IL MANIFESTO FEMMINISTA DI MANIZHA SCONVOLGE LA RUSSIA: “DELIRA, VA BANDITA”
DIFENDE DIRITTI LGBT, MINORANE , MIGRANTI… IL CASO FINISCE AL CREMLINO E IN PARLAMENTO… CON “DONNA RUSSA” NON HA VINTO L’EUROVISION, TUTTO IL RESTO SI’
“Hai più di 30 anni, dove sono i deti, i bambini?”. “Saresti bella, se dimagrissi”. Sono i primi versi della canzone che si fa beffa di offese e luoghi comuni spesso rivolti alle ragazze russe, e poi le incita all’indipendenza con un ritornello: “Ogni donna russa deve sapere che è abbastanza forte da rompere il muro”.
Nella Federazione che ha decriminalizzato la violenza domestica, che ha varato una legge contro la propaganda gay e non ama i migranti delle ex Repubbliche sovietiche trionfa Manizha, la cantante che difende i diritti Lgbt, minoranze etniche, donne vittime di abusi.
Paladina di una nuova Russia (aggettivo in lettera minuscola), ha composto l’inno di battaglia delle femministe russe: “Russkaya Zhenshina”, “donna russa”, e si è esibita all’ultimo Eurovision, una competizione che “solo in Russia provoca tanto scalpore ed esaltazione”, e a cui ogni cantante, scrive la Novaya Gazeta, viene inviato come un soldato in guerra.
La canzone dell’artista è arrivata anche alle orecchie della fetta più patriarcale e tradizionalista della Federazione.
Il Comitato investigativo russo ha ricevuto una richiesta per bandirla per “possibili dichiarazioni illegali”. Veteranskie Vesti, un sito di notizie per veterani in una Russia che ama le sue divise, ha suggerito di far finire la canzone in tribunale
Quasi per gli stessi motivi e con gli stessi propositi si è espressa l’Unione ortodossa delle donne russe che ha firmato una lettera aperta contro la cantante che mina il senso della famiglia tradizionale e incita all’odio: degli uomini.
Le rime di “Donna russa”, planate nei corridoi del Cremlino, hanno raggiunto la Camera alta. Per Valentina Matvienko, portavoce consiglio della Federazione, la canzone è un “bred”, un delirio che non doveva finire all’Eurovision, e durante una sessione parlamentare Dmitry Peskov, portavoce di Putin, è stato costretto a dichiarare: “Parliamo di una competizione dove le donne con la barba si esibiscono, i cantanti sono vestiti da polli, non consideriamo tutto questo oggetto della nostra attenzione”.
Ha intonato un singolare lamento anche il leader del partito social-democratico Vladimir Zhirinovsky: “Non sono sicuro che trasmetta una buona immagine delle donne russa o della Russia in generale”.
In passato Manizha ha pubblicizzato un’app per frenare la violenza contro le donne, ha sempre supportato i diritti Lgbt sentendosi dire che “chi supporta i gay, è gay” e un gradino dopo l’altro, non sempre su scala musicale, è diventata la prima ambasciatrice russa dell’Onu per i rifugiati a dicembre scorso.
A Rotterdam il mondo ha ascoltato “Donna russa”, ma quella che la canta “non lo è nemmeno.” Manizha è una migrantka, una ragazza nata a Dushanbe nel 1991, capitale del Tagikistan, da cui è scappata per la guerra civile scoppiata nell’anno della dissoluzione dell’Unione Sovietica. Credendo di sminuirla, certi critici la chiamano ancora così, “la tagika”.
Quasi tutto in lei è stato subito manifesto e dichiarazione politica, anche gli abiti della performance. Dal primo, quello tradizionale delle donne russe, cucito con centinaia di pezzi di stoffa che le hanno inviato da ogni latitudine russa, sbuca fuori come da una matrioska, e “rinasce” in tuta rossa: “Sono gli abiti della classe operaia, di quelli che si danno da fare per farcela”, ha poi spiegato.
Ama avere mille facce e non solo una. Manizha ha dato voce alle russe letteralmente: alle sue spalle la accompagna un coro di centinaia di attiviste che sullo schermo cantano insieme a lei.
Prima di arrivare in Olanda è stata scelta dal voto popolare per rappresentare il Paese esibendosi sul Primo canale, uno dei media più allineati alle antenne del Cremlino. Più che un palco è stato un ring, da cui è comunque uscita vittoriosa con quasi il 40% delle preferenze, ma il suo trionfo ha scatenato maree di offese sessiste, commenti misogini, post xenofobi.
Per temperamento, per sfida o per ciò che l’ha resa la sua storia personale ,ha reagito continuando a sorridere: “Non mi concedo la sconfitta. Se avessi cominciato a piangere, avrei reso le loro parole vere”.
Compiuto forse inconsciamente, tra la leggerezza delle note pop e riflettori colorati, il rito di passaggio, più che nella carriera della cantante, è avvenuto nella Federazione che l’ha scelta e che Manizha ama nonostante tutto: “ sono tagika, ma la Russia mi ha accettato e cresciuto. Non mi chiamo donna russa invano, ne ho diritto. Vorrei che il mondo vedesse il nostro Paese come lo conosco io: generoso, aperto, luminoso e diverso da tutto il resto.”.
Quando dice nostro, intende, suo: Mosca, dove ha imparato a cantare e suonare il piano da bambina, le appartiene quanto una vittoria molto più grande della competizione olandese. Non ha vinto l’Eurovision, tutto il resto sì.
(da Huffingtonpost)
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