Settembre 21st, 2020 Riccardo Fucile
IL GOVERNO ESCE STABILIZZATO, ZINGARETTI VINCE, I SOVRANISTI FALLISCONO L’ASSALTO AL CIELO, M5S COPRE A STENTO LA CRISI D’IDENTITA’
Non sarà la “rivoluzione d’ottobre”, al netto di toni comprensibilmente enfatici, ma il “pareggio” vale una vittoria, politica, per l’evidente valore del voto, per gli spettri che ha fugato, per il significato che i sovranisti avevano attribuito alla consultazione, come prodromica alla “spallata”. Per l’effetto di stabilizzazione del governo e del quadro politico.
Una vittoria, innanzitutto, del Pd e di Nicola Zingaretti, che, sia pur tra mille contraddizioni e dati in chiaroscuro, è oggettivamente l’unico perno dell’alternativa ai sovranisti. Già , contraddizioni. Perchè tiene la Toscana, così come aveva tenuto l’Emilia qualche mese fa, grazie alle sue sedimentazioni profonde e a ciò che resta una cultura politica antica, sensibile al richiamo antifascista e alla grande chiamata di fronte all’allarme democratico.
E tiene sia pur all’interno di processo di erosione di certezze, anch’esse antiche perchè quella che fu la zona rossa si è sensibilmente rimpicciolita: dopo l’Umbria crolla un’altra roccaforte come le Marche, assai meno reattiva al richiamo d’antan contro un candidato di destra estrema, con venature anche nostalgiche.
Di diverso segno il voto in Campania e in Puglia, espressioni di un populismo trasformistico interpretato da due vulcanici e strabordanti governatori, con decine di liste zeppe del solito ceto politico meridionale, buono per tutte le stagioni, e parecchia gente proveniente dal centrodestra.
Non a caso De Luca, nell’aprire i festeggiamenti, ha dichiarato che la sua vittoria “non può essere letta in termini di destra e sinistra”. Insomma De Luca è De Luca, Emiliano è Emiliano, personalità che, con i rispettivi sistemi di potere e di spesa, hanno una vita piuttosto autonoma rispetto al loro partito, in quest’Italia dove i partiti di massa non esistono più.
Ecco, governatori uscenti, come uscenti sono Toti e Zaia, il cui risultato è ascrivibile nella categoria plebiscito, con la sua lista che vale tre volte quella della Lega. È un dato che va ben oltre la tendenza, in atto da diversi lustri, verso la personalizzazione della politica.
C’è qualcosa di più che amplifica la personalizzazione: l’emergenza. È come se il Covid avesse congelato il paese, rafforzando chi ha le leve del potere ed è in grado di affrontare e risolvere i non banali problemi che l’emergenza pone. Tutti i governatori uscenti, confermati, sono coloro che hanno gestito, con un certo protagonismo, fasi drammatiche.
È forse questo il punto che certifica, più che una tendenza nazionale, quell’elemento di “federalismo virale” che ha segnato tutta la fase del Covid, dalla ridda di ordinanze per chiudere, ai tempi del lockdown, alla ridda per riaprire, prima scuole e poi discoteche, in cui ogni regione è, sostanzialmente, andata per conto suo.
In questo senso è difficile non vedere un elemento “conservativo” del voto rispetto alla ricerca di nuove avventure, proprio in un momento delicato. Soprattutto in assenza di alternative credibili, in termini di classe dirigente e anche di “connessione sentimentale” col paese.
Quel che rende il pareggio della destra in una sconfitta politica è proprio la coazione a ripetere uno schema vecchio in tempi nuovi.
Parliamoci chiaro, Salvini è fermo al Papeete o forse all’Emilia Romagna, all’idea della spallata (ricordate il sette a zero) da perseguire attraverso candidati deboli perchè tanto, alla fine, conta solo l’essere unti dal Capitano.
E Giorgia Meloni ha perso la scommessa pugliese, dove si misurava la sua capacità di diventare la nuova leader del centrodestra.
Per entrambi si pone un tema enorme ora che, come evidente, si prospetta davanti ad essi la lunga traversata nel deserto di una legislatura che arriverà alla sua scadenza naturale, con l’attuale governo a gestire la valanga di soldi che arriverà dall’Europa: il tema di una classe dirigente che sappia incarnate una credibile alternativa di governo.
Insomma, Zingaretti vince, la destra fallisce il suo assalto al cielo, i Cinque stelle a stento coprono una crisi di identità politica nel voto sul sì.
È fin troppo evidente che il governo esce stabilizzato. E che, all’interno del governo, il voto dà a Zingaretti la possibilità di essere più esigente e meno arrendevole sull’agenda, dal Mes ai decreti sicurezza.
Ma, acuendone la crisi, rende al tempo stesso il suo alleato meno propenso ai cedimenti identitari, dal Mes ai decreti sicurezza appunto. Al fondo, e non è un dettaglio proprio nel giorno in cui è dimostrato che la sovranità popolare non è un cataclisma, resta un problema di rappresentatività di un Parlamento che fotografa un paese che non c’è più ed è espressione di un assetto costituzionale che non c’è più.
(da “Huffingtonpost”)
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Settembre 21st, 2020 Riccardo Fucile
NUMERI IMPIETOSI ANCHE IN VENETO, LIGURIA, MARCHE E CAMPANIA
In Puglia non supera il 2%, in Veneto nemmeno. Ma il dato più emblematico arriva dalla Toscana dove non è risultata decisiva neanche per la vittoria di Eugenio Giani, leader della coalizione di centrosinistra ma espressione dei renziani.
I numeri delle elezioni regionali sono impietosi per Italia Viva e la consegnano, all’esito di questa tornata, nel perimetro dell’irrilevanza elettorale. Il partito di Matteo Renzi si è presentato al voto in sei Regioni, tre in alleanza con il Partito Democratico e tre in solitaria con il proprio candidato, ma il risultato si è rivelato parimenti deludente.
A partire dalla Toscana, fin qui considerata fortino dell’ex premier, dove Giani è riuscito a respingere l’assalto leghista guidato da Susanna Ceccardi con un margine di circa sette punti percentuali senza godere di alcun vantaggio dall’apparentamento con IV.
Qui, solo cinque anni fa il Pd dell’ex sindaco di Firenze otteneva il 45% con 314mila voti. Chiaro che il neonato partito renziano non poteva ambire a tali cifre ma la speranza era quantomeno di dare un contributo decisivo alla vittoria di Giani, braccato dalla Ceccardi.
Non è andata così: Italia Viva e +Europa hanno raccolto insieme il 4,5% circa, risultando così non decisivi per la vittoria dell’ex presidente del Consiglio regionale toscano.
Peggio ancora è andata in Puglia dove il candidato Ivan Scalfarotto non è riuscito nemmeno nell’intento non dichiarato ma comunque lampante di far perdere l’odiato presidente uscente Michele Emiliano.
Dopo una estenuante campagna elettorale all’insegna di attacchi violenti indirizzati più al candidato Pd e meno all’avversario del centrodestra Raffaele Fitto, Scalfarotto ha ottenuto circa l′1,6%, di cui – a voler spaccare il capello in quattro – solo l′1% farebbe capo a Italia Viva e il restante alla lista personale del candidato.
Bisognerà aspettare il conteggio definitivo per stabilire se l’ex sottosegretario agli Esteri riuscirà a ottenere uno scranno per sè in Consiglio regionale. Un aspetto emblematico visto che la sua candidatura – questi erano i timori dem della vigilia – rischiava di far perdere Emiliano a esclusivo vantaggio di Fitto.
“Ho avuto paura di perdere perchè avevo davanti un avversario bravo, competente e capace di fare la campagna elettorale”, ha ammesso Emiliano dopo la vittoria, riconoscendo l’onore delle armi a Fitto. Mentre si è tolto qualche sassolino contro Renzi: “Ha sbagliato, speriamo che impari dagli errori”.
Dati pessimi anche in Veneto dove la senatrice di IV Daniela Sbrollini ha tentato la corsa in solitaria senza esiti particolarmente edificanti: i voti raccolti viaggiano nell’ordine di grandezza dello 0,6%.
Nelle Marche la lista IV a sostegno del candidato di centrosinistra Maurizio Mangialardi non è servita a evitare la sconfitta della coalizione nell’ex regione rossa che, sottotraccia, è passata al centrodestra guidato da Francesco Acquaroli.
In Campania la lista renziana a sostegno di Vincenzo De Luca ha ottenuto un ininfluente 6% che poco cambia nella vittoria bulgara dell’ex sindaco di Salerno sull’eterno sconfitto Stefano Caldoro.
In Liguria, i renziani con i socialisti e +Europa esprimevano il candidato comune alla presidenza della Regione Aristide Fausto Massardo: a scrutinio in corso viaggia sul 2,5%. Missione fallita.
(da “Huffingtonpost”)
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Settembre 21st, 2020 Riccardo Fucile
MALANCHINI E’ RESPONSABILE DEGLI ENTI LOCALI DELLA LEGA, I MOVIMENTI DI DENARO SONO DOCUMENTATI IN UN REPORT DI BANKITALIA
Andrea Manzoni, il commercialista ai domiciliari per l’inchiesta sulla Lega, pagò per tre anni consecutivi un vero e proprio stipendio mensile a un funzionario del Carroccio, Giovanni Malanchini, responsabile dal 2015 degli enti locali della Lega Nord-Lega Lombarda.
A riportarlo è La Stampa, che cita un rapporto del’Uif di Bankitalia. Il rapporto in questione è agli atti dell’indagine.
Stando al report di Bankitalia, sono stati trasferiti dal conto di Manzoni a Malanchini 21.960 euro nel 2016, in 11 bonifici, 2.440 euro al mese nel 2017 e altri 21.960 euro nel 2018, a fronte di fatture mensili del valore di 2.440 euro.
Fatture emesse dalla società di Malanchini, la Mgf Servizi. Nel 2017 in particolare, la società di Malanchini ha avuto come unici introiti i pagamenti arrivati da Manzoni.
In questo periodo, ad alimentare il conto di Manzoni sono stati bonifici provenienti da Studio Dea, Studio Cld e Sdc srl.
Il rapporto spiega che la Studio Cld e la Sdc srl si pongono «come mero tramite, rendendo conseguentemente dubbia l’effettività , oggettiva e soggettiva, delle prestazioni rese e delle giustificazioni causali sottese ai pagamenti stessi».
La Sdc ha spostato «fondi provenienti da Radio Padania» ma anche «una parte dei fondi pubblici trasferiti dalla Lombardia Film Commission a Immobiliare Andromeda».
(da agenzie)
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Settembre 21st, 2020 Riccardo Fucile
CINQUE GIORNI DI CONSEGNA PER IL MILITARE: “LESA L’IMMAGINE DELL’ARMA”
Un provvedimento disciplinare è stato emesso nei confronti del sottufficiale dei carabinieri accusato di avere avuto un ruolo nella vicenda della ‘citofonata’ di Matteo Salvini a gennaio al quartiere Pilastro di Bologna.
Il militare ha ricevuto la sanzione di cinque giorni di ‘consegna semplice’, misura che punisce le violazioni alle norme del servizio e della disciplina e l’inosservanza dei doveri. Sebbene non comporti conseguenze specifiche, il provvedimento viene trascritto sul foglio matricolare e resta nel ‘curriculum’ del militare.
Il carabiniere sarebbe accusato di aver leso l’immagine dell’Arma facendo da tramite con la donna che accompagnò Salvini nella passeggiata per il quartiere, indicando la casa di un presunto spacciatore.
Tuttavia “c’è stato un travisamento dei fatti – secondo l’avvocato – È stato lo staff della Lega a contattare il mio assistito chiedendo se aveva il numero della signora, perchè lei più volte aveva scritto alla Lega chiedendo di interessarsi della questione al Pilastro. Semplicemente lui ha chiesto alla signora se poteva fornire il numero e con il suo consenso lo ha trasmesso e poi se la sono vista loro”.
Il militare è stato anche coinvolto in un’inchiesta per stalking ai danni di un avvocato e depistaggio, in concorso con un collega.
Su questo la Cassazione ha recentemente annullato senza rinvio la misura cautelare della sospensione dal servizio e si attende la fissazione dell’udienza preliminare.
(da agenzie)
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Settembre 21st, 2020 Riccardo Fucile
LA POPOLARITA’ DEL GOVERNATORE ORA PUO’ MINARE LA LEADERSHIP DI SALVINI
Emergono nuovi importanti equilibri con queste regionali 2020. Se sul fronte referendum il Movimento 5 Stelle ha portato a casa una vittoria dal punto di vista delle liste nelle varie regioni è il PD a mostrarsi il primo partito, molto più votato del Movimento 5 Stelle.
Zingaretti esce il solo vincitore da questa tornata elettorale a livello nazionale, con il PD che potrebbe domandare molto di più ai 5 Stelle, avendo finora dovuto cedere a tutte le richiesta. Andando ad analizzare le proiezioni regionali 2020 Veneto emerge — dagli ultimi aggiornamenti dati dalle proiezioni, che quindi cambieranno ad andare a sera — un risultato elettorale che potrebbe sconvolgere anche gli equilibri interni alla Lega di Salvini.
Secondo le ultime proiezioni la lista di Luca Zaia in Veneto è data al 51% mentre quella di Lega Salvini al 14,6% — con lo scarto che, di aggiornamento in aggiornamento, sembra salire ancora -. Una schiacciante vittoria — almeno per ora — del personaggio di Zaia su Salvini. Questo, ovviamente, va a intaccare in maniera rilevante la popolarità di Matteo Salvini, facendo salire di grado (almeno a livello morale) Zaia nei ranghi della Lega. Torna attuale, quindi, il discorso che si faceva in piena pandemia sulla popolarità di Zaia che avrebbe surclassato quella di Salvini.
Anche in Toscana c’è una forte conferma per il PD. Nello scontro probabilmente più atteso di tutti, quello tra la candidata leghista Ceccardi e Eugenio Giani candidato per il centrosinistra, emerge — almeno finora — che il PD è e rimane il primo partito della regione. Attualmente i punti di vantaggio del PD — che viene dato al 35,0% — sulla Lega Salvini Premier — data al 22,4% — è di quasi 13 punti percentuali. Nulla a che vedere con le previsioni che, alla vigilia delle elezioni, davano la Lega come primo partito.
(da “Huffingtonpost”)
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Settembre 21st, 2020 Riccardo Fucile
ZINGARETTI E PROVENZANO CHIEDONO DI MODIFICZARE SUBITO I DECRETI SICUREZZA E INCALZANO IL M5S SUL MES
Dopo il risultato del referendum costituzionale e delle elezioni regionali il Pd vuole già cambiare tutto. E incalza il governo guidato da Giuseppe Conte su Mes e decreti sicurezza.
“Sui decreti Salvini c’è un accordo e ora vanno assolutamente modificati – afferma il segretario del Pd, Nicola Zingaretti -. È stato un duro lavoro di cesello politico, anche con i territori” ma ora le modifiche “vanno approvate”. Dello stesso avviso è il ministro per il Sud, Giuseppe Provenzano, che sulle modifiche ai decreti spiega: “Abbiamo già perso troppo tempo lo diciamo ai nostri alleati e lo dico a ogni consiglio dei ministri”
Mentre sul Mes, sempre Zingaretti dice: “Nelle alleanze bisogna ottenere risultati, non dare ultimatum che servono solo ai titoli di giornali. Il mes è una linea di credito vantaggiosa. Chiederemo che nel pacchetto per la rinascita sia compreso anche l’investimento nella sanità attraverso il Mes”.
(da agenzie)
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Settembre 21st, 2020 Riccardo Fucile
“POTEVANO ESSERE ORGANIZZATE CON UN’ALTRA STRATEGIA”
Luigi Di Maio si prende la scena e personalizza il risultato referendario: “Il ‘no’ era per colpire il sottoscritto”. Si presenta, pur non avendo ufficialmente una carica all’interno del partito, nella sala della Lupa di Montecitorio per parlare di fronte alle telecamere. Sono da poco trascorse le cinque del pomeriggio, è ormai assodata la vittoria del Sì al referendum e non è ancora iniziato lo spoglio delle regionali. È il momento perfetto per l’ex capo politico che vuol tornare a parlare da leader del Movimento.
Si attesta la vittoria referendaria e scarica sugli altri le probabili sconfitte locali: “Sono molto orgoglioso del risultato del referendum. Le regionali invece potevano essere organizzate diversamente e anche nel Movimento con un’altra strategia”. Il missile va nella direzione di Vito Crimi, nonostante ufficialmente gli venga rinnovata la fiducia. In realtà il ministro degli Esteri apre il congresso del partito, nel giorno in cui riesce a portare a casa con percentuali vicine al 70 una bandiera così identitaria per il Movimento.
Si profila infatti una netta vittoria del Sì, con circa il 70% degli elettori che ha confermato la riduzione del numero dei parlamentari. Un taglio di 345 eletti, con i senatori che scendono dagli attuali 315 a 200 complessivi, mentre i deputati vengono ridotti da 600 a 400. Un risultato che blinda la maggioranza, con i partiti che sostengono il governo schierati per il Sì (anche se Iv ha lasciato libertà di voto, pur avendo votato la riforma nell’ultimo passaggio parlamentare)
Ma la vittoria del Sì blinda almeno fino alla prossima primavera anche la legislatura: occorrono infatti due mesi per la ridefinizione dei collegi, a seguito del nuovo assetto del parlamento. Dopodichè si entra nel vivo della sessione di Bilancio e a gennaio la Commissione Ue vuole i progetti del Recovery Fund. Dunque, la prima possibile finestra elettorale si aprirebbe solo da febbraio e fino a fine luglio, quando scatterà il semestre bianco, periodo in cui non si possono sciogliere le Camere. E con la serenità che il governo almeno per un po’ non dovrà smobilitare, nel Movimento si aprano gli Stati generali con Di Maio tornato sulla scena.
(da “Huffingtonpost”)
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Settembre 21st, 2020 Riccardo Fucile
LA MELONI CRESCE MA NON FA SALTARE IL BANCO… DOPPIO SCHIAFFO PER SALVINI: PERDE IN TOSCANA E ZAIA LO SURCLASSA
E alla fine, contendibile non era la Toscana bensì la leadership di Matteo Salvini. Per la seconda volta il Capitano incespica nel tentativo di espugnare il “fortino rosso”: dopo Lucia Borgonzoni in Emilia Romagna, non ce la fa neppure la “leonessa” Susanna Ceccardi.
Due donne, due stili, due diverse campagne elettorali — questa assai più soft per non spaventare i moderati — due fallimenti. L’auto che da via Bellerio, storica sede milanese della Lega, doveva rombare fino a Firenze in serata per rivendicare la fine del dominio di sinistra sulla Toscana, resta a motore spento nel cortile.
L’aria che tira si capisce già verso le quattro e mezza. Quando l’incrocio dei primi exit poll e dei sondaggi vede allargarsi la forbice tra Ceccardi e l’avversario Eugenio Giani: da un punto di vantaggio (per lei) a due, quattro, sei (per lui).
Due ore dopo tra Giani e Ceccardi c’è un fossato di sette punti, tra Michele Emiliano e Raffaele Fitto in Puglia — l’altra Regione data dal centodestra più che per contendibile, quasi per presa — un abisso di nove punti.
La Lega è chiusa in un cupo silenzio. La “passerella” trionfale diventa rapidamente una doccia gelata. Lorenzo Fontana, plenipotenziario salviniano nel Veneto in cui “l’unica certezza — si scherza sui social — è che Luca Zaia non supererà il 100%”, ci mette la faccia.
Ma per dire che forse le scelte del meloniano Fitto e dell’azzurro Stefano Caldoro in Campania (peraltro, due eterni ritorni) non sono state apprezzatissime dagli elettori del Carroccio: “Si apra una riflessione nel centrodestra, nel Mezzogiorno servono un linguaggio e persone nuove”.
Un invito al “rinnovamento” magari fondato, ma fuori tempo massimo.
In Puglia, però, le liste di Giorgia Meloni conquistano le due cifre: 10%, la stessa percentuale di cui gode la Lega da quelle parti. Sono le prime avvisaglie del confronto che da domani si aprirà nel centrodestra: Fratelli d’Italia governerà le Marche con Francesco Acquaroli, ma resta lontanissima dal fotofinish con il governatore pugliese uscente (e a questo punto rientrante) Emiliano, osso assai più duro sul campo di quanto potesse apparire nei sondaggi.
E dunque, a destra la linea del Piave diventa non chi ha vinto bensì chi ha perso di meno.
Salvini è azzoppato: il suo progetto di Lega Nazionale sul modello lepeniano non sfonda, i toni responsabili e l’assenza di incursioni al citofono non lo premiano. A Nord, l’unico pronostico rispettato è quello che vede Zaia oltre il 70% – al momento intorno al 75 — con la sua lista personale, pur “scippata” dei pezzi più pregiati come consiglieri e assessori, intorno al 47%, vale a dire il triplo delle liste ufficiali del partito boccheggianti intorno al 15%.
Un plebiscito atteso ma non per questo meno doloroso per la segreteria nazionale, per quanto Fontana si affretti a negare dualismi.
A Sud, l’apporto elettorale delle truppe padane è poco influente. Chissà cosa ne dirà Umberto Bossi, e con lui la “vecchia guardia” che non avrebbe cambiato il nome del partito nè, tantomeno, l’obiettivo della secessione.
Mentre l’ex ministro Gian Marco Centinaio sposta l’attenzione — e lo sconforto – sul referendum: “Peccato per la sconfitta, tanti dirigenti della Lega erano per il No”. Troppo poco per essere considerato una sfida al Capitano, ma quanto di più vicino ad una critica alla sua linea un partito “dirigista” come la Lega abbia espresso negli ultimi anni.
Da parte sua Giorgia Meloni, dopo una campagna elettorale e referendaria all’insegna della cautela, decide di dare la zampata. Prima circoscrive il campo da gioco: “Vittoria! Le Marche si tingono di Tricolore”. Poi mette fieno in cascina: “Da nord a sud FdI è l’unico partito che cresce”. Si è giocata meno, ha meno da rimpiangere, il banco non se l’è preso, ma tant’è. “Siamo stati determinanti per la vittoria al referendum. Vogliamo la riforma presidenziale. Ma solo un Parlamento legittimato dal voto potrà farle”.
Sullo sfondo resta Forza Italia, che galleggia in un range tra il 6 e il 7%: non c’è la paventata disfatta — il fuggi fuggi sarebbe scattato sotto il 5% – ma certo il partito berlusconiano resta marginale in questa partita e i suoi parlamentari stano già riflettendo sul futuro.
Che, al momento, non appare radioso. Al punto da far mettere in freezer gli entusiasmi per la vittoria del Sì al referendum sul taglio dei parlamentari — meloniani esclusi – e stroncare le prime esortazioni a favore del “voto subito”.
Alle elezioni, infatti, con quale gerarchia di coalizione si andrebbe? E con quale candidato leader?
Salvini è spompato, stanchissimo dopo una campagna elettorale in cui non si è fisicamente risparmiato, insidiato dal “Doge” e dai suoi legami con il mondo produttivo e imprenditoriale nordista, accerchiato dagli scandali finanziari, atteso dalle inchieste e dai processi.
Meloni ha mancato l’occasione di invertire il peso dei due partiti — o almeno riequilibrarlo — e le toccherà pazientare ancora un po’.
Silvio Berlusconi, nonostante l’età e le ultime vicissitudini di salute, mantiene la presa su una Forza Italia di nicchia ma decisa a farsi valere sulle prossime battaglie (in primis la legge elettorale).
Da domani per il Pd e per il governo si aprirà la partita – non facile — della “stagione di riforme”, della legge elettorale, delle rivendicazioni di chi vorrà pesare di più.
Nel centrodestra, invece, si aprirà la resa dei conti.
(da “Huffingtonpost”)
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Settembre 21st, 2020 Riccardo Fucile
“MI AUTOSOSPENDO DAL M5S”… ASSOLTA DALL’ABUSO D’UFFICIO, NON SCATTA LA LEGGE SEVERINO
Si salva dalla Severino ma non dalla condanna per falso in atto pubblico,
Chiara Appendino, che quindi non dovrà lasciare Palazzo Civico prima della scadenza. La giudice Alessandra Pfiffner ha assolto la sindaca dall’accusa di abuso d’ufficio ma ha deciso che il falso del 2016 c’è stato e una pena per lei a sei mesi con la condizionale. Condannati anche Paolo Giordana a otto mesi e l’assessore Sergio Rolando a sei mesi. Prosciolto da tutte le accuse il direttore del settore finanza Paolo Lubbia
“Sono stata assolta per tre reati su quattro – ha dichiarato la sindaca di Torino all’uscita dal tribunale – perchè il fatto non sussiste. Resta l’episodio del 2016 e aspettiamo di leggere le motivazioni della sentenza ma continuo a essere convinta di aver agito per il bene dell’ente. Porterò a termine il mio mandato, questa sentenza non me lo impedisce. E mi autosospendo dal Movimento come prevede il codice etico”.
Nessuna parola a proposito di una candidatura bis: “Non mi pare che sia il tema di oggi”. Più tardi su Facebook ha aggiunto: “Come è evidente anche dalle carte processuali, non ho tratto alcun vantaggio personale, anzi: l’accusa, nella sostanza, era di aver ingiustamente ‘avvantaggiato’ il Comune. Ricorrerò in appello, certa della mia innocenza e della mia assoluta buona fede”.
Il processo è quello che riguarda la complicata vicenda di un debito che il Comune aveva contratto nella precedente legislatura con il fondo immobiliare partecipato dalla Fondazione Crt, Ream, come caparra per esercitare un diritto di prelazione sul progetto di rinascita dell’area ex Westinghouse. I cinque milioni dovevano essere restituiti nel 2016, ma la sindaca, insieme al suo ex capo di gabinetto, Paolo Giordana, all’assessore al Bilancio, Sergio Rolando, il direttore del settore Finanza lo avevano posticipato per due anni di seguito, inciampando nell’inchiesta penale
L’idea dell’accusa era infatti che tutti insieme avessero fatto sparire il debito da 5 milioni con un artificio contabile perchè non riuscivano a far quadrare i conti alla chiusura del primo bilancio firmato da Chiara Appendino.
L’alternativa da scongiurare era tagliare servizi alla città danneggiando l’immagine della giunta pentastellata al suo esordio. Ma il ritorno personale politico, quello su cui si basava l’ipotesi dell’abuso d’ufficio, non è stato riconosciuto dalla sentenza. “La tenuità della condanna dimostra l’irrilevanza del fatto. Leggeremo le motivazioni e ci appelleremo, fiduciosi di poter ribaltare la sentenza” ha detto Luigi Chiappero, avvocato della sindaca.
L’accusa era sostenuta in aula da due procuratori aggiunti della procura di Torino, Enrica Gabetta e Marco Gianoglio, che hanno chiesto la condanna a un anno e due mesi. Il giudice, che ha deciso con il rito abbreviato è Alessandra Pfiffner. A lei la responsabilità di emettere la sentenza, per la prima volta a Torino, di un processo che coinvolge un primo cittadino in carica. E segnare in parte anche la strada della politica per i mesi che verranno.
“Ho appreso con stupore e tristezza della mia sentenza di condanna – ha commentato l’ex braccio destro e capo di gabinetto di Appendino, Paolo Giordana – Resto certo della mia piena innocenza. Attenderò di leggere le motivazioni della sentenza ma di sicuro appellerò per far valere in quella sede quelle che ritengo siano le mie legittime ragioni”.
Si dissolve così la parte di guai giudiziari più temibili per la sindaca di Torino in questa giornata attesa anche per l’esito delle elezioni regionali e del referendum confermativo della riforma costituzionale che prevede il taglio dei parlamentari. Avrebbe dovuto lasciare Palazzo civico per effetto della legge Severino se fosse stata condannata per l’abuso. Ma il caso politico con il Movimento cinque stelle si apre, perchè secondo le regole in vigore tra i pentastellati, Appendino dovrebbe essere espulsa.
La parziale assoluzione di oggi segue di pochi giorni l’archiviazione di un altro fascicolo che coinvolgeva la sindaca, quello aperto sulla consulenza fantasma al suo ex portavoce, Luca Pasquaretta, per il quale la procura ha mandato a processo per peculato altri indagati ma non lei. Resta invece da discutere il processo per i fatti di piazza San Carlo che arriverà alle battute finali a metà novembre.
“La magistratura ha i suoi tempi, che vanno rispettati e sono diversi da quelli della politica. Per questo il nostro giudizio su questa amministrazione non cambia – scrive su Facebook il consigliere Pd e vicepresidente vicario del Consiglio comunale Enzo Lavolta dopo la condanna della prima cittadina torinese – alla sindaca Appendino auguriamo di dimostrare la sua innocenza nei prossimi gradi di giudizio, ma la città di Torino ora merita un cambiamento profondo e radicale che la faccia ripartire in fretta”.
“Attendiamo che il M5s chieda, coerentemente al suo statuto, le dimissioni del sindaco di Torino Chiara Appendino per la condanna a sei mesi per falso ideologico legata al processo Ream. Il giochetto di autosospendersi dal partito del primo cittadino, per evitare così di dover sottostare alle regole etico morali grilline propagandate per anni per raccattare consensi, rappresenta la fine indegna del mandato di un sindaco che doveva polverizzare il sistema Torino e che invece ha solo raccolto avvisi di garanzia”. Così, in una nota, i deputati torinesi di Forza Italia, nonchè coordinatore e vicecoordinatore degli Azzurri, Paolo Zangrillo e Roberto Rosso, e il commissario cittadino Marco Fontana.
La Lega, invece, chiede che il Movimento 5 stelle sfiduci Appendino: “Ora mi auguro che il M5s sia coerente. Chieda oggi stesso le dimissioni del sindaco Appendino o la sfiduci domattina” dichiara Alessandro Benvenuto, commissario della Lega Salvini per la provincia di Torino.
(da agenzie)
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