max Bugani con un post su Facebook attacca l’ex capo politico: “Festeggiare? Abbiamo perso 8 milioni di voti”. Barbara Lezzi parla di “assoluto disastro”. Il gruppo di “Parole guerriere” chiede la fine del partito liquido per “diventare partito”.
L’unica cosa che unisce il Movimento è la necessità , espressa da tutti, da arrivare presto agli Stati generali.
Tra questi c’è Paola Taverna che – secondo quanto rivela l’Adnkronos – nella chat dei facilitatori proporne una call del gruppo per indicare i delegati regionali in vista degli Stati generali, per evitare una scelta “calata dall’alto. Saremo chiamati ad assumerci una grande responsabilità nei confronti della base”, dice Taverna, il cui attivismo viene additato da molti come segno della sua volontà di “prendersi il Movimento”.
Ma in realtà dietro alla mossa della senatrice M5S c’è anche altro. C’è anzitutto l’ assemblea congiunta dei parlamentari pentastellati fissata da Crimi per giovedì con all’ordine del giorno l’organizzazione degli Stati generali.
In quella occasione il reggente dovrebbe proporre un comitato organizzatore composto da cinque persone, espressione delle diverse sensibilità presenti nel Movimento. Non si tratterebbe, però, di big, che in questo modo resterebbero a disposizione per una seconda fase e una eventuale corsa al direttivo.
Direttivo appunto. Non più un unico capo politico, “rischierebbe di bruciarsi in questi tre anni di governo”.
Si parla piuttosto di un organo collegiale che tenga siamo le varie anime del Movimento. Roberto Fico, che già ha fatto parte di un direttorio, non si tira indietro: “In segreteria collegiale? Sono sempre disposto a dare un aiuto e una mano al M5s. Tendo a privilegiare l’idea di un organo collegiale. Il punto non è capo politico-organo collegiale ma è ritrovare una forza interna che deriva dalla partecipazione e dal confronto”, dice Fico ultimamente sempre più vicino a Di Maio, apprezzando non poco la svolta iper filogovernativa dell’ex capo politico.
E Di Battista? “Non lo segue più nessuno”, dicono i suoi detrattori nei corridoi di Montecitorio. Proprio mentre l’ex deputato affila i coltelli per la battaglia.
(da “Huffingtonpost”)
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Settembre 22nd, 2020 Riccardo Fucile
IL PREMIER NON ABBANDONA IL RINVIO COME METODO
Ecco, la fase è cambiata, perchè il voto, amministrativo, locale, anche se “non si vota sul governo” è sempre, inevitabilmente un voto politico.
Basta vederli e sentirli per capire il punto.
Nicola Zingaretti, visibilmente sollevato, poco dopo le cinque, in conferenza stampa, traduce in linea, si sarebbe detto una volta, la spinta che arriva dalle urne. Anche il lessico è rinfrescato. Parla di “nuova agenda”, innovazione semantica rispetto a quando andava di moda il “tagliando” e la “verifica”, di un “patto per le riforme” e di un “cantiere per rinnovare il Pd”.
Nuova agenda consiste, innanzitutto, nel mettere un punto fermo sulle grandi incompiute di questi mesi, i decreti sicurezza (già scritti nell’accordo di governo e sempre rinviati), da portare “al primo cdm utile” e il Mes, su cui chiede, quasi dandolo per scontato, al ministro Speranza di preparare i progetti.
Qualche decina di minuti dopo, al termine di un intervento, il presidente del Consiglio, anche lui visibilmente sollevato, mostra disponibilità alla prima sollecitazione, sia pur con cautela e senza avvertirne troppo l’urgenza, ricorrendo al classico repertorio dell’“approfondiremo”, ma comunque lo dice, “li porteremo al più presto al cdm”, parole nelle quali non c’è una scadenza e resta il margine per una dilatazione temporale.
Mentre sulla seconda richiesta, che impatta in maniera più traumatica sulla crisi dei Cinque stelle, ci risiamo. La “nuova agenda” di palazzo Chigi assomiglia alla vecchia, fondata sul rinvio come metodo: vedremo, valuteremo, “non mi pronuncio” nè con un sì nè con un no.
Ecco, la fase nuova è questo, adesso che è archiviato il tema del “se dura” e l’inscalfibile orizzonte temporale del governo e della legislatura è fissato al 2023. Il tema è il “chi e come guida”. Insomma, ricorrendo a un termine antico, l’egemonia. C’è, in questa istantanea di giornata una diversa interpretazione del voto.
Quella classica del segretario del Pd, che vede nel risultato le ragioni di una nuova e più incisiva iniziativa del suo partito, rappresentante di istanze a cui dare sbocco politico e motore di una coalizione da ricostruire.
Quella del premier — ora va di moda il termine “post ideologico” – che vede nel risultato dei governatori lo specchio della sua personalizzazione, di una tendenza già presente nella politica italiana che il Covid ha portato al parossismo.
È il protagonista che conta si chiami Conte o Zaia, Toti, Emiliano o De Luca, che non affida il suo destino al sistema dei partiti che lo sostengono, anzi che quel sistema lo considera più un impiccio che una risorsa.
Proprio le dichiarazioni dei neo governatori sono, in tal senso, esempi da manuale della nuova politica. De Luca, il cui elettorato solo per un quinto aveva votato Pd alle Europee, che si definisce “oltre la destra e la sinistra”.
Emiliano che ringrazia la “marea di leghisti” che l’ha votato, annuncia che difenderà Conte “con le unghie e con i denti”. In sintesi, la personalizzazione ai tempi del Covid, in cui la gente ha votato per la stabilità e per le figure che hanno gestito l’emergenza.
La nuova fase è tutta qui, nel rapporto tra il “governatore dei governatori” e i partiti, in cui il primo teme che, accettando lo schema della coalizione, può restare impaludato, non tanto per le garbate richieste del Pd, poste senza diktat, ricatti e minacce, quanto piuttosto perchè conosce la portata della destabilizzazione insita nella deflagrazione dei Cinque stelle.
Perchè è chiaro quel sta accadendo nel Movimento dilaniato tra un gruppone governista, con i suoi confliggenti protagonismi tra Fico e Di Maio e il gruppo identitario e diciamo così, autonomista di Alessandro Di Battista, magari meno forte in Parlamento ma che nel paese intercetta un sentimento diffuso nella misura in cui chi ha votato Cinque stelle, a questo giro, è proprio chi non vuole l’accordo nel Pd. Parliamoci chiaro: il Movimento di una volta, passata la riforma costituzionale, avrebbe chiesto lo scioglimento del Parlamento il minuto dopo, al grido di “mandiamo a casa gli abusivi”. Questo Movimento sa che, in questa eventualità rimarrebbe vittima delle proprie macchinazioni. Il rinvio dei dossier che questa deflagrazione possono renderla ingovernabile è, appunto, un modo per starne fuori e al riparo, col rischio che il nuovo film assomigli al vecchio.
(da “Huffingtonpost”)
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Settembre 22nd, 2020 Riccardo Fucile
CHI NEGA ACCOGLIENZA SI DEVE IMPEGNARE SUI RIMPATRI ENTRO 8 MESI O SCATTA L’OBBLIGO… VISEGRAD CONTRO COME SEMPRE
La solidarietà europea deve essere obbligatoria in materia di migranti, recita la cornice generale della proposta della Commissione europea sull’immigrazione. Ma non al cento per cento, si capisce leggendo le bozze.
Secondo le anticipazioni ottenute da Huffpost, è questa la sostanza dell’articolato pacchetto voluto dalla presidente Ursula von der Leyen.
Atteso dalla primavera scorsa, rimandato per via della pandemia, il piano verrà presentato domani dai commissari Margaritis Schinas e Ylva Johansson. Ma anche questa volta sarà possibile sfuggire al dovere di accoglienza. E anche questa volta il piano rischia di venire bloccato in Consiglio europeo: Visegrad e Austria sono sulle barricate.
In sostanza, funzionerà così: uno Stato membro potrà scegliere metodi alternativi all’accoglienza dei migranti che affollano in prevalenza le coste italiane e greche.
Potrà cioè impegnarsi a rimpatriare coloro che non hanno diritto a restare in Europa, i migranti economici.
Ma, secondo il piano von der Leyen, dovrà farlo entro 8 mesi, che si riducono a 4 in caso di nuove massicce ondate migratorie.
Se non ci riesce, è obbligato a prendersi la quota interessata al mancato rimpatrio.
Il punto è che durante questi 8 (o 4) mesi, le persone interessate alla procedura restano nel paese di primo approdo.
Ed è questo il problema, dal punto di vista del governo di Roma.
L’anno scorso, l’accordo stipulato a Malta insieme a Francia e Germania, prevedeva che i migranti da rimpatriare fossero intanto trasferiti nei paesi disponibili a occuparsi delle procedure di rientro nei paesi d’origine. Non sarà così.
Questo principio che a Roma ritenevano ormai assodato non è contemplato nel nuovo piano della Commissione, che si propone di emendare — e non cancellare — il regolamento di Dublino, testo che obbliga i paesi di primo approdo a prendersi la responsabilità di esaminare le richieste di asilo.
Nota positiva per l’Italia: il governo ha chiesto e ottenuto il riconoscimento della specificità delle frontiere marittime.
D’ora in poi, chi arriva nelle aree ‘Search and rescue’ (Sar) rientrerà in una categoria speciale della banca dati europea ‘Eurodat’ e dovrebbe avere una corsia preferenziale per rimpatri o ricollocamenti in altri paesi europei.
Ecco, ma ancora una volta il piano di Palazzo Berlaymont non prevede alcun obbligo di accoglienza in senso puro, nessuna condizionalità di tipo sanzionatorio o economico che induca i paesi membri a partecipare attivamente alla redistribuzione.
Esattamente come il piano Juncker del 2015, affossato dai paesi dell’est Europa in primis e gli altri al seguito tranne la Germania. Un destino che potrebbe toccare anche alla proposta von der Leyen.
Perchè, nonostante le concessioni fatte, i paesi del blocco di Visegrad e l’Austria sono sul piede di guerra: contrari al pacchetto della Commissione europea, pronti a bloccarlo in Consiglio europeo. Non a caso, da Bruxelles hanno avvertito Roma. Della serie: il piano von der Leyen è il massimo che si possa ottenere. E non è nemmeno detto che passi, anzi.
Con l’amaro in bocca, l’Italia si prepara ad un lungo negoziato sperando nella volontà di mediazione di Angela Merkel, anche se la presidenza tedesca sta volgendo al termine.
Nel prossimo semestre, a partire da gennaio, il timone dell’Ue passerà al Portogallo, non proprio un paese grande e forte in grado di reggere le pressioni degli Stati membri su un fronte così delicato come l’immigrazione.
Giuseppe Conte intanto approfitta dell’effetto stabilizzatore che la tornata elettorale ha avuto sul governo e rilancia: “Questo governo sa lavorare, per cui ha lavorato molto col governo tunisino, rispettandone prerogative e sensibilità , ma rinforzando il piano dei rimpatri. Ci sarà una sorpresa: un piano di rimpatri più efficace ed efficiente e contiamo di partire molto presto per intensificarli”.
Sia lui che il segretario del Pd Nicola Zingaretti annunciano che il prossimo consiglio dei ministri discuterà di come superare le leggi sulla sicurezza volute da Matteo Salvini quando governava con Conte e i cinquestelle. Ma intanto il fronte di ‘guerra’ sta a Bruxelles: da domani si combatte con l’est e l’Austria e i paesi più restii ad accogliere. Come sempre.
(da “Huffingtonpost”)
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Settembre 22nd, 2020 Riccardo Fucile
SALVINI E MELONI NON HANNO UNA ROTTA E SI RINFACCIANO LA SCONFITTA AL SUD
La beffa oltre il danno arriva a Lesina, nel Foggiano, dove il leghista candidato unico non riesce a essere eletto sindaco per mancanza di quorum. Al netto della puntigliosa elencazione di Comuni conquistati, da Attigliano a Parabiago, e dei 24 consiglieri in più rispetto al 2015, il day after della Lega, e a ricasco di tutto il centrodestra, è pieno di cicatrici.
Matteo Salvini veste i panni dell’allenatore che ha spronato la squadra a vincere i Mondiali, e quando il gioco si fa duro i duri entrano in campo, ed è la linea che passa da via Bellerio fino alle sedi locali.
“Come fa a essere in crisi la leadership del capo del primo partito del centrodestra ? – si domanda retoricamente Riccardo Molinari, capogruppo a Montecitorio
Peccato che sui canali non ufficiali vada in scena un altro film. In cui il dopo-Salvini, sia pure diluito nei prossimi tre anni di legislatura, è già cominciato.
E della lunga traversata nel deserto, spaventa tutto.
“Matteo non ne imbrocca una — è il lamento di alcuni meloniani molto impegnati sul territorio — Ormai è diventato una zavorra”.
Fino al requiem finale, che più d’uno pronuncia: “A Palazzo Chigi non ce lo vedo”. La situazione è bruscamente cambiata. Al punto che l’ex Guardasigilli leghista di rito bossiano, Roberto Castelli, applaude Zaia, per il rilancio dei temi nordisti, e punzecchia Salvini: “Sì, primo partito, ma la Lega perde dieci punti dalle scorse Europee…”.
La ”questione meridionale”, che ieri sembrava poco più di uno sfogo a urne calde, rischia di creare la prima vera frattura tra il Capitano e Giorgia Meloni.
Una ricerca reciproca del capro espiatorio. Salvini tuona: “Serve un ripensamento dell’offerta laggiù”. Claudio Borghi, economista del Carroccio, nega qualsiasi sospetto di crisi del leader: “Siamo l’unico partito che cresce dappertutto. Lo dice anche Fdi? Bene, ma dipende da quanti seggi si prendono. Se devo rimproverare qualcosa, oltre al fatto che la campagna “motivazionale” se poi perdi da qualche parte ha effetti collaterali, è la scelta dei candidati al Sud. Se mandi un messaggio rivoluzionario e di rinnovamento e poi sei “costretto” ad appoggiare candidati non proprio innovativi annacqui il messaggio e danneggi l’immagine del partito”.
I “cugini” di FdI la pensano esattamente all’opposto: la Lega al Sud non ha sfondato da sola, sfiorando appena le due cifre, e non si è spesa per Stefano Caldoro in Campania e Raffaele Fitto in Puglia.
Non ha giocato di squadra, non ha teso la mano. Una sconfitta costata alla Meloni una battuta d’arresto, che fa schiumare rabbia ai suoi. Anche dentro Forza Italia l’umore non è alle stelle: “Il Sud, dove l’elettorato è più “mobile”, si conferma il nostro punto dolente. Dopo lo tsunami dei Cinquestelle, il Pd è stato più pronto del centrodestra. Noi non siamo riusciti a intercettare proprio niente”.
Il giorno dopo le Regionali, la Lega è comprensibilmente sotto choc. Dopo Lucia Borgonzoni in Emilia, anche la “pupilla” toscana Susanna Ceccardi, ha fatto una brutta fine (politica).
Da giovane promessa a rottamata nello spazio di una campagna elettorale. Con la destra sfavorita al ballottaggio persino nel comune di Cascina di cui è stata sindaco: “Eletta nel 2016, entrata nello staff del leader nel 2018, candidata alle Europee nel 2019, a governatrice nel 2020 — sciorina il candidato di centrosinistra Michelangelo Betti – Forse gli elettori preferiscono un modello più affidabile di continuità amministrativa…”.
Salvini sembra aver perso il suo tocco magico. Peggio: essersi trasformato in un Re Mida al contrario.
Edoardo Rixi, uno tra i primi a chiedere le elezioni anticipate prima che sparissero dall’ordine del giorno, argomenta: “Non c’è una crisi di leadership all’orizzonte, solo dibattito interno. Vanno riviste le tattiche elettorali, discutere fa sempre bene”.
Già , perchè è vero che senza un congresso — al momento nell’iperuranio – il segretario è inamovibile. Ma qual è la strategia per il lungo tragitto all’opposizione che il centrodestra — salvo sorprese – ha di fronte? Qualcosa cambierà ? “Ne discuteremo” replica sintetico Molinari.
Altri, tra gli alleati, sono meno ottimisti: “Non esiste strategia. Non c’è un piano B. Con Matteo è impossibile ragionare a medio o lungo termine. Non gli interessa e non manterrebbe la parola…”. Allora, si va avanti alla giornata. Provando almeno ad aprire il cantiere.
La prima novità — che a destra non vogliono sprecare — è il fronte dei governatori. Gli “sceriffi del Covid” che hanno stra-convinto i loro elettori: Luca Zaia e Giovanni Toti. Il governatore ligure rieletto con il 56%, venti punti in più della volta scorsa, per Salvini non è certo un nemico. Per anni è stato la “cerniera” tra Lega e Forza Italia. Adesso spinge sul tasto dell’autonomia, incassa gli auguri di Meloni e Berlusconi, rilancia una sua vecchia idea: “Serve una federazione che allarghi il centrodestra oltre l’area sovranista”. Traduzione: recuperare i moderati.
Un pensiero a cui molti parlamentari di Forza Italia, prossimi alla disperazione, sono pronti a credere. Ma anche un’insidia per il Capitano che non ha mai amato la collegialità . E conosce il trucco delle “cabine di regia”.
“Peccato — ride un parlamentare di centrodestra. A Salvini basterebbe una frase per risolvere tutti i suoi problemi. Dire: io sono il segretario e Luca sarà il prossimo candidato premier”.
(da “Huffingtonpost”)
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Settembre 22nd, 2020 Riccardo Fucile
LA LORO RIVALITA’ SCATENA UNA DERIVA ESTREMISTA CHE METTE IN FUGA I POCHI LIBERALI SOPRAVVISUTI A DESTRA… “URLARE FORA I NEGHER NON BASTA PIU'”
Diamo tempo a Salvini di capire cos’è successo, di riassorbire il colpo e riordinare le idee dopo la prima mancata vittoria della carriera. A caldo se l’è presa con le «vecchie facce» dei candidati al Sud, come se il fiasco fosse colpa dei Fitto o dei Caldoro e di chi glieli ha messi sul piatto (leggi Meloni e Berlusconi); ma tra qualche giorno, non appena sarà sbollita la delusione e riuscirà a leggere i risultati con più giudizio, Matteo vedrà che in fondo non ha fatto scintille nemmeno la sua candidata in Toscana.
Si accorgerà che la Lega è arretrata ovunque rispetto al trionfo delle scorse elezioni europee. E magari prenderà atto che nelle Regionali hanno pesato fattori su cui è inutile giocare allo scaricabarile con gli alleati del centrodestra.
Anzitutto, ha influito il Covid: tutti i governatori uscenti ne sono stati aiutati. Nemmeno Mandrake avrebbe sconfitto De Luca in Campania o Emiliano in Puglia, proprio come nessuno di sinistra avrebbe potuto battere Toti in Liguria e Zaia in Veneto. Erano partite perse in partenza.
Ma Salvini si è dato la zappa sui piedi annunciando un sette a zero che forse poteva riuscirgli un anno fa, adesso non più. Lo dice pure l’Ecclesiaste: «Per tutto c’è il suo momento, un tempo per ogni cosa sotto cielo». Le Regionali sono arrivate troppo tardi.
Lo stesso vale per il governo: finchè dura l’epidemia, e purtroppo non sarà breve, qualunque tentativo di spallata è destinata a infrangersi contro un muro. C’è l’ossessione del virus che ha trasformato in gregge filo-governativo un popolo di anarco-individualisti. Ci sono 209 miliardi europei da distribuire sotto forma di aiuti, bonus, mance e sussidi: alzi la mano chi non spera di guadagnarci qualcosa.
Prevale la voglia di tirare a campare che, come avvertiva il cinico Andreotti, è sempre meglio di tirare le cuoia. Conte incarna ciò che passa oggi il convento, che nella mediocrità nazionale corrisponde al meglio dei premier possibili; difatti nei sondaggi supera tutti e perfino papa Francesco.
È saldo al potere, blindato da una maggioranza che, specie dopo il taglio di deputati e senatori, avrà come unico scopo resistere, resistere, resistere sulle poltrone fino alle prossime elezioni nel 2023. Difficile immaginare mossa più inutile, per non dire peggio, dell’intimazione leghista a Mattarella perchè ci rimandi alle urne. Perfino i sassi sanno che il presidente non lo farebbe mai.
In sintesi: Conte ce lo terremo; e se per qualche incidente di percorso dovesse cadere, al posto suo ne arriverebbe un altro simile a lui.
Ma nel frattempo, cosa farà Salvini? Come impiegherà i prossimi 30 mesi, in attesa che il Parlamento vada a scadenza? Da un personaggio che dà il meglio nei tweet, nei comizi, nei bagni di folla e nelle bicchierate di partito, è difficile aspettarsi qualcosa di diverso da una campagna elettorale permanente.
Probabilmente raddoppierà gli sforzi e la propaganda, come se nulla fosse accaduto. Eppure, volendo, avrebbe tante altre cose cui dedicarsi. Una gliel’ha suggerita Toti, con amicizia e rispetto: potrebbe provare a diventare il leader del centrodestra. Per adesso Salvini comanda la Lega ma non Forza Italia, tantomeno i Fratelli d’Italia. Nonostante il berretto di Capitano, deve vedersela con la Meloni che non prende ordini da nessuno e pure alle Regionali gli ha mangiato nel piatto.
Continuando così si faranno male entrambi; e comunque la loro rivalità , che si traduce nel giocare d’anticipo, nel fare sempre «più uno» perfino quando non serve, scatena una deriva estremistica che mette in fuga i pochi liberali sopravvissuti a destra.
Matteo e Giorgia dovrebbero inventarsi qualcosa. Patto di non belligeranza, federazione, partito unico: le formule sono mille, vedano loro quella più adatta. Hanno due anni e mezzo per trovarla.
Dovrebbero profittarne pure per aggiornare il programma. Gridare «fòra i nègher, delinquenti in galera e l’Azzolina a casa» è venuto a noia alla gente, non appaga più quest’Italia in bolletta dove le priorità sono diventate altre per le famiglie e le imprese. Invece del populismo vociante, servirebbe un po’ di rigore al servizio del Paese.
Ci vorrebbe un piano da destra, ma da destra storica, contro le mangiatoie di Stato, contro le mani bucate, contro le fughe in avanti, contro i tentativi (eccome se ci saranno) di creare consenso con i quattrini del Recovery Fund.
Nei mesi e anni a venire Salvini potrà svoltare in politica estera e riqualificarsi agli occhi della prossima amministrazione Usa dove lo considerano un troll di Putin. Idem l’Europa: col tempo e coi comportamenti giusti potrà farsi qualche nemico in meno. Ma soprattutto, se nel 2023 vorrà battere una sinistra tornata competitiva, dovrà cambiare il messaggio politico, tararlo su sogni e speranze anzichè solo su incubi e rabbie. Potrà far dimenticare il negazionismo sul Covid, nascondere in tasca quel rosario ostentato come una provocazione, allargare la cerchia dei consiglieri, dar retta a qualche voce moderata e di buon senso. Lo dice il solito Qohèlet nel Vecchio Testamento: «Tempo di piantare, tempo di sradicare; tempo di gettare, tempo di raccogliere; tempo di piangere, tempo di ridere».
E se Salvini rifiutasse di fermarsi per un «pit stop», insistendo su comizi e propaganda? Potrà emergere nel centrodestra una classe di amministratori locali che sta dando prova di equilibrio, competenza e sano pragmatismo. Due anni e mezzo rappresentano un’occasione pure per loro.
(da “Huffingtonpost”)
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Settembre 22nd, 2020 Riccardo Fucile
ELETTORI M5S E LEGA VOTANO DE LUCA, GIANI VINCE IN TOSCANA ANCHE GRAZIE AI GRILLINI…. “LA LEGA HA UN PROBLEMA AL SUD”
È stata una elezione vinta dai singoli candidati alla presidenza perchè capaci di attrarre i voti decisivi fuori dai bacini tradizionali dei partiti che li sostenevano. Eugenio Giani in Toscana, Michele Emiliano in Puglia, Vincenzo De Luca in Campania, Giovanni Toti in Liguria, Luca Zaia in Veneto, tutti leggono il proprio nome in cima alla lista dei ringraziamenti per la vittoria appena conseguita.
Per alcuni è stata una passeggiata di salute, per altri una camminata sulle uova, poco importa.
Secondo l’analisi dei flussi dell’Istituto Cattaneo il dato emblematico di queste elezioni arriva dalla capacità di attrazione delle singole figure candidate, sebbene siano i partiti che li esprimevano più o meno convintamente a sfruttare ora gli esiti regionali per i propri tornaconti a livello nazionale.
“Sono tutte vittorie personali”, dice Marco Valbruzzi, ricercatore dell’istituto bolognese. “In Toscana Giani ha allargato il campo elettorale ben oltre quello definito dai partiti della sua coalizione”. Ciò vuol dire che ha pescato non solo tra Pd, Italia Viva e le altre liste del centrosinistra, ma anche dal Movimento 5 Stelle. “Circa il 40% di chi ha votato M5S alle Europee del 2019 lo ha sostenuto con il suo voto. Così come si è visto arrivare anche un sostegno dai moderati di Forza Italia, che hanno preferito Giani alla leghista Ceccardi”. Aspetti singolari, ma non i più eclatanti.
In Campania, per dire, “l’odiato” De Luca ha beneficiato di un consistente aiuto da parte proprio dei grillini, sebbene avessero in Valeria Ciarambino una valida e conosciuta candidata.
Circa il 70% degli elettori M5S di un anno fa si è spostata sull’ex sindaco di Salerno. Stessa tendenza si vede per il 50% di chi ha sostenuto il Carroccio alle Europee, che ha preferito tuttavia il presidente uscente al moderato forzista Stefano Caldoro. “De Luca, così come Zaia in Veneto e Toti in Liguria, è riuscito ad allargare di molto il bacino elettorale delineato dai partiti che lo sostenevano. Il merito della sua schiacciante vittoria è quindi dovuto alla sua figura personale, più che all’apporto ricevuto dalla sua coalizione”, continua Valbruzzi.
Certo, il Pd è uscito rafforzato dalle urne. La ragione sta nella “rimobilitazione dell’elettorato dem”, spiega il ricercatore del Cattaneo. “Chi si era astenuto alle Europee questa volta si è recato alle urne, e chi già ci era andato ha confermato la sua preferenza per il Partito Democratico”.
Per quanto riguarda il principale partito di sinistra, quindi, il contributo alla vittoria non è mancato ma ad averne definita la misura è stata la qualità delle candidature e la loro capacità di attrarre voti fuori dai tradizionali confini.
Discorso inverso per la Lega, alle prese se non con una sconfitta certamente con una “battuta d’arresto” e soprattutto con “un problema di classe dirigente nel Centro Sud”, dice Valbruzzi.
Tranne l’Umbria, in queste regioni infatti il Carroccio non sfonda oltre il proprio elettorato e anzi ne cede una parte all’alleato Fratelli d’Italia.
Giorgia Meloni cresce dappertutto, raddoppia complessivamente i consensi nelle sei regioni e scalza Matteo Salvini come figura di primo piano del centrodestra.
Al Nord non va tanto meglio, visto che la vittoria bulgara di Zaia in Veneto mette in ombra proprio il leader della Lega – unico vero ma non dichiarato avversario – “uscito non sconfitto ma certamente ammaccato da questa competizione, sia all’interno del partito, sia all’interno della coalizione”, aggiunge Valbruzzi.
Chi ha perso queste elezioni è il Movimento 5 Stelle, i cui elettori sono stati quelli davvero determinanti per le vittorie altrui, e nella fattispecie quelle molto sofferte del centrosinistra.
Della Toscana si è già detto, in Puglia il 20% dei grillini ha sostenuto Emiliano senza neanche passare dal voto disgiunto. La scelta di allearsi al Pd in Liguria convergendo sul nome di Ferruccio Sansa non è riuscita a scalfire la forza attrattiva di Toti, secondo il Cattaneo. Mentre quella di non allearsi nelle Marche ha forse aperto la strada alla vittoria di Acquaroli, candidato di Fratelli d’Italia che ha strappato per la prima volta l’ormai ex regione rossa alla sinistra. “Qui fose se Pd e M5S avessero corso insieme, forse l’esito del voto sarebbe stato diverso”.
La sconfitta diventa fallimento quando si parla di Italia Viva. Il voto ci dice che il partito di Matteo Renzi oggi non avrebbe nemmeno diritto di tribuna in Parlamento e difficilmente riuscirebbe a superare una soglia di sbarramento al 3%. “Con tutta probabilità sarebbe fuori dai giochi, ragione per cui queste elezioni restringono di molto i margini d’azione dei renziani nella maggioranza di Governo”, spiega Valbruzzi. Insomma, se in futuro ci saranno reali minacce per la tenuta dell’esecutivo Conte, è lecito scommettere non arriveranno dai banchi di Italia Viva.
(da “Huffingtonpost”)
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Settembre 22nd, 2020 Riccardo Fucile
EMILIANO HA RECUPERATO IL 40% DEL NON-VOTO DEL 2019, DE LUCA E GIANI IL 25%… IL GOVERNATORE PUGLIESE HA PORTATO VIA AL CENTRODESTRA IL 66% DEI VOTI DEL 2019
Vincenzo De Luca vince in Campania anche perchè recupera i voti del 45 per cento di quelli che si erano astenuti alle Europee. Inoltre “ruba” il 25 per cento di quelli che erano andati al centrodestra e il 18 per cento del bottino del Movimento Cinque Stelle. La Swg è andata a scavare nei movimenti elettorali delle regionali rispetto al dato del voto europeo del 2019.
L’analisi dell’istituto di ricerca rivela un movimento analogo anche il Puglia, dove ha vinto il dem Michele Emiliano. Il governatore uscente, che i sondaggi davano in grossa difficoltà , ha invece vinto facile grazie ad un recupero del 40 per cento degli astenuti dell’anno scorso e alla capacità di strappare ben il 66 per cento di elettori al centrodestra. In pratica due elettori su tre che nel 2019 avevano votato Salvini, Meloni e Berlusconi, ha cambiato barricata.
n Toscana, il candidato del centrosinistra Eugenio Giani vince perchè porta a casa il 68 per cento dei voti che nel 2019 erano andati al suo schieramento, recuperando il 25 per cento dell’astensione.
Prende invece molto poco ai grillini, solo il 4 per cento, agli altri partiti il 2 per cento, e solo l’1 per cento al centrodestra.
Ceccardi riesce nell’impresa di fare meglio di Giani rispetto al bacino elettorale del 2019: conferma ben il 79 per cento dei voti del centrodestra. Ma lì si ferma perchè strappa solo il 4 per cento ai grillini e il 3 per cento al Pd. E dall’astensione recupera solo il 14 per cento.
Questo trend che vede il Pd recuperare voti dall’area dell’astensione alle Europee si conferma anche nelle Marche, dove Maurizio Mangialardi, candidato del Pd uscito sconfitto, intercetta il voto del 29 per cento di chi si era astenuto nel 2019, e il 12 per cento di di elettori 5S.
Secondo la Swg, il Pd ottiene attraverso il recupero del non-voto del 2019 il 25 per cento dei suoi consensi nelle Marche. Percorso inverso fanno i voti della Lega: il 32 per cento va a finire nel calderone delle astensioni. Francesco Acquaroli, candidato del centrodestra risultato vincente, riporta invece a casa il 78 per cento dei voti europei del centrodestra.
In Liguria sulla provenienza dei voti assegnati a Giovanni Toti, governatore riconfermato per il centrodestra, si fa notare come un terzo dei voti ricevuti è extra centrodestra: il 56 per cento, infatti aveva votato per il centrosinistra alle Europee. E quasi la metà dei consensi viene da Lega e Forza Italia per un totale del 79%. Riguardo ai Cinque stelle, solo un quarto degli elettori di un anno fa ha confermato il voto.
In Veneto il super vincitore Luca Zaia Zaia raccoglie tutti i voti del centrodestra e una quota di astenuti, rispettivamente il 76 per cento e il 16 per cento. Percentuali molto simili per la lista Zaia. Riguardo al Pd, la metà dei suoi voti si perde tra l’astensione (39 per cento) e la Lista Zaia.
(da “La Repubblica”)
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Settembre 22nd, 2020 Riccardo Fucile
PROBABILE ALLEANZA TRA AUTONOMISTI E PROGRESSISTI… FORZA ITALIA E FDI UNITE RESTANO FUORI DAL CONSIGLIO REGIONALE
Quella della Lega in Val D’Aosta potrebbe essere l’ennesima vittoria di Pirro di questa tornata delle elezioni amministrative a livello regionale.
Nel territorio alpino, infatti, le elezioni non seguono il criterio maggioritario, ma si basano esclusivamente su un voto proporzionale, con il presidente della regione che verrà scelto in seguito ad accordi interni alle forze che comporranno il parlamentino valdostano.
E la Lega, nonostante sia il primo partito in regione, in virtù di questo principio potrebbe finire all’opposizione.
La Lega che alle Europee un anno fa aveva preso il 37,2% è scesa infatti al 23% e per governare da sola non bastano
L’ago della bilancia è formato, in questo caso, dall’Union Valdotaine. Il tradizionale partito valdostano, infatti, ha ottenuto il 15% dei consensi, pareggiando quelli della vera sorpresa di questa tornata elettorale: la coalizione progressista, che al suo interno conta anche la componente del Partito Democratico, ha raggiunto la stessa percentuale del partito valdostano, proponendosi come possibile partner di governo.
Del resto sembra essere questa la posizione di Erik Lavevaz, il presidente dell’Union Valdotaine, che sembra escludere, subito dopo la comunicazione dei dati, una alleanza con la Lega: «Parleremo con tutti — ha detto Lavevaz -, ma in questo momento l’Union Valdotaine e la Lega sono su posizioni alternative. Il nostro congresso ha indicato come linea di cercare coalizioni sui Comuni e sulla Regione con gli autonomisti in contrapposizione con populisti e sovranisti»
Molto probabile, dunque, che lo schieramento di governo possa escludere la componente leghista, nonostante l’incremento dei consiglieri regionali che, verosimilmente, finiranno all’opposizione.
Insomma, questo pareggio per 3-3 alle regionali potrebbe addirittura finire in svantaggio al Golden gol per la Lega. L’esito delle elezioni in Val D’Aosta, infatti, potrebbe segnare l’ingresso del Partito Democratico e del centrosinistra al governo di un’altra regione: a quel punto sarebbe più un 4-3 per i progressisti contro i sovranisti di Matteo Salvini.
Mentre il M5S cade nel crepaccio e non va neppure in consiglio, così come Forza Italia e Fdi (uniti) il voto valdostano dimostra che le care e vecchie coalizioni più o meno trasversali riempiono il granaio. L’autonomia, per decenni al potere prima di una specie di suicidio politico e della pioggia di scandali, è in teoria il primo partito: contando, e non pesando.
Poi, senza accordo si tornerebbe al voto, ma vedrete che questi fantini un modo per intendersi lo troveranno. Compresi i cavalli scossi.
(da agenzie)
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Settembre 22nd, 2020 Riccardo Fucile
DA “VORREI SOLO PRENDERE IL TRENO” AL CONSIGLIO REGIONALE
In fondo lui voleva solo prendere il treno. Con oltre 11mila preferenze Iacopo Melio è il candidato più votato del collegio di Firenze in queste elezioni regionali.
E uno dei più votati in tutta la Toscana. Iacopo, capolista Pd, ha annunciato la sua candidatura alla fine di luglio, con una lettera. «Dopo essermi preso del tempo per riflettere con attenzione, ho deciso adesso di accettare quest’ultimo invito a provare a portare nelle Istituzioni le idee e i valori che da sempre promuovo insieme a voi», scriveva.
Il voi a cui si riferisce sono gli utenti che lo seguono sui social, oltre 650 mila follower solo su Facebook. Un influencer, si potrebbe dire. O meglio un ragazzo con una disabilità che è riuscito a raccontare le difficoltà che vive ogni giorno facendo appassionare anche chi non ha nemmeno idea di cosa voglia dire vivere su una sedia a rotelle.
Come abbiamo raccontato su Open, dalla sua storia è nata l’associazione Vorrei prendere il treno, impegnata per abbattere le barriere architettoniche. Nel 2019 la sua storia è stata celebrata anche da Sergio Mattarella, con la nomina a Cavaliere della Repubblica.
«Un segnale con una gentilezza prepotente»
Iacopo non ha potuto fare campagna elettorale. Non un comizio, una cena e tantomeno una stretta di mano. Per lui il Coronavirus è una minaccia seria.
Nella sua quarantena lunga sette mesi è uscito solo una volta, per votare. E oggi, finita la conta delle preferenze, è proprio a chi come lui è andato ai seggi che dedica un post: «In tanti, da tutta Italia, mi avete chiesto in questi anni di rappresentare un “cambiamento”, dando un segnale che scuotesse i cuori e le teste di chi aspetta di ritrovare l’entusiasmo perduto. Quel segnale è arrivato stanotte, con una gentilezza prepotente, facendosi spazio a testa alta».
In questi giorni frenetici non ha rilasciato interviste. Da ora comincerà a parlare, spiegando come pensa al suo futuro in regione, anche se ha già chiarito che le sue attenzioni non saranno rivolte solamente ai disabili ma a tutta la comunità . Ma ora un po’ di pausa, prima di iniziare il mandato: «E allora crediamoci in questo nuovo sogno chiamato “cambiamento”, che oggi è il primo passo e migliore non poteva essere».
(da Open)
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