Maggio 30th, 2021 Riccardo Fucile
MEDICI OTTIMISTI: “SIGNIFICATIVO MIGLIORAMENTO” DEL BIMBO DI 5 ANNI, UNICO SUPERSTITE DELLA TRAGEDIA DELLA FUNIVIA
I medici non si sbilanciano ancora ma sono ottimisti. Le condizioni di Eitan migliorano. Non è ancora fuori pericolo ma a giorni i dottori dell’ospedale Regina Margherita che lo seguono dal giorno del crollo della funivia del Mottarone, nei prossimi giorni scioglieranno la prognosi.
Oggi per la prima volta il bimbo di 5 anni, che è l’unico sopravvissuto alla strage, ha ricominciato a mangiare da solo:”Cibi morbidi e leggeri”, spiegano i medici dell’ospedale infantile torinese. Piccoli segnali di miglioramento che fanno dire che Eitan guarirà dalle ferite provocate dal volo di 20 metri della cabina su cui domenica era salito insieme ai genitori, Amit e Tal, al fratellino di 2 anni Tom e ai bisnonni.
“Rimane in rianimazione per precauzione. Eitan ha sempre accanto a sé la zia e al nonna”, spiegano i medici della Città della Salute che hanno messo a disposizione della famiglia anche un sostegno psicologico perché insieme alla ripresa fisica del piccolo arriva anche un altro momento durissimo che il bambino dovrà affrontare, quello in cui dovrà conoscere la verità.
Ora non ricorda l’incidente, non sa ancora che i suoi genitori e il suo fratellino non ci sono più: la zia Aya, la nonna e i medici dovranno dirglielo in modo graduale.
Da quando ha aperto gli occhi quattro giorni Eitan ha cominciato a chiedere di mamma e papà. “Dov’è la mia mamma?”, ha chiesto più di una volta alla zia. “Non gli verranno dette bugie ma bisogna procedere con calma”, consigliano i medici. Quando sarà sciolta la prognosi il bambino sarà trasferito in un altro reparto dell’ospedale, finalmente fuori pericolo.
(da La Repubblica)
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Maggio 30th, 2021 Riccardo Fucile
MA STA PERDENDO PRESA SUL PARTITO
Il day after, solitamente, è sempre quello della resa dei conti, e la giornata di
ieri in casa Forza Italia non ha fatto eccezione: si cerca il “regista” occulto dell’operazione di reclutamento che sta dietro alla nascita del nuovo soggetto politico ‘Coraggio Italia’, nato sostanzialmente per “sottrazione” a Forza Italia , che vede il tandem Giovanni Toti – Enrico Brugnaro protagonisti.
Ovviamente quel che non va giù ai vertici azzurri è lo scippo di ben 12 parlamentari, tra cui la ex fedelissima del Cavaliere Micaela Biancofiore che dopo le defezioni di Laura Ravetto (da mesi passata alla Lega) e della ex assistente personale di Silvio, Maria Rosaria Rossi (espulsa dal partito per aver votato la fiducia al Conte ter e attivissima fra gli allora ‘Responsabili’), si aggiunge alla ‘fuga’ delle donne simbolo del berlusconismo dei bei tempi che furono.
Nonostante le cene ‘carbonare’ col governatore ligure di qualche mese fa, rimane nel partito d’origine Maria Carfagna (del resto è stata premiata anche a questo giro con un ministero) che ieri ha subito messo le mani avanti: “Cosa penso del nuovo gruppo formato da Toti e Brugnaro? è sicuramente un danno per FI che poteva e doveva essere evitato. FI ha bisogno di essere rilanciata, serve una distinzione tra la posizione di partito di centro, liberale, moderato, europeista e quella degli alleati di destra come Salvini e Meloni. Spero che i vertici di FI capiscano che c’è bisogno di aprire un dibattito interno”.
In ogni caso, dare la colpa agli altri non è mai un buon segnale.
(da agenzie)
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Maggio 30th, 2021 Riccardo Fucile
DA TOTO’ CUFFARO A GIORGETTI: A CAPO DEL MISE ARRIVA MINEO… TRA I TRASFORMISTI DIVERSI INDAGATI E SOTTO PROCESSO
Nei ministeri occupati dalla Lega e nella cerchia ristretta di Matteo Salvini da un pezzo non si parla più solo il dialetto padano. Le ampolle del Po, i riti col druido, la lira padana ideata da Roberto Calderoli, i cori contro i “terroni” ormai sono solo un lontano ricordo. E la distinzione tra i “barbari” ormai romanizzati e i nordisti che restano fedeli alla secessione si è andata via via dissolvendo, in corrispondenza con le posizioni di governo assunte dalla Lega salviniana.
E dunque non può essere un caso che tra gli ultimi arrivati ci sia Benedetto Mineo, 60 anni, nato a Bagheria (alle porte di Palermo) e cresciuto alla corte di Totò Cuffaro, ex presidente della Regione Sicilia condannato per mafia nel 2011: Mineo è stato suo capo di gabinetto vicario in Regione dal 2001 al 2005, gli anni d’oro di Totò “vasa vasa” e del centrodestra in Sicilia che alle politiche del 2001 vinse in 61 collegi elettorali contro nessuno al centrosinistra.
Mineo, commercialista e grand commis di Stato, è stato nominato nuovo segretario generale del ministero dello Sviluppo Economico nel Consiglio dei ministri del 17 maggio. A volerlo fortemente è stato il titolare del Mise Giancarlo Giorgetti, testa d’uovo del leghismo: i due si conoscono da quando il vicesegretario della Lega era presidente della commissione Bilancio.
Ora Mineo, come segretario generale di via Veneto, governerà una struttura da oltre 3 mila dipendenti, di cui 150 dirigenti, e dal suo tavolo passeranno tutti i dossier più delicati del ministero facendo da raccordo con Giorgetti.
Figlio di uno storico esponente della Dc siciliana, Mineo non è stato solo il capo di gabinetto di Cuffaro: nel 2005 è diventato l’uomo dei conti come Dg del dipartimento Finanze.
Quando a palazzo d’Orleans arriva l’autonomista Raffaele Lombardo però, Mineo deve lasciare e farsi una nuova vita a Equitalia, dove ricoprirà le cariche di Ad al Sud e poi a Roma fino all’avvento di Matteo Renzi, che nel 2015 gli preferirà Ernesto Maria Ruffini, nonostante i suoi ottimi rapporti con Angelino Alfano.
Ma per il grande salto deve aspettare che la Lega torni al governo nel corso salviniano: nel 2018 Mineo viene nominato, sponsorizzato dal sottosegretario a Palazzo Chigi del Conte I, Giorgetti appunto, direttore delle Dogane, carica che dovrà lasciare solo un anno dopo quando il governo giallorosa gli preferirà Marcello Minenna, vicino al M5S.
Con la Lega fuori dalla maggioranza, Mineo è costretto a tornare in Sicilia alla corte del governatore vicino a Salvini Nello Musumeci, che nell’aprile 2020 lo nomina prima dirigente del dipartimento Finanze e poi capo della task force per la “rinascita economica” della regione dopo la pandemia.
Adesso il grande ritorno a Roma a fare da spalla a Giorgetti.
Ma Mineo non è l’unico politico di scuola “cuffariana” che la Lega ha deciso di imbarcare. Prima di lui, a portare la Lega in Sicilia con il movimento “Noi con Salvini” era stato Alessandro Pagano, ex coordinatore della Sicilia occidentale e con un passato da assessore al Bilancio e alla Cultura con Cuffaro.
Deputato di Forza Italia, poi del Ncd di Alfano, è stato eletto con la Lega nel 2018 assumendo la carica di vice capogruppo a Montecitorio: lo si ricorda per aver definito “neo terrorista” Silvia Romano dopo 535 giorni di prigionia.
Dal mondo di Lombardo, invece, viene l’altro fondatore di “Noi con Salvini” in Sicilia, cioè Angelo Attaguile. Sia Pagano che Attaguile nell’aprile 2018 sono stati indagati dalla procura di Termini Imerese per un’inchiesta su una presunta truffa elettorale: i pm hanno chiesto il rinvio a giudizio e l’11 marzo scorso è iniziata l’udienza preliminare.
Dopo l’inchiesta, Salvini aveva spedito in Sicilia il commissario brianzolo Stefano Candiani, che a dicembre è stato sostituito da Nino Minardo. Fedelissimo di Alfano, è grazie a lui che si è potuto formare il gruppo leghista all’Ars: è il teorico dell’accordo con gli autonomisti di Lombardo in vista delle prossime elezioni regionali.
In Puglia invece a comandare è il coordinatore Roberto Marti, ex Pdl molto vicino a Raffaele Fitto.
Il 14 aprile la giunta per le Immunità del Senato ha detto “no” all’utilizzo di parte delle intercettazioni chieste dal gip di Lecce nell’ambito di un’inchiesta sulle case popolari che vede indagato proprio Marti.
Pugliese è anche Rossano Sasso, proveniente dal sindacato di destra Ugl e oggi sottosegretario all’Istruzione: è noto per aver portato al ministero il presunto stalker di Lucia Azzolina, Pasquale Vespa, poi cacciato dal ministro Bianchi.
Chi decide in Puglia è anche Massimo Casanova, proprietario del Papeete di Milano Marittima, che nel 2019 è stato eletto a Bruxelles con 64 mila preferenze. Che lo sbarco della Lega in Puglia non sia andato benissimo lo dimostra il caso del sindaco di Foggia Franco Landella, arrestato una settimana fa con l’accusa di corruzione e tentata concussione. Era stato uno dei primi sindaci della Lega al Sud: oggi è ai domiciliari.
Nel centro-sud gli altri nomi di peso della Lega sono Domenico Furgiuele in Calabria, deputato e riciclato da An, e Claudio Durigon, coordinatore in Lazio dopo la lunga esperienza nell’Ugl.
Oggi è sottosegretario all’Economia e possibile candidato a governatore del Lazio nel 2023. Da Fanpage è stato ripreso a parlare così dell’inchiesta sui 49 milioni della Lega: “Quello che indaga della Guardia di Finanza… lo abbiamo messo noi”. Nonostante le richieste di dimissioni, il premier Draghi non ha risposto sulla vicenda.
(da il Fatto Quotidiano)
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Maggio 30th, 2021 Riccardo Fucile
DIFENDE DIRITTI LGBT, MINORANE , MIGRANTI… IL CASO FINISCE AL CREMLINO E IN PARLAMENTO… CON “DONNA RUSSA” NON HA VINTO L’EUROVISION, TUTTO IL RESTO SI’
“Hai più di 30 anni, dove sono i deti, i bambini?”. “Saresti bella, se dimagrissi”.
Sono i primi versi della canzone che si fa beffa di offese e luoghi comuni spesso rivolti alle ragazze russe, e poi le incita all’indipendenza con un ritornello: “Ogni donna russa deve sapere che è abbastanza forte da rompere il muro”.
Nella Federazione che ha decriminalizzato la violenza domestica, che ha varato una legge contro la propaganda gay e non ama i migranti delle ex Repubbliche sovietiche trionfa Manizha, la cantante che difende i diritti Lgbt, minoranze etniche, donne vittime di abusi.
Paladina di una nuova Russia (aggettivo in lettera minuscola), ha composto l’inno di battaglia delle femministe russe: “Russkaya Zhenshina”, “donna russa”, e si è esibita all’ultimo Eurovision, una competizione che “solo in Russia provoca tanto scalpore ed esaltazione”, e a cui ogni cantante, scrive la Novaya Gazeta, viene inviato come un soldato in guerra.
La canzone dell’artista è arrivata anche alle orecchie della fetta più patriarcale e tradizionalista della Federazione.
Il Comitato investigativo russo ha ricevuto una richiesta per bandirla per “possibili dichiarazioni illegali”. Veteranskie Vesti, un sito di notizie per veterani in una Russia che ama le sue divise, ha suggerito di far finire la canzone in tribunale
Quasi per gli stessi motivi e con gli stessi propositi si è espressa l’Unione ortodossa delle donne russe che ha firmato una lettera aperta contro la cantante che mina il senso della famiglia tradizionale e incita all’odio: degli uomini.
Le rime di “Donna russa”, planate nei corridoi del Cremlino, hanno raggiunto la Camera alta. Per Valentina Matvienko, portavoce consiglio della Federazione, la canzone è un “bred”, un delirio che non doveva finire all’Eurovision, e durante una sessione parlamentare Dmitry Peskov, portavoce di Putin, è stato costretto a dichiarare: “Parliamo di una competizione dove le donne con la barba si esibiscono, i cantanti sono vestiti da polli, non consideriamo tutto questo oggetto della nostra attenzione”.
Ha intonato un singolare lamento anche il leader del partito social-democratico Vladimir Zhirinovsky: “Non sono sicuro che trasmetta una buona immagine delle donne russa o della Russia in generale”.
In passato Manizha ha pubblicizzato un’app per frenare la violenza contro le donne, ha sempre supportato i diritti Lgbt sentendosi dire che “chi supporta i gay, è gay” e un gradino dopo l’altro, non sempre su scala musicale, è diventata la prima ambasciatrice russa dell’Onu per i rifugiati a dicembre scorso.
A Rotterdam il mondo ha ascoltato “Donna russa”, ma quella che la canta “non lo è nemmeno.” Manizha è una migrantka, una ragazza nata a Dushanbe nel 1991, capitale del Tagikistan, da cui è scappata per la guerra civile scoppiata nell’anno della dissoluzione dell’Unione Sovietica. Credendo di sminuirla, certi critici la chiamano ancora così, “la tagika”.
Quasi tutto in lei è stato subito manifesto e dichiarazione politica, anche gli abiti della performance. Dal primo, quello tradizionale delle donne russe, cucito con centinaia di pezzi di stoffa che le hanno inviato da ogni latitudine russa, sbuca fuori come da una matrioska, e “rinasce” in tuta rossa: “Sono gli abiti della classe operaia, di quelli che si danno da fare per farcela”, ha poi spiegato.
Ama avere mille facce e non solo una. Manizha ha dato voce alle russe letteralmente: alle sue spalle la accompagna un coro di centinaia di attiviste che sullo schermo cantano insieme a lei.
Prima di arrivare in Olanda è stata scelta dal voto popolare per rappresentare il Paese esibendosi sul Primo canale, uno dei media più allineati alle antenne del Cremlino. Più che un palco è stato un ring, da cui è comunque uscita vittoriosa con quasi il 40% delle preferenze, ma il suo trionfo ha scatenato maree di offese sessiste, commenti misogini, post xenofobi.
Per temperamento, per sfida o per ciò che l’ha resa la sua storia personale ,ha reagito continuando a sorridere: “Non mi concedo la sconfitta. Se avessi cominciato a piangere, avrei reso le loro parole vere”.
Compiuto forse inconsciamente, tra la leggerezza delle note pop e riflettori colorati, il rito di passaggio, più che nella carriera della cantante, è avvenuto nella Federazione che l’ha scelta e che Manizha ama nonostante tutto: “ sono tagika, ma la Russia mi ha accettato e cresciuto. Non mi chiamo donna russa invano, ne ho diritto. Vorrei che il mondo vedesse il nostro Paese come lo conosco io: generoso, aperto, luminoso e diverso da tutto il resto.”.
Quando dice nostro, intende, suo: Mosca, dove ha imparato a cantare e suonare il piano da bambina, le appartiene quanto una vittoria molto più grande della competizione olandese. Non ha vinto l’Eurovision, tutto il resto sì.
(da Huffingtonpost)
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Maggio 30th, 2021 Riccardo Fucile
ACCERCHIATI, INSULTATI E AGGREDITI IN PIENO CENTRO: UNO E’ FINITO ALL’OSPEDALE… MA PER QUALCUNO IL DDL ZAN NON SAREBBE UNA PRIORITA’
Camminavano mano nella mano per le vie di Palermo. Erano alla ricerca di un hotel dove pernottare. Loro: due ragazzi che si amano, torinesi, che ieri sera erano in via dell’Università. E passeggiavano.
Quando però a un certo punto sono stati letteralmente accerchiati, insultati, e aggrediti da una baby gang. Un gruppo di ragazzi molto giovani (probabilmente minorenni) e molto omofobi, tanto che in pieno centro li hanno colpiti, ferendoli. E poi – quasi scontato dirlo – son fuggiti.
Ora la polizia ha raccolto i filmati di videosorveglianza delle telecamere della zona e ora sta lavorando per capire chi siano questi ragazzi, dandogli un volto e un nome, per denunciarli. Anche perché uno dei due aggrediti è stato portato al pronto soccorso, dove è stato curato per aver riportato una ferita.
Si tratta solo dell’ennesima aggressione nei confronti di una coppia omosessuale. Ricordate quella a Christopher Jeanne Pierre Moreno, che a Roma (stazione ferroviaria Valle Aurelia), è stato pestato insieme al compagno, perché colpevoli di baciarsi pubblicamente? E quella poi alla coppia di Torino, era il 9 maggio: Silvia, ragazza transgender era con il suo compagno. Anche loro passeggiavano mano nella mano, anzi a braccetto. Quando a un certo punto un uomo si è avvicinato e gli ha urlato: “fr*ci di merda! Io vi ammazzo!”. E ancora: “Non mi devi neanche guardare perché ti ammazzo! Devi stare muto…” Parlandomi al maschile, nonostante io fossi truccata, vestita al femminile e con il reggiseno”.
E potremmo continuare così, con molti altri esempi (purtroppo). Ecco quindi le risposte a chi dice che il ddl Zan non serva e che in questo momento ci siano altre priorità. Basta leggere le storie di queste ragazze e ragazzi. Insultati, aggrediti, colpiti. Perché passeggiano mano nella mano.
A chi può dar fastidio che una coppia passeggi mano nella mano o si baci all’aria aperta?
(da NextQuotidiano)
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Maggio 30th, 2021 Riccardo Fucile
AD APRILE LA SENATRICE: “CI SARO’ SEMPRE PER PARLARE DI LIBERTA'”
Parole di ringraziamento per il «sostegno» e «l’amore» mostrati da Liliana
Segre nei suoi confronti.
È questo il contenuto della lettera scritta alla senatrice a vita da Patrick Zaki, lo studente dell’università di Bologna detenuto in un carcere egiziano da febbraio 2020, secondo quanto riferiscono gli attivisti che si battono per la sua liberazione.
Segre, presente ad aprile alla discussione della mozione per concedere la cittadinanza allo studente egiziano, aveva dichiarato: «C’è qualcosa nella storia di Zaki che prende in modo particolare, ed è ricordare quando un innocente è in prigione. Questo l’ho provato anch’io e sarò sempre presente, almeno spiritualmente, quando si parla di libertà».
Stando a quanto si apprende, Zaki ha preferito non consegnare la lettera alla madre e alla sorella che oggi, 29 maggio, sono andate a fargli visita.
Il 29enne ha infatti deciso di tenere la lettera con sé per consegnarla a mano a Segre quando tornerà in Italia.
Zaki è stato informato della data della prossima udienza, in programma martedì 1° giugno, ma non ha mostrato alcun interesse, convinto che il verdetto sarà negativo.
«Tuttavia – dicono gli attivisti – è ancora forte e resiliente, e pensa che tornerà ai suoi studi presto. Manda il suo amore, la sua gratitudine e il suo apprezzamento ad amici, insegnanti e alla sua università per il continuo sostegno».
(da Globalist)
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Maggio 30th, 2021 Riccardo Fucile
IN MIGLIAIA IN PIAZZA A SAN PAOLO, RIO E BRASILIA: CHIEDONO L’IMPEACHMENT PER IL PRESIDENTE E UN ACCESSO AI VACCINI
Si tratta della più grande protesta dall’inizio della crisi legata al Covid-19 quella che ha coinvolto decine di migliaia di brasiliani che sono scesi in piazza per esprimere la propria frustrazione contro la gestione della pandemia di coronavirus da parte del presidente Jair Bolsonaro
Migliaia hanno manifestato a San Paolo, Rio de Janeiro e Brasilia, e hanno chiesto l’impeachment per il presidente e un accesso migliore ai vaccini. Il Brasile sta affrontando la terza ondata di Covid-19 con 79.670 nuovi casi e 2.012 decessi registrati sabato.
Dall’inizio della pandemia in Brasile sono morte oltre 460mila persone a causa del coronavirus e si sono registrati più di 16 milioni di contagi
Soltanto il 9,4% dei 210 milioni di brasiliani, circa 19 milioni, sono stati vaccinati.
Bolsonaro ha più volte minimizzato la pandemia, definita addirittura una “leggera influenza” e ha sabotato gli sforzi per il distanziamento sociale e i lockdown, definendo i governatori che hanno deciso di imporre restrizioni come “dittatori”
Il Senato brasiliano sta conducendo un’indagine sul presidente e sulla gestione della pandemia.
(da Globalis)
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Maggio 30th, 2021 Riccardo Fucile
LA VERA CAUSA DELLA TRAGEDIA DELLA FUNIVIA QUAL’E’?
Gabriele Tadini, 63 anni, è agli arresti domiciliari per l’incidente alla funivia
Mottarone. Il giudice delle indagini preliminari Donatella Banci Bonamici ha scarcerato invece Luigi Nerini ed Enrico Perocchio. Secondo il gip non ci sono prove che i due sapessero che Tadini aveva messo il forchettone sul freno d’emergenza né che lo abbia fatto su loro disposizione.
La funivia Stresa-Mottarone aveva i freni d’emergenza bloccati da due forchettoni, attrezzi che si usano per bloccarli quando la cabinovia è ferma. Questo ha impedito l’azionamento del freno d’emergenza dopo la rottura del cavo traente.
Una funivia infatti funziona tramite una fune portante e una fune traente. La fune portante rimane ferma rispetto agli abitacoli: ha funzioni di sostegno e di stabilità. La fune traente produce il movimento delle cabine di una funivia: è il cavo che si è spezzato.
Il forchettone invece tiene aperte le ganasce dei freni: viene inserito per far girare la cabina vuota affinché non si blocchi in caso, ad esempio, di salto di corrente.
Con le persone a bordo va tolto per consentire la frenata di emergenza. Tadini ha confessato: “Sono stato io a lasciarli, l’ho fatto perché c’era un’anomalia ai freni che li faceva chiudere spesso. Secondo le risultanze delle indagini il 30 aprile la Rvs di Torino aveva fatto un intervento per sistemare il freno. Il problema però c’era ancora.Il Corriere della Sera spiega che è possibile che a far scattare il freno fosse proprio un difetto della fune: “Diciamo che se c’è un rumore relativo alla perdita di pressione del sistema frenante, cosa della quale Tadini non ricordo mi abbia però parlato — spiegherà agli inquirenti l’operatore della Rvs intervenuto, Davide Marchetto — può significare che la fune di trazione si sta muovendo dalla propria sede in maniera anomala attivando l’impianto frenante».
Quindi, il collegamento poteva esserci. Tadini non lo sapeva. «Ma con quel rumore doveva comunque fermare l’impianto», spiega un ingegnere che conosce la funivia.
Il mistero rimane sulla rottura della fune di traino. Se non si fosse verificata, la vettura sarebbe arrivata alla meta. Perché si è spezzata? Lo diranno i periti e sarà una battaglia, perché tira in ballo controlli e manutenzioni di vari soggetti.
Alla verifica magneto-induttiva per controllare eventuali pericoli sfugge la testa fusa della funivia. Ovvero la parte terminale del cavo traente. La testa fusa è un cuneo di piombo che si aggancia alla cabina. Si tratta della parte più delicata che peraltro può essere controllata solo a vista. Ragione per cui il ministero ha disposto che ogni 5 anni venga tagliata e rifatta. Operazione che esegue la Leitner. L’ultimo taglio è del novembre 2016, pertanto sarebbe dovuta intervenire fra sei mesi.
La causa dell’incidente alla funivia Mottarone: la testa fusa del cavo traente?
Se la testa fusa stava cedendo, il compito di controllarla era del caposervizio. Quella mattina Gabriele Tadini aveva sentito un rumore anomalo: è possibile che fosse quello della testa fusa che si stava muovendo in modo scorretto. Se è questo il motivo, il cavo sarà andato in tensione alla stazione di arrivo facendo cedere la testa e strappare la fune. La seconda tesi è che la fune da tempo avesse problemi di tensione e a forza di «tira e molla» uno strattone più forte abbia determinato il cedimento.
La Stampa invece spiega oggi che i motivi per cui la coppia di freni si attiva sono più d’uno. Tra questi c’è una anomalia sulla fune traente, che può essere più molle o più tesa del dovuto. Sembra che sia questo il problema che non si era riusciti a risolvere, e per poter trasportare clienti senza interruzioni da giorni si utilizzavano gli ormai famosi forchettoni rossi: sopra la capote della cabina, agganciano le ganasce dei freni impedendo che si chiudano in caso di alert.
(da agenzie)
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Maggio 30th, 2021 Riccardo Fucile
IL GIP CREDE ALLA VERSIONE PER CUI TADINI AVREBBE AGITO A INSAPUTA DEL GESTORE E DEL DIRETTORE… LA PROCURA SI RISERVA DI IMPUGNARE LA DECISIONE
Va ai domiciliari Gabriele Tadini, il caposervizio della funivia del Mottarone che ha ammesso di avere bloccato i freni della cabina con l’ormai famigerato “forchettone”. Tornano pienamente liberi invece Luigi Nerini, il gestore dell’impianto, e Enrico Perocchio, direttore di esercizio.
Queste le decisioni del gip di Verbania Donatella Banci Buonamici. I tre erano stati fermati nella notte tra martedì e mercoledì per l’incidente che domenica scorsa ha causato 14 morti.
La decisione del gip è stata letta ai legali dei tre e al procuratore, Olimpia Bossi, nel carcere di Verbania.
Dopo tre giorni, dunque, la giudice ritiene la misura dei domiciliari sufficiente per Tadini, mentre è probabile che per gli altri due, che hanno invece negato di sapere del blocco del freno d’emergenza, non ci siano elementi probatori sufficienti per la misura cautelare.
Una interpretazione confermata dalla procuratrice di Verbania Olimpia Bossi che ha commentato a caldo le scarcerazioni: Il gip – ha spiegato – ha valutato “che non ci sono indizi sufficienti di colpevolezza su Luigi Nerini e su Enrico Perocchio” e ha ritenuto “non credibili sufficientemente le dichiarazioni di Gabriele Tadini”, ha creduto “alla dichiarazione di estraneità di Nerini e Perocchio che hanno scaricato la scelta” dell’uso dei blocchi al freno “su Tadini”.
Per parte sua, la procuratrice ha sottolineato che il lavoro di accertamento delle responsabilità prosegue: “Noi – ha detto – abbiamo accertamenti programmati e che proseguiranno, gli indagati restano gli stessi e manca l’accertamento sul perché la famosa fune si è rotta”. La procura, dopo aver letto attentamente le motivazioni del gip, farà valutazioni “ed esistono semmai strumenti di impugnazione”. Ora, ha aggiunto il magistrato, “bisogna accertare tutte le responsabilità di chi ha concorso a causare questo terribile incidente e da lunedì riprenderemo con tutti i passi tecnici che dovremo fare”.
La decisione, che di fatto smantella l’impianto accusatorio della procura, arriva al termine di una lunga giornata di interrogatori in cui solo il capo del servizio ha confermato quanto aveva già ammesso, mentre il responsabile dell’esercizio ha negato le accuse e il titolare dell’impianto ha allontanato ogni responsabilità.
Nelle otto ore degli interrogatori di garanzia dei tre indagati per la strage del Mottarone, le posizioni già espresse nella notte che ha portato ai fermi si sono cristallizzate davanti alla giudice Banci Buonamici.
Gabriele Tadini ha ripetuto di aver inserito i ceppi per bloccare i freni della cabina numero 3 e di averlo fatto anche altre volte.
Enrico Perocchio ha respinto le accuse a suo carico e scaricato la responsabilità proprio su Tadini, il capo del servizio: “Quella di inserire i forchettoni è stata una sua scelta scellerata”.
Mentre Luigi Nerini, gestore dell’impianto e amministratore unico della Ferrovie Mottarone srl, ha dichiarato che la sicurezza dell’impianto non era “affar suo”.
E alla domanda se sapesse dell’inserimento del forchettone non ha voluto rispondere. Tutti e tre si trovano dal 26 maggio nel carcere di Verbania, accusati di omissione dolosa di cautele aggravata dal disastro, omicidio colposo plurimo e lesioni colpose gravissime.
La gip ha ascoltato per primo Tadini, che già martedì sera ha reso le prime ammissioni spiegando di aver deciso lui di piazzare e mantenere i blocchi sulle ganasce che hanno disattivato il sistema frenante d’emergenza, che non è scattato quando il cavo traente si è spezzato. E lo ha fatto, come quasi “abitualmente” nell’ultimo mese, per evitare blocchi della funivia dovuti alle anomalie dei freni. Così, però, al momento dell’incidente, la cabina numero 3 non è rimasta agganciata al cavo portante ed è volata via. Una scelta, ha spiegato Tadini ai pm, di cui il titolare dell’impianto era “del tutto consapevole”.
Nerini: “La sicurezza non era affar mio” –
La versione di Nerini, però, è opposta. Secondo quanto ha riferito il suo legale, Pasquale Pantano, parlando coi cronisti dopo l’interrogatorio, il gestore ha detto di aver sì saputo dei problemi ai freni nei giorni prima dell’incidente, ma di non essersi attivato in proposito perché la sicurezza dell’impianto “non rientrava nelle sue competenze”. “La sicurezza non è affare dell’esercente, per legge erano Tadini e Perocchio a doversene occupare”, ha raccontato. “Sapevo che c’erano stati problemi al sistema frenante e che era stata chiamata due volte la ditta per ripararlo, ma non che venissero usati i forchettoni per disattivarlo”. Ha aggiunto che il proprio compito è di occuparsi degli “affari della società” e di non aver avuto “alcun interesse a non riparare la funivia”, come invece sostengono i pm.
“Abbiamo dato delle indicazioni, a nostro avviso molto importanti, su chi doveva fare cosa in questa società, cioè chi deve occuparsi della sicurezza dei viaggiatori e chi del business. Nerini ha agito in piena trasparenza. Non era lui a poter fermare la funivia. Per legge è così, due decreti del ministero dei Trasporti dicono che spetta al capo servizio dell’impianto e il direttore di esercizio”, spiega l’avvocato. “Lui non può, perché è in conflitto d’interessi: se lo fa lui interrompe un pubblico servizio. Lui può fermare l’impianto solo se non c’è il direttore d’esercizio. Per favore non dite più che ha risparmiato sulla sicurezza, ha agito in piena trasparenza”.
Perocchio nega: “Una scelta scellerata di Tadini”
“Non sapevo dell’uso dei forchettoni, non ne ero consapevole”, ha detto al gip Enrico Perocchio, responsabile di esercizio dell’impianto e dipendente della Leitner. L’uomo ha dunque negato quanto sostenuto da Tadini, interrogato in precedenza, e cioè che anche lui fosse al corrente dell’uso del dispositivo per bloccare il freno di emergenza che entrava in funzione a causa delle anomalie dell’impianto. “Non salirei mai su una funivia con ganasce, quella di usare i forchettoni è stata una scelta scellerata di Tadini”, ha sottolineato Perocchio, secondo quanto riferito dal suo legale Andrea Da Prato. Che spiega: “Il mio assistito non poteva pensare, prevedere, né sapeva che qualcuno ha fatto un uso scellerato e vietato dalla legge” del dispositivo che ha bloccato i freni d’emergenza. Non lo ha mai saputo, e non c’è traccia del fatto che l’affermazione di Tadini sia in qualche modo sostenuta. Come gliel’avrebbe detto, quando gliel’avrebbe detto? Con una mail, una pec? Non c’è risposta a queste domande”. Perocchio è venuto a conoscenza della disattivazione dei freni, sostiene il legale, “alle 12.09 della domenica, quando Tadini, in un minuto di telefonata o forse meno, gli dice che sono inseriti i forchettoni. È il primo momento in cui apprende questa evenienza, poi, già da lunedì, capisce cosa è successo dalle foto dei giornali. Per lui la presenza del forchettone era un elemento così importante da volerlo comunicare all’autorità giudiziaria, ma non è stato ascoltato”.
Nell’interrogatorio di garanzia, il responsabile di esercizio “ha contrastato, circostanziando con precisione e scrupolo, l’unico elemento che viene utilizzato a suo carico, una breve, generica e secondo me anche superficiale dichiarazione di Tadini sul fatto che anche lui sarebbe stato consapevole” dell’uso del meccanismo.
Sul “movente economico” ipotizzato dalla Procura per la disattivazione dei freni, Da Prato argomenta: “L’ingegner Perocchio non perde denaro se l’impianto resta fermo, è direttore d’esercizio. Se l’esercizio sta chiuso l’ingegner Perocchio dorme tra otto cuscini. Ha una moglie e un figlio che lo aspettano e speriamo di poterglielo riportare oggi stesso”.
Tadini al giudice: “Messo ceppi, anche altre volte”
Da parte sua, il capo servizio dell’impianto – ha detto il difensore Marcello Perillo – ha “risposto in maniera compiuta a diverse domande del giudice” e ha “confermato le sue responsabilità”, ammettendo “di aver messo il forchettone”. Tadini ha detto di aver messo il ceppo blocca-freno anche altre volte e ha spiegato che le anomalie manifestate dall’impianto non erano collegabili alla fune, escludendo collegamenti tra i problemi ai freni e quelli al cavo. “Non sono un delinquente. Non avrei mai fatto salire persone se avessi pensato che la fune si spezzasse”, ha aggiunto.
L’ordinanza del gip
Ventiquattro pagine molto argomentate quelle in cui la gip Donatella Banci Buonamici smonta punto per punto l’impostazione della procura di Verbania, che aveva ritenuto che dovessero essere messi in carcere i tre indagati per la strage del Mottarone.
Luigi Nerini, gestore della funivia (difeso da Pasquale Pantano), Enrico Perocchio (avvocato Andre Da Prato) e Gabriele Tadini (assistito dal legale Marcello Perillo), nella notte sono usciti dalla cella in cui hanno passato quasi 96 ore sulla base di un’ordinanza che non convalida il fermo disposto dalla procura martedì sera.
Un fermo che “è stato eseguito al di fuori dei casi previsti dalla legge e non può essere convalidato”, dice secca all’inizio la giudice. E dopo gli interrogatori “il già scarno quadro indiziario sia stato ancora più indebolito”.
“Non c’era pericolo di fuga”
“Difettava infatti il pericolo di fuga, presupposto indefettibile per procedere al fermo indiziati di reato – insiste – Sono gli stessi pm che hanno operato il fermo a non indicare ALCUN (evidenzia in maiuscolo, ndr) elemento dal quale sia possibile evincere il pericolo di allontanamento dei tre indagati”. E spiega: “Suggestivo ma assolutamente non conferente è il riferimento al clamore mediatico nazionale e internazionale dato alla vicenda: è di palese evidenza la totale irrilevanza di tale condizione al fine di affermare il pericolo di fuga, non potendosi certo farsi ricadere sulla persona dell’indagato un clamore mediatico creatosi attorno alla vicenda”. Non c’era pericolo in particolare che fuggisse Tadini: “L’indagato infatti ha reso ampia confessione, ha ammesso nel dettaglio le proprie condotte, è padre di famiglia, vive e lavora da sempre in questo territorio”.
Il caso di Perocchio
Ancora più palese il caso di Perocchio: “Invece di essere raggiunto nel luogo di residenza da eventuale provvedimento restrittivo, è stato convocato alla stazione di Stresa per essere sentito come testimone. Si è spontaneamente presentato nel cuore della notte e nemmeno per un attimo ha ipotizzato la fuga. Ma v’è di più: Perocchio immediatamente ha chiesto inutilmente di essere sentito per dare la sua versione dei fatti dimostrando in questo modo altro che la volontà di fuggire, bensì la volontà di sottoporsi a ogni richiesta e provvedimento dell’autorità giudiziaria”.
E lo stesso vale per Nerini, che “da subito nei momenti iniziali della tragedia si è messo a disposizione delle forze dell’ordine rendendo ogni chiarimento. Tanto meno il pericolo di fuga potrebbe ipotizzarsi, come pure ipotizzato dal pm, nella necessità di sottrarsi a un ingente risarcimento del danno: ha un’assicurazione e, anche laddove non vi fosse la copertura assicurativa per le ipotesi di dolo, a maggior ragione Nerini avrebbe avuto interesse a restare sul territorio e difendersi da tale accusa anche per evitare le gravissime ripercussioni economiche su tutta la sua famiglia”.
L’accelerazione nelle indagini
È una risposta equilibrata a quella che era stata vista come un’accelerazione improvvisa delle indagini, tanto rilevante da portare a un fermo per tre persone eseguito nel cuore della notte, e che invece adesso suona come una sconsiderata fuga in avanti non suffragata da basi solide. Per tutti e tre le pm Olimpia Bossi e Laura Carrera avevano chiesto il carcere invece secondo la giudice, Nerini e Perocchio devono essere liberi, mentre per Tadini ha ritenuto giusti gli arresti domiciliari. “Il pericolo di reiterazione del reato per lui è implicito nella reiterazione per lungo tempo da parte del Tadini di una condotta scellerata, della quale aveva piena consapevolezza, posta in essere in totale spregio della vita umana e con una leggerezza sconcertante. Ciò induce a ritenere che il Tadini non abbia la capacità di comprendere la gravità delle proprie condotte e che, trovandosi in analoghe situazioni, reiteri con la stessa leggerezza altre condotte talmente pregiudizievoli per la collettività”.
La prassi scellerata dei forchettoni
Numerosi testimoni, dipendenti della società Ferrovie del Mottarone che ha in concessione la funivia, sentiti e poi risentiti dai carabinieri hanno confermato la prassi scellerata di inserire i forchettoni per disattivare i freni, ma ne attribuiscono la responsabilità al solo Tadini, “mentre nessuno ha parlato del gestore o del direttore d’esercizio”, sottolinea la gip. Tadini stesso sentito inizialmente come testimone aveva fatto convergere su di sé la colpa sostenendo che né Nerini né Perocchio sapessero nulla dei forchettoni. Versione poi cambiata quando la sua posizione è diventata di indagato. A quel punto, dopo sette ore di interrogatorio, ha detto che “tutti sapevano”.
Incolpati per condividere il peso
Ma la gip spiega bene: “Tadini sapeva benissimo di aver preso lui la decisione di non rimuovere i ceppi, Tadini sapeva perfettamente che il suo gesto scellerato aveva provocato la morte di 14 persone, Tadini sapeva che sarebbe stato chiamato a rispondere anche e soprattutto in termini civili del disastro causato. E allora perché non condividere questo immane peso, anche economico, con le uniche due persone che avrebbero avuto la possibilità di sostenere un risarcimento danni? Perché non attribuire ANCHE a Nerini e Perocchio la decisione di non rimuovere i ceppi? Tadini sapeva benissimo che chiamando in correità i soggetti FORTI del gruppo, il suo profilo di responsabilità, se non escluso, sarebbe stato attenuato”. Ma le argomentazioni di Tadini, se per le pm sono “logiche”, per la gip “non sono in alcun modo convincenti”. In particolare la giudice analizza la posizione di Perocchio, che è “dipendente della Leitner, percepisce uno stipendio dalla Leitner la quale a sua volta percepisce dalla Ferrovie del Mottarone una somma di 127 mila euro all’anno per l’attività di manutenzione. Perché avrebbe dovuto rifiutare di intervenire per la manutenzione? Perché avrebbe dovuto avallare la scelta scellerata del Tadini? Che interesse avrebbe avuto la Leitner a mantenere in cattive condizioni l’impianto di Stresa? La Leitner aveva tutto da perdere dal malfunzionamento della funivia e Perocchio aveva anche tutto da perdere in termini di professionalità e reputazione dal malfunzionamento dell’impianto di Stresa”
E lo stesso per Nerini: “Percé avrebbe dovuto avallare una simile prassi? La stagione turistica non è ancora iniziata, a causa delle restrizioni Covid mancano del tutto i turisti e in termini di fatturato almeno fino a giugno non è prevedibile un afflusso di turisti. Sarebbe stato certamente questo il momento per sospendere per qualche giorno il servizio per provvedere alla manutenzione”.
L’interrogatorio di convalida
Nell’interrogatorio di convalida il caposervizio Tadini ha continuato ad accusare i suoi superiori: “Ho detto che lasciavo i ceppi sui freni, che ormai era prassi, mi dicevano arrangiati. Ci sono state occasioni in cui mi sono incazzato, mi dicevano di andare avanti invece dovevano chiudere l’impianto”. Solo un dipendente corrobora in parte queste accuse quando dice di aver “udito più volte Tadini discutere animatamente con Perocchio e Nerini perché erano contrari alla chiusura dell’impianto, nonostante la volontà di Tadini fosse di chiudere. Per questo lo vedevo turbato e demoralizzato”. Ma si tratta della testimonianza di un dipendente che rischia anche lui di essere incriminato per la pratica dei forchettoni blocca-freno e che si scontra con altre di segno opposto .
Indagati per reati gravissimi
I tre restano indagati per reati gravissimi: non cambia la contestazione che la procura di Verbania ha mosso nei loro confronti, accusati di omicidio plurimo colposo, lesioni colpose, rimozione di tutele antinfortunistiche per aver posizionato dei ceppi blocca-freno che hanno inibito il funzionamento del freno d’emergenza, e per il solo Tadini c’è anche l’accusa di falso per aver omesso di segnare sul registro giornaliero dei controlli le anomalie all’impianto che da giorni lo tormentavano e che aveva risolto in maniera sconsiderata con i ceppi, i cosiddetti “forchettoni”.
(da agenzie)
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