Agosto 28th, 2022 Riccardo Fucile
BERLUSCONI POTREBBE ANCHE RISVEGLIARSI DAL FILTRO MAGICO DELLA FATTUCCHIERA RONZULLI E SFILARSI DA UNA COALIZIONE CHE L’UNIONE EUROPEA VEDE COME IL VAIOLO DELLE SCIMMIE
Una volta chiuse le urne, contati i voti, arriverà il diluvio. Tra Meloni e Salvini si arriverà alla resa dei conti. Quella definitiva, in modalità Sergio Leone: bang! bang!. Ossessionato fino al delirio dall’avanzata di Fratelli d’Italia e dal conseguente declino della Lega, Matteo ha passato gli ultimi anni a infastidire (eufemismo) più o meno ogni giorno Giorgia, fino ad arrivare al punto di dare tutta la colpa del crepuscolo leghista alla partecipazione al governo.
Ora, fatto fuori Draghi, tornato leader di lotta, la semplice idea di dover sottostare a una Meloni premier, fa venire il voltastomaco al Truce lombardo. Ed eccolo ringhiare: “Mi accontento di fare il presidente del Consiglio e di nominare un ministro dell’Interno all’altezza”.
Il giorno dopo, tocca a Donna Giorgia mostrare i denti all’alleato: “Se vincesse il centrodestra con l’affermazione di Fratelli d’Italia non ho ragione di credere che Mattarella possa assumere una scelta diversa rispetto alla mia indicazione”.
Tornato al centro ring, Salvini risponde al colpo di colei che nomignola “Rita Pavone”: “Io aspetto il voto degli italiani prima di fare qualsiasi commento, poi il presidente della Repubblica sceglierà come è giusto che sia”. Non soddisfatto, le fa capire che è ancora in corsa per la premiership: “Vorrei fare il mestiere più bello del mondo”.
Poi il poverino ripiomba nel suo grande incubo, che finora ha evitato scapicollandosi nelle file del governo Draghi e infine votando il Mattarella-bis al Quirinale: “Non vorrei che da qui al 25 settembre qualcuno si svegliasse male la mattina e provasse a cambiare in un tribunale il risultato delle cabine elettorali…”.
Intanto, tra una dichiarazione acida e l’altra al veleno, Salvini non è rimasto con le mani in mano: ha fatto sepoltura via Agcom del duello televisivo tra Letta e Meloni chez Vespa, mettendo in moto Massimiliano Capitanio, commissario Agcom e già deputato della Lega (con la complicità di un altro commissario, Antonello Giacomelli, deputato Pd in quota Franceschini).
Sul programma di governo, poi, le divergenze si sprecano: dalla Flat Tax alle pensioni, dalla guerra in Ucraina all’Agenda Draghi, cara alla Meloni. E lei non ha problemi a dire che l’Agenda Papeete le fa paura: “Io e Salvini siamo alleati ma diciamo cose diverse”.
Un altro elemento di frizione con gli alleati è la futura squadra di governo. Meloni ha ribadito con forza che è prematuro indicare i futuri ministri, Salvini invece insiste: “Sarebbe giusto che il centrodestra prima del voto offrisse agli italiani i nomi di due o tre ministri: il ministro degli Esteri, dell’Economia e della Giustizia. I nomi non li dico, se no li rovinerei”.
A quel punto, sapendo bene che la Meloni non fa mistero di vedere l’ex magistrato Nordio alla Giustizia, il “suocero” di Verdini butta un po’ di benza sul fuoco: “Non è un mistero, però, che avere una Giulia Bongiorno come ministro della Giustizia sarebbe una garanzia”.
Bene: se questo è l’antipasto, cosa succederà nei giorni a seguire del 25 settembre quando la coalizione del centro-destra si riunirà per decidere come deve essere tagliata e in quali proporzioni la torta del novello potere, da portare all’attenzione del Capo dello Stato? Altro che stracci, voleranno mazze ferrate e capitelli di marmo.
A quel punto, con l’aiuto di Marina, Berlusconi potrebbe anche risvegliarsi dal filtro magico della fattucchiera Ronzulli che l’ha stravolto portandolo a mollare il governo Draghi e quindi sfilarsi da una coalizione che l’Unione Europea vede come il vaiolo delle scimmie.
Una volta sfarinato il centrodestra con l’uscita di Forza Italia, a Mattarella non resterà che mettere in piedi un governo di salute pubblica che salvi il paese dalla recessione e da possibili disordini sociali.
Con un Salvini fuori di testa, responsabile numero uno del draghicidio, l’errore madornale di Enrichetto Letta è stato quello di puntare la campagna elettorale interamente contro una Giorgia Meloni che nel frattempo, preoccupatissima di non fare la fine di Marine Le Pen, si è trasformata da Ducetta a Draghetta, con Draghi pronto a farle, se vuole, da “garante” nei confronti dei poteri forti europei.
E dopo tanti attacchi e insulti, quell’abbaglio oggi gli preclude la possibilità di mettere su un eventuale governo di compromesso storico Pd-Fld col compito di portare avanti il Pnrr.
(da Dagoreport)
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Agosto 28th, 2022 Riccardo Fucile
“SUI SOCIAL I POLITICI SONO PRIGIONIERI DELL’OPINIONE, NON LA GESTISCONO”… “L’OPINIONE INFIAMMA, CREA GRANDI SCONTRI, MA ALLA FINE NON MOBILITA”
In una intervista a Repubblica il professor Giuseppe De Rita l’onda meloniana la vede così: “Vedo accondiscendenza. Siccome c’è, vada pure avanti. Nella ronda della politica italiana forse è il suo turno, ma non percepisco entusiasmo per Meloni”.
La disamina per il resto è tagliente, anche se De Rita è categorico sull’andare a votare: “Mai saltato un voto. Lo considero un dovere morale, disapprovo la logica del me ne frego o del tanto sono tutti uguali. Non sono solito decidere negli ultimi giorni, ma non ho mai dichiarato il voto e non comincerò ora”.
Il panorama e quello che c’è in giro, anche per il professore non è molto esaltante:
“La nostra campagna elettorale è una litigata quotidiana su chi offre più tutele ai cittadini. Ti diamo questo, io ti do di più, allora io rilancio – dice a Repubblica-. Manca del tutto la capacità di andare oltre. Nell’America del Vietnam i cantanti dicevano we shall overcome, andare oltre. Nelle società dinamiche e moderne ai leader serve il coraggio di non limitarsi a tutelare ma esplorare, provare, rischiare. È come la differenza tra montanari e marinari. Per carità, intelligentissimi i montanari, ma la montagna che occlude la vista li porta solo a pensare a tenere in ordine il loro ambiente, chi sta sul mare ha un’altra prospettiva. Ecco, i nostri leader sono molto montanari. E poi sono invischiati nella pari merito”. Ovvero, “uno vale uno l’hanno teorizzato i grillini, ma è una realtà che esiste anche in altri partiti. Cosa è il Pd se non un invaso di gente a pari merito? – osserva De Rita- Letta può essere il più colto, o il più esperto di politica internazionale, ma intorno a sé ha gente che di fatto sta nel gioco al pari suo. È sempre il tema dell’andare oltre, dell’uscire dalla mischia. Altrimenti i leader sono come giocatori di biliardo che tirano solo di rinterzo. Non diventeranno mai trascinatori di folla”.
Il punto per il professore è proprio qui.
“Io sono abbastanza vecchio per ricordarmi quando nella Prima Repubblica c’è chi diceva basta con le ideologie, basta con i grandi partiti, servono i partiti d’opinione. La Malfa fu il primo. Era una proposta intrisa di cultura azionista, che puntava alla gestione dell’opinione pubblica. Purtroppo ci siamo arrivati eccome, alla cultura d’opinione, in una forma degradata. Guardi i social, i politici sono prigionieri dell’opinione, non la gestiscono. L’opinione infiamma, crea grandi scontri, pensi solo alla diatriba sui vaccini o sulla guerra, ma alla fine non mobilita. Perché l’opinione basta a sé stessa: mi leggo il giornale, mi guardo il talk, litigo su Twitter, e mi fermo là”.
In ultimo la critica alle leggi elettorali, in parte causa della disaffezione.
“Hanno fatto leggi che espropriano l’elettore della possibilità di scegliere i parlamentari. Qui c’è di mezzo un imbroglio, quello della governabilità. Quante volte ci siamo sentiti dire che serviva una legge elettorale che stabilisse la sera stessa delle elezioni chi doveva governare? La governabilità è stata una parola d’ordine generale e non mi stupisce perché è una tematica tipicamente d’opinione”. Governabilità che poi, non c’è mai stata.
(da agenzie)
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Agosto 28th, 2022 Riccardo Fucile
“NON E’ APPROPRIATO CHE GIRINO PER LE NOSTRE CITTA'”: FORSE FINALMENTE L’HANNO CAPITO
L’accordo riguardo i visti tra Europa e Russia potrebbe essere sospeso a breve. L’obiettivo dell’Ue sarebbe quello di limitare il numero dei permessi di viaggio emessi e impedire dunque ai russi di circolare liberamente nell’area Schengen.
Lo avrebbero rivelato alcune fonti al Financial Times. La notizia arriva dopo che alcuni membri dell’Europa orientale hanno minacciato di chiudere unilateralmente i loto confini ai turisti russi dopo l’invasione in Ucraina. L’emissione dei visti russi è stata già bloccata in Repubblica Ceca e Polonia, mentre altri Paesi hanno continuato a garantire i documenti di viaggio: per questo è stata richiesta una linea comune per fermare i flussi di viaggiatori che provengono da Est.
L’Ue, nella riunione di due giorni che inizierà martedì a Praga, sembrerebbe pronta a dare sostegno politico alla sospensione dell’accordo con la Russia risalente al 2007.
«Non è appropriato per i turisti russi girare per le nostre città. Dobbiamo inviare un segnale alla popolazione russa che questa guerra non è ok, non è accettabile», avrebbe dichiarato un funzionario europeo al Ft. Già alla fine di febbraio, l’accordo era in parte saltato con sospensioni indirizzate a funzionari del governo e uomini d’affari.
(da agenzie)
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Agosto 28th, 2022 Riccardo Fucile
“ERA DI UN SOLDATO UCRAINO CHE ORA BRUCIA ALL’INFERNO”: PER CHI AVESSE ANCORA DUBBI QUESTA E’ LA FECCIA RUSSA
Il giornalista ucraino Den Kazansky ha condiviso il video, ripreso da diversi media, tra cui Nexta, dell’esibizione a dir poco macabra di un mercenario russo, Igor Mangushev.
Il soldato, come si può vedere nel breve filmato, in piedi su un palco e con tanto di microfono, arringa il pubblico sulla guerra in Ucraina, mostrando fieramente il teschio di quello che afferma essere un ucraino ucciso a Mariupol, durante l’assalto all’acciaieria Azovstal.
«Noi siamo vivi e quest’uomo è già morto. Lasciamo che bruci all’inferno. Non è stato fortunato. Faremo una coppa con il suo teschio», dice Mangushev, tra i brusii divertiti della gente presente.
Poi passa a illustrare la sua idea sull’invasione dell’Ucraina: «Noi non siamo in guerra con le persone in carne e ossa. Siamo in guerra con un’idea. Siamo in guerra con l’idea dell’Ucraina come di uno Stato anti-russo. Non ci può essere pace. Dobbiamo de-ucrainizzare l’Ucraina, dobbiamo riprenderci le terre russe. Questa è la tragedia per i soldati ucraini. Non ci importa di quanti ne dovremo uccidere. Se fossimo in guerra con le persone potremmo fare la pace con loro, ma siamo in guerra con una idea, quindi tutti i sostenitori di quella idea devono essere uccisi. Come questo ragazzo», spiega, tornando a indicare il teschio.
«Lui probabilmente non voleva stare ad Azvostal. Siamo sicuri che non è un civile?», chiede al pubblico. Qualcuno risponde: «Sicuramente non è un civile, l’abbiamo ucciso noi stessi». Poi un’altra voce dice ridendo: «Avrà capito qual è il “mondo russo”?», «Penso proprio di sì», chiosa Mangushev, guardando il teschio divertito.
(da agenzie)
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Agosto 28th, 2022 Riccardo Fucile
DA GUERRA LAMPO A GUERRA DI LOGORAMENTO… GLI ERRORI DEI RUSSI E IL TALLONE D’ACHILLE DELL’UCRAINA
Il 24 agosto è stato un giorno speciale a Kyiv: oltre ad essere la celebrazione della Giornata dell’Indipendenza dell’Ucraina (la principale festa nazionale) ha rappresentato il compimento del sesto mese di guerra.
È stato anche il momento di fare un primo bilancio e trarre alcune conclusioni: quella che inizialmente avrebbe essere dovuto una guerra lampo si è trasformata invece in una lunga guerra di logoramento, che rischia di danneggiare per sempre l’immagine della Russia come superpotenza militare.
Ormai da più di un mese e mezzo la Russia non avanza più nel Donbass, mentre nel sud dell’Ucraina i russi si preparano ad una possibile controffensiva ucraina che è stata annunciata più volte ma finora non è mai iniziata sul serio.
Intanto gli ucraini hanno dimostrato di poter colpire in profondità dietro le linee nemiche grazie all’aiuto delle armi fornite dai Paesi occidentali e di gruppi di sabotatori (in buona parte forze speciali e partigiani) che lavorano nei territori occupati dai russi.
Ma come è stato possibile tutto questo? Ed era davvero così scontato sin dall’inizio che le cose andassero in questo modo? Nonostante le rassicurazioni di Mosca (“va tutto come previsto”) non è esattamente così.
Ripercorriamo assieme ciò che è successo per cercare di comprendere come si siano modificati gli obiettivi nel corso del tempo e perché arrivati a questo punto sia sempre più necessario supportare la lotta dell’Ucraina per la sua sopravvivenza.
I primi giorni di guerra: la disperata difesa della capitale
Quando i russi hanno iniziato quella che definiscono ancora oggi come la loro “operazione militare speciale” in Ucraina, l’obiettivo immediato era quello di decapitare la leadership dello Stato ucraino puntando direttamente sulla capitale.
Secondo il piano di Mosca, la inevitabile caduta di Kyiv a causa della superiorità militare russa, avrebbe dovuto innescare un effetto domino anche sui governatorati regionali, portando velocemente al collasso del fronte in tutto il Paese ed alla conseguente resa.
Nelle cancellerie occidentali nessuno credeva realmente che l’Ucraina sarebbe stata in grado di resistere di fronte alla potenza militare russa. Di conseguenza nessun Paese, a partire dagli Stati Uniti, aveva fornito al governo ucraino quelle armi che sarebbero servite per difendersi da una invasione su larga scala.
La gran parte delle armi che erano state consegnate fino a quel momento, come Javelin e Stinger, erano più adatte ad una campagna di guerriglia partigiana, che non ad un esercito che doveva difendersi dall’ondata d’urto delle forze russe in avanzata.
A Mosca, ovviamente, già si sognava ad occhi aperti la grande vendetta: una parata di soldati russi nel centro della capitale ucraina, marciando su Maidan, la piazza simbolo della rivoluzione ucraina del 2014 che aveva portato alla caduta del presidente filorusso Viktor Yanukovich.
Come ha reso noto di recente il Washington Post, gli agenti del FSB russo si stavano addirittura già preparando a gestire il dopo guerra affittando case sicure nella periferia della capitale ucraina. Insomma, tutto sembrava pronto per il trionfo di Putin. Ma poi le cose sono andate diversamente.
Un elemento chiave del piano del Cremlino era la convinzione che il presidente Volodymyr Zelensky e la sua Amministrazione, di fronte all’avanzata militare russa verso la capitale ucraina, se ne sarebbero scappati lasciando sguarnita la città. Di conseguenza, le autorità restanti avrebbero subito chiesto la resa per evitare un massacro di civili.
Ma Zelensky ha invece ripetutamente rifiutato l’ipotesi di andare via dalla capitale. Anzi la sera del 25 febbraio si è fatto riprendere in video assieme ai membri di più alto livello del suo governo e del suo partito, nella strada di fronte al palazzo presidenziale nel centro di Kyiv completamente deserto a causa della guerra e del coprifuoco.
In quelle ore c’erano scontri alla periferia della capitale, e gruppi di sabotatori russi erano già in giro per le sue strade nel vano tentativo di scatenare violenze, provare ad uccidere il presidente e distruggere il morale dei difensori ucraini.
La decisione di Zelensky di restare a Kyiv, nonostante il rischio immediato per la sua vita, viene considerata ancora oggi il momento fondamentale delle ore iniziali della guerra.
Il piano russo per la conquista della capitale prevedeva una doppia manovra a tenaglia da nord-ovest (passando dall’area di esclusione di Chernobyl) e da nord-est (bypassando Chernihiv).
Le colonne in avanzata da queste due direzioni si sarebbero poi dovute riunire alla periferia di Kyiv alle divisioni aviotrasportate che dovevano usare come base operativa l’aeroporto Antonov di Hostomel.
La conquista di questo aeroporto nella periferia della capitale è stato perciò l’obiettivo principale dei russi nelle prime ore di battaglia. Ma Kyiv aveva ricevuto informazioni dall’intelligence occidentale in questo senso e si era quindi ben preparata a difenderlo.
Gli scontri all’aeroporto sono durati per diverse ore e quando gli ucraini hanno alla fine dovuto ritirarsi di fronte alla supremazia nemica erano già stati in grado di distruggere le piste di atterraggio ritardando così in maniera critica il piano russo di utilizzare questo aeroporto come base operativa per l’assalto alla capitale.
Questo viene considerato oggi come il secondo momento chiave.
Altro grave errore dei russi nei primi fatali giorni di guerra è stato quello di non riuscire a rendere inoffensiva l’aeronautica e la difesa missilistica ucraina.
Nei giorni immediatamente precedenti l’attacco su larga scala, gli ucraini sono stati infatti in grado di nascondere buona parte dei loro mezzi aerei, in modo che, quando i russi hanno lanciato i primi bombardamenti il 24 febbraio, hanno in buona parte colpito basi ed aeroporti ormai vuoti.
A seguito della confusione iniziale, il comando ucraino è stato quindi in grado di riorganizzarsi e montare una strategia difensiva per rendere sempre più complicata l’avanzata russa, fino a fermarla nella zona di Bucha ed Irpin, due città ora divenute tragicamente famose per le stragi di civili avvenute durante l’occupazione.
L’immagine simbolo dello stallo dell’avanzata russa è stata sicuramente quella (ripresa dai satelliti di Maxar) della enorme colonna di 40km di camion e mezzi corazzati ferma per giorni sulla strada verso Kyiv, prima di essere parzialmente distrutta dagli attacchi di droni ucraini e, per la parte che è sopravvissuta, disperdersi nei campi attorno alla capitale.
Anche nella zona di Chernihiv la resistenza ucraina è stata molto più tenace di quanto Mosca si attendesse.
Come racconta il Washington Post, c’è stato anche un episodio in cui, pur di difendere una collina considerata di altissimo valore strategico, una unità di difensori ucraina si è praticamente fatta massacrare dall’artiglieria nemica, riuscendo lo stesso a mantenere la propria posizione.
Negli stessi giorni, i russi hanno cercato più volte di sfondare le difese ucraine sul fiume Irpin, ma ogni tentativo è stato respinto con enormi perdite da entrambe le parti.
Stando alla ricostruzione del Washington Post, il momento in cui Mosca è stata più vicina ad aprirsi la strada per Kyiv, è stato l’11 marzo, quando le truppe russe hanno attaccato con tutte le forze a propria disposizione il villaggio di Moschchun.
Anche in questo caso, però, seppure con estremo sacrificio, i difensori ucraini sono riusciti a tenere le proprie posizioni.
E quando tutto sembrava disperato, la mossa decisiva del comando ucraino è stata quella di distruggere le dighe sul fiume Irpin, permettendo così alle acque del fiume di inondare i campi e bloccare letteralmente i soldati russi nel fango.
Vista il fallimento della precedente strategia, a metà marzo i russi hanno tentato l’ultima disperata sortita, usando i carri armati. Ma il risultato è stato, se vogliamo, ancora più disastroso se precedente.
Immagini riprese da un drone di sorveglianza ucraino hanno mostrato decine di tank russi distrutti durante una imboscata delle forze ucraine, e sottoposti ad un bombardamento senza pietà dell’artiglieria ucraina. Intercettazioni telefoniche tra i soldati russi hanno poi confermato forti perdite.
Dopo questa débâcle i russi hanno praticamente rinunciato ad ulteriori attacchi verso la capitale. Anzi, da lì a poco avrebbero annunciato l’intenzione di ritirarsi dalle regioni di Kyiv, Chernihiv e Sumy: la prima di una serie di quelle che sono poi state definite, senza ironia, come “dimostrazioni di buona volontà” da parte di Mosca.
Ma l’amara verità è che i russi avevano fallito il loro principale obiettivo. Altrove, però, la guerra andava avanti.
Mariupol: l’eroica difesa di Azovstal
Mentre a nord l’avanzata verso Kyiv era stata costellata da decisioni tragicamente errate e fallimenti sul campo, nel sud dell’Ucraina i russi erano avanzati molto velocemente in due direzioni: dalla Crimea a sud e contemporaneamente dalla cosiddetta Repubblica popolare di Donetsk, a nord.
L’obiettivo principale dei russi in questa zona era sicuramente impadronirsi della città di Mariupol, il cui controllo avrebbe reso Mosca interamente dominatrice del Mar d’Azov. Mariupol era stata già temporaneamente occupata dalle milizie separatiste filorusse nel 2014, ma poi era stata riconquistata nel 2015 dalla controffensiva ucraina.
Ma soprattutto la città portuale era anche la sede del contestato Battaglione Azov, una milizia di volontari ucraini (poi integrata nell’esercito ucraino), nota per la presenza nei suoi ranghi di esponenti ultranazionalisti.
Questa ultima cosa sarebbe stata ampiamente usata da Mosca per dipingere l’aggressione all’Ucraina del 2022 come una battaglia contro il nazismo ucraino in una specie di continuazione moderna della “grande guerra patriottrica”, così come i russi definiscono ancora oggi la Seconda guerra mondiale.
Di conseguenza, Mosca doveva a tutti i costi conquistare la città portuale per sconfiggere la sua nemesi.
I primi attacchi contro Mariupol risalgono al 25 febbraio, ma solo a partire dal 1° marzo la città è stata effettivamente circondata, segnandone il destino. Ciò nonostante, i difensori di Mariupol non avevano alcuna intenzione di arrendersi così velocemente.
Inizia da questo momento in poi un sanguinoso assedio, caratterizzato da episodi drammatici come quello del bombardamento del Teatro Drammatico di Mariupol avvenuto il 16 marzo 2022, quando una bomba lanciata da un aereo russo ha distrutto il Teatro usato come rifugio dai civili, causando, secondo alcune stime, oltre 600 morti.
Il 27 marzo i russi erano ormai già penetrati in città ed iniziato la loro lenta avanzata in ciò che ormai si stava sempre più trasformando in un ammasso di rovine. Il 2 aprile, i russi hanno quindi preso il controllo dell’edificio dei servizi di sicurezza ucraini (SBU) nel centro della città.
Il 12 aprile un gruppo di soldati della trentaseiesima Brigata della Marina ucraina, ormai circondato, è riuscito con una sortita ad abbandonare le proprie postazioni nell’impianto di acciaieria Illich nel nord della città ed unirsi con gli altri difensori di Mariupol del Battaglione Azov nell’ultima disperata sacca di resistenza nell’altro grande impianto industriale della città, Azovstal
Quando la Russia ha chiesto il 18 aprile la resa ai difensori ucraini accerchiati ad Azovstal, la città era stata già distrutta per il 95%. Due giorni dopo Putin dal Cremlino ha annunciato prematuramente la fine delle operazioni militari in città, affermando che i restanti difensori di Mariupol non avrebbero avuto altre chance che arrendersi a causa dell’accerchiamento.
A quel punto anche l’ambizioso programma del comando ucraino di rifornire le truppe accerchiate via elicottero (di cui si sarebbe venuti a conoscenza sulla stampa mondiale solo dopo diverse settimane) era ormai fallito.
Sarebbe dovuto comunque passare un altro mese circa prima della resa finale (20 maggio), ma la difesa di Mariupol aveva già ottenuto due risultati fondamentali agli occhi degli ucraini: dimostrare che l’Ucraina avrebbe difeso fino all’ultimo il proprio territorio anche nelle condizioni più disperate, e soprattutto tenere impegnate unità russe che altrimenti avrebbero potuto essere usate altrove.
Con il senno di poi, questo ha certamente aiutato le truppe ucraine a resistere nel vicino Donbass, dove più forte è stato l’impatto dell’attacco russo
Donbass: la potenza dell’artiglieria russa
Subito dopo la débâcle nel nord, Mosca si è affrettata a dichiarare che ben presto sarebbe iniziata una nuova fase della guerra, con l’intento di “liberare” tutto il territorio del Donbass ancora controllato dagli ucraini.
Dopo la prima guerra del Donbass del 2014-15, l’Ucraina era rimasta infatti in controllo di una parte rilevante della regione di Donetsk, nonché di una parte più residuale della regione di Luhansk, vale a dire le due zone che costituiscono quello che definiamo Donbass.
A differenza delle altre zone dell’Ucraina, i russi potevano contare in Donbass su un territorio a loro più favorevole, anche solo per la forte presenza di ucraini russofoni molti dei quali continuano ad avere apertamente simpatie per Mosca.
Ma anche Kyiv poteva contare su alcuni importanti punti di forza: anzitutto il fiume Seversky Donets, che divide in due la regione e rappresentava un formidabile ostacolo naturale per l’avanzata russa. Ed in secondo luogo le fortificazioni delle proprie postazioni, che Kyiv aveva costruito nel corso degli 8 anni passati dalla fine della prima guerra.
Per bypassare il Seversky Donets e prendere il controllo dell’intero Donbass, il comando russo aveva inizialmente ipotizzato un ambizioso attacco a tenaglia a nord dalla testa di ponte conquistata a marzo nella zona di Izyum ed a sud dalla zona occupata della regione di Zaporizhzya e dalla Repubblica di Donetsk.
In questo modo, la Russia sarebbe stata in grado di accerchiare l’intero gruppo di truppe ucraine nel Donbass. Ma tale piano non è mai concretamente partito.
Gli ucraini hanno infatti dimostrato di essere in grado efficacemente di contrastare qualsiasi avanzata russa dalla testa di ponte di Izyum ed anzi sono stati capaci di riconquistare diverse zone nelle immediate vicinanze della seconda città ucraina (Kharkiv) più a nord, mettendo così potenzialmente a repentaglio le linee di approvvigionamento russe verso Izyum.
Di conseguenza il comando russo ha cambiato strategia optando per una serie di attacchi più limitati che alla fine hanno comunque portato dei risultati nel saliente più orientale: grazie alla totale superiorità in termini di sistemi di artiglieria (in alcune zone il rapporto tra russi e ucraini era persino di 20 ad 1), le forze di Mosca alla fine sono riuscite a sfondare le fortificazioni ucraine nella zona di Popasna il 7 maggio.
Da qui hanno iniziato a muoversi sia verso est per cercare di accerchiare le unità ucraine presenti a Zolote (da dove gli ucraini si sono velocemente ritirati per evitare l’accerchiamento) sia verso nord in direzione di Lysychansk.
Contemporaneamente, il grosso delle unità russe ha iniziato ad attaccare frontalmente da est la città gemella di Lysychansk, Severodonetsk, divisa dalla prima solo dal fiume Seversky Donets.
Il piano avrebbe dovuto concludersi con un attacco a tenaglia da nord, attraversando il Seversky Donets nella zona di Bilohorivka, ma questo tentativo si è trasformato in un massacro per le forze russe che ci hanno provato inutilmente tra l’8 ed il 12 maggio solo per finire sotto i colpi dell’artiglieria ucraina.
La débâcle di Bilohorivka non ha però impedito il compimento del piano russo, rallentandone solo i tempi: dopo una sanguinosa battaglia urbana durata diverse settimane, il 25 giugno 2022, gli ucraini si sono dovuti ritirare anche da Severodonetsk.
In questo modo hanno dovuto abbandonare l’ultima testa di ponte che avevano sulla riva orientale del Seversky Donets (l’altra testa di ponte, quella di Lyman e Sviatohirsk era già caduta nelle mani russe nelle settimane precedenti).
Questo è stato il momento probabilmente più difficile per gli ucraini. Ad inizio giugno lo stesso presidente Zelensky ha dovuto ammettere che gli ucraini stavano perdendo circa 100 soldati al giorno in battaglia, e dopo qualche giorno il suo consigliere Mykhaylo Podolyak ha fornito una stima ancora peggiore: 200 morti al giorno.
A questo ritmo le difese ucraine in Donbass erano seriamente a rischio di collasso ed il comando ucraino si trovava nella difficile situazione di dover decidere se abbandonare le proprie postazioni a Lysychansk e ritirarsi verso altre linee fortificate più facilmente difendibili oppure rischiare una seconda Mariupol, visto il serio rischio di accerchiamento.
Alla fine, il 3 luglio gli ucraini hanno deciso di completare il ritiro delle proprie forze dalla città di Lysychansk che era ormai quasi assediata. I russi sono riusciti così ad ottenere il loro primo concreto successo tattico della guerra, conquistando praticamente l’intera regione di Luhansk.
Di fronte a loro si apriva ora la regione di Donetsk, e soprattutto le restanti città del Donbass ancora controllate dagli ucraini: Bakhmut, Seversk, Slayvansk e Kramatorsk.
Nulla sembrava ormai poter fermare l’avanzata russa a rullo compressore. Ma gli ucraini erano stati in grado di ritirare le proprie truppe senza farsi accerchiare, e da lì a poco le cose sarebbero cambiate radicalmente in poco tempo ancora una volta.
Le armi occidentali e l’ingresso degli HIMARS nel campo di battaglia
Mentre le postazioni ucraine in Donbass erano soggette senza pietà al fuoco di artiglieria russo, il comando ucraino aveva lanciato l’allarme: senza una adeguata fornitura di armi di artiglieria da parte occidentale, il fronte ucraino sarebbe collassato velocemente e la guerra sarebbe stata persa, nonostante tutto l’eroismo mostrato dagli ucraini fino a quel momento.
Di fronte alla superiorità russa in termini di artiglieria su uno spazio così ristretto come nel Donbass, occorreva qualcosa che riequilibrasse sostanzialmente le forze sul campo. Gli unici che potevano aiutare gli ucraini a tale scopo erano i Paesi occidentali.
Se, inizialmente, le forniture di armi erano state molto limitate per la paura che l’Ucraina sarebbe velocemente caduta nelle mani russe, la capacità di resistenza ucraina ed il rischio che il fronte collassasse comunque per la pura forza bruta dei russi, aveva finalmente convinto gli occidentali a muoversi.
Gli Stati Uniti (seguiti dagli altri Paesi occidentali) sono quindi intervenuti annunciando prima una serie di pacchetti di aiuti militari, e quindi facendo approvare dal Congresso un finanziamento di 40 miliardi di dollari, così come l’estensione (per la prima volta dalla Seconda guerra mondiale) del programma lend-lease per aiutare le Forze Armate ucraine a resistere all’invasione russa.
Inizialmente le forniture americane hanno riguardato principalmente obici M777 e munizioni di artiglieria calibro 155mm. Ma neppure questi nuovi mezzi di artiglieria, sebbene abbiano certamente aiutato sul campo di battaglia, si sono dimostrati in grado di modificare radicalmente la situazione a favore degli ucraini.
Molto di più è cambiato quando invece gli ucraini hanno iniziato ad utilizzare i sistemi di lanciarazzo multipli M142 High Mobility Artillery Rocket System (HIMARS) forniti dagli americani con missili GMLRS con gittata fino ad 80 km di distanza e guida satellitare.
Per spiegare il motivo per cui l’entrata in campo degli HIMARS è stata fondamentale, occorre fare un passo indietro e parlare della catena logistica che ha permesso ai russi di ottenere un vantaggio di artiglieria così imponente nel Donbass.
Le munizioni di artiglieria venivano spedite al fronte attraverso la ferrovia partendo dal territorio russo o controllato dai russi, fino a raggiungere alcuni depositi di munizioni. Da qui venivano, più volte al giorno, caricate su camion ed inviate alle unità sul fronte, che le usavano per bombardare costantemente le postazioni ucraine.
Per poter garantire la continua fornitura di munizioni di artiglieria necessaria per questo tipo di operazioni, era fondamentale che i depositi di munizioni suddetti si trovassero quanto più vicino al fronte, ed allo stesso tempo oltre il raggio operativo dell’artiglieria in uso agli ucraini fino a quel momento.
Un deposito di munizioni distante circa 50km dalla linea del fronte avrebbe, perciò, consentito sia forniture continue alle truppe al fronte (almeno due volte al giorno tenuto conto anche delle tempistiche di carico, scarico e trasporto tutte effettuate a mano), che tenuto al sicuro tali obiettivi da possibili contrattacchi ucraini.
L’entrata in campo degli HIMARS, che hanno distrutto senza pietà i depositi di munizioni russe, ha cambiato completamente le carte in tavola.
Anzitutto ha permesso agli ucraini di distruggere enormi quantità di munizioni che si erano accumulate vicino al fronte pronte ad essere usate in qualsiasi momento. Ma soprattutto ha costretto i russi ad allontanare i depositi di munizioni a distanze maggiori di 80km, riducendo quindi la capacità logistica di approvvigionamento delle truppe al fronte.
Tutto ciò, unito al logoramento delle truppe russe dopo mesi di dura guerra, ha portato sostanzialmente al blocco dell’offensiva russa in Donbass. Dalla conquista di Lysychansk in poi, le avanzate russe si sono infatti contate sul palmo della mano in termini di metri ogni giorno.
A ciò va aggiunto, inoltre, il rischio di una controffensiva ucraina nel sud dell’Ucraina che ha costretto i russi a spostare una parte delle unità nella lontana regione di Kherson.
L’uso degli HIMARS ha infatti avuto un altro impatto fondamentale: ha permesso agli ucraini di mettere fuori uso ponti stradali e ferroviari e punti di attraversamento delle truppe russe sul fiume Dnjepr.
Ciò ha messo potenzialmente a rischio di accerchiamento le truppe russe che si trovano nella regione di Kherson, l’unica testa di ponte che i russi sono finora riusciti ad ottenere sulla riva occidentale del fiume che divide a metà l’Ucraina.
Kherson era stata facilmente conquistata nei primi giorni di guerra, ma in maniera simile a quanto accaduto a nord, quella che avrebbe dovuto essere una avanzata trionfale su Odesa, è stata poi bloccata nelle settimane seguenti dagli ucraini nelle vicinanze di Mykolaiv, che da allora è diventata una città martire sottoposta ad ondate di bombardamenti da parte russa.
Nel mese di luglio gli ucraini hanno iniziato un primo contrattacco nella regione di Kherson limitato ad alcuni insediamenti vicino al fronte.
Tanto è bastato però per far scattare l’allarme a Mosca che ha deciso di inviare decine di battaglioni per rafforzare le truppe russe nella regione. Tutto ciò ha, ovviamente, indebolito l’attacco russo nel Donbass, che, come abbiamo visto, si è praticamente fermato.
Se i russi continuassero a tenere questo passo, ci vorrebbero dunque diversi anni anche solo per raggiungere l’obiettivo minimo dichiarato: la conquista dell’intero Donbass.
Il futuro prossimo: la guerra di logoramento
Arriviamo così ai nostri giorni. Gli ucraini continuano senza sosta gli attacchi on HIMARS prendendo di mira particolarmente i ponti sul Dnjepr, in particolare il ponte Antonovsky e quello della diga di Nova Khakovka.
Le immagini satellitari più recenti mostrano che questi due ponti ormai sono diventati impraticabili per il traffico di autoveicoli, in particolare militari. Tutto ciò rende molto complicata la posizione russa nella regione di Kherson. Eppure, non sembra che gli ucraini abbiano al momento le forze necessarie per poter approfittare di questa situazione.
In questa situazione di stallo ci sono anche delle situazioni ad alto rischio, come quella che si è venuta a sviluppare nella vicina regione di Zaporizhzhya dove i bombardamenti nelle vicinanze della centrale nucleare (la più grande d’Europa) hanno fatto tornare alla mente l’orrore del disastro di Chernobyl.
Ma ciò che ha sorpreso di più gli osservatori internazionali, sono stati i recenti attacchi ucraini nella penisola di Crimea, che hanno portato alla distruzione di una base aerea e di almeno metà della flotta aerea della Marina russa del Mar Nero.
Ancora oggi non è chiaro come siano avvenuti questi attacchi, visto che ufficialmente l’Ucraina non è dotata delle armi in grado di colpire così tanto in profondità dietro le linee nemiche. È possibile, dunque, che si sia trattato di una operazione clandestina delle forze speciali ucraine.
Sta di fatto che, come afferma un documentario di prossima uscita, gli ucraini hanno sicuramente dimostrato di aver resistito “oltre ogni previsione”.
Ma in quella che sta diventando sempre di più una guerra di logoramento visto lo stallo generalizzato, diventa sempre più evidente il vero tallone di Achille di Kyiv: la dipendenza dalle forniture di armi, ed in generale dall’appoggio dei Paesi occidentali.
Con la crisi energetica ed economica che peggiora ogni giorno che passa a causa anche dei tagli russi delle forniture di gas, il numero di cittadini europei ed americani disposti a tutto per aiutare l’Ucraina a vincere la guerra si riduce sempre di più.
Eppure, è proprio questo malessere che rischia di consentire alla Russia di ottenere una insperata vittoria che non è stata e non sarebbe più in grado di ottenere sul campo.§
Vorrei concludere, quindi, citando e condividendo le parole della Prima Ministra estone, Kaja Kallas: “Se noi paghiamo in euro, gli ucraini pagano in vite umane. E per quanto possa costare il gas, la libertà non ha prezzo”.
(da Fanpage)
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Agosto 28th, 2022 Riccardo Fucile
TRA I NOMI CELEBRI IL DEPUTATO UCRAINO IGOR ABRAMOVICH E L’UOMO D’AFFARI KOSTYANTYN ZHIVAGO
Li hanno ribattezzati, in segno di spregio, il battaglione Monaco. Ma sono tutt’altro che soldati disposti a morire per la patria gli 84 deputati e oligarchi ucraini su cui l’Sbu, l’intelligence di Kiev, ha aperto un fascicolo di indagine. Uomini che, mentre il loro Paese finiva sotto i colpi di Mosca, facevano i bagagli e si rifugiavano a Monaco, Monte Carlo e Nizza.
A darne conto con un’inchiesta pubblicata il 17 agosto poco prima del giorno dell’Indipendenza è stata l’Ukrayinska Pravda. Uno scoop che ha indignato l’intero Paese provato dai sei mesi di conflitto sollevando temi importanti già noti al pubblico ucraino, dalla corruzione delle élite politiche e finanziarie fino alle disparità sociali, messi in secondo piano dalla guerra.
Barche e milioni
Yacht, auto di lusso, giornate trascorse nell’ozio tra lo shopping e i bagni in mare, tutto documentato dai filmati e dalle immagini pubblicate dal media ufficiale di Kiev. Tra i nomi celebri che appaiono nell’elenco, il deputato ucraino Ihor Abramovich e Serhiy Vyazmikin, ex direttore ad interim del Dipartimento per la protezione economica della polizia nazionale ucraina, avvistati a passeggiare a Cap Ferrat.
Poi uomini d’affari come Kostyantyn Zhivago, quarto uomo più ricco di Ucraina, ex proprietario della banca JSC, sospettato di appropriazione indebita per 113 milioni di dollari.
Il suo yacht, lo Z (ironia della sorte come la lettera con simbolo usata in guerra dai russi) è ancorato al largo di Monaco. Ma anche Ihor Surkis, oligarca noto per essere proprietario e presidente della Dynamo Kyiv dal 2002, noto habitué del casinò di Montecarlo con il fratello, l’ex deputato Hryhoriy Surkis ed ex capo della Federcalcio ucraina. Entrambi «residenti» per il momento in un appartamento in affitto il cui canone si aggira intorno ai due milioni l’anno.
I giornalisti ucraini hanno poi avvistato una Bentley Flying Spur con targa di Dnipro di proprietà di Vadym Yermolaiev, sviluppatore informatico e 45esima persona più ricca d’Ucraina.
E, non lontano dal Casinò di Montecarlo, un’auto con targa di Kharkiv, la seconda città più grande dell’Ucraina, quotidianamente sotto l’attacco dell’artiglieria russa. Niente meno che una Mercedes Maybach, il cui valore si aggira intorno ai 300 mila euro. Rigorosamente intestata a una società.
Varcando il confine, gli 82 membri del «Battaglione Monaco» hanno violato la legge marziale imposta dal governo di Kiev, che vieta agli uomini tra i 18 e i 60 anni abile alla leva di lasciare il Paese. Per i deputati — sottolinea ancora l’inchiesta — c’è poi l’aggravante di aver disertato per quasi sei mesi, in un momento particolarmente delicato, i lavori della Verkhovna Rada, il parlamento ucraino. Ben diverso dunque dal Battaglione Tamigi, nome con cui era chiamato l’esercito di ragazzi italiani che trovavano impiego nelle grandi società finanziarie inglesi evitando così il servizio militare all’epoca ancora obbligatorio.
George Woloshyn, editorialista del Kyiv Post, ha commentato: «Queste sono persone che hanno fatto fortuna in uno dei Paesi più poveri d’Europa e stanno aspettando di vedere come finirà la guerra. Se l’Ucraina vincerà, torneranno per arricchirsi ulteriormente. Se invece preverrà Mosca, avranno abbastanza per vivere comodamente per il resto della loro vita».
Poi la proposta: se non incarcerati o condannati, gran parte della società ucraina chiede di multare i membri del Battaglione Monaco. Soldi che potrebbero essere usati — suggerisce ancora Woloshyn — per la riabilitazione dei soldati feriti e comprare per chi è ancora sul campo protezioni più efficaci.
Per i deputati disertori invece l’esponente del partito del presidente Volodymyr Zelensky, la parlamentare di Servitore del Popolo Maryana Bezugla, ha già presentato una mozione per sollevare dall’incarico i suoi colleghi che hanno abbandonato il Paese in tempo di guerra.
(da il Corriere della Sera)
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Agosto 28th, 2022 Riccardo Fucile
I DUE NON PERDONO OCCASIONE PER LANCIARSI FRECCIATINE
Forse ci siamo fatti distrarre troppo dall’implosione dell’alleanza Pd-Cinque Stelle in seguito alla caduta del governo Draghi, o dall’accordo firmato e stracciato tra Calenda e Letta, nel giro di quarantott’ore.
Forse ci piacciono di più le liti del centro sinistra, che sono più teatrali. O forse è l’alea della tragedia imminente che accompagna il (fu) campo largo democratico e progressista, in confronto a una destra che veleggia sicura verso la vittoria alle elezioni del 25 settembre.
Eppure c’è una guerra nemmeno troppo nascosta tra Giorgia Meloni e Matteo Salvini che dovremmo guardare con grande attenzione. Perché racconta del mutamento degli equilibri interno alla destra che, stando ai sondaggi, ci ritroveremo al governo il giorno dopo il voto. E perché, se così dovessero andare le cose, sarà sulla tenuta di quest’asse che si giocherà la tenuta di un governo di destra prossimo venturo. Asse che, allo stato attuale, sembra tutt’altro che saldo, nonostante il vento in poppa, che fisiologicamente dovrebbe annacquare ogni dialettica.
Eppure anche ieri, dopo che Giorgia Meloni aveva dichiarato che, a fronte di un successo di Fratelli d’Italia, il presidente Mattarella non avrebbe potuto non incaricarla di formare un nuovo governo, Matteo Salvini ha sentito il bisogno di ribadire che nulla è deciso sulla scelta del futuro presidente del consiglio.
Così come del resto Giorgia Meloni, non più di qualche settimana fa, ha rifiutato la proposta di Salvini di stilare e presentare la lista dei ministri della coalizione di destra prima delle elezioni, lista che ovviamente avrebbe visto il leader leghista occupare la casella del ministero degli interni.
Da qualunque parte la si giri, è difficile ignorare questa dialettica. Perché i leader di una coalizione consolidata, con un programma comune, e un ampio vantaggio sugli avversari si agitano tanto sul dopo voto?
Perché entrambi, Salvini e Meloni, non vogliono ratificare un assetto di potere che è nell’ordine delle cose – Meloni a Palazzo Chigi e Salvini al Viminale – e che permetterebbe loro di ottenere ognuno quel che vuole?
La risposta è abbastanza semplice: perché per entrambi quell’assetto di potere sarebbe un problema.
Meloni vuole andare a Palazzo Chigi senza lasciare il ministero dell’interno a Salvini. E Salvini vuole andare al Viminale senza lasciare la presidenza del consiglio a Giorgia Meloni.
Al contrario, per entrambi, più che un piano B, una simile convivenza al governo sarebbe uno tra i peggiori dei mondi possibili, anche in caso di una schiacciante vittoria.
I motivi sono meno semplici, ma altrettanto logici. Giorgia Meloni si ricorda bene cosa fece Matteo Salvini nella sua parentesi da ministro dell’interno. Capace, da quello scranno, di polarizzare tutta l’attenzione su di se e sulla sua battaglia senza quartiere contro le ong e le navi che salvavano migranti al largo delle coste libiche, arrivando a oscurare il resto del governo a triplicare il consenso leghista nel giro di qualche mese, drenandolo proprio all’alleato di governo che si trovò completamente a rimorchio del Capitano, dei suoi porti chiusi e dei suoi decreti sicurezza.
Per questo, prima di dare il suo avallo al ritorno di Salvini al Viminale vuole vedere le percentuali a urne chiuse, sperando forse in un tonfo più forte del previsto del Carroccio, e in una successiva resa dei conti in via Bellerio, e magari in un golpe di Giancarlo Giorgetti e dei governatori del Nord.
Dal canto suo Matteo Salvini sa benissimo che Giorgia Meloni sta vampirizzando il consenso leghista da almeno un paio d’anni: prima gli ha preso quello dei duri e puri contro il Green pass e le misure di contenimento della pandemia di Covid-19, con la sua scelta di schierarsi da sola all’opposizione del governo Draghi. Poi gli ha preso quello del sud, che dopo la sbornia leghista, sta tornando a casa dalla destra nazionalista che non ha peccati originali nordisti da espiare.
Meloni a Palazzo Chigi potrebbe essere il colpo finale, quello che sposta verso Fratelli d’Italia il popolo delle partite iva e della media borghesia del Nord. Le ovazioni riservate a Meloni dalla platea del Meeting di Rimini sono più di un campanello d’allarme, in questo senso.
Quanto questa guerra possa pesare su un esito elettorale che a oggi appare scontato, non lo possiamo prevedere. Di sicuro, però, potrebbe pesare significativamente sul dopo. E per la destra, questo scontro fratricida richiama alla mente foschi ricordi: nel 1994, la vittoria di Berlusconi contro la gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto fu rovinata dallo strappo di Umberto Bossi. Nel 2008, la schiacciante vittoria del Popolo delle Libertà contro il neonato Pd a vocazione maggioritaria di Walter Veltroni fu devastata dal conflitto del Cavaliere con Gianfranco Fini. La sfida infinita tra i leader, insomma, è la maledizione della destra italiana. A Meloni e Salvini il compito, da bravi conservatori, di continuare la tradizione.
(da Fanpage)
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Agosto 28th, 2022 Riccardo Fucile
BUFERA SU LUIGI MASTRANGELO, EX NAZIONALE DI PALLAVOLO E ORA RESPONSABILE DEL DIPARTIMENTO SPORT DELLA LEGA, CHE LA SPARA GROSSA: “I SOLDI PER LO SPORT? TOGLIAMO QUALCOSA ALLA SANITÀ”
Tagliare la spesa sanitaria per dare più risorse allo sport. Detta così, suona male. Detta in piena campagna elettorale, suona peggio.
Luigi Mastrangelo, ex “centrale” della nostra nazionale di pallavolo, ora responsabile del dipartimento Sport della Lega e candidato alla Camera, sperimenta subito come il confronto politico possa essere più ruvido dei duelli sotto rete. Ma, se non altro, segue la linea indicata da Giorgia Meloni, che una settimana fa ha prospettato più investimenti nello sport, per «combattere le droghe e le devianze e crescere generazioni di nuovi italiani sani e determinati».
Mastrangelo, ai microfoni di Radio Capital, suggerisce dove prendere i soldi, «togliendo magari qualcosa alla sanità – spiega – non dico tutto, ma qualcosina si può dedicare allo sport, visto che viene stanziato sempre molto poco e nella sanità tantissimo».
Ovviamente non è un paragone possibile: in un caso ragioniamo nell’ordine di una manciata di miliardi, nell’altro di oltre un centinaio. Certo, le ferite inferte dalla pandemia di Covid al nostro Paese, anche a causa della carenza di medici, infermieri, macchinari sanitari e servizi sul territorio, sono lì a dimostrare che tagliare i finanziamenti per la tutela della salute non sia proprio una grande idea.
Tra i primi a reagire, non a caso, è il ministro Roberto Speranza: «Negli ultimi tre anni abbiamo finalmente ricominciato ad investire aumentando il fondo sanitario di 10 miliardi e stanziandone 20 con il Pnrr – ha scritto su Twitter – Sarebbe folle tornare indietro. Non lo permetteremo». Mentre Carlo Calenda ricorda che «in Italia ci sono liste d’attesa di mesi per una tac e una visita oncologica. Mancano 50.000 medici e altrettanti infermieri – sottolinea il leader di Azione – Per noi invece ogni euro in più del bilancio pubblico andrà a istruzione e sanità».
Dal Partito democratico non si fanno sfuggire l’occasione per attaccare la Lega e la proposta «sconcertante» di Mastrangelo, come la definisce la capogruppo al Senato Simona Malpezzi. «Non ci sorprende, fa parte del partito responsabile del disastro in Lombardia – aggiunge – dove hanno annullato la medicina territoriale depauperando tutti i presidi sanitari». Francesco Boccia, responsabile Pd per gli Enti locali, sceglie la provocazione, ricordando che, «se la Lega smania per trasferire risorse, ci sarebbero da utilizzare i 49 milioni che Salvini e soci hanno negato al fisco».
Ma la schiacciata più velenosa arriva da Mauro Berruto, responsabile sport del Pd ed ex ct di Mastrangelo in nazionale (hanno vinto insieme la medaglia di bronzo alle Olimpiadi di Londra nel 2012), che si dice «allibito», di fronte a una proposta «imbarazzante», perché «non vogliamo uno sport che sottragga risorse al diritto alla cura di nessuno». Poi via Twitter si rivolge al suo giocatore, come fossero ancora in palestra: «Dai Gigi, vogliamo parlare di quante code hai fatto, da atleta di vertice, per esami del sangue o quante ore aspettavi per fare ecografie o risonanze magnetiche? Dai, non è rispettoso».
E chiude invitandolo a «una correzione del messaggio, altrimenti c’è davvero da preoccuparsi». In effetti, dopo qualche ora Mastrangelo diffonde una nota per precisare che la sua «idea, e quella della Lega, si basa su un concetto fondamentale, cioè che un adeguato e calibrato investimento nello sport oggi, produce anche un risparmio in sanità domani».
Discorso ben diverso, sostenuto anche dall’ultima indagine condotta da Svimez, insieme a Uisp e Sport e Salute, sul «costo sociale e sanitario della sedentarietà». In sintesi, chi pratica regolarmente attività sportiva fa spendere allo Stato, per la propria assistenza sanitaria, 97 euro in meno all’anno. Mentre chi non fa sport (nelle regioni del Sud parliamo di quasi la metà degli abitanti), costa alle casse pubbliche, in termini di cure, 52 euro in più.
Insomma, non c’è dubbio che favorire l’attività motoria e sportiva porti benefici economici per il Servizio sanitario nazionale. D’altra parte, però, non si può dimenticare che siamo un Paese “anziano” e che, ad esempio, ci sono quasi 3 milioni di over 75 con gravi difficoltà motorie, co-morbilità, o compromissioni dell’autonomia nelle attività quotidiane (dati Istat). Per loro, evidentemente, la soluzione non è lo sport, ma terapie e assistenza.
(da agenzie)
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Agosto 28th, 2022 Riccardo Fucile
A MATTARELLA COMPETE AFFIDARE L’INCARICO DI FORMARE UN NUOVO GOVERNO A CHI OFFRA MAGGIORI GARANZIE SULLA BASE DI UN SALDO CONSENSO DEGLI ALLEATI E DI UNA MAGGIORANZA IN PARLAMENTO
«Lasciamo che i morti seppelliscano i morti». L’aria che tira al Quirinale quando la politica tenta di chiamarlo in causa fa ripensare al famoso passo evangelico di Luca, traducibile con un: non perdiamo tempo con faccende che al momento non si pongono.
Applicata al presente, quella logica di distacco significa che la campagna elettorale non provocherà reazioni dal Colle, neanche a fronte a prese di posizione che in qualche modo potrebbero coinvolgere il presidente. La dichiarazione di Giorgia Meloni suscita «stupore» sul Colle.
«Se vincesse il centrodestra e ci fosse l’affermazione di FdI, non ho ragione di credere che Mattarella possa assumere una scelta diversa rispetto alla mia indicazione» a premier. Fonti del Quirinale fanno notare che è una prerogativa del capo dello Stato nominare il presidente del Consiglio e che non è possibile autoproporsi. Anche Matteo Salvini ha infatti dichiarato «io aspetto il voto, poi il presidente sceglierà, com’ è giusto che sia Non impongo nomi e ruoli a nessuno, tantomeno al presidente della Repubblica». E qui scatta il punto chiave del problema.
La Costituzione spiega che in casi come questo non c’è alcun automatismo. A Mattarella compete, dopo aver consultato le forze politiche presenti in Parlamento, e dopo averne ascoltato indicazioni e programmi, affidare l’incarico di formare un nuovo governo a chi offra maggiori garanzie sulla base di un saldo consenso degli alleati e di una maggioranza in Parlamento.
Tra i diversi fronti che Mattarella dovrà considerare procedendo alla nomina, c’è pure la cornice geopolitica e delle alleanze nella quali l’Italia è inserita, essendo il capo dello Stato garante dei trattati internazionali
(da agenzie)
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