Giugno 26th, 2022 Riccardo Fucile
CHI E’ NEL “CENTRO” VORREBBE UN UN “QUORUM” BASSISSIMO PER NON ESSERE TAGLIATI FUORI… ALTRI UNO SBARRAMENTO AL 5 PER CENTO… CONTRARI PD E FRATELLI D’ITALIA”
Come era prevedibile, le convulsioni di un sistema politico in affanno s’
incrociano con poche certezze e vari punti interrogativi sul prossimo futuro. La principale certezza riguarda il ruolo crescente del premier Draghi in Europa, favorito dal relativo indebolimento di Macron in Francia e dall’apparente carenza di “leadership” del tedesco Scholz.
Pur senza condividere i commenti più entusiasti, che arrivano a paragonare Draghi ad Angela Merkel, si deve riconoscere che l’Italia ha guadagnato una sua centralità negli affari europei: lo si vede rispetto all’Ucraina e al suo rapporto con l’Unione, e se ne ha conferma nelle discussioni sul prezzo del gas. Le tesi italiane trovano spesso ascolto e riscontro.
E questo senza avere un peso equivalente alla Germania durante la lunga era Merkel. Lungi dal sostenere che l’Italia sia diventata il perno degli equilibri europei, è vero che oggi essa rappresenta un fattore di stabilità, avendo trasformato il duopolio franco-tedesco in un triangolo che comprende Roma.
Era la norma in tempi lontani, con assetti politici meno incerti di ora. Cosa significa tutto questo? Che nel 2023 il tema della permanenza di Draghi alla guida dell’esecutivo si porrà inevitabilmente.
Conta, è ovvio, il risultato delle elezioni, ma conterà senza dubbio anche il voto dell’Europa, specie se la situazione internazionale resterà critica.
È un dato di realtà che qualcuno non vuole ammettere, ma tutti sanno che è così. Del resto, anche i tempi delle elezioni sono abbastanza definiti. L’ipotesi che si allunghi la legislatura per favorire la tornata di nomine pubbliche in scadenza ad aprile, risulta senza fondamento.
La legislatura finisce nell’ultima settimana di marzo e a quel punto il governo sarà in carica solo per l’ordinaria amministrazione, con la data del voto collocata intorno a metà-fine maggio.
Quanto ai punti interrogativi, ce ne sono diversi. Prendiamo l’argomento scabroso della legge elettorale. Dopo la scissione di Di Maio, c’è chi pensa che sia matura la riforma in senso proporzionale. Non è proprio così. E non solo perché l’area centrista – chiamata in modo non sempre appropriato “area Draghi” – è segnata da profonde rivalità personali. Ma per due buone ragioni.
La prima è che protagonisti o comprimari del “centro” vecchio e nuovo vorrebbero un proporzionale con un “quorum” bassissimo per non essere tagliati fuori.
Viceversa, l’ipotesi realistica, nella remota eventualità che si discuta la riforma, è una via alla tedesca: sbarramento al 5 per cento, così da non arrendersi alla polverizzazione ricattatoria.
La seconda ragione è la contrarietà dei due partiti maggiori. Letta non ha abbandonato l’idea del “nuovo Ulivo” e il proporzionale lo porterebbe in altri territori. Si troverebbe a dover trattare dopo il voto con una serie di alleati minori ma agguerriti. La stessa Giorgia Meloni, come è noto, è diffidente verso il proporzionale, a maggior ragione oggi che i sondaggi la vedono saldamente in testa.
Peraltro – ultimo interrogativo – la leader di FdI è di fronte a prove difficili che riguardano la gestione del centrodestra. E pesa ancora il fallimento di Roma, dove FdI presentò il bizzarro Michetti. Come dire che lo scollamento del sistema riguarda tutti.
(da La Repubblica)
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Giugno 26th, 2022 Riccardo Fucile
CIRCA LA METÀ DEL MILIONE E 81 MILA DIPENDENTI CHE HANNO RASSEGNATO LE DIMISSIONI NELL’ULTIMO ANNO, HA LASCIATO SENZA UN’OCCUPAZIONE “PARACADUTE” … C’È UN INCREMENTO TRA ADULTI, LAUREATI E TUTTI I LAVORI QUALIFICATI… IL MOTIVO PRINCIPALE? CONCILIARE MEGLIO VITA PRIVATA E LAVORO
La notizia più recente è quella arrivata ieri dal Friuli-Venezia Giulia dove tra gennaio e marzo di quest’ anno le interruzioni dei rapporti di lavoro sono aumentate di oltre il 50%. Passando così da 20.400 a ben 31.300 nella Regione, ma raggiungendo la quota monstre di 306.710 a livello Paese (+35% rispetto al 2021).
I numeri sono stati diffusi da Alessandro Russo, ricercatore dell’Ires Fvg, che ha rielaborato i dati Inps.
«Le dimissioni dei lavoratori son sempre più diffuse» si legge in una nota Ires, «e costituiscono la motivazione di gran lunga principale dell’interruzione dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato». E se nel 2014 le dimissioni davano conto di poco meno della metà di tutte le cessazioni, a partire dal 2021 la loro incidenza supera il 75% (nei primi tre mesi del 2022 è stata del 76,5%).
Le cessazioni di natura economica hanno un peso sempre minore, da quasi il 40% nel 2014 a valori prossimi al 10% nell’ultimo biennio, «anche per effetto del blocco dei licenziamenti introdotto dal governo». Insomma analizzando i numeri in oltre 70 casi su 100, in Friuli-Venezia Giulia, sono gli stessi dipendenti ad abbandonare il posto di lavoro, trattasi quindi di dimissioni puramente volontarie.
Un fenomeno – osservato non soltanto in Italia, ma anche in diversi altri Paesi come ad esempio gli Stati Uniti – particolarmente caldo in quest’ ultimo periodo e che, sicuramente, è stato influenzato sia dai due anni di pandemia che hanno completamente squassato il pianeta sia dalla possibilità di trovare un lavoro a distanza, da remoto.
Si è poi visto che nella maggior parte dei casi l’abbandono e la successiva ricerca di un nuovo impiego è legato alla voglia di aver un maggior bilanciamento tra vita privata e lavorativa che porti a un miglioramento dell’esistenza, dei rapporti familiari, ma anche la situazione psicofisica di ciascuno. Molti di quelli che hanno optato per questa scelta sono lavoratori dipendenti che hanno scelto di guadagnare persino meno e hanno deciso di aprire un’attività in proprio per gestirsi meglio il tempo.
Ma in questo grande piccolo esercito di dimissionari c’è persino – e sono parecchi – quelli che hanno detto addio al posto di lavoro senza aver alcun tipo di paracadute. Trovandosi così, magari anche a distanza di parecchi mesi, senza aver ancora in mano un nuovo contratto di lavoro.
È questo il dato che emerge da un recente studio realizzato da Fondazione Consulenti del Lavoro che ha preso in considerazione le dimissioni avvenute nei primi nove mesi del 2021.
Cessazioni che han riguardato ben un milione e 81 mila i dipendenti. È saltato fuori che quasi uno su due (circa 500mila) dopo aver rassegnato le dimissioni, non ha più un contratto attivo perché alla ricerca di un’altra occupazione.
Ma chi sono i lavoratori che si dimettono volontariamente alla ricerca di una vita migliore?
Dall’indagine “Le dimissioni in Italia tra crisi, ripresa e nuovo lavoro” di Fondazione Consulenti del Lavoro, basata sui dati delle Comunicazioni Obbligatorie del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, è venuto a galla che si tratta di un fenomeno trasversale da diversi punti di vista. I dimissionari non sono infatti soltanto giovani, con un basso livello di istruzione e residenti al Nord, ma che c’è un incremento tra i segmenti tradizionalmente meno interessati, in particolare adulti, laureati e tutti i lavori qualificati.
E il boom delle dimissioni volontarie ha riguardato in particolare gli States dove, solo nel mese di marzo di quest’ anno, sono stati ben 4,5 milioni gli americani che hanno lasciato o cambiato lavoro, dopo gli oltre 47 milioni di lavoratori che hanno scelto di abbandonare l’impiego nel 2021. Ma qui, anche in vista della probabile recessione economica, il fenomeno ora sembra smorzarsi parecchio.
(da Libero)
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Giugno 26th, 2022 Riccardo Fucile
“A VERONA IL FATTO CHE FEDERICO SBOARINA ABBIA DECISO DI NON APPARENTARSI CON LE LISTE DI FLAVIO TOSI È UNO SBAGLIO CLAMOROSO”
«Sono un po’ preoccupato per il dato dell’affluenza di domani (oggi, ndr).
Siamo a fine giugno e non permettere agli italiani di votare anche di lunedì è stato un errore. Incrocio le dita per Monza e Sesto San Giovanni».
Sarà che dalla terrazza dell’hotel di Rapallo in cui ha appena trascorso la notte si vedono i turisti che vanno e vengono da Santa Margherita e da Portofino, sarà che Matteo Salvini sa benissimo che gli elettori di centrosinistra sono storicamente più «fedeli» alla causa e disposti a sacrificare una domenica al mare per votare, sta di fatto che il leader della Lega non nasconde un certo nervosismo in vista dei ballottaggi.
«Io punto sulla Toscana, Lucca e Carrara ci daranno delle soddisfazioni – il pronostico, mentre è in pausa caffè fra la sala stampa e i corridoi del convegno nazionale dei Giovani di Confindustria – .Per il resto so che i nostri hanno fatto tutto il possibile. E non penso solo al grande lavoro fatto da Riccardo Molinari ad Alessandria». Sì, «i nostri».
Il vero cruccio di Salvini in queste ore, riguarda infatti quello che hanno fatto «gli altri», ovvero gli alleati di Fratelli d’Italia.
«A Verona il fatto che Federico Sboarina abbia deciso di non apparentarsi con le liste di Flavio Tosi è uno sbaglio clamoroso. E lo dice uno che Tosi lo ha espulso dalla Lega e che di certo non è uno dei suoi migliori amici – ammette Salvini -. Non entro nelle dinamiche interne degli altri partiti ma da quello che mi risulta i vertici nazionali di Fratelli d’Italia hanno anche detto al sindaco di ripensarci, ma lui e i suoi hanno tirato dritto rinunciando a un accordo che avrebbe portato in dote il 23%. Vi sembra sensato rischiare di perdere per non rinunciare a qualche posto in consiglio comunale? Mah».
È chiaro che l’idea di consegnare Verona, che oltre che essere una realtà storicamente di centrodestra è anche la città del suo braccio destro Lorenzo Fontana, al centrosinistra, gli dà parecchio fastidio.
Come gli sembra impossibile che il centrodestra a Piacenza, dove la sfida è testa a testa, non sia riuscito a raggiungere un accordo con i liberali dell’avvocato Corrado Sforza Fogliani, un combattivo ottantaquattrenne che solo pochi anni fa aiutò l’attuale sindachessa di centrodestra, Patrizia Barbieri, a muovere i primi passi in politica, e che oggi avrebbe portato in dono un più che significativo 8%.
Per non parlare di Como, dove Fdi, guidata dal deputato Alessio Butti, ha posto il suo veto alla ricandidatura del sindaco uscente e ha scommesso su un altro nome, riuscendo nell’impresa di non accedere nemmeno al secondo turno.
Oggi la partita se la giocano Barbara Minghetti (centrosinistra) e il civico Alessandro Rapinese. «Non so davvero cosa augurare ai comaschi» lo sfogo di Salvini, che pure a Como è da sempre legato visto che lì risiede la sua ex compagna Giulia Martinelli, capo di gabinetto del governatore Attilio Fontana in Regione Lombardia.
Già, la Lombardia. A rovinargli il weekend ligure a base di scorpacciate di focaccia e di bagni nel mare di Recco, dove va in vacanza fin da quand’era ragazzo, c’è anche quello che sta succedendo nella «sua» Milano.
Venerdì, dopo settimane di indiscrezioni, la vicepresidente Letizia Moratti ha annunciato ufficialmente di essere pronta a candidarsi alle elezioni regionali del prossimo anno. Un bell’ostacolo sulla strada di chi vuole un bis del presidente leghista Fontana. «Letizia Moratti è un assessore di centrodestra di una giunta di centrodestra con un governatore di centrodestra. Non ho mai visto un vicesindaco che corre contro il suo sindaco».
Poi, però, passa la palla direttamente a Fontana, lasciando intendere in modo un po’ sibillino che toccherà a lui sbrogliare la matassa: «Se deciderà di ricandidarsi l’appoggio della Lega andrà al governatore». Quanto a un’eventuale candidatura da indipendente dell’ex prima cittadina di Milano, ipotizzata qualche settimana fa anche da un mezzo endorsement in suo favore di Carlo Calenda, l’unico commento è un laconico: «Speriamo di no». Arriva il suo turno di parlare.
Il segretario della Lega sistema il nodo della cravatta e la spilletta «identitaria» dell’Alberto da Giussano e si dirige verso il salone dove lo attendono i giovani confindustriali. Bastano pochi minuti e dal palco spiazza tutti: «La prima centrale nucleare italiana? Fatela a Milano, a casa mia, a Baggio». Un bel titolo sui siti web a costo zero. Tanto a Milano si voterà fra cinque anni e Sesto San Giovanni e Monza, dove oggi si sceglie il sindaco, sono dalla parte opposta del capoluogo rispetto al quartiere di Salvini.
(da la Stampa)
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Giugno 26th, 2022 Riccardo Fucile
UN ALTRO CRIMINALE DEGNO DEL SUO PAESE: IN PASSATO È STATO ANCHE ARRESTATO (MA POI GRAZIATO)
Accade spesso nelle guerre che, se le cose non vanno come previsto, chi le ha decise scarichi la colpa sui generali dell’esercito, i quali sono facili da rimuovere e sostituire. Il presidente russo Vladimir Putin ne ha già silurati più di qualunque altro autocrate guerriero della storia, ma l’ultima purga, decisa pochi giorni fa, sta causando molte preoccupazioni nelle intelligence occidentali.
Secondo il ministero della Difesa britannico, al comando delle operazioni in Ucraina ci sarà ora il colonnello-generale Sergei Surovikin, i cui modi sbrigativi sono già stati sperimentati in Siria con ampia soddisfazione del Cremlino. Secondo il rapporto dei servizi britannici, dall’inizio di giugno Putin ha rimosso dai ruoli di comando operativo in Ucraina alcuni altri ufficiali, tra i quali il generale Alexander Dvornikov, comandante dell’esercito meridionale, e il colonnello-generale Andrei Serdyukov, comandante delle forze aviotrasportate.
§Quando un capo di stato non si fida più dei suoi generali, deve mettere al comando qualcuno di più simile a lui, con il quale possa capirsi al volo. Sergei Surovikin, la cui carriera è costellata di brutalità e di accuse di corruzione, è stato dunque scelto secondo quanto riferisce il ministero della Difesa britannico per sostituire Dvornikov e guidare le attuali operazioni sulle coste del Mar Nero.
Se Putin vuole chiudere in fretta il conflitto, Surovikin sembra l’ufficiale più adatto. Nel 2017 in Siria aiutò le truppe di Assad a riprendere in pochi mesi il controllo del 50% del territorio del Paese e le sue campagne militari impressero una svolta alla guerra. Di certo, se si vuole fare in fretta, non bisogna andare tanto per il sottile. Nell’agosto del 1991, nel pieno del golpe contro Michail Gorbaciov, comandò un battaglione che doveva fermare i manifestanti in un tunnel di Mosca: i soldati spararono e ne uccisero tre. Arrestato dopo il fallimento del golpe, fu poi graziato dal nuovo presidente Boris Eltsin perché «stava solo eseguendo gli ordini».
Nel 1995 Surovikin fu condannato dal tribunale militare a un anno di libertà vigilata per vendita illegale di armi, condanna poi annullata perché si poté accertare che si trattava solo di una pistola prestata ad un amico. In molti altri casi è riuscito a evitare processi e condanne: nel 2004 un colonnello, Vktor Chibizov, lo accusò di averlo picchiato dopo una discussione politica, e nello stesso anno il colonnello Andrei Shtkal si sparò in sua presenza esasperato dalle continue critiche che riceveva.
In entrambi i casi, il procuratore militare non trovò addebiti da muovere a Surovikin.
Brillante anche nelle azioni militari in Cecenia, il nuovo comandante delle operazioni sul Mar Nero ha nel suo curriculum anche la creazione della polizia militare russa ed è stato nominato nel 2017 comandante delle forze aerospaziali, la nuova importante branca dell’esercito con la quale si combatteranno le guerre del futuro.
Alle parate sulla Piazza Rossa, la divisa di Surovikin è quella con più medaglie: è Eroe della Federazione Russa, ha ricevuto tre volte l’Ordine della Stella Rossa, l’Ordine del Merito Militare e l’Ordine del Coraggio. La nomina in Ucraina rafforza le voci secondo le quali sarà presto lui a prendere il posto del Capo di Stato Maggiore delle forze armate Valery Gerasimov, messo in naftalina da Putin insieme a tanti altri generali: Serhiy Kisel, sospeso per non aver preso Kharkiv, il viceammiraglio Igor Osipov, rimosso dopo la perdita dell’incrociatore Moskva, il comandante della Sesta armata, Vladislav Ershov, quello della Ventiduesima, Arkadij Marzoev, e il vice-ammiraglio Sergej Pinchuk, che figura ancora sotto inchiesta.
È sparito dalla circolazione anche Sergei Beseda, il capo dei servizi segreti colpevole di avere fatto credere che Kiev sarebbe caduta in poche ore. La mancanza di scrupoli di Surovikin potrebbe avere successo dove altri hanno fallito, ma anche lui sa che l’Ucraina non è la Siria, e dovrà stare in equilibrio su un filo dal quale è molto facile cadere.
(da agenzie)
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Giugno 26th, 2022 Riccardo Fucile
L’INCHIESTA SU TRE TONNELLATE DI LINGOTTI SEQUESTRATE AGLI OLIGARCHI
I lingotti sarebbero stati prodotti in Russia a marzo per essere trasferiti a
maggio dal Regno Unito alla Svizzera. Una scoperta che accende i riflettori sul traffico clandestino delle risorse degli oligarchi, nel tentativo di salvare i propri patrimoni dalle sanzioni contro la Russia
Tre tonnellate di oro di origine russa, importate in Svizzera dal Regno Unito durante lo scorso mese di maggio, sono al centro delle indagini dell’Ufficio federale della dogana e della sicurezza dei confini (UDSC). L’UDSC ha infatti annunciato di star esaminando le importazioni citate in relazione alle sanzioni in vigore. Questo perché, dall’inizio dell’invasione in Ucraina, la Svizzera si è adattata alle misure internazionali che hanno sospeso l’import di diversi prodotti dalla Russia, tra cui figura appunto l’oro.
«Tutti i lingotti prodotti da raffinerie russe dopo il 7 marzo 2022 non possono più essere commercializzati in Svizzera», ha puntualizzato l’Ufficio federale della dogana e della sicurezza dei confini. Eppure, le tonnellate del metallo prezioso, per un controvalore di quasi 200 milioni di franchi, sembrano aver toccato terra elvetica lo scorso mese.
Interpellate dal quotidiano Blick di Zurigo, le autorità del Paese hanno glissato: il Segretariato dell’Economia ha invocato il diritto alla privacy per non rivelare il destinatario dell’oro. Dopo l’energia, il metallo rappresenta la seconda più grande fonte di reddito da export di Mosca, ma è una risorsa essenziale anche per l’economia svizzera.
La nazione alpina costituisce infatti il principale snodo mondiale di commercio dell’oro, che viene lavorato in 4 raffinerie della Confederazione, 3 delle quali si trovano nel Canton Ticino.
Il timore è che metallo raffinato rispedito a Mosca venga utilizzato per finanziare la guerra: ecco perché il London Bullion Market, da cui le citate raffinerie dipendono, ha vietato il trattamento dell’oro russo.
Il rispetto di questo divieto da parte della Svizzera è adesso in dubbio. Così come è in dubbio il modo in cui i lingotti riescono a circolare per il pianeta nonostante le sanzioni. Secondo quanto dichiarato dall’Ong Swissaid a Repubbblica, il punto di snodo sarebbe Dubai: all’emirato arriverebbero i lingotti, e dall’emirato verrebbero spediti al resto del mondo.
(da agenzie)
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Giugno 26th, 2022 Riccardo Fucile
DOPO GAS E PETROLIO IL METALLO PREZIOSO RAPPRESENTA LA SECONDA FONTE DI REDDITO NELLE ESPORTAZIONI DI MOSCA
Il presidente del Consiglio Mario Draghi è atterrato a Monaco di Baviera e si sta dirigendo verso il vertice del G7 di Elmau, in Germania.
Il summit è iniziato da poche ore, ma ha già prodotto i primi risultati: almeno quattro Paesi si sono detti decisi a vietare l’importazione di nuovo oro dalla Russia.
Si tratta di Regno Unito, Canada, Giappone e Stati Uniti. I negoziati sulla mesa al bando del metallo prezioso sono ancora in corso e la decisione non sarebbe ancora chiusa, ma il presidente degli USA Joe Biden la dà già per certa: «Gli Stati Uniti hanno imposto a Putin costi senza precedenti per negargli le entrate di cui ha bisogno per finanziare la sua guerra contro l’Ucraina», ha commentato.
«Insieme, il G7 annuncerà che vieteremo l’importazione di oro russo, un’importante esportazione che permette alla Russia di incassare decine di miliardi di dollari», ha concluso. L’obiettivo è quello di sferrare un ulteriore colpo all’economia della Nazione che lo scorso 24 febbraio ha avviato l’invasione dell’Ucraina: dopo l’energia, infatti, l’oro rappresenta la seconda più grande fonte di reddito da export di Mosca.
l primo ministro britannico Boris Johnson ha garantito che l’iniziativa congiunta «colpirà direttamente gli oligarchi russi e colpirà il cuore della macchina da guerra del (presidente Vladimir) Putin». BoJo ha poi ribadito il suo sostegno a Kiev, annunciando un rafforzamento del sostegno finanziario del suo Paese per aiutare l’Ucraina a far fronte all’invasione russa. Ha poi lanciato un appello agli altri leader, affinché non rinuncino a sostenere il Paese che, a suo dire «può vincere e vincerà» questa guerra.
«Non è il momento di mollare», ha insistito. Queste parole accompagnano l’offerta da parte di Londra di altri 525 milioni di sterline in garanzie per l’ottenimento di prestiti. Sommati agli altri aiuti finanziari e umanitari concessi quest’anno dal Regno Unito a Kiev, la cifra raggiunge l’1,8 miliardi di sterline.
Una linea condivisa dai vertici europei. «Saremo al fianco dell’Ucraina per tutto il tempo necessario», ha garantito la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, che puntualizza come al centro del G7 ci sarà «l’impatto globale negativo della guerra russa». Il presidente del Consiglio europeo Charles Michel ha promesso: «L’Ucraina ha bisogno di più aiuti militari, più aiuti finanziari, e lo faremo». Ha aggiunto che «le azioni della Russia hanno messo il mondo a rischio», ricordando anche che «dal primo giorno abbiamo mostrato unità nel sostenere Kiev e sanzionare Mosca». Michel insiste infatti sull’importanza delle sanzioni coordinate, sulle quali afferma di «puntare molto», essendo inoltre intenzionato a «implementarle».
«Le sanzioni devono impattare sulle facoltà della Russia che sta conducendo una guerra, ma dobbiamo tenere in considerazione anche i nostri interessi economici», ha concluso. Michel ha parlato anche del grano, auspicando che «ci sia al più presto una intesa per permettere al grano ucraino di lasciare i porti del mar Nero», mentre nel frattempo «dobbiamo cercare anche delle alternative attraverso Romania e Polonia».
Tra le armi da sfoderare nella guerra economica alla Russia, potrebbe non esserci solo quella del divieto all’import di oro. Gli Stati Uniti probabilmente riporteranno sul tavolo la questione del price cap al petrolio da Mosca, ovvero un tetto al prezzo del carburante russo. L’Unione Europea potrebbe seguirli: Mosca sta infatti continuando a vendere il proprio greggio a Paesi come l’India e la Cina. Charles Michel ha annunciato a proposito: «Siamo pronti a prendere decisioni», dopo un attento esame di quelli che potrebbero essere gli «effetti collaterali» sulle «nostre economie».
La proposta del presidente Draghi di introdurre un price cap sul gas importato dalla Russia, formulata durante il Consiglio europeo conclusosi ieri, ha invece subìto una temporanea battuta d’arresto. Diversi membri del Consiglio si sono infatti espressi in maniera sfavorevole all’accelerazione, rimandando il confronto a ottobre. A luglio arriverà invece un piano della Commissione Europea per ridurre la domanda energetica dell’Ue, da cui dovrebbe restare escluso il tetto massimo sul gas.
(da agenzie)
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Giugno 26th, 2022 Riccardo Fucile
DOPO LA SENTENZA DELLA CORTE SUPREMA CHE HA ABOLITO IL DIRITTO DI ABORTO, GOOGLE, APPLE E META HANNO ANNUNCIATO CHE I LORO DIPENDENTI POTRANNO FARE DOMANDA DI TRASFERIMENTO IN UN ALTRO STATO “SENZA GIUSTIFICAZIONE” E CHE LE AZIENDE COPRIRANNO I COSTI DI VIAGGIO, ALLOGGIO E PROCEDURE NEL CASO DEBBANO RECARSI IN UN ALTRO STATO PER ABORTIRE
I dipendenti di Google che lo vorranno potranno fare domanda di
trasferimento in un altro stato “senza giustificazione”. La decisione, contenuta in una email al personale dell’azienda di Mountain View, arriva dopo la decisione della Corte Suprema americana che non rende l’aborto illegale negli Stati Uniti, ma lascia la decisione ai singoli governi statali. Un certo numero di stati ha subito limitato il diritto all’aborto, tra cui Louisiana, Missouri e Kentucky.
Altri stati, tra cui la California, dove ha sede Google, hanno promesso di proteggere i diritti di aborto all’interno dei loro confini. La sentenza “è un cambiamento profondo per il Paese che colpisce tanti di noi, soprattutto le donne. Ognuno risponderà a suo modo suo, si tratti di volere spazio e tempo per elaborare, parlare, fare volontariato al di fuori del lavoro.
Siate consapevoli di ciò che i colleghi possano provare e, come sempre, trattatatevi l’un l’altro con rispetto – si legge nell’email pubblicata dal sito The Verge – L’equità è straordinariamente importante per noi come azienda e condividiamo le preoccupazioni sull’impatto che questa sentenza avrà sulla salute, sulla vita e sulla carriera delle persone. Continueremo a lavorare per rendere accessibili le informazioni sull’assistenza sanitaria riproduttiva attraverso i nostri prodotti e continueremo il nostro lavoro per proteggere la privacy degli utenti”.
“Per supportare i dipendenti e le persone a loro carico – aggiunge la comunicazione – il nostro piano di benefici e l’assicurazione sanitaria copre le procedure mediche fuori dallo stato se non sono disponibili dove vive e lavora un dipendente. Si può anche richiedere il trasferimento senza giustificazione”.
Ieri altre aziende tecnologiche come Apple e Meta, la casa madre di Facebook e Instagram, si sono impegnate a pagare alle dipendenti viaggio, alloggio e procedure nel caso debbano recarsi in un altro Stato per sottoporsi ad un aborto. “Sosteniamo i diritti dei nostri dipendenti a scegliere”, ha affermato Apple.
(da agenzie)
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Giugno 26th, 2022 Riccardo Fucile
E’ TEORICO DELLA RESTAURAZIONE CONSERVATRICE E SPINGE L’IDEA CHE IL SISTEMA AMERICANO DEBBA TORNARE A FONDARSI SULL’INTERPRETAZIONE LETTERALE DELLA COSTITUZIONE
La decisione della Corte suprema Usa era scontata. Nessuno si era fatto illusioni che la Roe vs Wade superasse le forche caudine di un tribunale a forte trazione conservatrice, simbolo di un disequilibrio che non rappresenta il Paese e che è destinato a durare decenni.
Il giudice Samuel Alito ha evocato la Costituzione per sentenziare che, non essendoci riferimenti all’aborto, tutte le leggi e le sentenze che la richiamavano come base di un diritto erano impure.
E così via la Roe vs Wade. Alito ha anche spiegato che questo approccio vale solo per la questione dell’aborto.
Se guardate la foto dei nove togati, però, soffermatevi su Clarence Thomas, il veterano dei giudici – è in carica dal 1991 – ultraconservatore e secondo afroamericano a sedere fra i nove custodi delle leggi Usa. È il teorico della restaurazione e non condivide questa «timidezza» di Alito. Secondo Thomas, ora la Corte ha il dovere di «correggere l’errore – ha scritto nel parere associato – stabilito in alcuni precedenti».
Linguaggio oscuro, che significa che almeno tre sentenze del passato (Griswold, Lawrence, Obergefell) che proteggevano la contraccezione, il sesso consensuale fra gay e il matrimonio omosessuale possono venire spazzate via.
La sua è una posizione estremista, gli altri giudici conservatori hanno preferito sposare la linea di Alito, ma è un indizio di dove una fetta di America vuole portare la nazione: a cancellare ogni diritto civile faticosamente conquistato.
Il miglior alleato di Thomas è in famiglia: la moglie Ginni è un’attivista e lobbysta, adepta dei Tea Party, sugli scudi contro l’Obamacare, e così intimamente trumpiana da aver inondato il capo dello staff di Donald, Mark Meadows, di email affinché trovasse il modo di ribaltare l’esito del voto del 2020. La Commissione 6 gennaio le ha inviato un mandato di comparizione.
Il giudice Thomas è stato sin dal suo esordio un falco, ma la sua posizione è spesso stata mitigata da un equilibrio della Corte a maggioranza conservatrice (5-4) da decenni, ma con un esponente – il moderato Anthony Kennedy, nominato da Reagan – a fare da bilanciere e sovente schierato con l’ala progressista sui sociali, come i diritti Lgbtq. Kennedy, nel 2018, ha rassegnato le dimissioni e Trump al suo posto ha nominato Brett Kavanaugh, conservatore anti-abortista.
E il piano restauratore di Thomas (e della moglie) qualche chance di andare in porto ce l’ha. I primi segnali di una svolta si ebbero quando il 13 febbraio del 2016 un infarto stroncò la vita del giudice conservatore Antonin Scalia. Barack Obama si trovò dinanzi la ghiotta opportunità di nominare un liberal: la sua scelta cadde su Merrick Garland, ma i repubblicani insorsero, dicendo che nomine così importanti nell’ultimo anno di Presidenza erano inopportune.
L’ostruzionismo che fecero fu così forte che la Presidenza arrivò al termine e il nuovo giudice lo scelse Donald Trump: Neil Gorsuch. Poi ne prese altri due, lo stesso Brett Kavanaugh e Amy Coney Barrett.
Quest’ ultima venne nominata appena un mese prima delle elezioni del 2020, ma evidentemente i repubblicani avevano dimenticato le critiche che avevano fatto a Obama. La storia sarebbe andata diversamente se Obama fosse riuscito a portare un «suo» giudice alla Corte.
E sarebbe stata diversa se H Bader Ginsburg, morta nel 2020 a 87 anni, avesse rassegnato le dimissioni durante l’epoca di Obama. Invece Donald Trump si è trovato a nominare ben tre giudici e Thomas ha trovato alleati tanto che, paradossalmente in una Corte con sei conservatori, il giudizio del presidente, John Roberts, moderato nominato da Bush junior, è ininfluente.
Nessuno pensa che la Corte rispecchi la società americana in termini di pensiero, costumi, valori. Solo il 30% degli statunitensi è favorevole alla cancellazione del diritto dell’aborto.
Ovviamente il lavoro dei giudici non è tenere conto dei sondaggi, stare sconnessi con la realtà però è un pericolo perché le conseguenze di scelte come quella sull’aborto investono il futuro della nazione.
E minano anche la credibilità delle istituzioni. Se anche il Tribunale supremo, per definizione super partes, entra nell’arena politica, di chi fidarsi? Oggi il tasso di approvazione della Corte scavalla appena il 20%. Eppure, è questa minoranza ad avere il potere: è una destra cristiana fondamentalista che ha trovato in Trump il guardiano di un modo di concepire l’America come un fortino assediato da un mondo volgare, debole e depravato.
Davanti al vortice Trump il partito repubblicano si è sgonfiato. Chi si espone – come Liz Cheney – vede in pericolo la rielezione; altri come il deputato Adam Kinzinger sono minacciati di morte (con la moglie e il figlio di 6 mesi) perché «traditori del giuramento». E in questo clima la restaurazione dei coniugi Thomas, una volta chimera, è un più vicina. E il paradosso è che il potere di fermarla è nelle mani degli altri giudici conservatori. –
(da agenzie)
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Giugno 26th, 2022 Riccardo Fucile
BRUSAFERRO: “LA QUARTA DOSE E’ NECESSARIA PER I FRAGILI. LE REINFEZIONI SUPERANO L’8%”… “IL TRACCIAMENTO IN QUESTA FASE È MOLTO DIFFICILE. IL NUMERO DEI CASI È TROPPO ELEVATO E PRESUMIBILMENTE QUELLI NOTIFICATI SONO INFERIORI AI REALI”
«Siamo in partita», indossa i panni del giocatore Slvio Brusaferro, presidente
dell’Istituto superiore di sanità. La partita è quella cominciata a febbraio del 2020 contro il virus Sars-CoV-2 che oggi ci tiene ancora inchiodati in campo a rispondere ai suoi colpi di avversario trasformista. L’ultimo affondo è la sottovariante Omicron 5, più trasmissibile anche se meno aggressiva.
Avrà la meglio?
«Noi la stiamo monitorando attentamente. La raccolta dei dati è fondamentale per comprendere e contenere le sue evoluzioni . In altre parole, siamo sul pezzo».
Come?
«Abbiamo una larga fascia di popolazione immune e questo è fondamentale per poter prevenire le conseguenze gravi dell’infezione e l’impatto sui servizi sanitari»
Quanti sono gli immuni?
«L’86% degli italiani oltre 5 anni d’età si sono vaccinati con ciclo completo. Vanno aggiunti tutti coloro che hanno contratto il virus naturalmente e hanno sviluppato la protezione indotta dall’infezione, direi che superiamo certamente il 90%. La copertura è ampia».
Però?
«I casi gravi restano contenuti, i ricoveri in ospedale evidenziano una crescita limitata. Se non fossimo difesi dallo scudo delle immunità la situazione sarebbe ben diversa e non potremmo guardare all’estate con la stessa prospettiva. La priorità anche oggi resta la tutela delle persone fragili, sopra gli 80 anni e delle persone affette da malattie croniche, soprattutto se anziane e immunodepresse»
Il virus non è pericoloso e si esprime con forme lievi, non converrebbe lasciarlo correre per facilitargli la strada verso l’endemia?
«Non è corretto sottovalutarlo, occorre monitorarlo ed affrontarlo modulando le azioni. Oggi credo che la popolazione abbia imparato a usare precauzioni nelle situazioni a rischio. Però dobbiamo proteggere i fragili e mantenere elevata l’immunità. Noi monitoriamo giorno per giorno, confrontandoci con i colleghi europei per intercettare subito i segnali di allarme anche con attività di sequenziamento dei patogeni».
Quarta dose necessaria?
«È prioritario in questa fase garantire una immunità elevata ai fragili per proteggerli soprattutto dalle forme gravi di malattia. Le raccomandazioni esistenti vanno in questo senso: anche i dati pubblicati questa settimana mostrano una protezione all’86% dalla malattia grave e negli over 80 la percentuale sale al 91%».
A che punto siamo della pandemia?
«Siamo ancora in fase pandemica e di questo dobbiamo essere consapevoli. Al momento tutto il sistema di controllo è pienamente operativo ».
I casi sono in risalita esplosiva?
«Non la definirei così. L’incidenza settimanale è salita dai 310 casi per 100mila abitanti della scorsa settimana agli attuali 504. È un rialzo molto significativo accompagnato da un indice di replicazione, l’Rt, superiore all’unità. Questa ondata epidemica crescerà ancora come stiamo vedendo in altri Paesi. È partita dal Portogallo e sappiamo che ciò che succede in Europa prima o poi interesserà anche noi».
A cosa è dovuta la ripresa?
«Omicron 4 e 5, le ultime due sottovarianti, sono più trasmissibili. Costituiscono rispettivamente il 18% e 34% dei ceppi circolanti, secondo l’ultimo monitoraggio. La stagione estiva favorisce i contatti e la vita sociale».
Poi ci sono le reinfezioni.
«Superano l’8%. Sappiamo che oggi chi, pur essendosi vaccinato e avendo avuto l’infezione, potrebbe contrarre una seconda volta il virus che però colpisce in modo meno grave dal punto di vista clinico»
Mascherina ancora utile?
«Indossiamola nelle situazioni a maggior rischio».
Funziona ancora il «contact tracing», il sistema di tracciamento dei contatti dei positivi?
«In questa fase è molto difficile. Il numero dei casi è troppo elevato e presumibilmente quelli notificati sono inferiori ai reali. Chi scopre autonomamente di essere positivo dovrebbe dichiararlo ed essere consapevole che può trasmettere il virus».
(da il Corriere della Sera”)
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