Agosto 4th, 2022 Riccardo Fucile
SI VOTERA’ PER LE REGIONALI INSIEME ALLE POLITICHE… LA MELONI RINUNCIA ALLA SICILIA IN CAMBIO DEL LAZIO… FORZA ITALIA PROPONE LA PRESTIGIACOMO MA LA LEGA DICE NO: IN EFFETTI NON E’ RAZZISTA
Sarà election day in Sicilia. Dopo avere tenuto tutti sulla graticola per settimane, e dopo una giornata altalenante in cui sembravano imminenti, salvo poi ritrarsi prendendo ancora tempo, Nello Musumeci, presidente della Regione, si è dimesso.
Dimissioni annunciate con un video sui social che di fatto consentono di accorpare le elezioni regionali, previste nell’isola per novembre, con le Politiche del 25 settembre.
“Non c’è nessuno motivo politico alla fonte di questa decisione, sono quasi tutte ragioni di ordine tecnico, di ordine procedurale, dettate dal buon senso”, così ha sottolineato Musumeci, fugando le voci su questa lunga attesa e sulla suspense finale di giovedì, che celavano, secondo alcuni osservatori, una contrattazione all’interno della coalizione.
Di certo da quando è stata fissata la data per le politiche i partiti del centrodestra hanno chiesto al governatore di permettere l’accorpamento delle due elezioni, possibile solo con le sue dimissioni, consentendo così un grande risparmio economico per le casse regionali.
Ma dietro la richiesta di votare tutto il 25 settembre non mancherebbero motivazioni squisitamente politiche, come quella dell’effetto trascinamento: la coincidenza di voto per le elezioni nazionali e per le regionali garantirà la volata per i partiti e offuscherà, con tutta probabilità, chi si candida solo alla Regione, come Totò Cuffaro e Cateno De Luca
Motivazioni buone anche per il presidente siciliano che dall’accorpamento pare abbia tutto da guadagnare: il suo movimento Diventerà bellissima, non verrà affogato dal trascinamento ma potrà anzi godere della volata di Fratelli d’Italia alla quale ha aderito formalmente da qualche settimana.
Ma ha tutto da guadagnare soprattutto dopo che l’orizzonte della sua candidatura è andato oscurandosi. Musumeci non a caso ha tenuto tutti col fiato sospeso: le dimissioni segnano per lui una resa amarissima, dopo avere lottato cocciutamente per mesi per la sua riconferma. Sostenuto da Giorgia Meloni, che in più occasioni aveva rimarcato come Musumeci fosse “il candidato naturale”, essendo l’uscente, aveva fino alla fine sperato di spuntarla.
Ma nei mesi scorsi si è trovato spesso picconato dal presidente dell’Assemblea regionale, il forzista Gianfranco Micciché, che non ha risparmiato bordate nei confronti del presidente siciliano, reo, secondo il forzista, di avere governato senza confrontarsi con i partiti della sua coalizione.
Decisivi sono stati infine gli equilibri nazionali. La partita del centrodestra si gioca infatti su tre regioni: Lombardia, Lazio e Sicilia. Spartite nelle candidature tra i tre partiti della coalizione. Fratelli d’Italia ha infine deciso di rivendicare per sé il Lazio, lasciando l’isola agli alleati.
Naufragate le speranze del governatore, il campo del centrodestra ha discusso nelle scorse settimane il nome del sostituto da candidare alle regionali, senza ancora venirne a capo.
L’unico nome in campo, ufficialmente, resta ancora quello di Musumeci, che infatti nel video delle dimissioni sottolinea: “Sono pronto a guidare la coalizione di centrodestra per garantire che per la seconda volta continuativa che la nostra coalizione possa guidare le sorti della regione. Qualcuno all’interno della coalizione dice che io abbia un brutto carattere che io sia molto rigoroso, che abbia un brutto carattere, può anche succedere, e che sia divisivo. Siccome per me l’unità della coalizione è più importante di qualunque pur legittima aspirazione a continuare il lavoro iniziato cinque anni fa, se sono divisivo, se non è un capriccio di qualcuno, io ho detto che posso benissimo fare un passo di lato”.
Non c’è ancora un altro nome per la candidatura, ma per il governatore le speranze sono risicatissime.
Per lui, come compensazione, ci sarebbe in serbo, secondo fonti interne al centrodestra, un posto addirittura di governo o sottogoverno più l’elezione blindata del delfino Ruggero Razza, l’assessore alla Salute, adesso a giudizio per lo scandalo sui numeri Covid da “spalmare” che lo travolse nel marzo del 2021.
Questo sarebbe il retroscena delle dimissioni, che lui rinnega: “Non c’è nessun tornaconto”.
Mentre all’orizzonte per la candidatura del centrodestra “è ancora il caos”, sostiene un big della coalizione.
In pole ci sarebbe la forzista Stefania Prestigiacomo, che è però invisa ai leghisti per via delle sue posizioni sull’immigrazione. Prestigiacomo nel periodo caldo della gestione migrazione di Matteo Salvini al Viminale, salì a bordo della Sea Watch nel gennaio del 2019, quando era attraccata al largo di Siracusa, in attesa di un permesso di sbarco. Il rancore per la mossa della forzista ancora cova tra i leghisti, tanto da mettere un veto sulla sua candidatura.
Nel frattempo però in Lombardia, si va rafforzando il nome di Letizia Moratti, che il sondaggio di Winpoll dà in vantaggio su Attilio Fontana: un sondaggio che spariglia le velleità della Lega che così potrebbe cedere la Lombardia a Forza Italia e rivendicare la Sicilia.
Un esito ai limiti del paradosso per l’ex Lega Nord che dovrebbe rinunciare alla sua regione d’eccellenza per ottenere invece la candidatura di un suo uomo nella regione più a sud d’Italia.
Ma non solo, proprio nell’isola a rappresentare il partito è Nino Minardo, lui, il fratello e il padre sono proprietari della Giap Petroli, azienda che gestisce servizi di distribuzione di petrolio in tutta Italia, compresi alcuni distributori della russa Lukoil. Un particolare che potrebbe creare più di qualche difficoltà alla Lega, al momento proprio sotto osservazione per i rapporti di Salvini con Putin.
Per questo motivo, la candidatura di Minardo sarebbe stata messa da parte, mentre al suo posto si è aperto un varco per il parlamentare leghista Alessandro Pagano, ex assessore al Bilancio del primo governo Cuffaro.
Se la spuntasse, Pagano dovrebbe vedersela con Caterina Chinnici, risultata vincitrice delle primarie del centrosinistra dello scorso 23 luglio, ma vista la spaccatura tra Pd e M5s a livello nazionale, non sono esclusi colpi di scena
(da Il Fatto Quotidiano)
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Agosto 4th, 2022 Riccardo Fucile
LE PERPLESSITÀ E LO SCETTICISMO DELLA COMMISSIONE E DEL CONSIGLIO EUROPEO VERSO UN POSSIBILE GOVERNO MELONI SI FONDANO SU QUEI VOTI E NON SU ASTRATTI PREGIUDIZI IDEOLOGICI
Tenete a mente queste cinque date: 13 ottobre 2020, 15 dicembre 2020, 10 febbraio 2021, 24 marzo 2021 e 27 aprile 2021.
Cosa sono? I giorni in cui Fratelli d’Italia, il partito di Giorgia Meloni, nelle aule di Camera e Senato e in quella del Parlamento europeo, ha evitato con cura di votare a favore del Recovery Fund. E del Pnrr predisposto dal governo Draghi.
Voti di astensione accompagnati da critiche asperrime nel merito del progetto, nei confronti dell’Ue e della moneta unica, l’euro. Una visione del mondo e del Vecchio Continente che non risale a qualche nostalgico decennio fa, ma agli ultimi 21 mesi. Spesso in compagnia della Lega.
Le perplessità, i dubbi e il pesante scetticismo della Commissione e della gran parte del Consiglio europeo si fondano su quei voti e non su pregiudizi. Perché ogni singolo atto ufficiale a Bruxelles e a Strasburgo pesa molto di più che nel catino di Montecitorio o Palazzo Madama. Nella politica italiana la memoria è sovente labile. Nei Palazzi europei si dimentica molto meno.
Tutto, quindi, inizia il 13 ottobre del 2020. In carica ancora il secondo governo Conte. A Montecitorio e Palazzo Madama si compie il primo atto per ufficializzare il Recovery Fund. Dibattito e poi una risoluzione sulle linee programmatiche del NextGenerationEu e quindi sugli oltre 200 miliardi messi a disposizione dell’Italia. Alla Camera 276 favorevoli, 3 contrari e 219 astenuti. Al Senato 148 favorevoli, 122 astenuti e 2 contrari.
Tra gli astenuti tutto il centrodestra (Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia) che dunque in quel momento era compatto contro gli aiuti europei.
E Andrea De Bertoldi, incaricato di parlare al Senato a nome del gruppo “meloniano”, diceva: «Non arriverà un grande aiuto dall’Ue» e questo Recovery è «un manuale delle banalità».
Dello stesso tenore le dichiarazioni di forzisti e leghisti che pochi mesi dopo, però, hanno ingranato la marcia indietro. Massimo Garavaglia, poi diventato ministro con Draghi, ironizzava: «È solo poesia ». Mentre un altro leghista, il capogruppo alla Camera Riccardo Molinari, preconizzava: «Un cavallo di Troia per andare a mettere becco nella nostra politica di sicurezza ».
Due mesi dopo la scena si ripete. Ma il teatro non è più quello di Roma, bensì Strasburgo. Non si tratta esattamente del Recovery e del connesso Pnrr, ma del cosiddetto “React Eu”, il primo provvedimento europeo per provare a porre argine agli effetti della pandemia. È il 15 dicembre del 2020. E niente. Anche in quell’occasione, sotto l’albero di Natale, Fratelli d’Italia impacchetta un voto di astensione. A quel punto il gioco si fa duro.
Nel nostro Paese si apre la crisi di governo. L’esecutivo giallorosso di Conte se ne va ed entra in scena l’unità nazionale guidata da Mario Draghi. Primo obiettivo: redigere un Piano di Ripresa e Resilienza credibile e metterlo in pratica. Nel frattempo il Recovery approda all’Europarlamento. Il 10 febbraio 2021 all’ordine del giorno il Regolamento che rende effettivo il Fondo. Viene approvato con 582 sì. La destra si spacca. La Lega, presente adesso nel Gabinetto Draghi, deve cambiare rotta e vota sì.
Il partito di Giorgia Meloni insiste: non vota a favore. Ancora astensione. È Carlo Fidanza, allora capodelegazione di FdI poi indagato per corruzione, ad annunciare la decisione. Accompagnata da una serie di giudizi pesantissimi sul Recovery.
Più che un’astensione sembrava un voto contrario: questo provvedimento, avvertiva con veemenza, porterà «un diluvio di tasse» e imporrà di nuovo «le regole dell’austerità».
Passa un mese e mezzo. È il 24 marzo 2021.
A Palazzo Europa, sede del Parlamento europeo a Bruxelles, il ritornello non cambia. Stavolta si vota sulle cosiddette “risorse proprie”, ossia il meccanismo che finanzia anche il NextGenerationEu. Pure in quell’occasione il gruppo di Meloni si astiene. Ma, con una piccola giravolta, anche la Lega segue. La scusa di Salvini: il timore di nuove tasse. Che non ci sono mai state.
Ma la prova del 9 risale a poco più di un anno fa. Nel Parlamento italiano si discute del Pnrr rivisto e messo a punto dal governo Draghi. Entro la fine del mese, infatti, scadeva il termine per consegnarlo alla Commissione europea. Data fondamentale per accedere ai soldi. Il premier interviene nelle assemblee di Montecitorio e Palazzo Madama. Vengono presentate le risoluzioni.
Tra questa una di maggioranza e una di FdI, firmata dal capogruppo Francesco Lollobrigida. È il giorno dei “big”. E così alla Camera prende la parola la leader del partito. «Se votassimo questo documento si potrebbe dire che siamo seri? – chiede rivolgendosi al presidente del Consiglio lamentando il fatto che non c’è stato il tempo sufficiente per esaminare il Piano – Io francamente penso di no». E poi ancora con tono costantemente antieuropeista: «La bassa crescita in Italia non è stata colpa delle aziende italiane, ma della gestione di una moneta unica pessima».
La risoluzione di Lollobrigida, poi, smaschera le intenzioni: «Il voto che il Parlamento si appresta a esprimere sarà riferito alle comunicazioni rese dal presidente del Consiglio e non al contenuto del Piano». Risultato: ancora astensione.
Ma soprattutto un giudizio negativo sul Pnrr. Proprio quel programma di riforme che invece l’Ue si aspetta dall’Italia. In caso di vittoria del centrodestra, dopo il 25 settembre che fine farà allora il Pnrr? E gli altri 150 miliardi che Bruxelles dovrebbe erogare fino al 2026 ?
(da La Repubblica)
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Agosto 4th, 2022 Riccardo Fucile
IL SINDACO DI SERRA SAN QUIRICO (CENTRODESTRA) SI E’ RIVOLTO COSI’ ALL’OPPOSIZIONE
Come si rivolge un sindaco alla minoranza in consiglio comunale? Anche così: “Questa è un’amministrazione fascista. Verbalizzo quello che decido io”.
No, non è uno scherzo: è tutto vero. Succede a Serra San Quirico, 2mila 600 abitanti in provincia di Ancona. I fatti. La seduta consiliare del 28 luglio scorso è in pieno svolgimento. L’ordine del giorno è la variazione di bilancio, adempimento amministrativo che va fatto in tutti i Comuni – solitamente – entro fine luglio.
Due consiglieri di minoranza, uno del Pd, l’altra di Possibile, Debora Pellacchia, intervengono incalzando il sindaco Tommaso Borri, di una lista civica di centro-destra. Per altro su un tema “tecnico”, poco “politico”. Ma tant’è.
I due consiglieri – a detta del primocittadino, – avrebbero esercitato in modo pedante il loro sacrosanto ruolo di indirizzo e di controllo. Da qui l’intervento a gamba tesa, a dir poco perentorio, del sindaco. Che ‘sospende la democrazia’, diciamo così, e si impone spiegando appunto che l’amministrazione di Serra San Quirico è ‘fascista’ e che ciò che viene verbalizzato è quello e soltanto quello che decide lui: Borri.
“Un fatto gravissimo – spiega Pellacchia -. Il sindaco non rappresenta soltanto gli elettori e le elettrici della propria città, ma anche la Repubblica italiana. Repubblica. Certe parole, certi atteggiamenti – continua la consigliera – sono inaccettabili e da condannare, ancora più se avvengono dentro sedi istituzionali”.
(da agenzie)
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Agosto 4th, 2022 Riccardo Fucile
IL RAPPER RISPONDE PER LE RIME AL LEGHISTA: “DIO, TI PREGO, NON FARMI INVECCHIARE COSI’ COME LUI”
Non accenna a fermarsi il velenoso botta e risposta che da un po’ di tempo a questa parte impegna sui social il cantante J-Ax e il leader leghista Matteo Salvini.
Quest’ultimo ha riacceso le ostilità pubblicando sui propri profili social una dichiarazione fatta dal rapper qualche tempo fa in cui diceva: “Ho sempre pensato che Salvini sia un politico nel senso più dispregiativo”.
L’affermazione è stata di punto in bianco ritirata fuori oggi da Matteo Salvini, probabilmente col fine di guadagnarsi con qualche commento consolatorio l’appoggio infuocato dei suoi sostenitori..
In risposta a quella frase, il leader del Carroccio ha scritto: “Amico mio, non aver paura della scelta degli italiani, prima vinciamo e poi ci facciamo una cantata insieme!”.
Dopo quella con la Rappresentante di Lista, una nuova diatriba tutta social ha quindi visto scontrarsi Salvini con un altro esponente del mondo della musica italiana.
Di fronte al punzecchiamento del leader leghista, infatti, J-Ax non è rimasto in silenzio e ha risposto per le rime, pubblicando una foto del segretario del Carroccio contestato e umiliato in Polonia dal sindaco di Przesmyl, che gli sfoderò in faccia la maglia di Putin.
Accanto all’immagine, il rapper ha scritto: “Amico mio, io non ho paura delle scelte degli italiani e nemmeno delle mie. Rispondo dei miei successi e non scappo davanti ai miei sbagli. Tu?”.
A commento della vicenda, J-Ax ha pubblicato subito dopo anche alcune stories su Instagram in cui ha detto: “La cosa che fa ridere è che l’intervista per il Corriere da cui Salvini ha preso la frase continuava ‘non ho paura di Salvini perché di Salvini penso che sia un politico nel senso dispregiativo del termine’. Cioè che ciò che dice in campagna elettorale per parlare alla pancia degli italiani poi, una volta raggiunto il potere, diventa un ‘moderato’. Invece quello a cui stiamo andando incontro adesso è qualcosa di grave, un po’ alla Trump. E quello che mi fa impazzire è che Salvini si arrabbia se lo chiami moderato, forse è l’insulto peggiore che puoi tirare fuori. E pensare che da giovane era a favore della legalizzazione delle droghe leggere…ti prego Dio, destino, chiunque ci sia al di sopra di noi di non farmi invecchiare così”.
Ancora nessuna risposta dal leader del Carroccio
(da agenzie)
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Agosto 4th, 2022 Riccardo Fucile
“DARO’ UNA MANO IN ALTRE FORME, NON E’ UN ADDIO ALLA POLITICA”
L’ex segretario del Partito Democratico e fondatore di Articolo Uno Pier Luigi Bersani non si ricandiderà alle elezioni del 25 settembre.
E in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera oggi spiega perché: «È una cosa normale, come il tempo che passa. Ho fatto 20 anni il parlamentare da ministro, da segretario e da deputato semplice. Penso che basti. Non abbandono la politica, né la compagnia, darò una mano in altre forme. A settant’anni consiglio a tutti di avere disponibilità e non aspirazioni. Dopo queste elezioni ci sarà un reset, si aprirà una fase nuova che io mi auguro di costruzione. Noi abbiamo alle spalle l’esperienza del governo Draghi che non era un’agenda, era una occasione di organizzare i campi della politica in condizioni di sicurezza per il Paese».
E ancora: «Tanti mi chiedono perché non mi ricandido quando lo fa Berlusconi a 86 anni. Io a 11 facevo lo sciopero dei chierichetti, a 15 spalavo a Firenze, a 28 ero assessore regionale. Ho l’orologio in anticipo. Sul giaguaro faccio notare che lui dal 2013 non poté più fare il capo del governo». Ha un unico rimpianto: la presidenza del Consiglio nel 2018. «Certo che ci penso. Io potevo farlo il governo con Berlusconi, ma non avevo quella idea lì», dice oggi.
Su Meloni e il pericolo fascista, invece, «prima deve vincere le elezioni, cosa non scontata. Questo Paese ha dei meccanismi di autotutela che spero scatteranno quando arriverà il giorno della riflessione su un salto così violento verso destra».
Infine il suo slogan elettorale: «È ora di riprendere con forza il tema sociale, a cominciare dal lavoro. Il baluardo più forte di alternativa alla destra credo sia la lista Democratici e Progressisti, promossa da Pd, Articolo Uno, Demos e Psi. Andrò a sostenere questo listone plurale».
(da agenzie)
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Agosto 4th, 2022 Riccardo Fucile
“LA COMPLESSITA’ RICHIEDE INTELLIGENZA, MISERICORDIA E AMORE PER CAPIRE LE VICENDE DLLA VITA”
Se una persona morisse con il suicidio assistito «sì, ne celebrerei il funerale». L’ha detto il presidente della Conferenza Episcopale Italiana (Cei), il cardinale Matteo Zuppi, in un’intervista a Vanity Fair.
Quando la giornalista Silvia Bombino, ricordando la vicenda Welby – cui il Vicariato di Roma negò le esequie – ha chiesto a Zuppi se le celebrerebbe per una persona morta con il suicidio assistito, la risposta è stata «Sì».
E ha aggiunto che «La Chiesa non ammette l’eutanasia, ma chiede l’applicazione delle cure palliative. Si resta fino all’ultimo accanto all’amato», sostiene il presidente della Cei, «facendo di tutto per togliere la sofferenza del corpo e dello spirito, quindi senza alcun accanimento, ma difendendo sempre la dignità della persona. La complessità – ha concluso – richiede intelligenza, misericordia e amore per capire le vicende della vita».
(da agenzie)
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Agosto 4th, 2022 Riccardo Fucile
“COME SPUTARE SUI SOLDI, IO CI ANDREI MA PER NON MENO DI DUE MILIONI DI EURO”
Evelina Sgarbi rifiuta la partecipazione al reality e il padre non la prende bene. Procedono spediti gli ingaggi per la nuova squadra di concorrenti della prossima stagione del Gf Vip targata Alfonso Signorini (in partenza il 12 settembre) e cominciano ad emergere pure i primi, spiazzanti, retroscena.
Uno di quelli che sta facendo più discutere coinvolge Evelina, la figlia 22enne di Vittorio Sgarbi, già comparsa in tv come ospite assieme al padre e alla sorella a Live – Non è la D’Urso.
La giovane quest’anno avrebbe potuto prendere parte come concorrente al reality di Canale 5, ma ha deciso di rifiutare la corte spietata di Alfonso Signorini, liquidando l’offerta e suscitando la reazione di disappunto del padre, che ha raccontato la vicenda in un’intervista per Novella 2000.
Non è la prima volta che Evelina Sgarbi dice “no” al Gf Vip: stando al racconto del padre, la giovane avrebbe già rifiutato per ben quattro volte di partecipare ai provini.
Una decisione, questa, che non ha ricevuto la benedizione del critico d’arte, che ha argomentato così i suoi malumori: “Ha deciso di non presentarsi al provino contro la mia volontà. Avrebbe guadagnato cifre ragguardevoli senza alcuno sforzo. Per una ragazza della sua età declinare una simile offerta equivale a sputare sul denaro”.
La scelta di Evelina ha determinato per un periodo un vero e proprio allontanamento dal padre.
Sgarbi ha spiegato: “Abbiamo discusso per questa cosa e per qualche mese ci siamo pure persi di vista”. Poi, illustrando i motivi del rifiuto della figlia, il critico d’arte ha aggiunto: “Ha ritenuto che un luogo denso di pettegolezzi come la casa del GF Vip non fosse degno di lei. Quindi no, non la vedrete nel programma, per la gioia di chi ipocritamente le riconosce il merito di non essersi lasciata lusingare dall’idea del successo facile”.
D’altronde, Sgarbi stesso ha ammesso che considererebbe l’idea di partecipare a un reality, ma solo in cambio delle giuste cifre: “Posso concedermi il lusso di dire no a format come l’Isola dei Famosi, che si aspetta di vedermi annuire dinanzi ad un cachet di 400 mila euro, anzi 800 mila. Avrei accettato solo per 2 milioni. Non intendo svendere il mio tempo. Ho impegni da sindaco, assessore e deputato”.
Che la raffinatezza della figlia abbia superato quella del padre?
(da agenzie)
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Agosto 4th, 2022 Riccardo Fucile
LE TENSIONI TRA PECHINO E TAIPEI HANNO RADICI PROFONDE, VEDIAMO DI RIPERCORRERLE
Le esercitazioni militari della Cina a Taiwan sono l’inizio di una nuova crisi mondiale? Quanto è probabile lo scoppio di un conflitto tra Pechino e Taipei? E cosa faranno gli Usa?
La visita a Taiwan della speaker della Camera Usa Nancy Pelosi è soltanto la scintilla di un fuoco che arde da tempo. Il viceministro degli Esteri Xie Feng ha parlato di «grave provocazione» oltre che di «violazione del principio della Unica Cina».
L’approdo a Taiwan infatti, a detta della stessa Pelosi, non rientrava nel quadro di una piacevole gita estiva: si trattava della «dimostrazione di sostegno alle democrazie minacciate», nel quadro di una lotta «agli autocrati». Ma quello tra Pechino e Taipei, infatti, è un conflitto che gioca un ruolo chiave nella scacchiera mondiale. Ecco perché.
Il braccio di ferro
Le mire della Cina su Taiwan iniziano nel XVII secolo, quando l’impero riuscì per la prima volta ad annettere il territorio, prima governato dagli indigeni.
Fu costretta a cedere l’isola a Tokyo nel 1895, dopo la sconfitta nella prima guerra sino-giapponese, ma riuscì tuttavia a riappropriarsene al termine della seconda guerra mondiale.
Dal 1945, Pechino considera l’isola suo territorio nazionale. Ad aggrovigliare ulteriormente la matassa, tuttavia, piomba la sanguinosa guerra civile che quattro anni dopo vede i comunisti di Mao Zedong conquistare il potere in Cina sconfiggendo i nazionalisti del Kuomintang (KMT) di Chiang Kai-shek.
Questi ultimi decidono di ritirarsi a Taiwan, alleandosi con gli Stati Uniti che combattono la Cina in Corea e sperando un giorno di riconquistare la terraferma.
Pechino, d’altro canto, tenta di annettere il territorio sin dalla fondazione della Repubblica Popolare Cinese. L’attuale presidente Xi Jinping ha persino fissato una data entro cui farlo: il 2049, centenario dalla nascita della Repubblica. I taiwanesi, dal canto loro, ritengono di non aver mai fatto parte del moderno stato cinese, formatosi per la prima volta dopo la rivoluzione del 1911 – o della Repubblica popolare cinese fondata sotto Mao nel 1949. Tuttavia, al momento solo 13 paesi (più il Vaticano) lo riconoscono come paese sovrano.
Perché la Cina è così interessata all’isola?
La Cina considera Taiwan un obiettivo appetitoso per varie ragioni, non solo ideologiche. 23 milioni di abitanti, 36 mila kilometri quadrati e un Pil tra i 20 più alti del Pianeta (superiore a quello di nazioni come Svizzera, Svezia e Arabia Saudita). Taiwan, infatti, non si limita a detenere il 92% della capacità produttiva di semiconduttori avanzati, necessari tra le altre cose alla produzione di auto, smartphone e pc.
Nella piccola isola transita anche il 40% del commercio mondiale, per un valore totale annuale di quasi 5,3 trilioni di dollari.
Questo anche per la sua posizione, ottimale da un punto strategico-militare. Conquistare Taiwan significherebbe per la Cina aumentare il proprio controllo sull’Oceano Pacifico. Gli sgraditi ospiti americani, che dalla Seconda guerra mondiale hanno eretto avamposti strategici e militari in Asia per mantenere la loro influenza sul territorio, sarebbero così allontanati dalle sue coste.
Il ruolo degli Stati Uniti
Gli USA hanno rappresentato, negli ultimi decenni, il «terzo incomodo» tra le relazioni altrimenti duali di Taipei e Pechino. L’isola, infatti, rientra nell’elenco dei territori amici di Washington che sono cruciali per la sua politica estera. Gli States hanno tuttavia provato a dare un colpo, oltre che al cerchio, anche alla botte, riconoscendo la RPC come l’unico governo legittimo della Cina.
Riconoscono anche la posizione di Pechino secondo cui Taiwan fa parte della Cina, ma non hanno mai accettato la pretesa di sovranità del PCC sull’isola. L’obiettivo, spiega la Cnn, è preservare lo status quo ed evitare una guerra in Asia, e ha funzionato. Almeno finora.
Quanto è probabile lo scoppio di un conflitto?
Nonostante dagli anni 80 il clima sembrava iniziato a distendersi, Taipei e Pechino non sono mai stati sereni vicini di casa. La tensione è salita sensibilmente dopo il 2016, con l’elezione nell’isola dell’indipendentista Tsai Ing-wen.
Sotto Xi Jinping, parallelamente, la Cina è diventata più autoritaria in patria e più assertiva all’estero, come dimostrano tra le altre cose le violente repressioni delle proteste a Hong Kong.
Attualmente, il ministro della Difesa di Taiwan ha affermato che le relazioni con la Cina sono le peggiori degli ultimi 40 anni. Il Wall Street Journal ricorda come le imponenti esercitazioni aeronavali che la Repubblica popolare cinese ha iniziato nello Stretto di Taiwan, con l’uso anche di missili che si prevede passeranno sopra Taipei, sono volte a «mostrare la capacità di Pechino di isolare l’isola con le sue forze armate, interrompendone i commerci».
In un eventuale confronto militare, verrebbe fuori l’enorme squilibrio tra le due parti, e la schiacciante superiorità della difesa cinese. A meno che non intervengano, ancora una volta, gli Stati Uniti: nonostante abbiano a lungo provato a mantenersi nello spazio grigio di un’«ambiguità strategica», il presidente Joe Biden ha dichiarato che le forze americane sono disposte a difendere militarmente Taiwan in caso di attacco. Adesso, la visita di Nancy Pelosi inaugura una «nuova fase negli sforzi della Cina per controllare il destino di Taiwan». Secondo gli analisti, il messaggio mandato a Pechino è chiaro: la questione dell’isola «non è più un problema che può essere risolto solo tra le due sponde dello Stretto di Taiwan».
(da Open)
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Agosto 4th, 2022 Riccardo Fucile
CROSETTO SENTE CRESCERE LA PRESSIONE INTERNAZIONALE SU UN EVENTUALE GOVERNO MELONI E CHIAMA ALL’UNITA’: “NESSUNO HA MAI PENSATO DI CAMBIARE LA COSTITUZIONE SENZA DIALOGO. SOLO GLI STUPIDI LO FAREBBERO”… “A SETTEMBRE SULL’ITALIA SI ABBATTERÀ UNO TSUNAMI, VIVREMO MOMENTI DI DIFFICOLTÀ SPAVENTOSA”… CHE PROBLEMA C’E’? CI PENSERA’ LA MELONI A RISOLVERLI, NO?
Non parla da candidato o potenziale ministro, non sa ancora cosa farà, ma da co-fondatore di Fratelli d’Italia. E lancia assieme un allarme e un appello: «A settembre – dice Guido Crosetto – sul nostro Paese si abbatterà uno tsunami, con una prevedibile minore ricchezza reale del 10%. Vivremo momenti di difficoltà spaventosa», con rischi addirittura di conflitti sociali da guerra civile «non solo figurata, visto quanto cresce la rabbia».
Per questo, serve uno sforzo di grande responsabilità da parte di tutte le forze politiche per evitare «demonizzazioni reciproche» che «non farebbero male a Meloni se vincerà», ma solo al Paese: «C’è bisogno di un patto. Senza il quale, a perdere saremmo tutti».
È un modo per mettere al riparo la Meloni da possibili tempeste?
«No, è un’analisi dei fatti. Mi faccia premettere: il compito principale di un partito conservatore in Italia oggi è far sì che non si perda il tessuto economico del Paese, la sua capacità manufatturiera e produttiva. Va reso questo Paese fertile per gli investimenti italiani e stranieri. E tutti sappiamo benissimo che servirà lo scudo della Bce per difendere i nostri titoli pubblici, come che si investirà il 2% annuale del Pil come previsto dal Pnrr».
Queste garanzie non bastano?
«Temo che messaggi chiari vengano sovrastati da altri allarmanti: sostenere che col centrodestra ci saranno chissà quali manovre di spesa o colpi all’impianto europeo getta discredito e fa danni solo all’Italia».
Saranno le prime mosse del governo a rassicurare. O no?
«Ma già a settembre noi ci troveremo con le agenzie di Rating che gireranno il loro outlook verso l’Italia in negativo, indipendentemente da chi vincerà. E poi vedo possibili decisioni di Bankitalia preoccupanti, come la classificazione in debito pubblico di ciò che prima non lo era (i soldi messi dallo Stato in Autostrade per l’Italia o il meccanismo dell’Amco, per i crediti finanziari): aumentando il debito di decine di miliardi e togliendo ad un governo strumenti per intervenire in crisi industriali o bancarie».
Perché farlo?
«Non lo so…».
E quindi che chiede agli avversari?
«Un patto, appunto. L’obiettivo di settembre è far reggere un sistema economico sociale che andrà in crisi pensando tutti al bene comune».
Il patto in cosa consisterebbe?
«Non fare una campagna elettorale a slogan di “l’Italia fallirà con Meloni” o “fallirà con Letta”, perché non si prende un voto in più ma si fa danno al Paese. Chiunque vinca, le imprese sarebbero comunque in difficoltà, la crisi comunque colpirà, l’ondata migratoria comunque sarà un problema enorme da gestire. E nessuno avrà la bacchetta magica.
E un centrodestra vincente cosa dovrebbe fare?
«Essere inattaccabile, lavorare per il Paese e non per una parte. Difendere anche chi non l’ha votato».
Le ricette divergono però.
«Su molti punti tutti pensano sia giusto intervenire. Ma ci sono temi da affrontare come comunità per ricostruire una cerniera che si è spezzata. Lo sa che in Italia c’è bisogno di 250-300 mila persone nel settore tecnologico-digitale, e li cerchiamo all’estero perché non li abbiamo? Lo stesso vale per i meccatronici. I nodi sono questi, non ci è permesso farci la guerra».
Intanto però voi potreste ottenere i numeri per cambiare da soli la Costituzione.
«Nessuno ha mai pensato di cambiare le regole senza dialogo e senza confronto democratico. Solo gli stupidi lo farebbero. L’impegno deve essere quello di trovare campi di dialogo su temi fondamentali. Per il bene del Paese, non della Meloni».
(da Il Corriere della Sera)
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