Agosto 19th, 2022 Riccardo Fucile
LE TESTIMONIANZE DI DECINE DI LAVORATORI STRANIERI DEL TERZIARIO… CONFCOMMERCIO AMMETTE: “DUE EURO SI’, UNO E’ ECCESSIVO”
“A Rimini ci sono lavoratori del commercio che guadagnano poco più di un euro all’ora”. Alla pesantissima denuncia lanciata in questi giorni dalla Flai Cgil nella città romagnola, è seguita la difesa d’ufficio, quantomeno maldestra, della Confcommercio: “Abbiamo sentito purtroppo di due o tre euro – ha risposto il presidente provinciale Gianni Indino – ma un euro sembra una cifra troppo bassa per essere credibile”.
Il surreale botta e risposta è avvenuto negli scorsi giorni, dopo la pubblicazione di un’indagine informale condotta dal sindacato tra gli immigrati della provincia romagnola.
I risultati, persino peggiori rispetto alle aspettative, hanno fatto arrabbiare l’associazione di imprese che, pur non avendo subito accuse dirette, ha voluto reagire con la più classica delle toppe peggiori del buco.
Per mettere i fatti nella giusta prospettiva va tenuta da conto una premessa: il sondaggio in questione non ha un valore statistico, come chiarito anche lo stesso sindacato.
Si è trattato di una raccolta di 123 testimonianze di chi ha raccontato in quale settore lavora e qual è la sua retribuzione. Una platea composta perlopiù da uomini, la maggior parte dei quali proveniente dall’Africa centrale, più qualche decina di pachistani e cittadini del Bangladesh.
La fetta più grossa è impiegata nel turismo: li si vede ogni giorno, soprattutto in questo periodo, servire ai tavoli dei ristoranti nella riviera, ma anche assistere i clienti nei negozietti, pulire le stanze degli hotel, trasportare merci, lavorare in spiaggia.
Il modello vacanziero della riviera romagnola, del resto, è tornato a girare a pieno regime e ha bisogno di braccia. Ed è proprio nelle attività connesse col turismo – alberghi, ristoranti e negozi – che sono emersi i salari più miseri, ben inferiori a quelli, comunque tutt’altro che faraonici, di metalmeccanica, edilizia e agricoltura.
Chi opera nel commercio ha dichiarato di prendere da un massimo di 10,38 euro all’ora a un minimo di appena 1,09 euro. Nel turismo si va dai 10,98 euro a 1,65 euro.
Più stretta la forbice nell’agricoltura: da 6 a 4,23 euro. In edilizia, invece, si va da 8,08 euro a 5,76 euro.
Numeri, come spiegato, da circoscrivere a chi ha risposto alla rilevazione, legati a casi singoli dai quali non si può tirar fuori una media, ma che comunque fanno emergere evidenti situazioni di sfruttamento.
Subito dopo la diffusione della ricerca, come detto, è partita la controffensiva della Confcommercio provinciale, che ha contestato al sindacato il fatto di aver pubblicato un “sondaggio quasi ideologico”. “Mai sentite cifre del genere, purtroppo sento parlare di 2 o 3 euro, ma 1,09 euro non è una somma credibile, se non nel caporalato”, ha detto al Corriere Romagna il presidente Gianni Indino, aggiungendo, bontà sua, di non voler sminuire con questo il fenomeno del lavoro sottopagato.
Insomma, un euro l’ora sarà pure un caso isolato, nella ricostruzione imprenditoriale, ma non è infrequente imbattersi in “contratti” che riconoscano due euro o poco più.
Il leader locale dei commercianti, già che c’era, ne ha approfittato per rilanciare il ritornello dei lavoratori introvabili: “Sparare nel mucchio non è accettabile, né corretto quando si fa informazione, specie nell’estate in cui gli imprenditori raschiano il fondo e in mancanza di personale rintracciano parenti alla lontana per farli lavorare”.
Anche la presidente della Federalberghi Patrizia Rinaldis ha attaccato il sindacato: “Denunce simili fomentano l’astio mettendoci l’uno contro l’altro, mentre bisogna separare il loglio dal grano”.
La Flai di Rimini ha realizzato la ricerca nell’ambito di un progetto che l’ha vista in questi anni collaborare col sistema di accoglienza, grazie al quale centinaia di stranieri sono stati “alfabetizzati” sui loro diritti di lavoratori.
Le loro risposte di oggi confermano un fatto che non sorprenderà nessuno: le attività stagionali di turismo e commercio sono particolarmente esposte allo sfruttamento. Certo, se si vogliono fare distinzioni tra una paga da tre euro l’ora e una da 1,09 forse non è chiaro quale sia il problema.
(da agenzie)
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Agosto 19th, 2022 Riccardo Fucile
NELLA LEGISLATURA CHE SI CHIUDE ERANO 33
Nei paesi di lingua anglosassone esiste una definizione, watchdog journalism, che viene tradotta in italiano con “giornalisti cani da guardia del potere”. Indica la funzione che la stampa dovrebbe svolgere in una democrazia: informare sulle attività istituzionali svolte dai rappresentanti eletti e verificare il mantenimento degli impegni assunti nei confronti degli elettori.
Ma cosa succede quando il rappresentante eletto è un giornalista? In Italia molti giornalisti sono diventati parlamentari, tanto che nel Parlamento uscente se ne contavano ben trentatré che nel 2018 avevano abbandonato la professione per entrare nei due rami del Parlamento.
I giornalisti probabili candidati
Anche alla prossima scadenza elettorale, sulle schede compariranno nomi di giornalisti, alcuni noti al grande pubblico perché volti televisivi, altri meno perché impegnati nel lavoro di cucina redazionale, quello che si svolge dietro le quinte.
Tra i papabili ci sono il direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano, le cui simpatie politiche sono ben note, essendo stato bacchettato per aver partecipato alla convention milanese di Fratelli d’Italia, dove invece che moderare un dibattito, fece un intervento sul conservatorismo.
Sangiuliano, corteggiato sia da Giorgia Meloni sia da Matteo Salvini, potrebbe però non accettare. In Rai, dopo il 25 settembre, ci sarà un balletto delle direzioni delle testate giornalistiche e, nel caso di vittoria del centrodestra, data ormai per scontata stando ai sondaggi, il giornalista, un tempo pupillo di Giuseppe Tatarella, che nel 1996 gli affidò la direzione del Roma, ambirebbe alla poltrona più prestigiosa, quella di direttore del tg della rete ammiraglia Rai.
Un altro nome che circola è quello di Giovanna Maglie, ex giornalista Rai, ormai opinionista fissa dei talk show politici a forte impronta sovranista in onda sulle reti Mediaset. Per l’ex corrispondente da New York della tv di Stato, si parla di una candidatura nelle fila della Lega. Stesso partito dove potrebbe essere candidata Annalisa Chirico, firma del Foglio. Niente posto in lista, invece, per Hoara Borselli, nonostante negli ultimi tempi l’ex compagna di Walter Zenga, che non ha un lungo curriculum giornalistico, sia diventata una collaboratrice fissa di Libero con i suoi pezzi sempre richiamati in prima pagina.§
Nel 2018 entrarono in Parlamento 33 giornalisti
Nelle liste di Impegno Civico, la nuova formazione di Luigi Di Maio, troverà sicuramente posto Primo Di Nicola, senatore uscente, che ha seguito il ministro degli Esteri nella scissione dai Cinque Stelle. Di Nicola è stato direttore de Il Centro di Pescara e una delle principali firme del settimanale L’Espresso, quando entrambe le testate non erano ancora state acquisite dalla Gedi per poi essere cedute sul mercato.
Un altro giornalista che nel 2018 era entrato in Senato col Movimento Cinque Stelle, Gianluigi Paragone, sarà candidato nella formazione da lui creata, Italexit, se la stessa riuscirà a raccogliere il numero di firme sufficienti per presentare le liste ed essere ammessa alla competizione elettorale. Paragone, che è stato direttore del quotidiano leghista La Padania (che ha cessato le pubblicazioni nel 2014) e condirettore di Libero, era stato candidato sull’onda del successo di un suo programma su La 7, che rilanciava le parole d’ordine anticasta dei grillini.
La caporedattrice del Tg2 Chiara Prato ha ufficializzato la propria intenzione di candidarsi con l’Unione Popolare di Luigi de Magistris, mentre non hanno avuto fortuna le numerose interlocuzioni che il direttore degli approfondimenti Rai Antonio Di Bella ha avuto con il segretario del Partito democratico Enrico Letta. Troppi pretendenti al seggio tra i dem, per lasciare spazio al figlio dell’ex direttore del Corriere della Sera Franco Di Bella.
Chi ci riprova e chi è stato escluso
Molti degli onorevoli-giornalisti uscenti non saranno ricandidati, sia per la riduzione del numero dei parlamentari (da 630 a 400 deputati alla Camera, da 315 a 200 i senatori), altri vedono la rielezione a rischio. E’ il caso di Andrea Cangini, ex direttore del Quotidiano Nazionale e del Resto del Carlino che, lasciata Forza Italia, dovrebbe correre sotto le insegne di quello che cerca di accreditarsi come Terzo polo, ovvero la coalizione elettorale formata da Italia Viva di Matteo Renzi e Azione di Carlo Calenda.
Sicuramente troverà un posto in lista Giorgio Mulè, ex direttore di Panorama, che nel 2018 fu tra i 59 neodeputati di Forza Italia. Non si sa, però, se sarà ricandidato in Liguria, viste le frizioni recentemente avute con un altro giornalista, suo ex collega a Mediaset, il governatore della Liguria Giovanni Toti. Mulè, in uno scambio velenoso di tweet ha definito il presidente ligure (che non si candida alle politiche) “Un Dibattista un po’ in. sovrappeso”.
Tommaso Cerno, ex condirettore di Repubblica e direttore dell’Espresso, senatore uscente del Pd, non sarà ricandidato. Forse per questo oggi dice che “il Pd è inadeguato a governare” contestando le candidature del virologo Andrea Crisanti e dell’economista Carlo Cottarelli, che definisce “tagliatore di spesa pubblica” e “l’opzione di un partito disperato che non ha costruito un’idea di futuro”. Nella legislatura che volge al termine Cerno ha votato 27 volte diversamente dal gruppo parlamentare di appartenenza e non si può certo definire uno stacanovista: secondo il sito Openpolis è stato assente al momento del voto in aula nel 60,92% dei casi.
Anche Salvini e Meloni sono giornalisti
Due giornalisti sono sicuri di sedere nel prossimo Parlamento: sono Giorgia Meloni e Matteo Salvini. Entrambi sono iscritti all’Ordine (iter giornalistico per i due nei giornali dei rispettivi partiti), anche se hanno, per ovvi motivi, accantonato la professione per occuparsi esclusivamente di politica.
Giornalista sono anche Maurizio Gasparri, oggi in Forza Italia, Roberto Giachetti (Italia Viva), Emilio Carelli: quest’ultimo ex direttore di Sky tg24 nel 2018 è stato eletto col Movimento Cinque Stelle e oggi è in Impegno civico con Luigi Di Maio.
Data la strutturazione dell’Ordine dei giornalisti in due distinti albi, quello dei professionisti (che esercitano in via esclusiva la professione) e quello dei pubblicisti (che svolgono attività giornalistica collateralmente a un’altra professione principale), il numero dei giornalisti presenti in Parlamento va ben oltre i trentatré elencati.
In Italia quello dei giornalisti che scelgono di stare “dall’altra parte” è una lista lunghissima. E’ da decenni, infatti, che la politica “prende in prestito” per periodi più o meno lunghi volti noti del giornalismo televisivo o le firme più illustri della carta stampata.
Una lista lunghissima di giornalisti “dall’altra parte”
Andando indietro nel tempo, spiccano nomi eccellenti: da Pietro Ingrao, prima alla direzione dell’Unità poi alla presidenza della Camera, fino a Luigi Einaudi, firma della Stampa, del Corriere della Sera e corrispondente dell’Economist, che fu anche il secondo presidente della Repubblica.
Giovanni Spadolini, direttore del Corriere della sera e politico nel partito repubblicano, arrivò a ricoprire il ruolo di presidente del Senato e presidente del Consiglio. Ma i nomi sono davvero tanti: Sergio Zavoli, volto noto in tv alla Rai, entrò al Senato con i Ds nel 2001. Gianni Letta, ex direttore del Tempo, braccio destro di Silvio Berlusconi è stato sottosegretario alla presidenza del Consiglio. E anche Paolo Bonaiuti, deputato Pdl e portavoce storico di Berlusconi, era stato vicedirettore del Messaggero. Paolo Guzzanti, ex vicedirettore del Giornale, fu eletto deputato nelle fila del Popolo delle libertà.
Tra i giornalisti storici che hanno intrecciato giornalismo e politica ci sono stati per il gruppo di Repubblica, due tra i fondatori: Miriam Mafai che nel 1994 aderì al partito Alleanza Democratica e alle elezioni di quell’anno viene eletta alla Camera per la coalizione di centrosinistra dei progressisti. E il “padre’” del quotidiano, Eugenio Scalfari che venne candidato dal Psi alle elezioni politiche del 1968, anche se si trattò di una sorta di elezione “salvataggio”. Scalfari infatti fu eletto deputato, come indipendente nelle liste del Partito socialista, per evitare il carcere grazie all’immunità parlamentare per l’inchiesta sul SIFAR che fece conoscere il tentativo di colpo di Stato chiamato ‘piano Solo’ e per il quale fu querelato dal generale De Lorenzo.
Da sinistra e da destra
Dall’Unità, oltre a Ingrao, provengono soprattutto ex direttori: Massimo D’Alema direttore nell 1988 e Walter Veltroni nel ’92, nominato direttore del quotidiano nonostante fosse solo giornalista pubblicista (del resto spesso la direzione dell’Unità aveva una doppia guida, editoriale e politica, quest’ultima affidata a dirigenti del partito). Ma anche Furio Colombo, ex Rai e poi direttore dell‘Unità dal 2001 al 2005, deputato con i Ds già dal ’96 e poi deputato Pd.
Ci sono poi i politici provenienti dall’area del Secolo d’Italia: Francesco Storace inizia lì la sua carriera e poi diventa capoufficio stampa del Msi-Dn e in seguito di Alleanza Nazionale; entra in Parlamento per la prima volta nel ’94 ed è eletto presidente della regione Lazio nel 2000. Italo Bocchino, ex deputato di Futuro e Libertà, aveva alle spalle la militanza nel Msi, portavoce di Giuseppe Tatarella e poi l’assunzione al Secolo quando nel ’96 venne eletto alla Camera.
Il gran rifiuto di Montanelli
Dal mondo Rai provenivano anche Francesco Pionati e David Sassoli, entrambi ex Tg. Breve esperienza politica per Michele Santoro, candidato al parlamento europeo nel 2004 con l’Ulivo di Prodi: ma appena un anno dopo si dimise perché ottenne il reintegro in Rai dalla quale era stato allontanato a causa del famoso “editto bulgaro”. Esperienza analoga per Lilli Gruber che eletta con l’Ulivo di Prodi nel 2004 nel Parlamento Ue, si dimise nel 2008 per tornare a fare la giornalista.
Un giornalista rifiutò invece l’offerta di entrare in politica: Indro Montanelli. La proposta di candidarsi la ricevette da Ugo La Malfa, presidente del Partito repubblicano e suo amico personale. Era il 1972. Montanelli però non accetto e fece ‘girare’ la proposta a Spadolini.
(da true-news.it)
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Agosto 19th, 2022 Riccardo Fucile
COSA C’E’ DIETRO IL MATRIMONIO D’INTERESSI TRA CALENDA E RENZI
Del suo compare “Carletto”, Matteo dice che di politica non capisce un granché neanche se gli fanno un disegno. Carlo, invece, il caro Matteo lo schifa proprio: di lui, scandisce, «non me-ne-frega-niente», figurarsi andarci a braccetto.
Ma alla fine tra loro matrimonio fu, sebbene di interessi: Matteo Renzi e Carlo Calenda se la sentono, ma i sondaggi della vigilia che misurano le intenzioni di voto e non le ambizioni dettate dall’ego, per adesso restano deludenti.
Epperò più e meglio del divorzio tra Francesco Totti e Ilary Blasi, la loro unione, anche per le modalità rocambolesche con cui ci si è arrivati, rimane la storia di copertina dell’estate 2022: ora che sono freschi di luna di miele già impazzano i pronostici. Quanto dureranno assieme? In passato quando ci han provato a condividere lo stesso tetto sulla testa è durata pochino
Ma adesso è un’altra storia o almeno così la raccontano in questo anomalo agosto di campagna elettorale prima delle urne del 25 settembre. Giurano di essere intenzionati a mettere infine la testa a posto e a resistere agli istinti di battitori liberi per gettare le fondamenta per la casa dei riformisti che non c’è e soprattutto scrollarsi di dosso la nomea di eterni guastatori, una maledizione, diciamo così che però continua a inverarsi. Insomma vogliono, vorrebbero, lanciarsi in un nuovo format che non propriamente si attaglia alle loro corde, ossia quello dei costruttori.
Non tanto di un soggetto politico nuovo di pacca quanto di un nuovo inizio per il Paese, una rifondazione «dell’Italia sul serio», roba di rimanere nei libri di storia. Dove una autocertificata illibatezza rispetto alle alleanze con i populismi con cui il Pd si sarebbe invece compromesso, per esempio, sarebbe la garanzia di affidabilità che a tutti gli altri manca per il grande spariglio.
Quello riuscito a Emmanuel Macron in Francia secondo un modello che ha rotto lo schema destra-sinistra ma che è già démodé in Francia come hanno dimostrato le ultime presidenziali vinte da Macron ma con una fifa blu fino all’ultimo.
Ma tant’e: offrendosi di marciare sotto le insegne del migliore per antonomasia, Mario Draghi e in nome dell’Agenda Draghi che pure il premier dimissionario ha negato che esista, il duo Calenda Renzi avrebbe l’ambizione di traghettare l’Italia nella Terza Repubblica, una terra promessa definitivamente post ideologica in cui non ci sarà più spazio per chi si ostina a guardare ai vecchi schemi o steccati del passato ma solo per l’Italia futura della serietà e delle competenze di cui si sentono campioni. Ce la faranno?
Comunione&Rottamazione
Intanto hanno unito i tic caratteriali: entrambi, Matteo e Carlo sono due prime donne, lo si dica senza animosità, con l’antico vezzo delle leadership di vecchia marca italica del capotavola che, come insegna il vecchio adagio, è dove mi seggo io. E in questo caso i capotavola sono addirittura due. Che in passato poco sono riusciti a condividere con altri aspiranti costruttori di futuro. Che si tratti del famigerato centro e dintorni o altro.
A Matteo Renzi, per dire, non è riuscita al massimo della sua parabola politica, l’impresa di trasformare il Pd di cui è stato segretario nel motore di quel Partito della Nazione a cui stava lavorando prima che fallisse la liaison dangereuse con Silvio Berlusconi via Denis Verdini.
Carlo Calenda parla da cinque anni della necessità di mettere in piedi un fronte repubblicano da contrapporre agli altri, i mostri non necessariamente solo a destra, ma non ha mai trovato compagni di viaggio che reputasse alla sua altezza e dell’alta missione: da ultimo quando ha rotto con il Pd a patto elettorale ormai fatto, ha rinfacciato persino a chi gli ha insegnato cos’è l’Europa, ossia alla sua ormai ex storica alleata Emma Bonino che quel patto elettorale con i dem voleva confermarlo, di essere praticamente una venduta dedita al fuffismo.
Per questa comune nomea di guastatori più che di costruttori Carlo e Matteo sono soprattutto sospettati con questa legge elettorale di poter al massimo giocare a far perdere gli avversari tutti, sia quelli del campo minuto di Enrico Letta che quelli dello squadrone litigioso ma accreditato di vincere del centrodestra a trazione meloniana.
E al più di potersi in qualche modo intestare il previsto catafascio dei pentastellati che cinque anni fa vellicando un diffuso sentiment anti casta e anti élite e in nome del reddito di cittadinanza avevano fatto il boom alle urne.
A tre anni dal Jobs Act di Renzi che aveva mandato in soffitta l’articolo 18 rompendo con la sinistra del Pd e con i sindacati. Un’affermazione quella dei 5S e della protesta di popolo che ha rappresentato verso cui invece Calenda nutre una incomprensione radicale come quella che Enrico Bottini, il protagonista del Libro Cuore che interpretò da bambino sotto la regia di suo nonno Luigi Comencini, nutriva per Franti il cattivo per antonomasia.
Epperò ora che declina la stella del Movimento di Conte, i sondaggi continuano a non premiare in termini assoluti né Renzi né Calenda, insieme o separati che vadano. Sarà perché a entrambi manca quella gravitas nel senso di ancoraggio a una idealità forte che li rende sospettabili di tutto e il suo contrario, una imprevedibilità che caratterizza persino i loro stessi rapporti personali.
C’eravamo tanto odiati
Rivendicano l’egemonia sulla stessa area politica moderata, ma Calenda e Renzi non si sono risparmiati nulla quanto a insulti e non una vita fa. Calenda si è fatto a lungo pubblicità marcando le differenze, diciamo di postura istituzionale, rispetto a Renzi. Gli ha rimproverato i contratti da conferenziere «pagato dall’Arabia Saudita, immorale e pericoloso. È inaccettabile che Renzi, senatore della Repubblica pagato dai cittadini, vada in giro per il mondo a fare il testimonial di regimi autocratici dietro pagamento di lauti compensi». Ma pure il tatticismo esasperato e le alleanze pericolose: «La rifondazione della politica non si fa mettendo insieme pezzettini che in Sicilia si alleano con Miccichè e Cuffaro o coi 5 Stelle. Non me ne frega niente di Renzi e di questo centro che è un fritto misto. Mi fa orrore. Mi sono rotto le balle».
Ha avuto persino da ridire sul format della Leopolda: «Ma chi se ne frega della Leopolda: un gruppo che si incontra ogni anno per dirsi che sono i più bravi, i più fighi, i più simpatici, se la suonano e se la cantano». Tramite il suo braccio destro Matteo Richetti, un tempo braccio sinistro di Renzi stesso, ha cercato di cannoneggiarlo persino nell’orgoglio. «Matteo è un piromane che incendia il Palazzo».
Ora non è che Renzi abbia usato il fioretto con l’amico Carletto che chiama così per il gusto di fargli dispetto: «Non è cattivo: quando è tranquillo è un piacere parlarci. Ma quando si lancia in previsioni alla divino Otelma non ne azzecca una». Epperò Calenda è stato prodigo di elogi con Renzi presidente del Consiglio e sa che è un professionista della politica a differenza sua. Renzi lo ha blandito in passato come possibile front man del Pd e specie ora che c’è da tornare davanti al giudizio degli elettori con lui impietosi, ha detto che è Calenda quello che deve giocare con la maglia del numero 10 che però sarebbe la sua.
Insomma l’uno vede e se serve enfatizza i limiti e i pregi dell’altro. Ma soprattutto l’uno vede nei limiti dell’altro un’opportunità per se stesso: Renzi gli deve la vita ché il Pd lo aveva mandato per una volta in fuorigioco relegandolo fuori dal campo elettorale che avrebbe significato rimanere fuori dal Parlamento.
Ma aveva ciò che serviva a Calenda ossia un simbolo che consentisse al leader di Azione di non dover raccogliere le firme dopo la rottura con Letta e soprattutto con il simbolo di +Europa detenuto da Bonino. E così pur essendogli superiore per tattica e visione di gioco, Matteo ha offerto a Carlo di essere il capitano della squadra. Carlo pur sapendo che imbarcare Renzi vuol dire alienarsi diverse simpatie l’ha preso a bordo sulla scialuppa del terzo polo su cui è riuscito a imbarcare anche pezzi di argenteria di Forza Italia come Gelmini e soprattutto Carfagna, ma con la promessa che sarà solo il suo il nome sulla scheda scritto in grande. Solo questo basta per pronosticare con certezza che il film post elettorale sarà denso di colpi di scena e di testa. Insomma: popcorn.
A partire dal risultato che verrà scritto dalle regole del Rosatellum, la legge elettorale ideata dal renziano Ettore Rosato sistema micidiale e per certi versi diabolico. Favorisce chi gioca in coalizione, ma in questa tornata, dovrà soprattutto stabilire se il tandem solitario Renzi Calenda ha più favorito il centrodestra o ha più favorito il centrosinistra drenando voti all’uno o all’altro campo con tutto quello che questo comporta per le alchimie per il dopo in vista delle alleanze possibili
Ma il Rosatellum, con cui si attribuisce un terzo dei voti con l’uninominale e il resto con il proporzionale determinerà non solo i rapporti di forza tra gli schieramenti e dentro le coalizioni quando ci sono, ma pure dentro gli stessi partiti.
Con i seggi vinti nell’uninominale, quelli che scatteranno nei listini e l’incognita dei seggi attribuiti con l’effetto flipper, che non rende automatico capire dove i partiti vedranno scattare i seggi che spetterebbero loro se non dopo “aggiustamenti” tra circoscrizioni in base ai risultati ottenuti sul piano nazionale.
Questo implica che a monte i partiti non possono sapere con assoluta certezza nemmeno quali sono i posti sicuri in lista. Per dire che i meccanismi bizzarri e bizzosi della legge elettorale contribuiranno non solo a determinare le tattiche post elettorali, ma pure la composizione della rappresentanza parlamentare dei singoli partiti. Tradotto rispetto al Terzo polo: quanti calendiani verranno eletti? E quanti renziani? La questione non è di piccolo conto per i caratteri e l’indole dei due campioncini che dicono con strategie diverse e solo in parte sovrapponibili di aver entrambi vinto le elezioni amministrative di giugno pure se non le hanno vinte affatto.
Matrimonio all’italiana
Alle amministrative di giugno Italia Viva ha sposato la linea delle alleanze variabili, ora con il centrosinistra, ora con il centrodestra. Spesso non presentando il simbolo.
«Abbiamo dato un contributo importante a sindaci eletti molto bravi come Bucci (centrodestra) a Genova e Giordani (centrosinistra) a Padova. E quando siamo andati da soli, come a Carrara con Ferri o a Verona con Tosi, abbiamo fatto un risultato straordinario sfiorando il ballottaggio. Oggi abbiamo 97 sindaci in Italia, e credo che in questa tornata abbiamo conquistato più consiglieri che i Cinque Stelle», si è vantato Renzi rivendicando pure l’imbarazzante per lui tornata elettorale a Palermo.
«Avevano schierato Faraone che si è poi ritirato perché, prima di scegliere uno di Italia Viva, il Pd ha preferito perdere con uno dei loro, Miceli, anziché vincere con uno dei nostri». Poi i renziani, nonostante l’inventore della ditta negasse di volerlo fare, sull’isola hanno appoggiato Roberto Lagalla sindaco caldeggiato da Marcello Dell’Utri e pure da Totò Cuffaro. E sono stati decisivi tanto da meritare un ingresso in giunta.
Calenda ha scelto invece di correre pure lui in pochi comuni con candidati propri che hanno fatto bene (che comunque non ce l’hanno fatta) come all’Aquila e Palermo, mentre ad esempio a Catanzaro e Parma non ha presentato una sua lista, né il suo simbolo, ma ha appoggiato i due candidati arrivati terzi: ma l’effetto ottico di un successone elettorale che non c’è stato, l’ha convinto che come nei fatti è stato poteva dare le carte al tavolo con Letta che poi ha deciso di far saltare comunque per aria.
Per capire i caratteri di Calenda e Renzi è soprattutto significativo il caso Lucca dove entrambi hanno appoggiato Alberto Veronesi, che al primo turno ha raccolto il 3,65% grazie al sostegno di Italia Viva e Azione. Ma quando al ballottaggio Veronesi, figlio del compianto oncologo, ha scelto di appoggiare Mario Pardini, l’aspirante sindaco del centrodestra che nel frattempo si era apparentato con i neofascisti di Casapound e con i no green pass, sono volati gli stracci. Calenda si è dato alla rissa social. «Sembrava una persona seria, è un incapace», meritandosi una replica al vetriolo: «voleva piazzare un suo in giunta come al mercato dei capponi». Renzi si è semplicemente dato alla macchia.
Prima ancora c’erano state Milano e Roma. A Milano Calenda e Renzi hanno costruito la lista “Riformisti per Sala” con l’accordo che chi avesse preso più voti avrebbe piazzato un assessore. Le cronache raccontano che ha vinto Lisa Noja che poi ha scelto di non entrare in giunta, dove è invece entrata l’altra renziana Alessia Cappello nonostante seconda fosse arrivata la calendiana Giulia Pastorella.
A Roma l’accordo tra Renzi e Calenda è durato quattro mesi: ed è finito con i renziani (che avevano appoggiato la corsa a sindaco del fondatore di Azione) usciti dal gruppo comune per il flirt estemporaneo dei calendiani con l’ex sindaca pentastellata. «Siamo costretti a separare le nostre strade nel Consiglio comunale di Roma perché – a differenza degli amici di Azione – restiamo fedeli ai valori espressi in campagna elettorale e non accettiamo accordi per aiutare la Raggi (per la presidenza della commissione Expo, ndr) a garantirsi un futuro, dopo aver creato così tanti problemi al presente di Roma». Un’apoteosi di contraddizioni zeppa di schermaglie social e di propositi scritti sulla sabbia. Che faranno sul serio lo sa solo il cielo. Per il resto, popcorn.
(da TPI)
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Agosto 19th, 2022 Riccardo Fucile
PAVEL FILATYEV, EX PARACADUTISTA SCHIERATO IN UCRAINA, RACCONTA LA DISPERAZIONE DELL’ESERCITO IN UN MEMORIALE DI 141 PAGINE
“Non vedo alcuna giustizia in questa guerra. Non ci ritrovo alcuna verità”. Mentre lo dice, Pavel Filatyev sa di rischiare la prigione.
L’ex paracadutista russo ha comunque voluto condannare l’attacco di Putin all’Ucraina con un lungo memoriale pubblicato sulle sue pagine social. La madre lo aveva invitato a non esporsi e, dopo la sua presa di posizione, ha dovuto fare i conti con l’isolamento da parte degli ex commilitoni.
“Non ho paura di combattere – ha spiegato in una lunga intervista al Guardian, raccontando i giorni sul campo di battaglia – ma ho bisogno di sentire che quello che faccio ha un senso. Ma credo che qui non ci sia. Il governo ha sottratto tutto alla popolazione ucraina e noi russi sappiamo che quello che sta accadendo è ingiusto”.
Due settimane fa, Filatyev ha reso pubblico il suo pensiero con un memoriale di 141 pagine nel quale descriveva giorno per giorno la sua esperienza in guerra.
L’ex paracadutista è tornato a casa solo quando è rimasto ferito in battaglia e ha contratto un’infezione agli occhi. “Eravamo seduti sotto il fuoco nemico – spiega – e già mi chiedevo cosa ci facessimo lì, a cosa servisse questa guerra. Ho pensato: “Dio, se sopravvivo farò tutto quello che posso per fermare questa lotta senza senso””.
Per 45 giorni ha annotato i suoi pensieri nelle pagine di diario poi rese pubbliche descrivendo con dovizia di particolari la fame, la mancanza di munizioni e le spedizioni per saccheggiare le città ucraine.
So che probabilmente non cambierò nulla e probabilmente ho anche agito in modo stupido perché mi sono messo nei guai – ha sottolineato ai microfoni del Guardian – ma non potevo restare ulteriormente in silenzio”. Il suo diario, intitolato “ZOV” dal nome dei graffiti sui veicoli dell’esercito russo, è stato pubblicato sulla stampa indipendente di Mosca. Filatyev ha lasciato la Russia all’inizio della settimana per motivi di sicurezza.
Si tratta del primo soldato russo che ha abbandonato il Paese per aver apertamente criticato l’invasione dell’Ucraina. Il suo esempio ha portato un altro militare delle file di Mosca a puntare il dito contro l’operazione di Putin: ripreso dal sito investigativo russo iStories, ha ammesso davanti alla telecamera di aver ucciso a sangue freddo un civile ucraino di Andriivka che cercava di scappare.
Racconti come quelli dell’ex paracadutista sono importanti per capire la realtà che vivono i soldati spediti sul fronte. Quando l’invasione è iniziata, erano in pochissimi ad aver capito che quella “missione speciale” sarebbe stata una guerra in piena regola.
Filatyev, che ha combattuto nel 56esimo reggimento d’assalto aereo, ha raccontato nelle sue pagine di diario la profonda impreparazione del gruppo e la stanchezza di un conflitto improvviso e senza fine.
“Mi ci sono volute settimane per capire che non vi era stato alcun attacco al territorio russo – ha sottolineato – e che semplicemente avevamo appena invaso l’Ucraina”
“Nessuno di noi sapeva se sarebbe arrivato al giorno dopo. Seguendo questa logica abbiamo fatto cose che sembreranno assurde a chi non ha vissuto quel dramma. Non voglio giustificare razzie e furti, ma penso sia importante capire cosa c’è dietro per sapere come fermare tutto questo” ha spiegato ancora ai microfoni del Guardian.
“Sono partito con un equipaggiamento non adeguato e senza sapere quale fosse il nostro scopo. A Mykolaiv poi sono rimasto ferito e ho contratto una grave infezione agli occhi che mi ha quasi tolto la vista” ha raccontato Filatyev. L’infortunio gli ha permesso di tornare a casa. Per poter abbandonare il campo di battaglia, molti altri militari si sono sparati.
(da Fanpage)
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Agosto 19th, 2022 Riccardo Fucile
TRA DITTATORI ARGENTINI E MILIZIANI
Sul web si presenta come un imprenditore di successo, discendente da avi immigrati dal Nord Italia, che dai bisnonni ha ereditato non solo la cittadinanza italiana, ma anche la passione per la bagna caöda e del fegato alla veneziana.
Marcelo Bomrad – coordinatore della Lega in Argentina e prossimo candidato alle elezioni politiche per il centrodestra nella circoscrizione esteri del Senato – nella sua biografia si dimentica però di raccontare altri episodi del suo passato, che rischiano di mettere in imbarazzo la coalizione che lo ha scelto per la corsa elettorale.
All’indomani dell’annuncio della candidatura di Bomrad, infatti, nelle chat della comunità italiana in Argentina è tornato a girare un articolo del giornale la Nacion che ricostruiva vecchie circostanze che legherebbero l’imprenditore agli ambienti della dittatura militare, che ha governato il Paese dal 1976 al 1983.
Il pezzo del popolare quotidiano argentino risale al 2002, anno in cui l’uomo che rappresenta la Lega di Salvini in Argentina provò senza successo l’avventura politica in patria, fondando il partito ultraliberista 1810. All’epoca, Bomrad si presentava come uomo nuovo rispetto agli schieramenti tradizionali della politica argentina. La realtà appariva abbastanza diversa.
Secondo quanto ricostruito dalla Nacion, dalla metà degli anni ’80, ancora giovanissimo, Bomrad aveva militato nelle organizzazioni giovanili dell’Unione del Centro Democratico Democratico, un partito (oggi disciolto) che all’epoca aveva accolto tra le sua fila anche diversi funzionari della ex giunta militare.
In questo contesto, stando a quanto raccontato al giornale da un ex compagno di militanza, il prossimo candidato della destra alle politiche avrebbe organizzato diverse incontri in carcere con l’ex dittatore Roberto Viola, condannato nel 1985 a 16 anni di carcere, perché riconosciuto colpevole di oltre cento violazioni dei diritti umani negli anni della repressione, rimasti tristemente nella memoria per le migliaia di desaparecidos tra gli oppositori del regime.
Il generale Roberto Viola è considerato la mente dietro il golpe che nel 1976 depose il governo democratico di Evita Peron e portò alla guida dell’Argentina una dittatura militare presieduta da Jorge Videla.
Negli anni successivi Viola si insediò ai vertici dell’esercito e fui il principale artefice della “guerra sporca” dell’esercito argentino, fatta di arresti indiscriminati, torture e omicidi dei dissidenti politici. Infine, nel marzo del 1981, assunse direttamente la guida della giunta militare, ruolo che conservò solo per pochi mesi fino a ottobre dello stesso anno.
Quella con Viola, però, non è l’unica relazione “pericolosa” di Bomrad. Sempre nell’articolo della Nacion, si afferma che nel 1986 il politico sarebbe andato in visita nei campi di addestramento dei Contras, i gruppi armati antisandinisti del Nicaragua, protagonisti di numerose azioni terroristiche contro la popolazione civile. Bomrad avrebbe anche conservato nella sua abitazione diverso materiale propagandistico della formazione paramilitare nicaraguense.
Marcelo Bomrad è stato portato nell’orbita leghista da Gianluigi Ferretti, con cui ha condiviso l’esperienza de “L’Italiano”, giornale pensato per la comunità italofona per di Buenos Aires . Fanpage.it ha raccontato la carriera di Ferretti e le sue aderenze per gli ambienti dell’estrema destra nell’ambito dell’inchiesta Follow the Money sul sindacato Ugl e sul deputato leghista Claudio Durigon.
(da Fanpage)
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Agosto 19th, 2022 Riccardo Fucile
PD 23,4%, FDI 22,6%, LEGA 14,7%, M5S 12,8%, FORZA ITALIA 7,5%, AZIONE-ITALIA VIVA 5,3%, ITALEXIT 3,2%, VERDI-SINISTRA 3,1%
Chi vincerà le elezioni del 25 settembre? Manca poco meno di un mese al giorno del voto e i partiti sono in piena campagna elettorale. Dai sondaggi emerge un quadro piuttosto chiaro, ma nelle prossime settimane ancora tante cose possono cambiare. Anche perché il livello di astensione calcolato dalle varie rilevazioni sulle intenzioni di voto è alto, il che significa che le forze politiche hanno ancora un notevole margine per attirare gli elettori. Ma vediamo come stanno le cose ad oggi.
Secondo le stime di Enzo Risso per Libero il vantaggio del centrodestra è netto. La coalizione di Lega, Fratelli d’Italia, Forza Italia e i partiti minori di centrodestra, infatti, arriverebbe al 45,3%.
Il più votato, però, risulta essere il Partito democratico con il 23,4%, in crescita dello 0,2% secondo le indagini precedenti del 5 agosto. In seconda posizione, comunque, c’è Fratelli d’Italia, anche se il partito di Giorgia Meloni sembra subire un calo del – 0,6%: si passa dal 22,6% al 22,2%. A seguire la Lega, con il 14,7% dei consensi, in aumento sui dati di inizio agosto di 0,6 punti percentuali.
Il Movimento Cinque Stelle risulta essere in quarta posizione con il 12,8%: una crescita di ben 0,8 punti percentuali rispetto alle stime precedenti. Forza Italia è data al 7,5%, in calo di mezzo punti. Il terzo polo di Azione e Italia Viva arriva al 5,3%, mentre l’alleanza di Sinistra italiana e dei Verdi è data al 3,1%. In totale le forze di centro e centrosinistra (+Europa è al 2%) arrivano al 34,9%, anche se non è affatto scontato che queste si alleeranno dopo il 25 settembre.
Anche Italexit supererebbe la soglia di sbarramento, arrivando al 3,2%. Nella precedente rilevazione il partito di Gianluigi Paragone veniva dato al 2,9%. È quindi cresciuto di 0,3 punti percentuali. Infine, il dato sull’astensione è importante. Secondo il sondaggio il 36% degli aventi diritto non si recherebbe alle urne. Non è chiaro se questo sia dovuto a un’indecisione rispetto a chi votare o se dietro questo numero pesi anche la scelta di non partecipare al voto.
(da Fanpage)
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Agosto 19th, 2022 Riccardo Fucile
ALTRO CHE IL LACONICO ED ETEREO PROGRAMMA DEL CENTRODESTRA. SULLA GIUSTIZIA QUELLO DEL TERZO POLO HA PIÙ STELLETTE BERLUSCONIANE DI QUELLO DI BERLUSCONI
«Per noi il giustizialismo è un’aberrazione». Maria Elena Boschi non usa mezzi termini. Durante la conferenza stampa di presentazione del programma del terzo polo, insieme al leader di Azione Carlo Calenda, l’ex ministra presenta le proposte sulla giustizia, un tema che le sta particolarmente a cuore.
Ascolta Maria Stella Gelmini parlare di riforme istituzionali, suo vecchio cavallo di battaglia. Poi tocca a lei. Snocciola un programma ambizioso: inappellabilità delle sentenze di assoluzione, separazione delle carriere, riforma del Csm e della prescrizione, valutazione dei magistrati, riduzione dei tempi dei processi e dell’uso della carcerazione preventiva. «Deve essere un’eccezione, e non la regola», spiega.
«Noi siamo garantisti. Vogliamo farci carico della richiesta di cambiamento che è arrivata da milioni di italiani che hanno partecipato ai referendum sulla giustizia». Per la Boschi alcune riforme di questa legislatura sono state troppo timide: «Per noi è importante riformare con più coraggio il nuovo Csm. Chiediamo una valutazione vera ed effettiva dei magistrati a cui possano prendere parte gli esponenti del mondo dell’avvocatura e dell’università».
Altro obiettivo fondamentale è la riduzione dei tempi dei processi, uno dei pilastri del Pnrr, secondo il quale vanno diminuiti almeno del 25%: «È necessario ridurre i tempi della giustizia – spiega Boschi – per garantire i diritti dei cittadini, innanzitutto per le famiglie delle vittime dei reati, ma anche per chi è innocente. Mediamente – prosegue – tra le indagini preliminari e la sentenza di primo grado possono passare anche sette anni. Lo dico per esperienza personale» aggiunge, facendo riferimento alla vicenda che ha visto il padre coinvolto nelle inchieste su Banca Etruria. Ma non si ferma, Boschi.
Svela che anche il terzo polo, così come Silvio Berlusconi, è favorevole «all’inappellabilità delle sentenze di assoluzione». Altra questione delicata, la prescrizione. «Vogliamo tornare alla prescrizione sostanziale, perché la mediazione al ribasso che si è dovuta fare in una maggioranza così ampia non ci ha consentito di fare una norma che funzioni bene». Poi il delicatissimo tema del carcere.
Sono più di cinquanta nel solo 2022 i detenuti che si sono tolti la vita: «Abbiamo bisogno di un sistema carcerario che non diventi una condizione di inappellabilità per le migliaia di persone oggi detenute. Bisogna lavorare non solo sull’edilizia ma anche sull’ordinamento penitenziario, incentivando l’esecuzione penale alternativa e garantendo un supporto psicologico vero per evitare il dramma dei suicidi». «Portare avanti queste battaglie con Iv e Azione è semplice perché sono parte del Dna di tutte le persone candidate da queste forze politiche» conclude Boschi, probabilmente lanciando una frecciatina agli ex colleghi del Pd.
(da il Corriere della Sera)
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Agosto 19th, 2022 Riccardo Fucile
L’FSB SAPEVA CHE L’UCRAINA AVREBBE CONBATTUTO L’INVASIONE, MA A PUTIN NON L’HANNO DETTO
Nei giorni prima dell’invasione in Ucraina, i servizi segreti di Mosca (Fsb) dissero agli informatori russi a Kiev di lasciare la città, avendo però cura di lasciare le chiavi delle loro case all’interno.
Il motivo è spiegato in un articolo inchiesta del Washington Post, che ha visionato i file dei servizi segreti ucraini. Il Cremlino era sicuro sarebbe riuscito a destituire il governo ucraino e ad instaurare un regime filorusso nella capitale.
Le case aperte sarebbero servite ai nuovi funzionari una volta insediatisi. Tanto Mosca era sicura di vincere.
Il piano, però, fallì quando la Russia incontrò la resistenza ucraina. Secondo i documenti dei servizi segreti ucraini, la Russia spia da decenni le attività del governo di Kiev, in attesa del momento propizio per ribaltarlo, o quantomeno corromperne gli ufficiali, in modo che il Paese invaso non viri verso l’Occidente.
L’Fsb, quindi, sapeva che l’Ucraina non avrebbe accolto di buon grado l’invasione, ma rimane da capire se i servizi segreti fossero comunque fiduciosi sull’esito dell’«operazione militare speciale», o se invece abbiano mentito a Vladimir Putin.
I servizi segreti hanno mentito a Putin?
I servizi segreti ucraini avrebbero tutto l’interesse a screditare quelli russi. Ma che gli obiettivi della Federazione fossero oltre i propri mezzi è confermato da molti esperti militari, spiega il Washington Post. Eppure, negli uffici dell’Fsb esistevano rapporti che attestavano la capacità dell’Ucraina di resistere all’attacco russo. Ciononostante, la situazione veniva dipinta al Cremlino come rosea, addirittura spiegando che la popolazione ucraina avrebbe accolto di buon grado la «liberazione» da parte della Russia.
«C’era tantissimo entusiasmo negli ambienti militari russi», ha detto al Post un ufficiale militare esperto il cui nome è tenuto celato, così come quello degli altri esperti consultati, «ma è partito tutto dall’Fsb», spiega.
L’Fsb dovrà rispondere delle sue scelte davanti al Cremlino
Proprio sulla base di queste false premesse, la Russia ha iniziato una guerra credendo che un attacco-lampo a Kiev avrebbe ribaltato il governo nel giro di pochi giorni. Zelensky sarebbe stato ucciso, catturato o mandato in esilio e ci sarebbe stato un vuoto politico pronto da sfruttare per instaurare un esecutivo filorusso.
Tutto ciò invece non è mai accaduto. Kiev non è stata presa e gli ufficiali dei servizi segreti che avrebbero costituito il nuovo governo hanno dovuto ritirarsi, così come l’esercito che puntava alla capitale.
L’Fsb ora dovrà rispondere a Mosca delle proprie valutazioni, spiega il quotidiano statunitense, che ha invischiato la Russia in una guerra che credeva semplice, ma semplice non è stata.
(da agenzie)
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Agosto 19th, 2022 Riccardo Fucile
IL REGNO UNITO È PARALIZZATO DA UNA NUOVA ONDATA DI SCIOPERI, CON MIGLIAIA DI LAVORATORI, DAI TRASPORTI ALLE POSTE, CHE CHIEDONO UN AUMENTO SALARIALE IN LINEA CON UN’INFLAZIONE MAI COSÌ ALTA DAI TEMPI DELLA THATCHER… IN GERMANIA SCHOLZ PROVA A PLACARE LA RABBIA DEI TEDESCHI ANNUNCIANDO IL TAGLIO DELL’IVA SUL GAS (MA DIFFICILMENTE BASTERA’)
Le proteste contro i rincari scaldano l’Europa. Le avvisaglie di un autunno caldo in Germania non mancano e il governo corre ai ripari. Dopo l’annuncio di nuovi aumenti delle bollette del gas, il no di Bruxelles all’esonero Iva sul nuovo prelievo e le prime contestazioni al cancelliere Olaf Scholz, la coalizione di governo mette in atto la sua contromossa: l’Iva sul gas sarà ridotta dal 19 al 7% in via provvisoria per l’intero periodo in cui sarà applicato il prelievo aggiuntivo, da ottobre a marzo 2023. Sempre che Bundestag e Bundesrat diano il loro ok. La nuova imposta sarà usata per ripianare «i costi di approvvigionamento di gas sostitutivo» delle compagnie energetiche.
In sostanza, la drastica riduzione delle forniture russe ha messo le compagnie energetiche che dipendevano da contratti con Mosca nella condizione di doversi approvvigionare delle quantità mancanti sul mercato libero in un momento in cui i costi erano alle stelle. Di qui il segno meno nei bilanci. Ora, secondo le stime riprese da Handelsblatt, la metà dei proventi ricavati dalla nuova imposta servirà a rimborsare il 90% delle perdite del colosso energetico Uniper.
Resta ancora da vedere se, come si è augurato Scholz, le aziende energetiche decideranno di trasferire integralmente il taglio dell’Iva agli utenti finali. Basterà questa misura a calmare lo scontento e salvaguardare la pace sociale?
Per ora le proteste più rumorose arrivano dalle opposizioni dell’estrema destra di Afd e dalla sinistra di Linke. Per la prima volta due giorni fa il cancelliere è stato fischiato da 300 persone di Afd e Linke, in occasione di un confronto diretto con i cittadini di Neuruppin, nella cintura di Berlino, proprio mentre annunciava un terzo pacchetto di aiuti oltre quello già approvato di 30 miliardi. E la notte prima l’ufficio elettorale della ministra della Famiglia Lisa Paus era stato oggetto di un attacco incendiario. Tutto ciò mentre l’intelligence mette in guardia dalla strumentalizzazione delle proteste dell’estrema destra da parte della Russia.
Intanto nel Regno Unito è partita ieri una nuova ondata di scioperi che rischia di paralizzare il Paese: decine di migliaia di lavoratori nei settori più disparati, dai trasporti alle poste, incrociano le braccia per chiedere un aumento salariale in linea con un’inflazione mai così alta dai tempi della Thatcher, nel 1982: il tasso è al 10,1% e potrebbe aumentare al 13 % entro la fine dell’anno, secondo stime della Banca Centrale.
Ieri hanno cominciato i ferrovieri con uno sciopero che ha interessato tutto il Paese: garantito solo un treno su cinque e intere aree rimaste senza servizio. Oggi e sabato sarà la volta dei lavoratori della metropolitana di Londra e degli autobus. Il potente sindacato RMT (Rail Maritime and Transport Workers) giura di portare avanti gli scioperi «per tutto il tempo necessario».
Tanta è la preoccupazione dei cittadini per il caro-vita che migliaia di persone hanno aderito ad un movimento che, al grido di “Don’t Pay” (non pagate), invita al boicottaggio delle bollette da ottobre, quando sono previsti ulteriori aumenti. E intanto si preparano altri scioperi: i lavoratori degli uffici postali incrociano le braccia il 26 e 31 agosto e di nuovo l’8 e 9 settembre; i portuali del terminal container più grande del Paese, a Felixstowe, nell’Inghilterra orientale, scioperano per otto giorni, dal 21 al 29 agosto, col rischio di una paralisi logistica e dei trasporti marittimi.
E dopo gli avvocati, anche infermieri nella sanità pubblica e insegnanti potrebbero incrociare le braccia nelle prossime settimane. Il governo del premier dimissionario Boris Johnson è sotto pressione, accusato di non aver fatto abbastanza per arginare la crisi che attanaglia il Paese. E chiunque ne prenderà il posto a Downing Street il 5 settembre (quasi certamente la ministra degli Esteri Liz Truss) dovrà prepararsi ad un autunno caldo.
(da La Stampa)
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