Agosto 1st, 2022 Riccardo Fucile
FDI 24,2% (-0,8%), PD 23,7% (+0,5%), LEGA 12 (-0,4%), M5S 10% (-0,1%), FORZA ITALIA 7,5% (+ 0,4%), AZIONE+EUROPA 6,8% (+0,8%), VERDI+SINISTRA 4,1% (+0,5%), ITALEXIT 3,2% (+0,4%), ITALIA VIVA 2,8% (-0,1%), INSIEME PER IL FUTURO 1,7% (+ 0,2%)
Fratelli d’Italia cala di quasi un punto ma rimane primo partito davanti al Pd secondo le intenzioni di voto registrate dal sondaggio Swg per La7 in vista delle elezioni politiche 2022 del 25 settembre.
Il partito di Giorgia Meloni scende dal 25% al 24,2%.
Il Pd sale dal 23,2% al 23,7%.
Scende la Lega, che perde lo 0,4% e ora vale il 12%.
Giù leggermente anche il M5S, ora al 10%. Forza Italia guadagna lo 0,4% e arriva al 7,5%.
Passo avanti di Azione-Più Europa, che sale dal 6% al 6,8%.
I Verdi+Sinistra sono al 4,1%, Italexit è al 3,2%, Italia Viva è al 2,8% e Insieme per il Futuro è all’1,7%.
Non si esprime il 40% degli intervistati, in linea con gli altri sondaggi e con le percentuali altissime di astensionismo delle ultime tornate elettorali.
(da agenzie)
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Agosto 1st, 2022 Riccardo Fucile
PER UN LAVORATORE CON UN REDDITO DI 35 MILA EURO L’ANNO LORDI, IL TAGLIO SI TRADURREBBE IN UN AUMENTO MENSILE DELLO STIPENDIO DI CIRCA 27 EURO. CHI INVECE HA UN REDDITO LORDO DI 28 MILA EURO L’ANNO SI TROVEREBBE CIRCA 22 EURO IN PIÙ IN BUSTA PAGA AL MESE
Il governo si prepara a dare il via libera al decreto Aiuti bis che prevede, tra le altre cose, un taglio del cuneo fiscale per i lavoratori e l’anticipo della rivalutazione degli assegni pensionistici per ridare fiato al potere d’acquisto, ridotto drasticamente dall’inflazione e dal caro energia.
Il taglio del cuneo fiscale, allo studio, dovrebbe essere di un punto percentuale aggiuntivo rispetto a quello di 0,8 punti già in vigore fino a fine anno. La misura dovrebbe avere durata di sei mesi e dovrebbe valere solo per i lavoratori dipendenti con redditi fino a 35 mila euro l’anno.
Di quanto aumentano gli stipendi
Ma quanto potrebbe valere in busta paga questo taglio dei contributi? Per un lavoratore con un reddito di 35 mila euro l’anno lordi, il taglio si tradurrebbe in un aumento mensile dello stipendio di circa 27 euro. Chi invece ha un reddito lordo di 28 mila euro l’anno si troverebbe circa 22 euro in più in busta paga al mese. Per un lavoratore con un reddito di 15mila euro l’aumento mensile sarebbe di circa 12 euro.
Gli aumenti delle pensioni
Per i pensionati, invece, arriverà l’anticipo della rivalutazione di tre mesi (che era prevista per gennaio 2023) che dovrebbe essere attorno al 2%, a partire da settembre. L’aumento definitivo, che potrebbe essere superiore all’8%, tenendo conto dell’attuale dato dell’inflazione, partirebbe a gennaio 2023. Il Consiglio dei ministri è atteso a metà della prossima settimana, tra mercoledì e giovedì, per il via libera al pacchetto di misure. Ancora sul tavolo la definizione dei costi – in totale il decreto può contare complessivamente su 14,3 miliardi di risorse -, l’intervento sulle pensioni dovrebbe riguardare tutti e non solo chi ha assegni fino a 35 mila euro l’anno, ma la questione è ancora in discussione.
Il meccanismo attuale per la rivalutazione prevede tre fasce: il 100% fino a 4 volte la pensione minima, ovvero 523 euro al mese, il 90% tra 4 e 5 volte il minimo e i 75% sopra questa soglia. Dopo l’anticipo di settembre, bisognerà calcolare il conguaglio sulla base dell’indice annuo dell’inflazione accertato dall’Istat.
(da Il Corriere della Sera)
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Agosto 1st, 2022 Riccardo Fucile
OK AI CONTROLLI, MA PER “FERMARE” UNA NAVE IN PORTO OCCORRONO PROVE: “PRESTARE SOCCORSO E’ UN OBBLIGO, I MIGRANTI SALVATI NON POSSONO ESSERE CONTEGGIATI PER SOSTENERE CHE C’ERANO A BORDO PIU’ PERSONE DI QUELLE AUTORIZZATE, VALGONO I CERTIFICATI RILASCIATI DALLLO STATO DI BANDIERA”
Le navi di organizzazioni umanitarie con la Sea Watch che fanno attività di ricerca e soccorso in mare possono essere controllate dallo Stato di approdo ma “provvedimenti di fermo possono essere adottati soltanto in caso di evidente pericolo per la sicurezza, la salute o l’ambiente, il che deve essere dimostrato”.
Lo ha stabilito oggi la Corte di giustizia Ue rispondendo alle questioni pregiudiziali che le sono state sottoposte dal Tar della Sicilia nella causa intentata dalla Sea Watch contro l’Italia.
La causa esaminata dalla Corte Ue si riferisce a quanto accaduto nell’estate del 2020 quando la Sea Watch 3 e la Sea Watch 4, dopo aver sbarcato migranti salvati in mare a Palermo e Porto Empedocle furono oggetto di ispezione da parte delle capitanerie di porto con la motivazione che non erano certificate per l’attività di ricerca e soccorso (Sar) in mare e avevano imbarcato un numero di persone di molto superiore a quello autorizzato.
La Grande sezione della Corte Ue ha innanzitutto ricordato oggi “l’obbligo fondamentale di prestare soccorso in mare alle persone in difficoltà”. Le persone salvate, indipendentemente dal tipo di unità impiegata, “non devono quindi essere conteggiate” ai fine della verifica del rispetto delle autorizzazioni rilasciate.
Una situazione che non può dunque giustificare di per sè il controllo. Quindi, per i giudici comunitari, lo Stato di approdo, cioè l’Italia, può disporre un’ispezione ma deve dimostrare in maniera “diretta e circostanziata” l’esistenza di indizi seri di un pericolo per la salute, la sicurezza e le condizioni di lavoro a bordo o l’ambiente. E spetta al giudice del rinvio verificare che esitano queste condizioni.
Inoltre, l’Italia “non può imporre” di provare che le navi impegnate in attività di Sar dispongano di certificati diversi da quelli rilanciati dalla Stato di bandiera “o che esse rispettino tutte le prescrizioni applicabili a una diversa classificazione”.
“Nel caso in cui l’ispezione rilevi l’esistenza di carenze – si legge ancora in una nota della Corte – lo Stato di approdo può adottare le azioni correttive necessarie” ma devono essere “adeguate, necessarie e proporzionate. E la revoca del fermo “non può essere subordinata al fatto che la nave disponga di certificati diversi da quelli rilasciati dallo Stato di bandiera”, in questo caso la Germania.
(da Avvenire)
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Agosto 1st, 2022 Riccardo Fucile
IL REPORT DI 118 PAGINE: “MOSCA HA PERSO SOCIETA’ CHE RAPPRESENTANO IL 40% DEL SUO PIL”
E’ opinione abbastanza condivisa che la Russia stia soffrendo – e anche molto – a causa delle sanzioni. La sua industria ha bisogno di input che arrivano dall’estero, senza i quali c’è un indebolimento strutturale della capacità produttiva, anche militare.
Poi è vero che Cina e India sono alternative importanti al mercato europeo, però comprano a prezzi scontati sfruttando l’isolamento russo. Quindi cosa sta realmente accadendo?
L’Università di Yale prova a fare il punto della situazione. Ha appena pubblicato un documento di 118 pagine definendolo «una delle prime analisi complete che valuta l’attuale attività economica russa e le sue prospettive future a cinque mesi dall’inizio dell’invasione».
Gli autori dicono di aver usato «fonti private in lingua russa e dati non convenzionali – inclusi dati ad alta frequenza sui consumatori, dati complessi sulle spedizioni e informazioni da partner commerciali internazionali della Russia».
Alla luce di tutto ciò, continuano gli autori, si può affermare che le sanzioni e la fuga di multinazionali e società estere «stanno paralizzando in modo catastrofico l’economia russa».
Con l’isolamento dal business straniero, secondo i ricercatori di Yale, «la Russia ha perso società che rappresentano circa il 40% del suo Pil, cosa che ha stravolto tre decenni di investimenti esteri e rafforzato una fuga simultanea e senza precedenti di popolazione e capitali, in un esodo di massa della base economica».
Per far fronte a questa crisi, Putin ricorre a misure fiscali e monetarie “palesemente insostenibili” che avrebbero «già mandato in deficit il bilancio dello Stato per la prima volta da anni e prosciugato le riserve estere nonostante i prezzi alti delle materie prime».
Secondo il documento, «le finanze del Cremlino sono in condizioni molto, molto più gravi di quanto si pensi convenzionalmente».
Poi Yale fa anche un bilancio sulla svolta asiatica delle esportazioni di energia. Come è stato detto più volte la Russia ha aumentato le vendite in Russia e Cina per compensare la perdita progressiva del mercato occidentale, in particolare europeo.
Ma tutto ciò, afferma Yale, avviene in una posizione negoziale di svantaggio – perché la Russia, isolata, è costretta pur di vendere ad accettare forti sconti. E così, prosegue il report, «il posizionamento strategico della Russia come esportatore di materie prime è irrevocabilmente deteriorato. Russia e Cina sono acquirenti notoriamente attenti ai prezzi che mantengono stretti legami con altri importanti esportatori di materie prime».
Per la Russia, in sostanza, «non c’è via d’uscita all’oblio economico». A patto però che i paesi alleati «rimangano uniti nel mantenere e aumentare la pressione delle sanzioni». Ed è proprio qui che Putin incrocia le dita: il suo popolo è molto più avvezzo a soprusi e privazioni delle ricche democrazie occidentali.
(da agenzie)
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Agosto 1st, 2022 Riccardo Fucile
SECONDO L’ISTAT IN ITALIA NEL 2030 MANCHERANNO 2 MILIONI DI PERSONE IN ETA’ DA LAVORO. COLPA DEL LUNGO “INVERNO DEMOGRAFICO”. E QUESTO SI TRADURRA’ IN MENO PIL, MENO ENTRATE FISCALI E PIU’ SPESE PER IL WELFARE
Cinquant’anni che cambiano il volto di un Paese. Fra il 2020 e il 2070 l’Italia scenderà da 59,6 milioni di abitanti a 47,6. Oggi siamo a 59,3 milioni. I tecnici dell’Istat che hanno stilato la proiezione con metodologie Eurostat e United Nations Population Division, lo chiamano “inverno demografico”. Meno abitanti significano meno incassi fiscali, meno Pil, ricchezza, consumi, sviluppo.
Eppure, un rimedio almeno parziale è a portata di mano: un migliore uso delle risorsa-migranti.
I calcoli dell’Istat scontano un flusso di 130-150mila arrivi netti l’anno, più o meno i livelli attuali (se mancassero quelli, anziché 12 milioni perderemmo 18 milioni di abitanti) ma molto di più si può fare. Parlano le cifre, non le ideologie.
Intorno all’immigrazione e soprattutto alle sue interconnessioni con il mercato del lavoro è nata una labirintica serie di luoghi comuni tali da annacquare i tentativi di razionali e calibrate politiche.
«Un pregiudizio diffuso è che i migranti ci costino chissà quanto», dice Stefano Scarpetta, direttore per il Lavoro e gli affari sociali dell’Ocse. «Invece in tutti i Paesi industrializzati gli immigrati pagano in tasse e contributi più di quanto ricevono in pensioni, salute ed educazione.
Ciò è spiegabile perché si tratta per lo più di giovani, sani e determinati. E se si includono le spese militari e perfino il servizio del debito pubblico, il contributo dei migranti resta positivo in un terzo dei Paesi Ocse, inclusa l’Italia».
Occorre, dice Scarpetta, «una politica attiva che individui le necessità del mercato del lavoro e regoli gli arrivi a seconda delle caratteristiche di cui abbiamo bisogno: la migrazione la subiamo anziché gestirla».
La demografia, dopo decenni di scarsissime nascite, non dà scampo. «In Italia gli over 65 passeranno da 14 a 19 milioni entro il 2050 – spiega Alessandro Rosina, docente di Demografia alla Cattolica – e intanto perderemo 8 milioni di lavoratori fra i 20 e i 64 anni. I trentenni sono un terzo in meno dei cinquantenni, e a loro volta i nuovi nati sono un terzo di meno dei trentenni.
Il gap fra nascite e morti supera ormai le 300 mila unità, 700 mila decessi e 400 mila nascite». Ma la tendenza è quella di un’ulteriore discesa delle nascite sotto le 300 mila entro il 2050.
Il Pnrr prevede un massiccio investimento (quasi 5 miliardi) per asili nido e altri supporti alla genitorialità, ma difficilmente basterà: «Gli effetti delle nascite sul mercato del lavoro – spiega Rosina – li vedremo fra vent’ anni. Anche se rimontiamo la media europea da 400 a 500 mila nascite, i futuri ventenni saranno meno degli attuali che già sono il numero più basso di sempre, 580 mila. L’aumento delle nascite non basta, deve combinarsi con flussi migratori consistenti».
Nell’ipotesi di aumento delle nascite e di un saldo migratorio netto di 250 mila annui, oltre 100 mila più degli attuali, la fascia 20-49 anni perderà in vent’ anni 2,8 milioni di lavoratori: senza natalità in ripresa e migrazioni la perdita sarà di 5,6 milioni. «Come saldo migratorio, 250 mila non è un numero alto: la Germania ha assorbito livelli doppi nei dieci anni precedenti la pandemia arginando la riduzione della popolazione attiva».
Il tempo stringe: senza guardare a proiezioni troppo lontane, nel 2030 mancheranno all’appello due milioni di lavoratori fra i 15 e i 64 anni, di cui 1,83 milioni nella cruciale fascia 30-64 anni: se all’inizio del 2002 il 67,1% della popolazione vi apparteneva, all’inizio di quest’ anno si era scesi al 63,5% e a fine decennio saremo al 61,5%. Per la cronaca, le proiezioni Istat al 2070 fissano al 54,1% o tale quota.
Gli interventi da fare sono tanti, urgenti e coordinati», avverte Corrado Bonifazi, demografo e ricercatore del Cnr. «Il modo per rispondere all’indebolimento della popolazione in età lavorativa è la combinazione fra le condizioni che favoriscono una ripresa delle nascite, un rafforzamento dei flussi d’ingresso dall’estero e una revisione del mercato del lavoro che favorisca la regolarizzazione e l’occupazione di più migranti ».
Uno degli ultimi atti del governo Draghi è stato portare a 70mila per il 2022 i flussi ammessi per decreto, cioè i posti di lavoro messi in palio per gli immigrati, fermi da sei anni a 40mila compresi gli stagionali.
«Sono pochi viste le esigenze del mercato del lavoro, per di più il funzionamento del meccanismo è pessimo », commenta Maurizio Ambrosini, docente di Sociologia delle migrazioni alla Statale di Milano e autore de L’invasione immaginaria (Laterza). «I meccanismi di trasmissione delle esigenze dell’industria agli uffici del governo e agli immigrati potenziali sono insufficienti, e poi le applicazioni vengono processate con tale lentezza che alla fine restano vuote molte caselle».
Se per avere una badante o un tornitore devo aspettare sei mesi, nulla di più probabile che mi rivolga al mercato nero. Poi, semmai, li regolarizzo in occasione di una delle tante sanatorie. Anche Ambrosini insiste che non basta far entrare delle persone a caso: «Bisogna scegliere le più adatte e investire su formazione e tutoraggio: ammesso che trovino un lavoro, se non hanno casa, che ne è di loro? La legge Turco-Napolitano del 1998 favoriva l’istituto degli sponsor, come parenti disponibili a farsene carico, ma è stata abolita dalla Bossi-Fini».
Che la volontà di trovarsi un posto (e con esso un permesso di soggiorno permanente) sia diffusa presso i migranti è suggerito da un dato: il tasso di partecipazione al lavoro degli stranieri (regolarizzati) è superiore a quello degli italiani: 58,9 contro 58,6 secondo l’Istat nel 2022. Più disponibilità, accettazione di salari minori, più energie per la minore età, i motivi.
È urgente agire perché gli arrivi sono ripresi dopo la stasi dovuta alla pandemia, che ha tragicamente aggravato la crisi demografica: l’Istat documenta che sono morte in media 645.620 persone fra il 2015 e il 2019, ma il numero è balzato a 746.146 nel 2020 (+15,6% e addirittura +24,6% al Nord). Nel 2021 ancora un aumento del 9,8% sul pre-pandemia (709.035), e anche nei primi quattro mesi del 2022 si era sopra la media pur di poco.
In Europa, sul mezzo milione di “decessi in eccesso” del 2020 l’Italia ha contribuito per il 19%. Nello stesso anno sono entrati in Italia, con i mezzi più disparati, poco più di 100 mila extracomunitari (due terzi per ricongiungimenti familiari) ai quali è stato rilasciato il permesso di soggiorno. Nei dieci anni precedenti il numero è stato in media di 2,5 volte superiore, e si sta tornando su quei livelli. I soli sbarchi, secondo il ministero dell’Interno, sono passati da 34.154 nel 2020 a 67.477 nel 2021, e 37.950 nel 2022 al 27 luglio. Sono numeri importanti ma non è la temuta “invasione”. Moltissimi considerano l’Italia solo un transito. Dal 2015 al 2020 si sono iscritti in anagrafe, al netto delle partenze, 1 milione e 300 mila stranieri, l’85% tra 15 e 64 anni d’età.
È un normale fenomeno demografico che si può governare senza odiose discriminazioni: «Chissà perché per avere diritto al reddito di cittadinanza uno straniero regolare deve aver vissuto 10 anni in Italia, il che è contrario alle sentenze della Corte di Strasburgo e addirittura della Corte Costituzionale », accusa Chiara Saraceno del Collegio Carlo Alberto, che propone di dimezzare il periodo.
Aggiunge Francesca Licari, ricercatrice dell’Istat: «Oltre a sostenere la domanda di lavoro in settori ormai appannaggio della manodopera straniera quali l’agricoltura e l’edilizia, il contributo degli stranieri al mercato del lavoro rende più sostenibile il sistema pensionistico e sanitario in un Paese che, ci piaccia o no, invecchia sempre di più».
Ci sono altri vantaggi: il fatto che in Italia arrivino famiglie più numerose rinforza la popolazione in previsione del futuro, «e poi non va trascurata la cura che gli stranieri mettono nel recupero di antichi borghi interni abbandonati dalle popolazioni originarie». Non manca il dato Istat a sostegno di quest’ ultimo punto: a fine decennio l’81% dei Comuni sarà in decremento demografico.
(da Affari & Finanza)
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Agosto 1st, 2022 Riccardo Fucile
TITO BOERI: “IL REDDITO DI CITTADINANZA SERVE A EVITARE BUCHI NERI DI POVERTÀ CHE RENDEREBBERO ESPLOSIVE LE NOSTRE PERIFERIE. L’AUMENTO DELLE PENSIONI MINIME A 1000 EURO COSTA PIÙ DI 30 MILIARDI E ANDREBBE A FAVORE DELL’UNICA CATEGORIA IN CUI L’INCIDENZA DELLA POVERTÀ NON È AUMENTATA IN QUESTI ANNI”
Chiunque si troverà a governare l’Italia dopo le elezioni del 25 settembre dovrà cercare di lenire le ferite della pandemia e affrontare le nuove emergenze sociali imposte dal ritorno dell’inflazione.
I dati dell’indagine Banca d’Italia sui redditi delle famiglie nel 2020, assieme alle ricerche svolte dall’Istat su mandato della Commissione Lavoro della Camera, offrono un quadro abbastanza nitido di quello che è successo in questi anni.
Tre fatti ci sembrano di particolare rilievo.
Primo, e non sorprendentemente, oggi ci sono circa un milione di persone in più sotto la soglia della povertà assoluta rispetto a prima della pandemia. Secondo, gli indici numerici di diseguaglianza non sono aumentati. Tuttavia, la natura della diseguaglianza è cambiata rispetto a prima della pandemia e rispetto a recessioni precedenti.
Questa volta sono state soprattutto le donne, le persone impiegate nei servizi di alloggio e di ristorazione e nelle attività artistiche, di intrattenimento e divertimento, e i lavoratori autonomi a pagare lo scotto. A loro si aggiungono, come in passate recessioni, i lavoratori con contratti temporanei, soprattutto al di sotto dei 35 anni, che statisticamente hanno perso il lavoro 10 volte di più dei lavoratori più anziani.
Terzo, gli ammortizzatori sociali emergenziali introdotti durante la pandemia sono stati efficaci nel contenere le diseguaglianze e nell’impedire un ulteriore calo dei redditi di chi era già povero. Ma data la loro natura episodica hanno solo temporaneamente tappato le falle del nostro sistema di protezione sociale. Le misure temporanee inoltre non possono rassicurare le famiglie beneficiarie circa il futuro dei propri redditi.
Alla luce di questi dati di fatto, lasciano perplessi alcune delle proposte avanzate in questo inizio di campagna elettorale: l’abolizione del reddito di cittadinanza (Renzi); la sua sostituzione con un reddito di solidarietà riservato unicamente ai cittadini italiani over 60 che hanno reddito zero (Meloni); l’innalzamento a 1000 euro delle pensioni minime (Berlusconi).
Il RdC come attuato in Italia va ovviamente cambiato, soprattutto nella sua relazione fallimentare con le politiche attive del lavoro, ma un reddito di ultima istanza esiste in tutti i paesi europei tranne la Grecia.
E ci sarà un motivo. Riservare l’assistenza sociale solo a chi ha reddito zero vuol dire scoraggiare la ricerca di qualsiasi impiego, perché guadagnare anche un solo euro comporterebbe l’esclusione dal beneficio.
A nostra conoscenza nessun paese al mondo ha un programma contro la povertà così crudo. Al contrario, bisogna permettere di cumulare in parte reddito di ultima istanza e salari al di sotto di una certa soglia per spingere i beneficiari a cercare lavoro, come avviene in tutti i paesi avanzati. Inoltre il reddito di ultima istanza deve coprire anche chi è arrivato da meno di dieci anni nel nostro paese perché è in gran parte tra queste famiglie che si annida la povertà.
Servirà anche ad evitare buchi neri di povertà che assorbirebbero tutto e tutti rendendo esplosive le nostre periferie. Infine l’aumento delle pensioni minime a 1000 euro costa più di 30 miliardi e andrebbe a favore dell’unica categoria in cui l’incidenza della povertà non è aumentata in questi anni.
Per affrontare le nuove emergenze bisognerebbe invece pensare a come offrire protezione sociale anche al lavoro autonomo, nel quale si annidano molti lavori di fatto alle dipendenze, e ai lavoratori temporanei soprattutto nei servizi maggiormente colpiti dalla pandemia, tra i quali le donne sono in prevalenza. Sarà poi necessario occuparsi degli effetti distributivi di una inflazione prossima alle due cifre. Colpisce soprattutto chi ha redditi bassi e fissi.
Un salario minimo indicizzato all’inflazione, come le pensioni minime, sarebbe uno strumento importante. Ma l’unica proposta oggi in discussione in Italia prevede di fissare minimi salariali (mensili!) estendendo a tutti i lavoratori di una data categoria il minimo salariale fissato dalla contrattazione nazionale per quella categoria. In Italia ci sono 985 contratti nazionali.
Ammesso e non concesso che si possa, con una legge sulla rappresentanza, stabilire quali sono quelli veramente rappresentativi, sarebbero almeno 50 i salari minimi diversi, applicati magari a diversi lavoratori nella stessa impresa. Anche in questo caso non siamo al corrente di un salario minimo così concepito in nessun paese avanzato.
Un salario minimo è un salario minimo: unico, applicabile a tutti, anche ai lavoratori che oggi sfuggono alle maglie della contrattazione collettiva; un diritto di cui ogni lavoratore sia consapevole e di cui possa esigere il rispetto al datore di lavoro.
Quando mai questo sarà possibile con 50 minimi diversi e dai confini spesso molto incerti? Il salario minimo è uno strumento di civiltà, è incomprensibile che finora il dibattito su questo argomento sia stato completamente asservito alle posizioni dei grandi sindacati e della Confindustria, e ignori completamente l’esperienza e il dibattito di tutti gli altri paesi.
(da la Repubblica)
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Agosto 1st, 2022 Riccardo Fucile
È STATA UN’ESECUZIONE MIRATA: GLI EMISSARI DEL CREMLINO GLI AVEVANO PROPOSTO DI TRASFORMARSI IN UN COLLABORATORE OCCULTO DI MOSCA E LUI AVEVA RISPOSTO DI NO … GRANDE FINANZIATORE DELL’ESERCITO DI KIEV, AVREBBE POTUTO SCAPPARE A LONDRA MA AVEVA DECISO DI RIMANERE NEL SUO PAESE
Oleksiy Vadatursky è morto perché aveva detto di no. È stato eliminato dai russi in una classica esecuzione mafiosa e il messaggio del suo annientamento è rivolto a tanti altri in Ucraina: è un avvertimento a chiunque potrebbe ricevere le stesse richieste o le ha già avute.
A Vadatursky gli emissari del Cremlino avevano proposto di trasformarsi in un collaboratore occulto della Russia, secondo alcuni protagonisti della vita politica di Kiev che hanno avuto frequenti contatti con lui e i suoi uomini.
Il Cremlino aveva sperato di usare l’influenza di Vadatursky quale maggiore imprenditore agricolo e padrone della logistica in Ucraina per accelerare la sottomissione di tutta la striscia del Sud da Kherson, a Mykolaiv, fino ad Odessa e per paralizzare le vie di trasporto del Paese. In cambio, a lui era promessa la tutela del suo patrimonio da poco meno di mezzo miliardo di dollari e la sua posizione al cuore dell’industria agricola e del trasporto navale nel Paese.
Vadatursky non era un uomo di ampie vedute: fino al 1991 dirigente di un conglomerato sovietico, proprietario di porti sul Mar Nero e di una capacità di stoccaggio di grano per 2,5 milioni di tonnellate a Odessa, Kherson e Zaporizhzha, l’imprenditore era soprattutto il monopolista del trasporto via fiume in Ucraina.
Era un uomo duro, Aveva resistito ferocemente alla liberalizzazione del trasporto via nave nel suo Paese, prima piazzando il figlio Andryi in parlamento e in questi mesi manovrando il partito dell’ex premier Yulia Tymoshenko. A maggior ragione non intendeva rinunciare al suo monopolio sulle acque dolci, perché il blocco dei porti oggi rende prezioso l’accesso da Kiev al Mar Nero attraverso la foce dello Dnepr: il grande fiume diventa l’arteria vitale di una nazione sotto assedio.
Non era un uomo aperto Vadatursky, ma era un patriota. Dall’inizio della guerra finanziava l’esercito ucraino.
La sua fortuna gli avrebbe permesso di rifugiarsi a Londra come altri oligarchi, invece aveva scelto di restare a Mykolaiv: non lontano da dove era nato in un kolchoz sovietico 74 anni fa e soprattutto pericolosamente vicino alla linea del fronte. Già quella scelta era una dichiarazione: non aveva intenzione di piegarsi.
Per il Cremlino, avere Vadatursky quale complice sarebbe stato un trofeo più importante della conquista di una città del Donbass. Avrebbe significato poter strangolare le comunicazioni interne dell’Ucraina e controllare una capacità di esportazione di grano in Europa, Africa e Medio Oriente da ottanta navi e 4,5 milioni di tonnellate all’anno.
Fare di Vadatursky un collaborazionista avrebbe concentrato in mani russe una quota crescente dell’offerta di cereali sui mercati globali, con il potere politico che essa conferisce. Ma l’imprenditore aveva respinto le pressioni. Era un oligarca, non un uomo dai metodi impeccabili, ma non intendeva lasciarsi corrompere a spese della libertà del suo Paese. È sicuramente il suo rifiuto a essergli costato la vita.
I missili hanno puntato la stanza da letto della sua villa con una tale violenza e precisione che di Oleksiy Vadatursky ora non resta neanche un cadavere che possa essere raccolto in un feretro, per l’ultimo omaggio a un uomo d’acciaio anche nell’onore.
(da il Corriere della Sera)
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Agosto 1st, 2022 Riccardo Fucile
LA MELONI LANCIA LA PROVOCAZIONE: “SCEGLIETE VOI IL CANDIDATO”… IN CAMBIO VUOLE LA PRESIDENZA DELL’ARS. IN PRATICA CHIEDE LA TESTA DI MICCICHE’
Il profumo di vittoria ha avuto effetti benefici per l’armonia del centrodestra, tutti amici e alleati, uniti e compatti per la scalata al governo. Negli accordi siglati negli scorsi giorni manca però qualcosa: i candidati per le elezioni regionali.
Si voterà prestissimo in Sicilia, presto nel Lazio e fra pochi mesi in Lombardia. Non si tratta di un dettaglio, anzi la scelta dei governatori è stato l’elemento che ha scatenato le polemiche più dure negli ultimi mesi. Le elezioni anticipate hanno cambiato repentinamente le priorità: la premiership, le liste, i collegi e i programmi.
Ma sullo sfondo resta una questione che andrà risolta presto. Nessuno più la chiama urgenza, al vertice della settimana scorsa il tema è stato debitamente evitato per non creare tensioni, ma il tempo non è molto: in Sicilia si vota al più tardi a novembre, l’ipotesi di un accorpamento con le politiche sembra perdere quota. Lo stallo è totale e non ci si può permettere di trovare un candidato dopo le Politiche del 25 settembre, anche perché il centrosinistra ha già una sua aspirante presidente, Caterina Chinnici.
Il governatore uscente Nello Musumeci, di Fratelli d’Italia, manda segnali contrastanti, e vuole ancora la riconferma, contro il parere della Lega e di una parte di Forza Italia. Meloni in passato è stata irremovibile, «il principio della ricandidatura degli uscenti è una regola del centrodestra». Gli altri però non si convincono e allora Fratelli d’Italia sta pensando a un’offerta agli alleati: «Scegliete voi il candidato».
La mossa sarebbe quella di chiedere la presidenza dell’Ars, il parlamento regionale, al momento guidata da Gianfranco Miccichè, nemico giurato di Musumeci, che non ha intenzione di lasciarla.
Il governatore potrebbe essere dirottato in Parlamento (anche se per ora la sua idea è di non accettare la candidatura alle politiche) o più probabilmente al governo.
Altra regione che andrà presto al voto sarà il Lazio. Se Nicola Zingaretti dovesse, come sembra, essere eletto parlamentare, i seggi si aprirebbero a dicembre. Sulla carta la scelta del candidato spetta a Fratelli d’Italia, a lungo si è parlato di Francesco Lollobrigida, ma l’attuale capogruppo alla Camera non è più della partita, essendo in corsa per un ministero di peso o un ruolo di primo piano nel partito.
(da agenzie)
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Agosto 1st, 2022 Riccardo Fucile
“VOLA VOLA VOLA L’APE MAIO” E’ DIVENTATO IL TORMENTONE SOCIAL
Chissà se è stato voluto o no. Di sicuro il simbolo di Impegno Civico, – un’ape, “simbolo della coscienza ecologica e animale la cui estinzione potrebbe segnare il destino di tutto il genere umano” non verrà dimenticato facilmente.
Infatti l’animale totem scelto dal partito fondato dal ministro degli Affari esteri e della cooperazione internazionale Luigi Di Maio in vista delle elezioni anticipate del prossimo 25 settembre è +stato già rinominato “Ape Maio”.
Il logo della formazione politica è stato svelato oggi a Roma nel corso di una conferenza: un’ape stilizzata di colore arancio campeggia su uno sfondo blu insieme alla scritta Impegno Civico, in bianco.
Sotto un’onda tricolore il cognome del ministro svetta invece su campo arancione. In alto, il simbolo di dimensioni ridotte di Centro Democratico, la formazione del sottosgretario Bruno Tabacci che ha aderito all’iniziativa di Di Maio.
“È il simbolo della nostra coscienza ecologica, nel momento in cui scomparissero non esisterebbe nemmeno più l’essere umano – svela il ministro degli Esteri -. Questo è un aspetto poco conosciuto, ma racconta quello che sta accadendo sul nostro Pianeta. Mettere l’ape nel simbolo significa richiamare la nostra grande coscienza ecologista, significa mettere al centro la nostra transizione ecologica, che è fondamentale nel Pnrr, significa che non risolveremo il problema del cambiamento climatico singolarmente come Stati ma dobbiamo portarlo ai tavoli internazionale del G7, del G20, della Cop27 in Egitto
Tutto bello, bello, bellissimo tranne per il fatto che sui social è bastato pochissimo perché tutti associassero l’operoso insetto con il cognome del leader di Impegno Civico, pericolosamente somigliante a quello di un celeberrimo cartone, “L’ape Maia”:
Solo una svista o invece una furbata che ammicca ai social e punta a far ricordare, alle urne e anche fuori, un partito giovanissimo?
(da agenzie)
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